lunedì 4 marzo 2019

RECENSIONE: GARY CLARK JR. (This Land)

GARY CLARK JR. This Land (Warner Bros Records, 2019)





lo chef del blues moderno (handle with care)
Immaginate di essere arrivati davanti all’entrata di quel ristorante da guida Michelin che il vostro miglior amico vi ha consigliato, quello con lo chef stellato che si inventa cose nuove ogni volta. Entrate curiosi, ma con un po’ di diffidenza nascosta sotto il palato. Una volta seduti tirate un sospiro di sollievo: sfogliando il menù avete visto quel piatto della tradizione che vostra nonna vi cucinava con amore quando eravate piccoli. Che ricordi! Lo ordinate senza esitazione. Quando arriva il piatto però non lo riconoscete. Lo chef naturalmente si è divertito a modo suo-vi avevano comunque avvertito-e l’ha destrutturato a suo piacimento. È sempre lui. Ci vuole solo un po’ di pazienza per ricomporlo e apprezzarne i sapori antichi che ricordavate. Ecco, GARY CLARK JR. fa la stessa cosa: è lo chef del blues. Uno chef ambizioso (e coraggioso). Per questo terzo album di studio decide di osare ancora, di più rispetto al precedente e cangiante The Story Of Sonny Boy Slim. Prende la black music tutta (da Sly and The Family Stone a Prince, da Hendrix a Curtis Mayfield) , il blues, gli passa sopra pennellate moderne di pop (‘The Guitar Man’, ‘Don’t Wait Til Tomorrow’), hip hop (‘This Land’), R&B (‘When I’M Gone’), funky(‘Got To Get Up’) e soul (‘Feed The Babies’ con i suoi fiati), proprio come accadeva nella miglior stagione crossover degli anni novanta (‘What About Us’).
La sua chitarra inventa, colpisce, vola nell’assolo e ricama, il suo prodigioso falsetto sale alto (‘Pearl Cadillac’ scava nei ricordi arrivando a sua madre) ma, importante, lascia sempre l’ultima parola alla forma canzone. Attacca Trump senza giri di parole, rivendicando il suo diritto da figlio di questa America del 2019, ma scende pure nel profondo della sua anima tra pentimenti, redenzione e aspetti intimi e privati. “Se sono in grado di mescolare i generi, dovrei essere in grado di mescolare anche le emozioni” racconta in una intervista.
Naturalmente non dimentica i sapori antichi, quelli da lasciare così, nudi e crudi, perchè certe cose funzionano meglio così: ‘Low Down Rolling Stone’ è un hard blues sporco, ’The Governor’ gioca sulla semplicità acustica del rock’n’roll , ‘Dirty Dishes Blues’ con quella del blues facendosi bastare voce, chitarra e batteria (JJ Johnson). Altre volte parte per la tangente e va giù diretto in direzioni inaspettate: l’accoppiata ‘Feelin’Like A Million’ e ‘Gotta Get Into Something’ può lasciare inizialmente interdetti. Nel giro di pochi minuti passiamo dai ritmi in levare del reggae a un punk rock veloce e tirato (anonimo e pure bruttino) che dal vivo faranno però sfracelli. Già, i live, la sua dimensione ideale. Ci sono tante idee e invenzioni nel menù del texano. A volte dispersive e poco a fuoco. Naturalmente non sono tutte riuscite ma ai geni della cucina e della musica bisogna dare carta bianca. Inventate! In mezzo alle 15 tracce (17 se si aggiungono le due bonus track: il dub strumentale alla Santana di ‘Highway 71’ e il soul pop di ‘Did Dat’) troverete anche qualcosa che non vi piacerà ma il sapore delle cose riuscite coprirà tutto.
“Desideravo che ogni parola e ogni nota significassero qualcosa” racconta. Con un po’ di pazienza gli si crede. Da lui e da Fantastic Negrito passa il rinnovamento dei vecchi piatti della tradizione. Io continuo a preferire il secondo però.






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