giovedì 16 maggio 2019

RECENSIONE: J.J. CALE (Stay Around)


J.J. CALE  Stay Around (Because Music, 2019)
 
 
 
 
 
un uomo, un suono, un disco senza tempo
 
Quel “sound of Tulsa” lo senti immediatamente appena parte ‘Lights Down Low’, la prima delle 15 canzoni che la moglie Christine Lakeland e l’amico/manager Mike Kappus hanno raccolto per STAY AROUND, questo primo disco postumo di J. J. CALE, uscito a sei anni dalla morte e a dieci dall'ultimo in studio Roll On. Tanto tempo per come tira il music business oggi.
Credo sia stato un grande segno di rispetto per un artista che non ha mai corso e cercato la facile approvazione in carriera, una scelta che rispecchia in tutto il suo carattere di musicista e uomo.
Senti quel tocco di chitarra e quella voce e ti senti già a casa, al sicuro: nel corso della carriera non ha mai cambiato o rivoluzionato il suo stile. Coerente fino all'ultimo dei suoi giorni.
Quindici delle tante canzoni scritte (a parte 'My Baby Blues' scritta dalla moglie), suonate, finite e registrate che Cale mise da parte durante gli ultimi vent’anni di carriera, da solo o con pochi strumenti dietro, confermando una invidiabile dedizione alla musica, sempre espressa senza mai usare toni alti e invasivi. Senza mai rincorrere il tempo. Senza alzare mai la voce, guadagnandosi il rispetto e l'ammirazione di fan e colleghi senza la pubblicità dei grandi titoli da prima pagina che mal si addicevano al suo carattere.
Forse tra esse non ci sarà la canzone che ci farà saltare dalla sedia (o che si farà ricordare nel tempo alla pari di tante altre della sua produzione) ma c’è tutto il mondo di J. J. Cale, la sua inconfondibile chitarra, e già basta. Uno che riusciva ad ottenere sempre il massimo con il minimo sforzo apparente: il suo carattere schivo e sfuggente è riflesso in canzoni dove blues, country, rock’n’roll, tex mex, pure qualche concessione jazz e latina, trovavano sempre una via leggera e sinuosa per unirsi e generare qualcosa di buono all'ascolto. Suggestioni e paesaggi.
Canzoni e melodie senza data, da ascoltare senza fretta, così come iniziò la sua carriera nel lontano 1971 quando di anni ne aveva già trentadue.
 
 
 
 
 

lunedì 13 maggio 2019

RECENSIONE: HEAVY FEATHER (Débris & Rubble)

HEAVY FEATHER  Débris & Rubble (The Sign Records, 2019)




sweden rock

Il carattere grafico delle scritte e la foto di copertina sono fin troppo chiari ed espliciti: i svedesi Heavy Feather giocano il campionato del retro rock, lo stesso di tante giovani e promettenti band. La Svezia è sempre stata terreno fertile per il vecchio rock’n’roll, quello genuino e con i piedi ben piantati nel terreno ancora fortunatamente umido. In questo momento occupano la metà classifica ma con un futuro da top assicurato quando oseranno di più. Fine anni 60, primi anni 70 sono le coordinate del loro campo d'azione, la voce della bionda Lisa Lystam li porta a facili paragoni con i Fleetwood Mac della seconda metà degli anni settanta, con i Mother Station degli anni novanta oppure, restando nel presente con i conterranei Blue Pills, mentre le chitarre richiamo l’hard blues di Cream, Free, Led Zeppelin. I soliti grandi nomi, insomma. Sei corde (Matte Gustavsson) dai riff contagiosi (‘Waited All My Life’), cambi d'atmosfera vincenti ed ammalianti (‘Dreams’), corse frenetiche ( ‘I Spend My Money Wrong’), lunghe code psichedeliche ( ‘Please Don’t Leave’) e anche un buon gusto per la forma canzone come dimostra il singolo ‘Where Did We Go’.
Nonostante la giovane età, tutti i componenti possono già vantare esperienze in altri gruppi (Siena Root, Lisa Lystam Family Band, Diamond Dogs, Stacie Collins e Mårra) e quindi una personalità artistica già spiccata e matura. Ma quello che più mi è piaciuto del loro debutto è la propensione nell’esplorare i territori americani legati al vecchio southern rock  grazie a ballate come ‘Tell Me Your Tale’, al blues con armonica di ‘Long Ride’ a un finale scuro e soul come ‘Whispering Things’, un commiato lento e soffuso che non può che portare verso altre cose buone che sicuramente verranno.








giovedì 9 maggio 2019

RECENSIONE: HANDSOME JACK (Everything's Gonna Be Alright)

HANDSOME JACK Everything's Gonna Be Alright (AliveNaturalSound Records, 2018)





gente che tiene in vita il rock’n’roll ...
Figli dello stato di New York (provengono da Lockport), nipoti del southern rock revival degli novanta con la benedizione di Chris Robinson che li volle a tutti i costi per aprire i concerti alla sua “confraternita”, pronipoti dei grandi power trio hard blues dei settanta, fedeli al verbo “born on the bayou” dei Creedence Clearwater Revival (‘Keep On’) e del vecchio blues nero (‘Everything's, Gonna Be Alright’), gli HANDSOME JACK sono un trio, dopo il recente abbandono del vecchio chitarrista, in pista dal lontano 2004, che punta tutto sul calore che il rock può ancora sprigionare, senza l'aggiunta di strani additivi, fregandosene di essere più o meno alla moda anche se il funky solare con i fiati di ‘Why Do I Love You The Way I Do’ si mette in coda, sulle orme dei Black Keys.
Everything's Gonna Be Alright è il loro terzo disco ufficisle, prodotto da Zach Gabbard (All Them Witches) che riesce nel difficile compito di arricchire la loro proposta di nuovi colori, dipinti dall’aggiunta di un pianoforte, e dei fiati che accorciano la strada che conduce a un certo sound di casa Memphis, Chicago (‘Baby Be Cool’, ‘Got It Bad’), senza mai dimenticare quella spigolosità garage che solo una buona chitarra elettrica può dare (‘Holding Out’, ‘Getting Closer’).
Jamison Passuite (chitarra, voce), Joey Verdonselli (basso voce) e Bennie Hayes (batteria, voce) hanno la giusta attitudine, sono abbastanza brutti e hanno le unghie abbastanza sporche da risultare credibili e simpatici a prima vista e ascolto, naturalmente.






venerdì 3 maggio 2019

RECENSIONE: THE CROWSROADS (On The Ropes)


THE CROWSROADS  On The Ropes (VREC music Label, 2019)





ON THE ROPES, a conti fatti è la terza uscita discografica dei giovani fratelli bresciani Matteo e Andrea Corvaglia ma per come si presenta si potrebbe considerare come il vero e proprio start della loro carriera sotto il nome CROWSROADS: un lavoro completo, fatto di belle canzoni e bei suoni, ospiti illustri e ben confezionato anche per gli occhi. Di carattere e qualità assoluta.
Perché le dodici canzoni che lo compongono sono scritte da loro (fanno eccezione ‘Every That You Walk Out The Door’ rifacimento in inglese di ‘Ogni Volta Che Tu Te Ne Vai’ vecchio brano del 1975 dei Fratelli La Bionda, prima della svolta disco, e una ghost track a sorpresa) e sono la trasposizione in musica e parole di tutto il loro ancora breve ma ricchissimo passato di ascoltatori e musicisti (21 e 25 anni le loro età): c’è il rock blues (la scalpitante apertura ‘Foxes’), la West Coast californiana dei settanta (‘On The Ropes’ mi ricorda i Doobie Brothers, ‘Another Rose In The Dust’ gioca sul difficile campo di David Crosby), il country folk (‘Ground-Floor Heaven’), la sempre presente melodia pop che unisce il tutto (la solare ‘Marbles’).
Le loro due voci, le melodie vocali e quell'armonica sempre presente e serpeggiante sono diventati un trademark ben distinguibile, basti ascoltare la ballata ‘Tomorrow Turns The Page’ e il blues acustico ‘Razor Wire’ per capire il livello a cui sono già arrivati.
Un disco che grazie alla presenza della straordinaria voce della rossa Sarah Jane Morris cammina sui confini del Soul (‘Seaweed’), si addentra nel New Mexico sulle atmosfere border portate in dote dall’ormai italiano d'adozione Jono Manson, songwriter e produttore spesso di casa dalle nostri parti, in ‘The Gardeners Daughter’, e passeggia nella malinconia sulle note della chitarra portoghese di Frankie Chavez nella ballata ‘Monologue’. Senza dimenticare una band dietro che suona alla grande: Michele “Poncho” Belleri, Michele Bonvento, Andrea Gipponi, Phil Mer, Stefania Martin, Antonio Giovanni Lancini (anche produttore insieme a Paolo Salvarani).
Difficile trovare punti deboli quando il talento, genuino e cristallino, vola così alto. Dimostrazione che anche la musica legata al vecchio rock blues ha i suoi giovani interpreti di qualità. A morte chi continua a ripetere che “il rock è morto! “. Ascoltate qui. C’è un po’ di futuro.
Nella presentazione del disco presente nel libretto, concludono con un esclamativo “speriamo che vi piaccia! “. Io rispondo con un esclamativo: “si! “.
Consigliatissimo.






RECENSIONE: THE CROWSROADS-Reels (2016)
RECENSIONE: CEK FRANCESCHETTI-Blues Tricks (2018)


giovedì 2 maggio 2019

RECENSIONE: NILS LOFGREN (Blue With Lou)

NILS LOFGREN  Blue With Lou (Cattle Track Road Records, 2019) 



 il mio amico Lou (Reed) 

 Sei un artista in preda a una crisi creativa? Telefona a Lou Reed e tutto si sistema. Non sarebbe (stato) il sogno di tutti i musicisti di questa terra? A Nils Lofgren quel sogno si è tramutato in realtà nel lontano 1978 quando si trovò con le parti musicali di quello che sarebbe diventato il suo album Nils, uscito l’anno dopo, ma senza uno straccio di idea per i testi. Certo, per avverare certi sogni bisogna conoscere anche le persone giuste. Per registrare quel suo nuovo album solista Lofgren sceglie il produttore Bob Ezrin, uno che aveva già un curriculum vitae niente male: Alice Cooper, Dr. John, Kiss, Berlin di Lou Reed. Ecco Lou Reed! The Wall dei Pink Floyd era ancora dietro il muro. Fu proprio Ezrin a mettere in contatto i due. Da qui in avanti passò qualche settimana prima che Lou Reed decidesse di telefonare a Lofgren : ”Nils, parla Lou Reed. Sono sveglio da tre giorni e tre notti di fila. Adoro il tuo nastro e ho appena completato una serie di tredici testi di cui sono soddisfatto. Se vuoi te li detto“
Lofgren prende appunti. Tredici canzoni fatte e finite. Tre finiranno su Nils l’album su cui stava lavorando, tre su Bells, l’album di Lou Reed uscito nel 1979, altre due uscirono in altri due album di Lofgren successivi. Le restanti cinque sono qui per la prima volta (‘Attitude City’, ‘Give’, ‘Talk Thru the Tears’, ‘Don’t Let Your Guard Down’, ‘Cut Him Up’) insieme a un rifacimento di ‘City Lights’, un reggae con l'ospite Branford Marsalis (una di quelle presenti su Bells), a un omaggio allo stesso Lou Reed che dà il titolo al disco, una canzone dedicata a Tom Petty (‘Dear Heartbreaker’) e un ricordo del suo ultimo amato cane (‘Remember You’). A proposito di Petty, Lofgren racconta ad Uncut l’ultima volta che lo vide nel 2017 dopo un concerto: ” è stata una bellissima serata e dopo siamo andati nel backstage a salutare tutti. Naturalmente, non è mai entrato nella nostra mente che sarebbe stata l'ultima volta in cui abbiamo visto Tom Petty & The Heartbreakers”. 
Canzoni registrate dal vivo in studio senza troppe prove insieme al batterista Andy Newmark e al bassista Kevin McCormick che spaziano dal rock, a volte tagliente e spigoloso grazie alla perizia chitarristica di Lofgren, al funk, con forti dosi soul, guidate dalla voce roca di Lofgren, non una gran voce ma ficcante. 
Lofgren che vanta una carriera strabiliante all'ombra dei grandi, contribuendo alla fortuna di due delle più grandi rock band americane: i primi Crazy Horse e la seconda incarnazione della E Street Band, quella che iniziò a frequentare i grandi stadi. Carriera decollata appena diciassettenne (prima ancora ci furono i Grin) come pianista e chitarrista di Neil Young e lasciando i suoi contributi sugli imperdibili After the Goldrush(1970), Tonight's the Night(1975) e poi su Trans(1982). E occhio, il cavallo pazzo tornerà in autunno e Lofgren è tornato in sella! 
Entrato quasi per caso, è in pianta stabile nella E Street Band dal 1984. Non ne è più uscito, ed ora ne è un senatore tanto quanto i "vecchi" Van Zandt, Tallent, Bittan e Weinberg. La carriera di Lofgren è anche piena di tantissimi dischi solisti, spesso dimenticati (alcuni nel cesto degli usati si trovano frequentemente) , e questo Blue With Lou, uscito a otto anni dall'ultimo Old School, si candida per prendere un posto accanto ai suoi migliori. 
Ultima nota per le belle foto in bianco e nero dell'artwork, opera di Cristina Arrigoni.







venerdì 26 aprile 2019

RECENSIONE: JOSH RITTER (Fever Breaks)

JOSH RITTER  Fever Breaks  (Thirty Tigers, 2019)





songwriter di razza 
Un matrimonio che funziona alla grande senza bisogno di troppe celebrazioni: Josh Ritter per il suo decimo album (vent’anni di carriera alle spalle e la recente collaborazione con Bob Weir in tasca) sceglie Jason Isbell in produzione, il quale mette a disposizione i suoi fidati 400 Unit come gruppo di accompagnamento. Ne esce un disco di Americana senza punti deboli e senza tempo, registrato nello RCA Studio A di Nashville, perfettamente bilanciato tra sentimento (la ballata ‘I Still Love (Now And Then’)) e risentimento verso le scellerate scelte politiche del suo paese: lo scuro folk ‘The Torch Committee’ con il violino di Amanda Shires a disegnare traiettorie inquietanti, il country di ‘Some Kind Of Dream’. 
“Non sono stato in grado di distogliere lo sguardo dalle cose che stanno accadendo nel mondo in questo momento” racconta in una intervista.
 Mentre musicalmente si divide tra la forza delle chitarre elettriche a richiamare antichi fantasmi del sud (il blues pesto di ‘Old Black Magic’, una ‘Losing Battles’ condotta con fervore alla Crazy Horse) e la malinconia di ballate country (‘Silverblade’) e di folk minimale come nella finale ‘Blazing Highway Home’. Il tutto trova la sublimazione nella traccia d'apertura ‘Ground Do Not Want Me’, country rock alla vecchia maniera che conquista e mette al sicuro il disco fin da subito, lì insieme agli altri della sua produzione. Canzone che sembra racchiudere in una manciata di minuti tutte le sue influenze musicali: c’è Bob Dylan, c’è Johnny Cash, ci sono Bruce Springsteen, Jackson Browne, Steve Earle, John Mellencamp e il compagno di viaggio Ryan Adams, c’è la California dei settanta. Già un piccolo classico del suo repertorio.







martedì 23 aprile 2019

THE LONG RYDERS live@Auditorium Toscanini, Chiari (BS), 19 Aprile 2019



THE LONG RYDERSlive@Chiari, 19 Aprile 2019

Certamente non il concerto della vita, ma nemmeno lo aspettavo dai Long Ryders, nonostante l’ultimo ottimo disco Psychedelic Country Soul li abbia riportati sulle prime pagine delle cronache musicali dopo trent’anni di assenza “primo nelle chart Alt Country in Gran Bretagna” appunta Sid Griffin.
Ma il 2019 sarà ricordato per il ritorno prepotente della scena Paisley Underground e la loro reunion è una delle più vere e convincenti: Sid Griffin gigioneggia e attira gli sguardi (si diverte come un matto con google translator del suo smarthphone) ma è il tenebroso Stephen McCarthy la vera arma segreta del gruppo, chitarra, voce e basso, quando si alterna con Tom Stevens, conquistano.
Di una cosa però sono certo: certi gruppi per rendere al meglio hanno bisogno di una vera e sana interazione con il pubblico e i Long Ryders, dalla repubblica della California (come dice la bandiera dietro al batterista Greg Sowders) sono uno di questi. Sembra un po’ l'antico giochino: ti do se mi dai. Un pubblico abbastanza imbalsamato stasera, complice anche la location, l'Auditorium Toscanini di Chiari che con i suoi posti a sedere fa da barriera (questo non pregiudica l'ammirevole passione dell'associazione ADMR di Chiari che da anni continua a organizzare eventi di tale portata): perché se a qualcuno le sedie possono andare bene, per qualcun altro sono una camicia di forza imposta quando di mezzo c’è il rock’n’roll.


Un concerto a carburazione lenta (partito con ‘Gunslinger Man’ estrapolato da TWO-FISTED TALES come anche 'A Stitch In Time', ultimo disco del 1987 prima dello scioglimento) che fatica a decollare veramente, solo da metà scaletta fino alla fine il loro country cosmico, nipote di Byrds, Gram Parsons e Buffalo Springfield viene fuori con maggior prepotenza grazie a canzoni 'Final Wind Son' (da NATIVE SONS, 1984), la tripletta 'You Just Can't Ride The Boxcar Anymore', 'Southside Of The Story' e 'Lights Of Downtown' da STATE OF YOUR UNION del 1985, e 'Greenville', apertura del loro fresco ritorno discografico.

Quando poi nel finale sulle note di ‘Looking For Lewis And Clark’ e della bella cover ‘Walls’ di Tom Petty una piccola fetta di pubblico si è alzata presentandosi davanti al palco, il concerto si è improvvisamente infiammato. Insomma, non ci voleva tanto, forse era veramente solo questione di pochi metri, braccia alzate e calore. Tutto troppo tardi. 
Una giusta e meritata menzione anche per i bresciani THE BLUES DISSIDENTS che hanno scaldato e condotto i presenti verso il concerto dei Long Ryders con un caldo e avvolgente blues guidati dalla voce di Paola Purpura.


Sid Griffin
Stephen McCarthy

Greg Sowders

Tom Stevens

THE BLUES DISSIDENTS

giovedì 18 aprile 2019

RECENSIONE: BILLY JOEL (Live At The Carnegie Hall 1977)

BILLY JOEL  Live At The Carnegie Hall 1977 (2019)




"il mio 77"
"Ho incontrato Phil Ramone per la prima volta quando ho suonato alla Carnegie Hall nel 1976. Stavo cercando qualcuno che producesse il mio prossimo album. C'era un ristorante italiano dall'altra parte della strada chiamato Fontana di Trevi ... e ho cenato con Phil. È stata davvero l'ispirazione per ‘Scenes From An Italian Restaurant’ “. Così Billy Joel raccontò il suo primo incontro con lo storico produttore che lo portò al successo. È uscito in questi giorni, per la prima volta in vinile (doppio) in occasione del Record Store Day, la testimonianza di uno uno di quei tre concerti sold out che Billy Joel, la sua band (Richie Cannata, Doug Stegmeyer, Liberty De Vitto, Howie Emerson) più il contributo della The Joe Malin Orchestra diretta da Frank Owens, tennero al Carnegie Hall di New York un anno dopo. Esattamente la data del 3 Giugno 1977, quella che fu trasmessa dalle radio ai tempi e già pubblicata in CD nel box per il quarantennale di The Stranger. Una location importante e storica per la musica newyorchese, quella situata sulla settima strada: ” lì ho visto i Led Zeppelin suonare negli anni '60 - anche i Beatles vi hanno suonato Quindi, era una sede importante, specialmente a New York City. La Carnegie Hall è conosciuta in tutto il mondo… ".
Joel presenta per la prima volta al suo pubblico (presente in sala anche Phil Ramone) alcune canzoni che verranno inserite su The Stranger, registrato in sole tre settimane tra Luglio e Agosto, che uscirà solamente qualche mese dopo: la già citata ‘Scenes From An Italian Restaurant’ e una ‘Just The Way You Are’ ancora lontana dal successo che arriverà e che Billy Joel non amava particolarmente salvo ricredersi quando iniziò a vendere come non mai. Il tour è quello di Turnstiles, disco uscito nel 76 e che segnava il ritorno di Joel a New York dopo la fuga in cerca di fortuna e successo a Los Angeles, e naturalmente è il più saccheggiato: ’Miami 2017 (Seen The Lights Go Out On Broadway) ‘,’ Prelude/Angry Young Man’, ‘New York State Of Mind’, ‘I’ve Loved These Days’, una applauditissima ‘Say Goodbye To Hollywood’. Completano le quattro facciate di vinile, le più vecchie ’She’ Got A Way’, ‘The Entertainer’, ‘Captain Jack’, una solitaria ‘Souvenir’ al pianoforte, più una breve presentazione della band con tanto di “happy birthday”. Una scaletta dei sogni, all’epoca come oggi, per un performer ispirato e in stato di grazia assoluta in quel 1977 decisivo anche per lui.






lunedì 15 aprile 2019

RECENSIONE: DON FELDER (American Rock'n' Roll)

DON FELDER  American Rock'N' Roll (BMG, 2019)




nemmeno i tanti ospiti salvano l'aquila

Il disco promette ciò che la copertina mette in bella mostra: America e chitarre. A guardarla bene sembra una di quelle raccolte di musica americana con almeno 4 cd di grandi successi buoni per tutte le stagioni, quelle che si possono portare via dall'autogrill con pochi euro insieme a una rustichella e a una bottiglia d’acqua frizzante cara come il petrolio. Invece è il nuovo album solista, il terzo, di Don Felder, uno che dentro a quella ipotetica raccolta di successi americani ci sta sempre e comunque con la sua ‘Hotel California’. Perciò tutto a posto e potremmo chiudere qui. Purtroppo anche leggendo i titoli delle canzoni sembra tutto prevedibile e telefonato: si capisce subito quali siano quelle tirate, rock ai confini dell’hard e quali le ballate lente acustiche e romantiche. Nessuna sorpresa: tante chitarre e produzione leccata e cromata come fossimo in pieni eighties. Anche se tamarre e prevedibili al punto giusto per spingerti giù dal letto, prendere le chiavi della macchina, scendere in garage e scorrazzare fuori in automobile, finestrino giù e voglia di cantare mentre si macinano chilometri senza troppe menate per la testa. A volte non è poi così male, invece di filosofeggiare sulla musica rock.
Per sapere i tanti ospiti presenti bisogna invece leggere tra le righe. “Volevo portare il maggior numero possibile di persone a condividere l'esperienza con me" dice lui. Direi che non ha badato a spese. Sul lato rock: Slash, Mick Fleetwood e Chad Smith (Red Hot Chili Peppers) nell'apertura ‘American Rock 'N' Roll’, inno al rock’n’roll tanto infarcito di luoghi comuni quanto di tante citazioni musicali, Alex Lifeson dei Rush in ‘Charmed’, la chitarra di Richie Sambora e la voce di Orianthi in ‘Lamelight’, un sempre in forma Sammy Hagar, i funambolismi chitarristici di Joe Satriani e i cori di Bob Weir nel truzzo hard rock ‘Rock You’. Poi una pletora di musicisti ad accompagnare: David Paich, Jim Keltner, Mike Finnigan, Danny Castro.
I vecchi Eagles sembrano riaffiorare quando la macchina si ferma per un picnic sul prato: nel country corale  di ‘Sun’ e nella pianistica 'The Way Things Have To Be' con  Peter Frampton ospite ai cori e alla chitarra con la sua Telecaster
Altre volte lo zucchero è da diabete alto, quello latino che cosparge  di flamenco ‘Little Latin Lover’ nel funk 'Hearts Of Fire' e nel finale pop 'You're My World'. Superato l'imbarazzo passano veloci senza lasciare troppe tracce da ricordare. Dopo sette anni di silenzio ci si aspettava un colpo da maestro che purtroppo non c'è mai.
In una recente intervista Don Felder dice di aver fatto pace con il passato (fu cacciato dagli Eagles nel 2001) rendendosi disponibile per un rientro con i vecchi amici rimasti. A questo punto la cosa farebbe bene a entrambe le parti.







giovedì 11 aprile 2019

STEVE HILL live@Hydro, BIELLA, 10 Aprile 2019


Il consiglio è quello di non perdervelo. Il suo primo tour italiano è fitto di appuntamenti e siamo solo all’inizio, quindi niente scuse. Ieri sera sul palco Hydro di Biella, anticipazione del festival estivo Reload, il canadese Steve Hill ha sfidato pioggia e Champions League (infatti il pubblico non è quello delle grandi occasioni purtroppo) e ne è uscito vincitore perché se sei solo sulle assi del palcoscenico tutte le sere non puoi bleffare: devi dare il meglio di te stesso. Sempre. E lui è come se desse il meglio per tre persone contemporaneamente: una chitarra elettrica selvaggia con cui riesce a fare pure le note del basso con il pollice, due piedi che battono su grancassa e rullante e i cimbali battuti con vigore dalla piccola bacchetta con maracas incorporata, prolungamento del manico della chitarra stessa. Un incessante headbanging laterale. Insomma, un set completo di batteria con il quale non tiene semplicemente il tempo…
Quello che ne esce è il suono dei migliori power trio hard blues: ci sono Jimi Hendrix Experience (non è un caso che il suo set si concluda con una ‘Voodoo Chile’ sfumata in ‘Whole Lotta Love’), ci sono le barbe dei ZZ Top, i Cream, Rory Gallagher, Stevie Ray Vaughan and the Double Trouble, i Blue Cheer, I Pride And Glory di Zakk Wylde. Senza dimenticare le grandi chitarre del blues nero. 

 

 
Riff selvaggi e melodici, assoli, rallentamenti e accelerazioni, voce potente ma pure suadente quando il ritmo cala (‘Emily’), simpatia da buon intrattenitore. La prima impressione è quella di essere di fronte a un saltimbanco, ma con il trascorrere dei minuti ti accorgi che è tutta sostanza, tecnica e sudore, sia quando sciorina i suoi brani di una carriera lunga vent’anni premiata da tanti riconoscimenti in patria e aperture per i più grandi, sia quando omaggia la tradizione (‘Rollin’ And Tumblin’/’Stop Breaking Down’). Nessun inganno.
Il blues di Steve Hill è viscerale, rock’n’roll che affonda nello stoner quando si appesantisce,
e ti tiene incollato per un’ora e venti minuti fino a quando l’unica domanda che ti poni basito a fine set quando ti spelli le mani per applaudirlo è: “come diavolo fa a fare tutto, bene, con estrema naturalezza?” ‘Rhythm All Over’ canta lui.




 

lunedì 8 aprile 2019

It's Just Another Town Along The Road, tappa # 9: GUINEA PIG (III)

GUINEA PIG III (2018)




Basterebbe dare subito una sbirciata alle risposte qui sotto per capire quanto i Guinea Pig siano un gruppo con i piedi fortemente ancorati a terra, senza troppi sogni di gloria in testa (pure un peccato), a loro modo realisti. La provincia bresciana si conferma terra fertile per un certo rock blues che ama guardare e preservare il passato. Il power trio formato da Stefano Reboli (chitarra e voce), Andrea Sabatti (batteria) e Samuele Trivella (basso) non ama sperimentare troppo, a meno che non consideriate la voglia di jammare e allungare le canzoni come il miglior modo di giocare con la musica. Allora sì, i Guinea Pig si divertono e fanno divertire. Le lancette del loro orologio musicale seguono un percorso temporale ben definito fermandosi su due periodi ben precisi che ho individuato nel 1968-1975, il più vecchio e 1990-1995, il più recente. Mischiate tutto insieme e avrete un concentrato di hard blues dove i Cream, i Blue Cheer, i Free amoreggiano con la chitarra di Richie Kotzen, i ma i troppo lodati Badlands di Jack E. Lee e del compianto Ray Gillen, i Gov't Mule, i Cry Of Love, il southern anni 90 dei Black Crowes, senza dimenticare anche chi stava in mezzo a quei due periodi: il gruppo si formò nel 2004 proprio per tributare Stevie Ray Vaughan.
La voce aspra e arcigna di Stefano Reboli non è proprio come quella del povero Gillen ma è smerigliata al punto giusto per graffiare, la sua chitarra ispirata dal fuoco ardente di mostri sacri come Gary Moore e Jeff Healey sforna riff e la sezione ritmica è quella di chi stantuffa senza sosta dall'inizio alla fine. Non ho mai visto il gruppo dal vivo ma ascoltando il disco si può intuire che è esattamente così: nudo e crudo come si può sentire in queste undici tracce di hard blues senza trucchi, compromessi e con le palle sempre fumanti di chi vive la musica con ardore e passione. Dalla cadenzata apertura 'Broken Glass', alla velocità di 'LK', strumentale che passa come un treno  fino ai dieci minuti finali, di 'Don't Mess With None', jam che riesce a condensare tutte le loro caratteristiche peculiari.


In viaggio con i Guinea Pig
1-I km nel tuo disco. Il viaggio ha influenzato le tue canzoni?
Il viaggio non ha mai influenzato le nostre canzoni. Sono solo frutto di improvvisazioni musicali con testi aggiunti in un secondo momento.

2-Tour. Aspetti positivi e negativi del viaggiare per concerti in Italia. Dove torni spesso e volentieri?
Ci siamo sempre trovati bene a girare per il nostro paese. Basta stare coi piedi per terra e non pretendere di essere compreso. Fare l'americano in Italia è patetico.


3-Radici o vagabondaggio. Cosa ha prevalso nella tua vita?
Non puoi essere vagabondo senza radici, saresti solo un barbone. Le radici servono per aiutare i tuoi rami a spingerti un po' più in la. Non servono ne ponti ne autostrade.

4-Viaggio nel tempo. Passato: per chi o per quale tour avresti voluto aprire come spalla? Futuro: come ti vedi tra vent’anni?
Amando quel che facciamo ci basta arrivare su un palchetto e poter fare ciò che vogliamo. Un artista vale l'altro. Tra 20 anni per noi non sarà cambiato nulla. Fino a che avremo qualche idea in testa il tempo passerà solo all' anagrafe.

5-La canzone da viaggio che non manca mai durante i tuoi spostamenti.
Canzone da viaggio...potremmo andare avanti migliaia di km solo con "same rain still falls" di Robin Trower. Duro, malinconico e da capire, come solo un vero viaggio può essere.



It's Just Another Town Along The Road

tappa 1: GENERAL STRATOCUSTER AND THE MARSHALS/HERNANDEZ & SAMPEDRO
tappa 2: LUCA MILANI
tappa 3: PAOLO AMBROSIONI & THE BI-FOLKERS
tappa 4: MATT WALDON

tappa 5: LUCA ROVINI
tappa 6: GUY LITTELL

tappa 7: FRANK GET
tappa 8:THE FIREPLACES


venerdì 5 aprile 2019

RECENSIONE: MATT ANDERSEN (Halfway Home By Morning)

MATT ANDERSEN Halfway Home By Morning (True North Records, 2019)





una sicurezza
Chiudete un omone grande e grosso dentro ai Southern Ground Studios di Nashville insieme a un band completa di fiati e coriste (Jay Bellerose, Chris Gestrin, Jim Hoke, Charles Rose, Steve Hermann, Mike Farrington). Se quell'uomo arriva da New Brunswick, Canada, e di nome fa Matt Andersen, potete stare sereni: avrete tra le mani un signor disco di caldo southern soul e R&B in stile Memphis sound che pochi altri potrebbero darvi di questi tempi. Matt Andersen ha giocato sempre bene le sue carte in carriera (anche quando ha sperimentato qualcosa di diverso e moderno come nel precedente Honest Man), la fila di premi e nomination parlano per lui, e questo suo decimo album non bleffa, anzi. Qui si gioca a carte scoperte senza uso di trucchi e senza inganni: tredici canzoni registrate in presa diretta insieme al produttore Steve Dawson che richiamo i grandi del soul bianco: le ombre di Van Morrison, Eddie Hinton e Southside Johnny sono lì girato l’angolo. Un disco vissuto e consumato dentro le mura dello studio “è pieno della gioia e dell'energia che c’era in quella stanza" racconta lui. Quando in sala di registrazione ci si diverte.
La sua voce calda, profonda, baritonale, conduce queste ballate soul con piglio sicuro e rassicurante, tra amori, confidenze famigliari, malinconia ma con tanta positività e voglia di vivere. Una ricetta semplice in apparenza, elevata all'ennesima potenza se l’uomo che cucina è un cuoco onesto con il cappello del fuoriclasse in testa. C’è qualche accelerazione più sostenuta a variare il tema (‘Gasoline’,’Long Rider’), ci sono pennate blues e passi country, c’è qualche ospite come Amy Helm che duetta con Andersen in ‘Something To Lose’ o le sorelle McCrary che si aggiungono nella finale dal crescendo gospel ‘Quarter On The Ground’ un tributo acustico, voce e chitarra, dedicato a uno zio molto caro.
Con Andersen si va sul sicuro. Un ascolto quasi obbligato per chi non vuole allontanarsi troppo dalla tradizione della musica americana.





lunedì 1 aprile 2019

RECENSIONE: SON VOLT (Union)

SON VOLT  Union (Thirty Tigers, 2019)
 
 
 
 
 
il fantasma di Woody Guthrie
Una porta da cui si intravede un bosco aldilà della vetrata, la via di fuga, una vecchia macchina da scrivere, il mezzo per arrivare allo scopo, e una bandiera americana a fare da tenda, ciò che impedisce la vista e la libertà. Il fantasma di Woody Guthrie che si aggira nella stanza lo aggiungo io. Questo quello che si intravede, e si immagina..., in mezzo ai grandi caratteri della scritta in copertina. Questa volta a Jay Farrar sono bastate queste semplici cose per mettere su disco tutto il disprezzo verso l'attuale situazione socio politica che stanno vivendo gli States. Lo immagino chino su quei tasti mentre batte quelli che diventeranno i testi da proporre alla band.
“Quando c'è turbolenza e il tuo stile di vita sociale si sente minacciato, penso che tutti debbano intervenire e fare il possibile per raddrizzare la nave" ha raccontato in una recente intervista.
A due anni dal buon ritorno Notes Of Blue, le tredici canzoni di Union disegnano un impietoso ritratto del suo paese e si pongono un unico solo obiettivo: cercare una soluzione che possa riportare unione a un paese diviso da mille problemi.
Per rendere tutto più vero e genuino, i Son Volt, decidono di registrarlo in due luoghi simbolo della lotta: l'organizzazione sindacale Mary Harris (al Mother Jones Museum in Illinois) e al Woody Guthrie Center in Oklahoma. Si portano dietro uno studio mobile e provano a raccogliere l'ispirazione dei luoghi e della storia.
Quello che esce è un disco folk, all'antica maniera (per certi versi vicino al loro vecchio Okemah), quelli che non si fanno più, compatto, di lotta e denuncia (ecco nascere la conclusiva 'The Symbol' ispirata dalla famosa 'Deportee (Plane Wreck At Los Gatos)’) ,anche se non mancano canzoni che si staccano dal tema cercando aria fresca e positività come ‘Devil May Care’ scritta da Farrar per celebrare la musica e che sembra uscire direttamente da The River di Springsteen: ”ho cercato di pensare a cosa significasse per me l'essenza del rock'n'roll, pensavo a band come i Replacements, i Rolling Stones, gli Who” o le speranzose ‘The Reason’ e ‘Holding Your Own’ cartoline indirizzate alle future generazioni.
Sì perché questa volta intorno alle radici, al folk rock a cui la band da sempre ci ha abituati, sono germogliati dei testi che battono forte sulle diseguaglianze sociali (‘The 99’), sulla politica (‘When Rome Burns’) su faccende losche (il pianoforte e l'acustica di ‘Reality Winner’). Testi seduti comodamente dalla parte della classe operaia, dei più deboli, degli emarginati (l’incedere spettrale di ‘Union’).
Anche se paradossalmente questa volta gli scatti rock e le chitarre elettriche sono meno incisive di quanto lo siano i testi, preferendo l'impronta acustica del folk e del blues ‘Broadsides’, la breve strumentale 'Truth To Power Blues').
Union è un gran disco che sa di antico, di artigianato musicale, ma perfettamente a suo agio in questo 2019.
 
 
 

 
 
 
RECENSIONE: SON VOLT-Notes Of Blue (2017)


martedì 26 marzo 2019

TODD SNIDER (Cash Cabin Sessions, Vol.3)

TODD SNIDER Cash Cabin Sessions, Vol.3 (Aimless Records/Thirty Tigers, 2019)




semplice e solitario

A tre anni di distanza da Eastside Bulldog, l’ultimo album solista, TODD SNIDER mette da parte anche la sua superband sfogo Hard Working Americans e ritorna capovolgendo completamente le carte. Quell’album era un puro spasso rock’n’roll swing, un disco sghangherato, corale, con fiati e cori ubriachi, questa volta invece indietreggia al suo passato remoto: torna a vestire gli abiti larghi del folk singer alla vecchia maniera. Solitario, si siede sopra una sedia e tira fuori dodici canzoni di puro folk blues accompagnato da una chitarra Martin, un’armonica, un mandolino e un banjo (‘The Blues On Banjo’) . Registrato alla Cash Cabin a Hendersonville nel Tennessee, il fantasma del vecchio man in black sembra aggirarsi con frequenza a benedire le registrazioni: ‘The Ghost Of Johny Cash’ è chiarissima subito, fin dal titolo. Anche se io ci vedo di più l'ombra di Bob Dylan.
Non sono dei fantasmi invece Jason Isbell e sua moglie Amanda Shires che si materializzano spesso ai cori (bella ‘Like A Force Of Nature’). Una prova brillante come sempre, che profuma d’antico, confermata da una scrittura ficcante, acuta (‘Watering Flowers In The Rain’ è dedicata a un vecchio roadie di Elvis Presley), ironica (‘Talking Reality TV Blues’ è un talking folk chitarra-armonica che rimanda e cita il primissimo Bob Dylan) e aggrappata all’attualità (‘A Timeless Response To Current Events’).
Nel titolo del disco compare un Volume 3, ma è solo uno dei tanti scherzi di Todd. C'è da aspettarsi un Volume 2 in tempi brevi?








venerdì 22 marzo 2019

RECENSIONE: L. A. GUNS (The Devil You Know)

L. A. GUNS  The Devil You Know (Frontiers Music, 2019)





pistole ancora fumanti
Che fossero in gran forma lo avevano dimostrato, inaspettatamente, due anni fa nel tour che passò anche in Italia (chi c'era può testimoniarlo) , questa volta lo marchiano a fuoco con un nuovo disco, il secondo dopo la pace fatta tra Tracii Guns e Phil Lewis. Questa reunion non è un fottutissimo fuoco di paglia, gli L. A. Guns sono tornati per restare e riprendere in mano le redini di una scena che sembra vivere più ...di ricordi, spesso sbiaditi, che nel presente. Anche se la copertina riprende in tutto e per tutto quella del loro esordio.
Accantonato l’ego che ne decretò la rottura, Phil Lewis e Tracii Guns questa volta si mettono d'impegno, collaborano da bravi vecchi amici e tirano fuori un disco carico, esplosivo e fresco che tutto sembra fuorché uscito da una band con 35 anni sul groppone.
Un album che si muove bene nel presente grazie a sonorità più dure e cupe (‘Rage’ apre con il tiro punk, ‘Down That Hole’), la title track e ‘Going High’ richiamano sonorità hard quasi sabbathiane nel loro incedere, i riff metal che più anni ottanta non si può di ‘Stay Away’ e il mix tra Led Zeppelin e Aerosmith di ‘Loaded Bomb’ convincono in pieno.
Il tutto senza dimenticare le camminate lungo Sunset Strip con le frizzanti e trascinanti, proprio come ai vecchi tempi, ‘Gone Honey’ e ‘Boom’ più legate ai vecchi tempi scanditi dal glam più stradaiolo. Ci mettono pure una ballata elettrica e notturna per non farsi mancare nulla (‘Another Season In Hell’).
Lewis ha passato i sessanta ma si mangia una buona fetta di cantanti ventenni per attitudine e figaggine, la chitarra di Tracii Guns lascia impronte in tutte le canzoni, inventando riff e assoli, ancora tremendamente ispirata, mica come qualcuno con la tuba in testa che pur riempendo ancora i palazzetti non azzecca una canzone da tempo (polemica gratuita tanto per…), aiutato dal nuovo entrato in formazione Johnny Monaco (ex Enuff Z’Nuff).
Si può invecchiare con dignità? La risposta provano a darla gli L. A. Guns qui dentro.







 

martedì 19 marzo 2019

RECENSIONE: THE STEEL WOODS (Old News)

THE STEEL WOODS Old News (Thirty Tigers, 2019)





le care vecchie ma “buone” notizie dal southern rock

Nel leggere i sottotitoli della pagina di giornale piazzata in copertina, dove la scritta Old News si mangia tutto, pure il nome del gruppo, pare non ci sia da stare troppo allegri perché le notizie pur dal sapore antico hanno un legame con la stretta attualità. Ma se la situazione socio politica negli Stati Uniti è quella che è, tanto da indurre alle lacrime perfino la Statua della Libertà , bisogna ammettere che il southern rock sta vivendo l’ennesima e ciclica “nuova giovinezza” grazie a numerosi gruppi nati negli ultimi anni: Blackberry Smoke, Whiskey Myers, Cadillac Tree, Sheepdogs, The Vegabonds, The National Reserve, non degli innovatori ma abbastanza per leggere la stato “in salute” sullo schermo del termometro e rallegrarsi. In fondo si tratta solo di portare avanti la tradizione, facendo le cose per bene.
Gli Steel Of Woods si sono formati a Nashville e sono tra i gruppi più interessanti della scena, guidati dalla più classica delle coppie cantante-chitarrista che sembra rimandare ai tempi dei settanta. Wes Bayliss è un cantante dalla particolare timbrica soul e profonda che a tratti richiama il buon Chris Stapleton, un po’ anche nell'aspetto, Jason Cope un chitarrista fantasioso e poliedrico a suo agio tanto nel ricamare con tranquillità nel country rock quanto nel costruire riff di chiara scuola southern e hard, con alle spalle la buona gavetta di nove anni nella band di Jamey Johnson. Completano la formazione il bassista Johnny Stanton e il batterista Jay Tooke. Old News pare sia stato registrato in soli sei giorni, tra un tour e l’altro, e arriva dopo il debutto Straw In The Wind, uscito nel 2017. La prima cosa che si può notare scorrendo i titoli è il grande numero di cover presenti. Ma non fermatevi all'apparenza c’è un motivo preciso che dopo vedremo. Le nove canzoni autografe passano con disinvoltura dal più tipico southern rock alla Lynyrd Skynyrd, quelli della reunion però, periodo 1991,The Last Rebel, nell'apertura ‘All Of These Years’, alle chitarre più hard di ‘Blind Lover’ e della breve strumentale ‘Red River’, a ballate acustiche malinconiche e scure (‘Wherever You Are’) al country di ‘Anna Lee’, l’epicità di pezzi come ‘Compared To A Soul’, ‘Old News’ e i sei minuti di ‘Rock That Says My Name’ tra le cose più riuscite del disco con il cameo del vecchio nonno del cantante che nel finale pare affidarsi alla lettura della Bibbia. In mezzo due cover: la rilettura in chiave soul di ‘Changes’ dei Black Sabbath, sembra confermare il grande amore del gruppo per la band inglese dopo quella ‘Hole In The Sky’ nel debutto e poi una perfetta ‘The Catfish Song’ di Townes Van Zandt, più che mai di attualità in queste settimane in cui il nome di Van Zandt è tornato sulle prime pagine. Il disco potrebbe finire qui e la band avrebbe già lasciato un buon ricordo di sé, invece nel finale piazza un poker di sentite cover che, nonostante tutto, riescono ad alzare le quotazioni. Da ‘One Of These Days’ del songwriter dell’Alabama Wayne Mills, a ‘Are The Good Time Really’ Over di un altro maestro come Merle Haggard, da una energica ‘Whipping Post’ degli Allman Brothers per concludere con ‘Southern Accents’ di Tom Petty, ormai un inno di appartenenza a certe latitudini musicali.
Ecco come il cantante Wes Bayliff spiega la scelta di aggiungere così tante cover nel disco: “abbiamo fatto ‘Hole In The Sky’ e ‘Changes’, un brano davvero diverso dei Black Sabbath, già splendidamente rifatta da Charles Bradley. Quella e ‘Catfish Song’ sono quelle che considero cover. Le ultime quattro del disco sono tributi. In origine li abbiamo chiamati ‘necrologi’ come sono nella parte posteriore di Old News. Penso sia una bella cosa. Volevamo scegliere alcuni artisti a cui volevamo rendere omaggio, senza necessariamente cambiare molto le originali”. Il giornale è finito. Andate in pace. Motivi per aspettare il terzo numero sono ora tanti.






venerdì 15 marzo 2019

RECENSIONE: STEVE EARLE & THE DUKES (Guy)

STEVE EARLE & THE DUKES  Guy (New West Records, 2019)




“Townes Van Zandt e Guy Clark erano come Kerouac e Allen Ginsberg per me".

STEVE EARLE non ha mai lesinato riconoscenza verso la scena musicale che lo ha accolto nel lontano 1974, quando, diciannovenne, andò a cercare il suo futuro a Nashville. Lì ci sono le sue radici, le prime esperienze, i germi della sua carriera. La sua musica. Conobbe Guy Clark, le sue canzoni, finì per suonare dentro al suo primo disco, quel Old No 1 che arrivò tardi nella carriera di Clark, raccolta di canzoni scritte negli anni, cariche di esperienze e metafore. Una pietra angolare per le future generazioni di songwriter americani. Se attraversi il Texas non puoi non ascoltare almeno una volta quelle canzoni. Canzoni mandate a memoria-
Dopo Townes, il disco omaggio a Townes Van Zandt uscito nel 2009, dopo So you Wanna Be An Outlaw, il suo ultimo disco dedicato a tutta la scena Outlaw degli anni settanta, mancava un omaggio tutto dedicato a Clark. Anche se proprio in quel disco, uscito due anni fa, alla fine c’era una canzone a lui dedicata, a quel maestro del cantautorato americano scomparso nel 2016: ‘Goodbye Michelangelo’. Earle riprende sedici canzoni del repertorio di Clark (presenti: ‘L. A. Freeway’, ‘Desperado Waiting For A Train’ e ‘That Old Time Feeling’ da quel strepitoso debutto) le rilegge con i fedeli Dukes e con una buona vagonata di ospiti, tra cui: Rodney Crowell, Terry Allen, Emmylou Harris, Jerry Jeff Walker, Verlon Thompson, Mickey Raphael, Shawn Camp, Gary Nicholson, Jim McGuire.
Alcune le rilegge in maniera fedele (‘New Cut Road’), altre le piega a suo favore imbastardendole con il rock carico di chitarre elettriche (‘Out In The Parking Lot’). C’è tutto l'immaginario di quel suono che ha unito il maestro e l'allievo: il country, il bluegrass, l’irish folk, il rock’n’roll.
È stato registrato in fretta, con poche sovraincisioni, quasi live, ma soprattutto con un rimpianto che lo tormenta da quel 17 Maggio del 2016: non essere riuscito a scrivere una canzone a quattro mani con lui, prima che morisse. “Con Guy, tuttavia, c'era questa cosa. Quando era malato mi ha chiesto se potevamo scrivere una canzone insieme. Dovremmo farlo 'per i nipotini', disse. Beh, non lo so ... al momento ero titubante. Poi Guy è morto ed era troppo tardi. Questo, mi dispiace.” Un disco condotto con il rimpianto stampato in testa e l’amore incondizionato tatuato nel cuore.




RECENSIONE: STEVE EARLE & THE DUKES -So You Wannabe An Outlaw (2017)
 

martedì 12 marzo 2019

RECENSIONE: TESLA (Shock)

TESLA  Shock (Universal, 2019)
 
 
 
 
luce ad intermittenza
Disco da maneggiare con cautela. A cinque anni da Simplicity la band di Sacramento ritorna con una sola grande novità ma in grado di sbilanciare il giudizio finale del disco: Phil Collen, l’amico e chitarrista dei Def Leppard, si piazza in produzione e mette la sua firma su tutte le dodici canzoni. “Phil è venuto da noi e voleva produrci un album. Ci ha davvero aiutato molto, sarò onesto, eravamo ad un livello basso dopo aver fatto Simplicity nel 2014. Frustrati, e probabilmente non avremmo fatto un altro album” racconta il chitarrista Frank Hannon.
Il risultato è un disco hard rock dai suoni più puliti del solito, a volte fin troppo, dal chiaro stampo anni ottanta, ricco di momenti melodici che ricordano la band inglese di Hysteria da vicino (‘Shock’, ‘Taste Like’, ‘Comfort Zone’), a voi scegliere se sia un bene oppure no, e con qualche ballata di troppo. Se ne contano almeno cinque, di cui tre consecutive nella track list piazzate a metà disco (non una scelta azzeccata): se la coralità beatlesiana, o alla ELO, di ‘We Can Rule The World’ con le sue orchestrazioni e ‘Forever Loving You’ convincono confermando i Tesla come degli specialisti nel campo (Five Man Acoustical Jam insegna), piacciono un po’ meno la solarità scontata di ‘California Summer Song’ e ‘Afterlife’ che ricordano quello che meno mi piace degli Aerosmith anni 2000, quelli delle ballad prima di tutto. Manca tutta la sporcizia roots che elevava i Tesla rispetto a tante altre band nate con loro. Fortunatamente a bilanciare il peso della melodia ci pensano l’iniziale e frizzante rock’n’roll di ‘You Won’t Take Me Alive’ con la voce di Jeff Keith rimasta immutata nel tempo e poi tracce come ‘Mission’ che pare uscita da Psychotic Supper (“canzone che sembra i vecchi Tesla, un po’ come qualcosa che avremmo scritto ai tempi in cui facevamo cose come Song & Emotion . Non che ci stiamo ripetendo. Siamo persone molto diverse ora, molto più mature” dice Hannon) e la mia preferita ‘Tied To The Tracks’ con la slide in primo piano, tre canzoni che si riallacciano meglio al loro passato e ci ricordano che razza di band siano quando fanno quel che sanno fare meglio.
Phil Collen ha strappato alla band americana più radici blues del dovuto, snaturando a tratti una delle poche band coerentemente rock uscite dagli anni ottanta, quello uscito è un disco riuscito a metà che cerca con troppa facilità la via melodica che spesso risulta scontata e a tratti pure soporifera. Non mi piace dare voti, per questo disco infrango le regole: 6,5.
Phil Collen li ha pur tenuti in vita,  ma ora tocca a loro non affogare in un campo che non è esattamente il loro.