giovedì 21 febbraio 2019

RECENSIONE: THE LONG RYDERS (Psychedelic Country Soul)

THE LONG RYDERS  Psychedelic Country Soul (Cherry Red Records, 2019)
 
 
 
 
 

gonna make it real
Forse sta tutto lì, in quel “here we go” con cui si apre il disco sulle note di ‘Greenville’, un rock teso e diretto figlio dei vecchi tempi e fratello delle opener song dei loro tre dischi anni ottanta (Native Sons, State Of Our Union, Two Fisted Tales). ...
“Andiamo”: i Long Ryders ritornano a incidere un disco dopo trentadue anni di assenza e poco sembra essere cambiato nella mappa musicale della band californiana, a parte il taglio di capelli alla Byrds che non c’è più.
Certo, la spavalderia figlia della gioventù si è un po’ affievolita con il tempo, sostituita bene dalla maturità, ma Sid Griffin e soci (Stephen McCarthy, Tom Stevens, Greg Sowders) - vero lavoro di squadra il loro visto che tutti hanno contribuito alla stesura delle dodici canzoni (a parte ‘Walls’ omaggio a Tom Petty, ripescata dalla soundtrack She ‘s The One) - giocano la loro partita nel campo amico, facendo bene quello che sanno fare meglio. Ritmi più meditativi a dominare ma le influenze sono quelle di sempre: i Byrds (‘The Sound’), il country pop (‘Let It Fly’ con lap steel, violino e mandolino, ‘Molly Somebody’), il cosmic country di Gram Parsons (‘California State Line’), vecchio amore di Griffin mai tradito, il country rock alla Buffalo Springfield (la bella ‘All Aboard’), l’Americana totale di The Band (‘Bells On August’), qualche strappo più selvaggio e sostenuto nel garage rock (‘What The Eagle Sees’), la ballata ad effetto (‘If You Wanna See Me Cry’). Non si butta via nulla. Dentro ci trovi tutto quello che passa dal vecchio Tom Petty ai Jayhawks degli anni novanta. Poi alla fine piazzano i sei minuti di ‘Psichedelic Country Soul’ che hanno già tutto nel titolo.
Insomma: musica senza tempo che potrebbe essere uscita dall’annata d’oro del 1969 come dal 1989, se avessero proseguito la loro carriera.
Siamo nel 2019. “È l’album che abbiamo sempre cercato di fare” dice Griffin.
E anche se questo ritorno in studio, anticipato dalle ristampe del loro vecchio catalogo e da alcune date live, è merito dell’amico Larry Chatman che li ha convinti ad incidere nuovamente canzoni con la forza di una vecchia promessa, trascinandoli a compiere lo sporco lavoro in soli otto giorni negli studi di Dr. Dre a Los Angeles sotto la produzione di un veterano, vecchia conoscenza come Ed Stasium, “il quinto Long Ryder”, bisogna dire che i Long Ryders hanno lavorato con antica passione, la vecchia formula per scrivere belle canzoni in testa con la melodia ben definita sulla punta degli strumenti, mica da tutti eh, e il mestiere di sempre da veri padri fondatori di quel movimento alt Country (aggiungete moderno se volete) che a loro deve tanto. A sigillo della continuità con l’affascinante mondo del rock’n’roll, bello sentire le voci delle Bangles ritrovate in un paio di brani e vedere gli scatti fotografici di Henry Diltz, vero e proprio archivio fotografico, vivente, del periodo d’oro del rock. Psychedelic Country rock si prenota fin da ora un posto tra le uscite più importanti di questo 1969 (o 1989?).
 
 
 
 
 

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