giovedì 14 febbraio 2019

RECENSIONE: ANTHONY MILLS (Blue Collar Work Ethic)

ANTHONY MILLS -Blue Collar Work Ethic (2019)
 
 
 
 

blues dal profondo
Non è mai troppo tardi per riscoprire le proprie radici. È quello che deve aver pensato Anthony Mills quando ha messo da parte il suo passato nella musica hip hop (anche come produttore) per buttarsi a capofitto nel rural blues, spinto dal produttore David Belafonte, figlio di Harry, che deve avergli detto qualcosa tipo: “con una voce così puoi fare e osare quello che vuoi”. E così questo ragazzone nero, ormai quarantasettenne di casa in Svezia, dal gran talento vocale ha messo giù dodici canzoni che scavano nel passato della propria famiglia che dall’agricoltura nei campi del profondo sud degli States, Lake Charles in Louisiana, si trasferì ad Akron in Ohio, la “rubber city” dove nacque, poi a Flint e Detroit nel Michigan in cerca di lavori sicuri nelle grandi industrie. Ne esce così un mix incredibile di storie con al centro operai di fabbrica e agricoltori di piantagioni, tradizioni voodoo e gospel ereditate dalle due nonne, una creola l’altra cristiana, cantate con una voce incredibilmente soul e profonda, musicate su una scarna costruzione strumentale che pur mantenendo una scarpa nella melodia pop, con l’altra scalcia la terra del blues (‘Trouble’, ‘Lousiana’), del calypso e del country ('Me And The Bottle', 'Stetson’) appoggiandosi solamente su chitarre acustiche, slide e percussioni  (cajon) dal battito etnico e tribale (‘Blue Collar Work Ethic’). Interessante.
 



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