lunedì 29 settembre 2014

RECENSIONE:SCOTT H.BIRAM (Nothin' But Blood)

SCOTT H. BIRAM  Nothin' But Blood (Bloodshot Records/IRD, 2014) 



Se il successo di un musicista si misurasse dal numero di ossa rotte in vita, il quarantenne Scott H. Biram sarebbe in cima alle classifiche. Sfortunatamente per le sue tasche sdrucite non è così, e il texano continua ad incidere dischi (nove in tredici anni), con fierezza e rara passione, camminando e talvolta correndo troppo con il suo vecchio Ranchero 65 lungo quella linea zigzagante, poco trafficata ma pericolosa, che divide il bene dal male, il sacro dal profano, la redenzione dal peccato, e dove country, blues, punk e metal viaggiano allineati in contemporanea lungo le sei corde delle sue vecchie chitarre. Ossa spezzate in episodi marginali alla vita artistica ma capaci di inquadrare il personaggio: prima l’incidente stradale in Texas nel 2003 che gli lasciò intatto un arto su quattro ma non gli impedì, un paio di mesi dopo, di salire sul palco in sedia a rotelle con una flebo al seguito, poi in Francia nel 2009, quando scivolò nei pressi di una pompa di benzina. Cicatrici e protesi al titanio lo tengono unito. Uno scavezzacollo sporco e genuino, “ho imparato a sputare e menar pugni prima di imbracciare una chitarra”, che in giovane età, prima di essere conquistato dal blues (Doc Watson e ‘Vol.4’ dei Black Sabbath tra i suoi preferiti) e poi dal punk, accontentò pure la famiglia prendendo la sua meritevole laurea in arte che ora viene bene solamente per disegnare t-shirt con grande spirito DIY, lo stesso che gli bolle in corpo quando ha una chitarra in mano, quando sbuffa dentro un’armonica, batte il piede su una stomp box amplificata e sale sul palco a ringhiare. Tutto insieme. Un “The Dirty Old One Man Band” (anche titolo del suo miglior disco) capace di unire Leadbelly e Motorhead, Merle Haggard e Black Flag, incendiare fienili con litri di alcol etilico, sfidare la morte provocandola pericolosamente e pregare per ringraziare d’essere ancora su questa terra.

Il nuovo album ‘Nothin’ But Blood’ lo ritrae immerso in un mare di sangue per un battesimo che in apparenza sa di nuova rinascita “ho un piccolo lato spirituale e amo la musica gospel, dico preghiere e cose del genere, ma non so di chi diavolo sto parlando”, anche se durante l’ascolto non sembra prevalere nessun lato della musica (country, bluegrass e iconoclastia punk si intrecciano ancora) e nemmeno della sua personalità: ha ancora la bottiglia di Whisky saldamente in una mano e il vangelo nell’altra. Cosa cadrà prima? “Sono un fottuto depresso, lo sono da sempre”. (Enzo Curelli) da CLASSIX! #39 (Aprile/Maggio 2014)



lunedì 22 settembre 2014

RECENSIONE: CHEAP WINE (Beggar Town)

CHEAP WINE   Beggar Town  (CheapWine Records/IRD, 2014)



Mentre stavo scartando il pacco appena arrivato, contenente questa nuova preziosa opera dei pesaresi Cheap Wine (e con l'aggettivo "preziosa" mi sono già bruciato la valutazione finale), Marco Diamantini, cantante e autore dei testi del gruppo, sulla sua bacheca facebook postava la copertina del disco con questa frase promozionale di contorno: "lo so che alla Apple e gli U2 fanno diversamente. Ma noi siamo all'antica. Noi siamo dinosauri. E, soprattutto, siamo mendicanti". C'è chi ha avuto le nuove undici, fredde, gelide-e pure bruttine- canzoni del gruppo irlandese sull'iPod "a sua insaputa" e chi queste avvolgenti dodici canzoni nello stereo, impacchettate con la cura di sempre dentro ad una confezione curatissima con testi in inglese e relative traduzioni in italiano, e artwork (splendido, non trovate?) a firma dell'artista Serena Riglietti come nel precedente Based On Lies . Mi sento fortunato, un po' dinosauro e mendicante anch'io: gli U2 (onore al passato) li ho scaricati al primo ascolto-nel senso più dispregiativo del termine-i Cheap Wine li ho salvati alla  prima, anche se loro stessi dicevano che era difficile entrare in sintonia con l'album al primo ascolto. Niente di più sbagliato. Ho amato queste canzoni da subito, perché hanno la forza di catturare e portarti lontano, immediatamente. Non hanno date di scadenza e la pretesa di arrivare subito, la sintonia nasce da qui, dal sapere che dovrai dare loro un po' del tuo tempo per venire ripagato adeguatamente. Se non è oggi sarà domani, ma sai che dovrai ripassarci. C'è tanto lavoro, passione e vita dietro. Si percepiscono.
Cose che non possono sfuggire al primo ascolto. Gli altri ascolti serviranno a cercare i particolari-e sono tanti, ve lo assicuro-capire i testi, mettere insieme i pezzi del concept. "Beggar Town è un disco ambizioso, scorbutico, anarchico, ribelle. Che non tiene conto di nulla, se non della nostra anima e dei nostri umori". Raccontano loro.
Il precedente Based On Lies era un' impietosa e pessimistica istantanea della realtà costruita sulle menzogne, questo è un manuale di resistenza ma anche  soprattutto di fuga dal passato nero e dalla grigia quotidianità, fuga che a volte va a compimento trovando le giuste vie di scampo (la corale positività di Your Time Is Right Now con la sua lunga coda finale), altre no e la metafora del mare come via alternativa fa spesso capolino ("Tempo fa, tutto il mare era calmo e silenzioso, quando navigavo, la notte era illuminata dal faro" nella ondigava  Lifeboat). L'importante è provarci. Sempre. Disco intenso, a tratti rarefatto, compatto e notturno dove le tastiere di Alessio Raffaelli tessono bene la tela, le belle chitarre di Michele Diamantini irrompono, pungono e allungano spesso, come nell'apertura Fog On the Highway. L'incrocio tra tastiere e chitarre caratterizza l'intera opera. Muddy Hopes ha il passo che mi ricorda l'ultimo Leonard Cohen di Old Ideas, la voce di  M. Diamantini sussurra in sordina, i tempi diventano lenti e quasi jazzati con le chitarre che vanno nuovamente a riprendersi il crescendo finale, diversamente dallo straniante up tempo chitarristico di Beggar Town. Qui è tutta una fuga.
In Claim The Sun la voce di Diamantini si fa ancora più intensa, una ballata amara e coinvolgente, esortazione a lasciarsi indietro il passato. Rinascere. Tra le migliori.("Sono Tempi duri, ma saprò resistere. Tu sei il girasole sbocciato nella sabbia. Ora risvegliati e pretendi il sole. Ora risvegliati e trova la forza per cancellare tutto il grigio e per scoprire un colore nuovo, ogni giorno").
Keep On Playing è la prova di squadra perfetta: diciotto anni di attività e dieci album incisi sono un traguardo non da poco per una band che non ha mai ceduto ai "grossi e loschi affari" pur avendo tutte le carte-nazionali e internazionali- in regola, preferendo la tortuosa ma sempre appagante strada dell'indipendenza tout court. Con l'irruenza del passato messa da parte ma non abbandonata del tutto (con pazienza: il finale sta per arrivare), ora a prevalere è una coesione fatta di tante sfumature, macchina "umana" perfetta con pochissimi eguali in Italia, costruita di album in album, di concerto in concerto, di sacrificio in sacrificio. Una continua progressione che si nota se mettete in fila i loro album, dal debutto del 1997 fino ad oggi. Le tastiere in primo piano e la sezione ritmica formata da Alan Giannini alla batteria e Alessandro Grazioli al basso sono lezione da imparare in Keep On Playing. Quasi progressive nel suo procedere.
Utrillo'Wine è un'altra ballata pianistica, una mini opera che mi ricorda certe cose di Bill Fay, e ci presenta un episodio tragicomico pescato dalla bizzarra vita di un personaggio realmente esistito: Maurice Utrillo, pittore francese nato a fine '800, compagno di sbronze e fedele amico di Amedeo Modigliani, caduto in disgrazia, vittima di disturbi psichici e alcolismo. Le sue opere verranno rivalutate solamente dopo la morte.
Destination Nowhere, è un blues rock funkeggiante che tira la volata finale, caratterizzata dall'innalzamento della tensione: Black Man è il primo vero scatto rock del disco, questa volta sono le chitarre a condurre il gioco (Michele Diamantini sale in cattedra) mentre il pianoforte insegue e bene: c'è una la voce maledetta che vuole farti sbagliare strada portandoti tra la  perdizione, ma quando non hai più nulla da perdere vedi e punti i nemici con più acume.
I Am The Scar segue a ruota e ne è la degna continuazione. Sono i tempi della rivincita, e poco importa come si concretizzerà: "vagavo da solo, tenevo il mio fucile in vista. Verrò a prendervi tutti. Vi ammazzerò uno alla volta. Dicevate che ero fuori di testa. Adesso sapete che avevate ragione. Mi avete ridotto alla fame".
The Fairy Has Your Wings (For Valeria) si stacca da tutto e chiude con accorata grazia ricordando un'amica che non c'è più. Miglior finale non poteva esserci.
Prezioso. L'ho già detto?

in uscita il 4 Ottobre





vedi anche RECENSIONE: CHEAP WINE-Based On Lies (2012)
RECENSIONE & INTERVISTA : MATT WALDON-Learn To Love (2014)
RECENSIONE & INTERVISTA: GUY LITTELL-Whipping The Devil back (2014)
RECENSIONE: MALCOLM HOLCOMBE-Pitiful Blues (2014)
RECENSIONE: CORY BRANAN-No-Hit Wonder (2014)



lunedì 15 settembre 2014

COVER ART # 7: EDOARDO BENNATO (La Torre di Babele-1976)

artista: Edoardo Bennato
opera: La Torre di Babele
anno: 1976
artista disegno: Edoardo Bennato
canzoni da ricordare: Venderò, Cantautore, La Torre di babele

Nel precedente disco Io che non sono l'Imperatore(1975), l'architetto/urbanista Edoardo Bennato piazzò in copertina il progetto/proposta sulle linee ferroviarie dell'area metropolitana di Napoli da lui stesso creato, che in qualche modo cercava di opporsi criticamente a quello realmente scelto dalla città partenopea. La fervida fantasia che accompagnava i testi delle sue canzoni, dove fiaba e realtà si mischiavano in modo assolutamente originale iniziava a tramutarsi ed esprimersi anche graficamente. Bennato dopo ver conseguito il diploma a Napoli, si trasferì a Milano per studiare architettura. Esperienza che riuscì anche a trasportare nella sua carriera di musicista.
Dopo l'invenzione del suo logo, composto dal nome scritto con caratteri fumettistici accompagnato dall'inseparabile armonica e un groviglio di fili elettrici-che comparve per la prima volta su I Buoni e i Cattivi(1974)- per il successivo La Torre di Babele(1976) ci volle un'idea geniale che potesse rappresentare la canzone omonima che diede il titolo all'album, prendendo spunto dalla leggendaria costruzione di bitume e mattoni di cui si narra nel libro della Genesi nella Bibbia. Una torre costruita dagli uomini sul fiume Eufrate in Mesopotamia che doveva servire da tramite a Dio che però ne impedì la fine per punire la superbia umana in terra.
Il disco uscito nel 1976 è tra i vertici musicali del Bennato anni settanta: La Torre di Babele, Venderò, Viva la Guerra, Franz è il mio nome, Cantautore sono rappresentative della scrittura del cantautore napoletano. Metafore che mettevano in risalto la ricerca della libertà attraverso la condanna delle guerre, del perbenismo imperante, dell'arrivismo sfrenato, di tutti i dogmi politici e religiosi in modo ironico e sarcastico. Un monito lanciato all'uomo. Una sveglia al non svendersi mai, al non cedere davanti ai potenti e dittatori, a quei capi della guerra (citando il maestro Dylan) che ci vogliono come (Quante) brave persone. Musicato sulla veemenza acustica che sa toccare il folk, il blues e il rock'n'roll americano bagnato dentro alla mediterraneità della sua terra.
La copertina raffigura una ipotetica torre di Babele composta esclusivamente da un vasto ed assortito campionario di soldati in tenuta da guerra, raffigurati nel trascorrere dei secoli: dall'uomo primitivo munito di clava, passando all'antico egizio, il soldato romano, i crociati e via salendo fino al moderno 900, alle guerre mondiali, culminando con un missile in punta, lanciato verso l'incognita "futuro".
"Un giorno gli uomini, accecati dalla loro presunzione, cercarono di costruire una torre così alta da raggiungere il cielo e sfidare Dio, ma Dio li punì confondendo le loro lingue, e non comprendendosi più l'un l'altro, finirono per farsi la guerra.
La torre appena cominciata, interrotta e diroccata, divenne il simbolo dell'insoddisfazione ed impotenza dell'umanità intera.
Nella trasposizione grafica della "Torre di Babele" ho appunto cercato di rappresentare il racconto biblico con un'impalcatura di uomini in armi (da quello Neanderthaliano con la rudimentale clava, via via fino a quello moderno con armi sofisticate), tutti rivolti verso l'obiettivo di un immaginario flash, in posa come in una foto ricordo, la foto dell'umanità che fa la guerra.
Inizialmente avevo differenziato i vari livelli della torre con relativi ordini architettonici, ma toglievano comprensibilità all'impianto grafico. Anche cavalli ed animali sono stati eliminati dal disegno finale perché volevo che l'impalcatura della torre fosse composta solo da uomini in guerra." da http://www.bennato.net/page.php?section=babele&lang=it

"E quella stella sarà il quartier generale per conquistare quello che c'è ancora da conquistare e da quella stella per tutto l'universo l'uomo si spazia, per superare se stesso." da La Torre di babele

Bennato spese parecchio tempo alla ricerca delle sagome dei soldatini da rappresentare in copertina. Un lavoro certosino che si completa con il disegno all'interno del disco originale, apribile, che raffigurava tutti i partecipanti alla realizzazione del disco ed amici (dal fratello Eugenio, Lucio Fabbri, Roberto Ciotti, Tony Esposito...) in tuta spaziale, protagonisti e forse "salvi" all'interno di un paesaggio lunare.
Nel 2009, Edoardo Bennato contribuì alla campagna "Io pretendo dignità" di Amnesty International donando una litografia autografata dell'immagine originale della copertina. La litografia venne messa all'asta su ebay ed il ricavato andò in beneficenza.

vedi anche COVER ART

 

lunedì 8 settembre 2014

RECENSIONE: BLUES PILLS (Blues Pills)

BLUES PILLS  Blues Pills (Nuclear Blast, 2014)



La band rivelazione dell'anno? Sì, probabilmente lo è. Un po' perché sostenuta da un battage pubblicitario ben mirato e diramato che sta toccando le riviste e i siti di ogni genere musicale, merito dell' ottimo lavoro della Nuclear Blast, veramente, fin troppo ed esagerato tanto da far nascere strani pregiudizi (siamo i soliti malpensanti), molto perché dietro al loro retro rock  c'è freschezza, sostanza, bravura, genuinità e determinazione. Qualità vere e inconfutabili. Originalità? No, quella per ora latita ancora e si spera arrivi in seguito, quindi pazienza se i paragoni e i rimandi abbondano, si gode di qualcos'altro: in primis della passione sincera per quelle sonorità ascoltate e accumulate attraverso i vecchi vinili rubati alle discografie dei genitori. Un lavoro di gestazione lungo tre anni, preceduto da due EP (molte canzoni si ripetono e compaiono anche qui), ma è valsa la pena aspettare questo debutto. Una giovanissima band multietnica ma di casa a Orebro (Svezia) che manda avanti a dare il benvenuto, ad aprire la porta di casa, l'avvenenza, il talento e la bravura della cantante svedese Elin Larsson, voce soul/blues come quelle di una volta, tanto che i paragoni si sprecano (da Janis Joplin a Aretha Franklin, è già stato detto di tutto, ma lei adora Etta James), ma immediatamente dopo ti travolge dalle retrovie  grazie alla compattezza d'esecuzione della sezione ritmica tutta americana (Zack Anderson al basso e Cory Berry alla batteria, anche se appena uscito dal gruppo e sostituito da André Kvarnström ) e dalla ispirata chitarra del francese Dorian Sorriaux, piccolo talento con le dita di un veterano, alimentate dal fuoco hendrixiano che affondano ma poi sanno lavorare così bene nei dettagli della superficie e perdersi nell'acidità degli assoli. L'apertura con il botto di High Class Woman è un viatico esemplare di quello che le dieci tracce ci proporranno lungo tutto il disco: sezione ritmica tuonante che spara pesantemente groovy, la voce della Larsson che si staglia su tutto ed un break centrale lisergico e sognante. Componenti semplici quelli del rock, se usati a dovere funzionano sempre, anche se ripetono la stessa lezione all'infinito.
Ci sono tutti gli ingredienti che sanno colpire il cuore di ogni rocker nostalgico dei bei tempi andati. L'hard blues cavalcante e chitarristico alla Fleetwood Mac di Ain't No Change;  il vortice hard rock psichedelico di Devil ManJupiter con il wah wah esasperato della chitarra che lasciano trasparire anche tutto l'amore per la scena stoner rock '90; la psichedelia californiana '60 di River; gli anfratti zeppeliniani della finale Little Sun; la bella e vivace cover di Gypsy brano scritto nel 1973 da Chubby Checker; gli umori cangianti di Black Smoke che parte lenta e sulfurea per diventare serpeggiante e imprendibile; la sognante No Hope Left For Me; la cadenzata, più nera, fumosa, dall'approccio sabbathiano Astralplane.  Non manca nulla. Tutto ben fatto, registrato in analogico ma come deve essere  nel 2014 (lavorone del produttore Don Alsterberg), facendo prevalere la resa live. Impeccabile per un debutto, tanto che il seguito sarà una bella gatta da pelare, anche solo per eguagliarne il risultato.
La versione deluxe oltre a presentare il buon artwork-ripescato direttamente dall'epoca d'oro dei tardi '60- dell' artista e  madrina psichedelica Marijke Koger-Dunham, aggiunge un bonus DVD live registrato al Hammer Of Doom Festival nel 2013, con 7 tracce più un 'intervista.





vedi anche
RECENSIONE: GRAVEYARD-Hisingen Blues (2011)



lunedì 1 settembre 2014

RECENSIONE: MARK LANEGAN BAND (No Bells On Sunday)

MARK LANEGAN  BAND No Bells On Sunday (Flooded Soil/Vagrant Records, 2014)



Non so più come leggere i suoi dischi. Forse bisognerebbe limitarsi ad ascoltare e basta, ma anche questo è diventato un problema vista la massa di canzoni che Mark Lanegan ha riversato sui fan negli ultimi due anni, investito da una bulimia difficilmente controllabile: il più che ottimo Blues Funeral (2012), album vario e coraggioso nel cercare ed esplorare impervie vie elettroniche senza risultare troppo demodè, Black Pudding (2013) con Duke Garwood, una immersione a due nel folk in punta di piedi, la seconda trance di cover in Imitations (2013), viaggio nella sua memoria  fanciullesca, l'inaspettato EP natalizio Dark Mark Does Christmas (2012), dissacrante e riuscito passatempo. E dire che l'anno lo aveva fatto partire più che discretamente con la doppia raccolta Has God Seen My Shadow? An Anthology 1989-2011, arricchita da ben dodici e scuri inediti. Nonostante l'annuncio, l'uscita del nuovo disco Phantom Radio, prevista in autunno (21 Ottobre), sembrava ancora abbastanza lontana per assimilare tutto e riprendere fiato. Ma al Lanegan targato 2.0 piace intasare il mercato e soffocarci. Se questo anticipo di cinque canzoni è solo un divertissement aspettando l'uscita autunnale dell' intero disco, il tutto si può considerare quasi piacevole e sopportabile (sempre nei limiti degli umori "laneghiani", ancora cupi e invischiati nelle acque torbide della vita), se invece vuole essere un assaggio e la linea guida delle prossime canzoni, ci sarà da preoccuparsi un pochino. Il troppo stroppia se non è supportato da un'ispirazione costante e tarata sull'ottimo, ma lo stakanovismo lavorativo prevale su tutto, anzi non accenna a diminuire "adoro lavorare, anche se scrivere e registrare canzoni non lo considero un lavoro".
Lanegan estremizza il lato elettronico presente in Blues Funeral, posseduto da una enfatuazione per Echo And The Bunnymen, Gun Club, Rain Parade come lui stesso ha ammesso, il dubbio che siano scarti di quest'ultimo rimane, salvo poi arrendersi alla realtà: sono scarti del prossimo disco. Ma non era meglio farli uscire dopo? Aumenta l'uso di synth (se fossino ancora negli '80 i rocker girerebbero alla larga) giocando e abusando con il trip hop, usa  marchingeni moderni (applicazione per smartphone chiamata Funkbox) e a risentirne maggiormente è la malata profondità umana delle sue canzoni, percettibile solamente nella persistente tenebrosità post biblica dei testi. Di Leonard Cohen però, ne esiste già uno. Se Sad Lover è un martellante electro rock '90, la più convincente ed esuberante nella sua linearità dritta e sparata, l'inconseuta Jonas Pap si piazza come il suo contraltare folk e minimale. Nel resto il blues diventa contorno sbiadito e la sola inarrivabile voce non basta più a sollevare la noia musicale di tracce lunghe e pedanti (Dry Iced, Smokestick Magic che raggiunge addirittura gli otto minuti). Canzoni allungate come un elastico che quando ritorna in posizione è sfatto e da buttare, arriva pure qualche sbadiglio di troppo, e calcolando che sono solo cinque canzoni, non è cosa bella.
L'unica certezza-e da fan mi spiace pure dirlo- è l'inutilità di questo EP che si trova solo in versione vinile 12 pollici, per ora. EP che avrei bypassato a favore di qualche mese sabbatico (chiedere un anno sarebbe troppo). Il riposo fa bene. Comunque sia, ci si rivede in autunno.




vedi anche
RECENSIONE: MARK LANEGAN-Blues Funeral (2012)
RECENSIONE: MARK LANEGAN-Dark Mark Does Christmas  (2012)
RECENSIONE: ANDI ALMQVIST-Warsaw Holiday (2013)

martedì 26 agosto 2014

RECENSIONE: CORY BRANAN (The No-Hit Wonder)

CORY BRANAN  The No-Hit Wonder (Bloodshot Records, 2014)



Cory Branan è un songwriter dal passo lento, apparentemente distaccato dalla vorace velocità dell'odierno music business, capace di tenere un piede nel pericoloso outlaw country dei seventies, uno appoggiato sull' acceleratore del presente che schiaccia a suo piacimento senza compiacere nessuno, ma riuscendo a stare ben in equilibrio sulla linea della migliore tradizione rock americana, risultando persino sfuggente ad ogni etichetta musicale si voglia appiccicargli addosso. Ne sono testimoni le quattro uscite discografiche ben distese nel tempo: dal debutto The Hell You Say del 2002, passando per 12 Songs (2006) fino al buon Mutt di due anni fa che a tratti giocava nello strizzare l'occhio al miglior Springsteen di metà 70. Poi ci sono le storie: nato tra il Mississippi e Memphis, rapito da Nashville e dalle vecchie canzoni di John Prine a cui ha aggiunto la giusta dose d'irruenza, la sfacciataggine rock della sua generazione, e l'ironia sbeffeggiante a cui queste nuove undici tracce non sfuggono. Negli ultimi tre anni è diventato marito e padre ma la scrittura non ne ha risentito più di tanto, acquistando piuttosto le tenui sfumature della maturità. Maturo sì ma sempre arcignamente guascone (The Only You) e irriverente: uno tipo sempre piuttosto scomodo e da prendere con le molle. Arricchito dalle nuove esperienze, forse più convenzionali e romantiche ma ugualmente eccitanti se raccontate  come succede nell' honky tonk  d'apertura You Make Me, dedicata alla fresca moglie e cantata insieme all'ospite Jason Isbell, o in quella Daddy Was A Skywriter che allunga la mano verso il Ry Cooder di frontiera, le sonorità zydeco con l'armonica a serpeggiare e il testo a declamare l'importanza che i genitori hanno avuto nella sua vita. La famiglia è completa.
Disco più rootsy rispetto al precedente. Il country di All The Rivers In Colorado si adagia sulla steel guitar e vede Caitlin Rose e Austin Lucas ai cori, C'mon Shadow è un altro lieve acquerello country suonato in punta di dita; All I Got And Gone, un soffuso valzer notturno; mentre la finale Meantime Blues è un folk acustico e solitario, The Highway Home è un folk rock corale dove ai prestigiosi musicisti della band viene dato il giusto spazio per mettersi in mostra. Suonano: John Radford (Justin Townes Earle) alla batteria, Sadler Vaden (400 Unit, Drivin N Cryin) alle chitarre, Audley Freed (The Black Crowes) alle chitarre e Robbie Turner (Waylon Jennings, Charlie Rich) alla steel guitar.
Non mancano comunque le veloci scorribande in discesa senza freni: l'irriverente attacco cow punk della tittle track, un cavalcante manifesto suonato con i membri dei The Hold Steady Craig Finn e Steve Selvidge, un omaggio alla vita "on the road" di tutti quei musicisti che lottano ogni giorno per arrivare o Sour Mash con Tim Easton alle voci, un veloce trenino che sbuffa fumoso e alticcio hillbilly country, quello che piacerebbe a Johnny Cash, tanto da aspettarsi la materializzazione del man in black alla prima fermata.
Disco vario e piacevole che conferma il quarantenne Branan come uno dei migliori narratori  del moderno ma eternamente "vecchio" cantautorato americano.



RECENSIONE: CORY BRANAN-Mutt (2012)
RECENSIONE: JASON ISBELL-Southeastern (2013)
RECENSIONE: BILLY JOEL-A Matter Of Trust-The Bridge To Russia (2014)
RECENSIONE: BILLY JOE SHAVER-Long In The Tooth (2014)
RECENSIONE: TOM PETTY and THE HEARTBREAKERS-Hypnotic Eye (2014)
RECENSIONE: MALCOLM HOLCOMBE-Pitiful Blues (2014)

lunedì 18 agosto 2014

RECENSIONE: JACKSON BROWNE (Late For The Sky)

JACKSON BROWNE  Late For The Sky (Inside Recordings/Rhino Records/Warner, 1974/2014)


Quando un disco è perfetto c’è dopo da aggiungere. E’ quello che deve aver pensato Jackson Browne quando ha messo mani a questa riedizione del suo capolavoro (rimasterizzata dai nastri analogici originali), nata per celebrare  i quarant’anni dall’uscita e fortemente voluta dallo stesso autore, nell’anno in cui egli stesso è stato tributato dai colleghi (Bonnie Raitt, Lyle Lovett, Ben Harper, Bruce Springsteen, Lucinda Williams, Bruce Hornsby tra i tanti) nel bel doppio disco Looking Into You, e che vedrà l'uscita (7 Ottobre) del nuovo album in studio Standing In The Breach atteso fin dal 2008, quando uscì l'ultimo Time The Conqueror.
Nessun proclama altisonante, nessuna bonus track, nessuna traccia live del periodo a rimpolpare. Bastano le canzoni e la iconografica copertina di Bob Seidmann, arrivata in ispirazione a Browne prendendo spunto dall' opera L'Empires Des Lumieres del pittore belga  Rene Magritte, e divenuta simbolo di un periodo florido dal punto di vista musicale quanto amaro da quello personale. Quel poco in aggiunta sono i testi, mai apparsi in nessuna edizione precedente anche se da sempre ben vividi nella memoria dei fan. E qui i testi contano, perché dietro a canzoni che potrebbero nascondere le debolezze sentimentali dell’autore, le perdite (amorose nella struggente title track, le amicizie in For A Dancer) si nascondevano le sconfitte-un anno dopo, sua moglie si tolse la vita- le incertezze ("non mi è chiaro quello che voglio dire" canta in Farther On) di una intera generazione che aveva smarrito la via maestra e all’orizzonte vedeva il nero di una apocalisse travestita anche da incubo nucleare, la finale Before The Deluge diverrà un inno in tal senso, traghettando Browne verso la creazione del movimento MUSE (Musicians United For Safe Energy) e gli importanti concerti No Nukes del 1979 che coinvolsero tanti amici musicisti.
Tutto scorreva su canzoni che troppo frettolosamente qualcuno battezzerà soft rock, ma che pesavano come macigni. Altro che leggerezza. Ballate amare dove la chitarra di David Lindley era in grado di far uscire il sole californiano (il graffiante rock'n'roll da viaggio di The Road And The Sky, il funk/reggae di Walking Slow) o far cadere amara pioggia di lacrime (The Late Show). Jackson Browne fu uno dei più fulgidi poeti di quel periodo, capace di mantenere, nel tempo, il fisico e quell’aria da eterno ragazzo californiano (anche se nato in Germania) ma lasciare gran parte dei sogni e un po’ dell’ispirazione migliore (che continuerà almeno fino a Hold Out-1980, con gli splendidi The Pretender-1976 e Running On Empty-1977 in mezzo) impacchettati nel sedile posteriore di quella chevrolet eternamente parcheggiata in quel tipico viottolo americano di L.A.-ma con i cieli del Messico (fotomontaggio ahimè)-davanti a quel lampione dalla luce sempre più fioca, ma non ancora spento del tutto.

 

vedi anche
RECENSIONE: BILLY JOEL-A Matter Of Trust-The Bridge To Russia (2014)
RECENSIONE: BILLY JOE SHAVER-Long In The Tooth (2014)
RECENSIONE: TOM PETTY and THE HEARTBREAKERS-Hypnotic Eye (2014)
RECENSIONE: MALCOLM HOLCOMBE-Pitiful Blues (2014)



lunedì 11 agosto 2014

RECENSIONE: MALCOLM HOLCOMBE (Pitiful Blues)

 MALCOLM HOLCOMBE  Pitiful Blues  (Gypsy eyes Music/IRD, 2014)



Puoi alzarti una mattina d'agosto con poca voglia di mettere i piedi fuori da casa. Con la noia in primo piano, fastidiosamente appiccicata agli occhi. Guardare fuori dalla finestra e vedere nuvoloni neri, minacciosi, presagio di tempesta, portatori insani di mal vivere. No grazie, resto in casa. Poi ti ricordi di aver messo da parte un disco per l'ascolto, forse attendendo l'arrivo del suo momento. Vi succede mai? Quando partono le visioni quasi bibliche di Pitiful Blues (la canzone) ti accorgi che il momento giusto per ascoltarlo era proprio quello: alle sei di mattina, le braccia allungate per un pigro stiracchio, i piedi nudi sul pavimento, lo sguardo perso, la finestra sul balcone è ancora aperta e lascia entrare una brezza troppo fresca per essere estiva, troppo calda per essere autunnale, ma abbastanza troppo di tutto per creare un certo smarrimento complessivo, una bussola impazzita che non vuole trovare la stabilità, mentre dietro una voce grezza, tormentata, baritonale e vissuta canta: "I sit around the table pray down on the floor/swear i'm gonna go to war and suffer nevermore/it's an eye for an eye and a tooth for a tooth/i aint learned nuthin' but the poor me pitful blues/i aint learned nuthin' but the poor me pitful blues". Ok, mi dico, c'è gente messa peggio di me, ci sono soldati impegnati in battaglie ben più dure da portare a casa. E non sto parlando di sole guerre armate. Affrontiamo la giornata. Malcolm Holcombe la sa lunga sulla vita, nonostante una carriera decollata solo in prossimità dei quarant'anni, con la sola voce potrebbe mangiarsi in un boccone metà di tutti quei cantautori che spuntano come funghi fuori stagione, soprattutto nei giorni piovosi di un' estate nefasta come questa. Troppo falsi e in anticipo per essere buoni. Quei funghi, quei cantautori. Holcombe ha la scorza dura di chi ha sceso le verdi colline delle Blue Ridge Mountains in North Carolina per cercare più fortuna in città (Nashville), trovando spesso più disagi che beltà (l'alcolismo è stata una piaga dura da sconfiggere, la depressione pure) ma le tante verità che ha raccolto riesce a raccontarle con la naturalezza dei puri. Sopravvissuto all'illusione del successo promesso, ma mai arrivato concretamente,
Holcombe ha sia l'onestà che la sapienza concessa a pochi, la capacità di non costruire arsenali davanti alla voce che potrebbe bastarsi da sola: una chitarra fingerpicking, belle chitarre dobro, un banjo, un violino costruiscono ballate folk/country nella struttura, ma blues giù fino al profondo dell'anima. Tanto scure, amare quanto raggianti e speranzose. Non ci sono arsenali nemmeno a dividere le esperienze di vita dalle canzoni. E' un tutt'uno che si percepisce all'istante, senza traduzioni, nonostante la complicata enigmaticità di alcuni testi. Registrato in presa diretta tra la sua casa a Swannanoa e gli studi di Tulsa con l'inseparabile produttore e musicista Jared Tyler (anche al dobro) così come deve essere fatto con canzoni come le sue, pure come flusso d'acqua corrente  e dirette come frecce d'amore puntate al centro del cuore: l'attacco politico nel desolante western By The Boots, la solitudine nella desertica Savannah Blues, i sogni infranti di Another Despair, il gioco di squadra strumentale nei rimpianti amorosi lunghi come il corso del Mississippi in Sign For A Sally. Tutto funziona a meraviglia. Che meraviglia.
Canzoni come Roots, le antiche pagine di ricordi in bianco e nero nell'appalachian spoken folk di Words Of December, la finale For The Love Of A Child lasciano dietro di loro le scie del vissuto come una lumaca lascia la scia di viscoso muco dietro di sè. Potrai cancellarne i segni con la forza, strofinando forte con un colpo di suola, ma il percorso è già stato fatto: impresso indelebile nel corpo, sfatto e consumato dall'usura, e tatuato nell'anima, ancora brillante e dorata. Sembra quasi estate. Oggi esco. Un dieci più che meritato.





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martedì 5 agosto 2014

RECENSIONE: BILLY JOE SHAVER (Long In The Tooth)

BILLY JOE SHAVER  Long In The Tooth (Lightning Rod Records, 2014)


Manca solo il fodero con le pistole. Il ritratto fotografico in copertina, creato dal noto fotografo Jim McGuire, è così semplice, e per questo magnifico, che riesce a inquadrare tutta la vita di Billy Joe Shaver. Se non lo conoscete e la foto non vi lascia abbastanza input, potete sempre leggere la bella introduzione di Steve Earle che inizia così: "se un giorno Dio si svegliò e decise di fare di sé un cantautore, fu un mattino del 16 Agosto del 1939..." oppure alcune frasi di Bob Dylan, Kris Kristofferson, Willie Nelson e Tom T. Hall raccolte nel tempo che ne esaltano la carriera musicale, tutte presenti nel booklet come autocelebrativa garanzia di qualità, unite alle dichiarazioni di Shaver che accompagnano l'uscita " ...il miglior album che abbia mai registrato". Oppure recuperare qualche quotidiano texano della primavera del 2007 che ne racconti le gesta di spericolato pistolero intento a sistemare, a modo suo, un diverbio fuori dal Papa Joe's Texas Saloon di Lorena (Texas). Per la cronaca: venne assolto per legittima difesa dopo aver conficcato un proiettile in testa ad uno sventurato avventore che lo aveva provocato. Manca solo il fodero con le pistole. L'ho già detto. La cosa migliore, però, è ascoltare la prima traccia Hard To Be An Outlaw cantata insieme al vecchio amico Willie Nelson, canzone presente anche nel fresco disco Band Of Brothers di quest'ultimo. Metafora che usa il vecchio west per attaccare la nuova industria country americana e rivendicare con orgoglio la paternità di un certo modo di suonare e vivere la country music. Se lo dicono due leggende come loro, crediamoci e sosteniamoli. Billy Joe Shaver ha superato tutti i gradini della scala della vita, non tralasciando nemmeno quelli più insidiosi, scricchiolanti e traballanti; il suo piede è spesso inciampato, sprofondato ma ha trovato sempre il gradino successivo, tanto da arrivare a 75 anni  con lo spirito da combattente ancora vivo e pulsante. Ascoltando The Git To avrete in soli quattro minuti tutta la sua visione del mondo.
La biografia in poche e basilari tappe spiega molto: cresciuto dalla sola madre e dai nonni dopo essere stato abbandonato in fasce dal padre, giovanissimo lavora prima nei campi di cotone degli zii, poi in una segheria e proprio lì ci lascia due dita (lo stampo di quella mano monca che appare sul retro copertina è proprio il suo), dopo il servizio militare in marina si gioca la personale carta musicale trasferendosi a Nashville. Le sue canzoni piacciono così tanto da essere interpretate dai più grandi: Elvis Presley, The Allman Brothers Band, Johnny Cash. Waylon Jennings ci fa addirittura un intero disco, l'epocale Honky Tonk Heroes. Il debutto solista arriva nel 1973 con Old Five And Dimers Like Me, e da allora entrerà in quella ristretta cerchia di eroi del country fuorilegge, con la buona compagnia di Hank Williams, Waylon Jennings, Willie Nelson, Kris Kristofferson, Merle Haggard, Johnny Cash, Guy Clark, Townes Van Zandt, Steve Young, per rimanere ai più noti.
Gli anni settanta saranno caratterizzati dagli spettri di alcol e droghe fino ad una decisa conversione religiosa che gli salverà la vita e influenzerà l'attività musicale a venire che riprende a correre veloce grazie soprattutto all'aiuto del promettente figlio Eddy, fino a subire nuovamente uno stop con  l'inaspettata morte per overdose (suicidio?) di quest' ultimo, avvenuta a soli 38 anni nel capodanno del 2000 e la scomparsa della madre e della moglie nel giro di due anni. Ne sono invece passati sette dall'ultimo disco di inediti Everybody's Brother, ma ne è valsa la pena. Sembra che sia stato Todd Snider, uno dei discepoli più credibili, a spingerlo nuovamente in sala d'incisione in compagnia della Can't Hardly Playboys Session Band, composta da Dan Dugmore, Michael Rhodes, Jedd Hughes e Lynn Williams, e dei produttori Ray Kennedy e Gary Nicholson.
Long In The Tooth è un disco piacevolissimo dall'inizio alla fine, bilanciatissimo. Da una parte l'elettricità combattiva spalmata sul lento incedere di Long In The Tooth con la chitarra  di Tony Joe White e lo straniante scacciapensieri suonato da Mickey Rafael, e poi quei caratteristici honk tonk su cui ha scritto la carriera, e che gli escono come troppe noccioline in una tasca: Sunbeam Special corre sbuffando come un treno, ma indietro con la memoria, Last Call For Alcohol ospita il piano di Leon Russell e il violino di Larry Franklin, Checkers & Chess non indugia troppo per mostrare da che parte sta la sua coscenza "sto giocando a dama mentre loro giocano a scacchi/ l'uomo ricco ruba i soldi/il povero si prende la colpa".
Dall'altro lato, i mansueti segni del tempo: I'll Love You As Much As I Can e I'M In Love sono romantiche ballate d'amore che strizzano l'occhio ai '50, American Me è un border ballad da viaggio, a ritmo di valzer, una cosa alla Tom Russell con la fisarmonica di Joel Guzman ospite, mentre la finale Music City USA è un atto di fede totale verso la musica country, un cammino sicuro e totalizzante. "...tutto è iniziato in questa piccola città giù nel profondo Texas/quando ascoltò il vecchio Johnny Cash che cantava country blues/ogni sera prese la sua chitarra e iniziò a leggere riviste country..."
Disco vero, genuino e schietto come l'autore. Da playlist di fine anno (la mia s'intende). "Scrivere canzoni può essere un'esperienza straziante, ma se si scava verso il basso e si è veri e onesti si trova qualcosa di veramente grande. Credo che ognuno dovrebbe avere la possibilità di scrivere. È lo psichiatra più economico che c'è e Dio lo sa...". Parola di Billy Joe Shaver.






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vedi anche RECENSIONE: TOM PETTY and the HEARTBREAKERS-Hypnotic Eye (2014)

giovedì 31 luglio 2014

RECENSIONE: TOM PETTY & THE HEARTBREAKERS (Hypnotic Eye)

TOM PETTY & THE HEARTBREAKERS  Hypnotic Eye (Reprise Records/Warner, 2014)



Qualche anno fa, all'uscita dei nuovi dischi dei miei rocker americani preferiti, speravo sempre di sentire le chitarre esplodere, speravo che le canzoni rock prevalessero su tutto il resto, forse perché l'ascolto prolungato di hard/heavy mi cambiava le prospettive, tanto da cercare le stesse cose anche tra le pagine dei grandi songwriter statunitensi (e di quel canadese). Allora anche una canzone come Murder Incorporated di Springsteen diventava un piccolo must. Oggi, complice l'età (?), le esperienze, gli ascolti, cerco le "canzoni", che siano acustiche, ballate, suonate con un violino che accompagna o con il solo pianoforte. Hypnotic Eye qualche anno fa mi sarebbe piaciuto al primo ascolto, alla prima canzone, al primo riff di chitarra. Ora devo faticare. Gli ascolti devono aumentare. Alla fine vince il disco nella sua globalità (quindi non è una bocciatura, più una seccatura), ma che fatica. L'invettiva di American Dream Plan B fa partire tutto in quarta. Combattiva fin dal suo messaggio "difendiamo il nostro sogno". Eppure...eppure quelle chitarre sature e pesanti-entro i limiti, sia chiaro- (che nemmeno i peggiori Metallica "alleggeriti"di Load) non mi convincono, ricordandomi quando negli anni '90 tutti cercavano di salire sul carrozzone grunge inspessendo le chitarre, pochi erano credibili-tra i più credibili gli inarrivabili King's X di Dogman (consigliato)-cose già sentite mille volte, su mille dischi, benché le note escano da uno dei più grandi e sottovalutati chitarristi della sua generazione: Mike Campbell, classe 1950, una vita spesa all'ombra di Petty, uno che si prende per mano gli Heatbreakers e li porta dove vuole, tanto da offuscare spesso la stella del capo, soprattutto in questo disco. Quasi, il "suo" disco. Un mare di chitarre dall'inizio alla fine. Ma le canzoni? Da Tom Petty voglio le canzoni. Dopo tanti ascolti nessuna mi è rimasta veramente in testa. Ma come? Uno che ci ha lasciato in eredità American Girl, Free Fallin, Mary Jane's Last Dance, I Won't Back Down, You Got Lucky, Listen To Her Heart, Learning To Fly e qui mi fermo. Petty abbandona da qualche parte quel piacevole bagaglio power pop '60 e a risentirne sono la melodia, i cori, i ritornelli, i Byrds, la leggerezza. Musica orfana. In verità lo sta già facendo da molti anni, tanto che la discografia si può dividere in un avanti e dopo Rick Rubin (produttore di Wildflowers-1994). Fortunatamente non tutto il disco segue il cammino della prima traccia, il pericolo è per metà scongiurato, e un grigio e ombroso Echo o un cinico The Last Dj li aveva già incisi qualche anno fa, e lì ci stavano da Dio. Da rivalutare entrambi comunque.
L'anima da garage band, quella degli esordi (alla Mudcrutch), salta fuori e prevale quasi sempre, spirito che fa suonare con vigore giovanilistico, ora veloce e sfuggente come in Fault Lines, svolazzante e psichedelico negli assoli che Campbell semina in Red River, tra le migliori tracce del disco nel suo essere "alla Tom Petty" e con la giusta coesione tra tutti i membri degli Heartbeakers, con melodia e grinta che viaggiano accomunate " vediamoci stasera al fiume rosso/dove l'acqua è limpida e fredda/vediamoci stasera al fiume rosso/e guardiamo giù nella tua anima", così come in All You Can Carry, altra canzone ostinata dove ci consiglia di lasciare il passato alle spalle "prendi ciò che puoi, tutto quello che puoi portare/prendi ciò che puoi e lascia il passato alle spalle/dobbiamo correre" e in U Get Me High che ha i riff di ultima generazione alla Keith Richards, il basso di Ron Blair ben presente (veramente martellante in tutto il disco), ma la voce non è di Mick Jagger.
Il voler tornare al passato, però, gioca anche brutti scherzi: nel 1977 c'era American Girl, ora c'è Forgotten Man. Cambiano i tempi, rimane il suono, un beat alla Bo Diddley con un bel assolo centrale di Campbell, la ragazza ha lasciato il posto alla disperazione dell'uomo in difficoltà. La differenza? Quella vecchia la ricorderemo ancora fra cent'anni, quella nuova temo di no. Spero di sbagliarmi.
Quando uscì Mojo, ultimo disco nel 2010, mi affrettai a definirlo un grande ritorno al rock, ma più esattamente era un tuffo libero nel blues anche sognante e psichedelico (non ho mai capito tutta l'indifferenza che l'ha accompagnato, gran peccato) lo stesso che compie nella deludente Burnt Out Town, un blues pestone ma talmente canonico, stanco che pare anche un po' finto, sentito mille volte, anche nell'ultimo Dylan (lì, pare più vero), che se non ci fosse, nessuno la cercherebbe. Si salva la prova di squadra con l'armonica di Scott Thurston protagonista.
 Poi esistono episodi che si staccano dal contesto raccontato fin qui, aggiungendo varietà al disco, ma non l'immortalità al suo canzoniere: come la jazzata e sinuosa Full Grown Boy portata avanti dai delicati tasti di Benmont Tench- va bene che quest'anno ha fatto uscire il suo primo e discreto disco solista You Should Be So Lucky, ma lui è il vero assente in queste canzoni- il funk ora serpeggiante ora pompato e squassante di Power Drunk, la morbidezza dai sapori quasi latini di  Sins Of My Youth. Mentre la lunga  Shadow People è l'oscuro, intimidatorio, sinuoso e epico finale, prova di squadra compatta e convincente (completa la formazione il lineare drumming di Steve Ferrone).
Hypnotic Eye è il vero ritorno al rock, un disco di muscoli scagliato contro il mondo materialista dei nostri giorni e schierato dalla parte degli ultimi emarginati, conseguenza e seguito ancora più estremo rispetto al predecessore, anche se penalizzato da una produzione satura che avrei evitato.
Petty ci dice "ho impiegato molti anni a scrivere undici canzoni", nel frattempo è sbarcato per la prima (unica?) volta in Italia, lasciando il segno e la fioca speranza di un ritorno. Hypnotic Eye farà faville in sede live, sempre che vogliate sacrificare qualche successo dalla vecchia setlist per far posto ai brani del nuovo album. Ma questo non è solo il problema di Petty ma di tutti i grandi con un passato importante di "canzoni" alle spalle. Ecco, le canzoni...Un pesante calcio in culo (che conferma gli Heartbreakers come una delle migliori band di classic rock sulla terra) dato più per istinto, che con una vera motivazione che faccia ricordare la lezione.




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vedi anche NEIL YOUNG & CRAZY HORSE live @ Barolo (CN), Collisioni, 21 Luglio 2014
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martedì 22 luglio 2014

NEIL YOUNG & CRAZY HORSE live@Barolo (CN), Collisioni, 21 Luglio 2014

 











SETLIST: Love And Only Love/Standing In The Light of Love/Goin' Home/Days That Used To Be/Living With War/Love To Burn/Name Of Love/Blowin' In The Wind/Heart Of Gold/Barstool Blues/Psychedelic Pill/Cortez The Killer/Rockin' In The Free World/Who's Gonna Stand Up And Save The Earth


RECENSIONE:
“Grande Neil…ma la scaletta? Sì ma…la scaletta?”. Questo il tormentone  che ho sentito di più ieri sera e oggi. La setlist? Coerente con la “coerente” incoerenza di tutta la carriera. Strafottente esuberanza nel continuare a fare, suonare, cantare quello che ha in testa, senza compiacere nessuno (eppure ci ha regalato la t-shirt “Earth”, la stessa che indossava sul palco. Grazie). Con tutti i piacevoli difetti inchiodati ai ferri del cavallo pazzo: un “Poncho” Sampedro compagnone in vena di scherzi  che mostrava il dito medio dalla sua t-shirt personalizzata, un Ralph Molina quasi invisibile dietro ai suoi tamburi, un defilato e serafico Rick Rosas con l’arduo compito di sostituire l’assente Billy Talbot, due coriste a intensificare i cori e dare una pennellata soul ai feedback della vecchia Old Black di Young.
Neil Young non canta ciò che vuoi, fa quello che sente. In questa setlist ci ho visto un accorato messaggio di pace, amore e distensione in giornate con il mondo attento, sconvolto, indignato ma  impotente davanti alle sciagurate notizie che provengono da Russia e Israele. Così anche canzoni apparentemente di serie B o C del suo vastissimo repertorio rivivono con il significato aggiornato al 2014. ‘Living With War’ uscì nel 2006, un canto di protesta, elettrico, spontaneo e urlato in faccia al presidente degli Stati Uniti  George W.Bush e la sua assurda guerra in Iraq- allora era Bush, ora scegliete voi-questo il senso; ‘Name Of Love’ (prima che un’altra bomba esploda, fallo nel nome dell’amore/prima che un altro missile voli, fallo nel nome dell’amore/per ogni ragazzo e ogni ragazza, fallo nel nome dell’amore), un vecchio semplice, buonista e un po’ retorico pallino di Young,  addirittura ripescata dal “così e così” ‘American Dream’ (1988) (a me è sempre piaciuto e me la sono cantata tutta), disco di quella reunion tra CSNY promessa a Crosby dallo stesso Young come “premio” per un  eventuale rinascita  dalla disgraziata vita in cui era caduto Croz in quegli anni; l’incedere tribale di ‘Goin’Home’ con le metafore sempre calzanti, è l’unica traccia di ‘Are You Passionate?’ che vede i Crazy Horse nei credits, disco uscito all’indomani dell’11 Settembre-suonata con la stessa intensità con cui avrebbero suonato una più nota ‘Cinnamon Girl’( che non c’è, naturalmente). Per tutti  ci sono le due canzoni acustiche a metà concerto (le più famose e scontate della serata): risposte che soffiano nel vento da circa cinquant’anni e nessuno è ancora stato in grado di acciuffare e un cuore d’oro ancora tutto da conquistare che allevi la solitudine, altrettanto difficile, ma alla portata di tutti noi comuni mortali. Per il resto dell’universo c’è la versione monstre di ‘Cortez The Killer’…

lunedì 14 luglio 2014

RECENSIONE: RIVAL SONS (Great Western Valkyrie)

RIVAL SONS  Great Western Valkyrie (Earache Records, 2014)



Anche se il loro Pressure And Time (2011) può tranquillamente essere considerato tra le migliori uscite di classic hard rock degli ultimi dieci anni, un debutto folgorante (il primo disco vero e proprio fu l'autoprodotto Before The Fire del 2009) i Rival Sons non sono per nulla appagati e non accennano a frenare in corsa. Si vestono a festa, si mettono in posa, ma picchiano ancora duro con gusto e classe d'altri tempi, continuando un processo di miglioramento che sembra non conoscere limiti, quasi i tour fossero un collante necessario all'ispirazione e proprio nei loro dischi cercano di catturare in tutto e per tutto quella carica e il fervore sprigionati sopra al palco. Il poker iniziale è quanto più di incandescente e suadente si sia ascoltato di recente: la bruciante Electric Man attacca a spron battutto ("I'm Electric, Yes I Am", cantano in Electric Man, tutto molto rock'n'roll senza alte pretese liriche ovviamente), Good Luck è un persuasivo rock zeppeliniano fino al midollo, shackerato con la carica della ultima garage band rimasta in terra, Secret una tirata quasi purpleiana nel suo cavalcare e sciamanica nello rispolverare i resti di Jim Morrison abbandonati sulla vecchia credenza, Play The Fool prende in prestito addirittura l'inciso di Misty Mountain Hop, un piccolo furtarello, questa volta un po' evidente, che si fa immediatamente perdonare.
Se togliete le recenti ristampe dei Led Zeppelin (fuori concorso per ovvie ragioni di onnipotenza) non vi rimane che tuffarvi dentro a un disco che il cantante Jay Buchanan si prende immediatamente per mano e conduce con gran piglio da leader dall'inizio alla fine tra spettacolari tirate (Open My Eyes, Belle Starr) e momenti dove a prevalere è il lato blues e soul, uno dei loro punti di forza che li differenzia da buona parte del retro rock imperante: magniloquente, sentita, calda e notturna è Good Things dove il chitarrista Scott Holiday ricama di fino tra blues, anima, magia e il corso del destino, trascinata da un hammond è Rich And Poor che richiama nuovamente lo spirito dei Doors, bucolica la ballata Where I've Been che tradisce la loro provenienza californiana dopo tanto british rock e la registrazione in quel di Nashville-ancora con il produttore Dave Cobb- lo sottolinea ulteriormente. Fino all'epico, psichedelico e tenebroso finale Destination On Course con la lunga coda jammata che mi da l'opportunità di segnalare la sezione ritmica (Michael Miley e il nuovo entrato David Beste): micidiale.
Le orecchie attente vi segnaleranno i tanti rimandi sparsi lungo il disco, date loro ascolto, fate un cenno con il capo ma fregatevene. Tradizionali, spregiudicati, avvolgenti, sensuali, senza tempo, concisi (dieci canzoni dieci e nessun filler inutile). Con buona pace  di chi le orecchie le ha lasciate sopra a qualche disco pre 1975, in questi solchi (ah il vinile sarebbe adatto qui) viaggia il miglior classic rock dei nostri giorni. Un peccato mortale non accorgersene per troppo snobismo.



vedi anche RECENSIONE: RIVAL SONS-Pressure & Time (2011)
vedi anche RECENSIONE: RIVAL SONS-Head Down (2012)
vedi anche RECENSIONE: NAZARETH-Rock'N'Roll Telephone (2014)
vedi anche RECENSIONE: TOM PETTY & THE HEARBREAKERS-Hypnotic Eye (2014)



martedì 8 luglio 2014

JOHN FOGERTY live@Milano, Ippodromo Del Galoppo, 7 Luglio 2014





SETLIST: Hey Tonight/Green River/Who'll Stop The Rain/Born On The Bayou/Lodi/Ramble Tamble/Penthouse Pauper/Midnight Special/I Heard It Through The Grapevine/Lookin' Out My Back Door/Hot Rod Heart/Susie Q/Mystic Highway/Long As I Can See The Light/Cotton Fields/Have You Ever Seen The Rain?/New Orleans/Keep On Chooglin'/Rock and Roll Girls/Down On The Corner/Up Around The Bend/The Old Man Down The Road/Fortunate Son/Rockin' All Over The World/Bad Moon Rising/Proud Mary

venerdì 4 luglio 2014

RECENSIONE:CHRIS CACAVAS & EDWARD ABBIATI (Me And The Devil)

CHRIS CACAVAS & EDWARD ABBIATI  Me And The Devil (Appaloosa Records/IRD, 2014)



Ci sono dischi che possiedono il fascino già celato nella copertina e nel titolo. Me And The Devil è uno di questi. L'occulto significato dentro a quei tarocchi cela la vita e questo disco mette in primo piano la voglia di vivere, di viaggiare con i piedi e con la mente, tra la polvere e gli astri, con il diavolo sempre al fianco, ora silente e complice ora ghignante e beffardo. Affascina e mette "la voglia" già da lì, da quelle bizzarre nove carte calate sul tavolo. Poi sfili un Cd, il primo che trovi all'interno del digipack e ti metti all'ascolto: splendide canzoni lo-fi, solo chitarre acustiche e voci che si alternano, si uniscono splendidamente, bisticciano, registrate "buona alla prima" con rumori e vociare in sottofondo, sbagli inclusi, imperfezioni pure. Ma rimani incantato, attratto da un magnetismo quasi arcano. Un fluire continuo. Vero. Che canzoni. Tutte splendide. Tutte scritte da Chris Cacavas, da anni trapiantato in Germania, un buon numero di dischi solisti ma soprattutto ex tastierista e fondatore dei Green On Red, una delle migliori scommesse americane degli anni ottanta-scommessa vinta naturalmente ma poteva andare ancora meglio- gruppo che, come molti di quella generazione, non durò mai abbastanza ma il dovuto per entrare nel culto e lasciare il segno all'interno di quel movimento nominato Paisley Underground e lanciare personaggi di tutto rispetto come Dan Stuart, Chuck Prophet e Cacavas naturalmente; e poi Edward Abbiati, sangue metà italiano metà inglese, voce e chitarra dei Lowlands uno di quei gruppi per cui andare fieri d'essere italiani, anche se non li troverete mai nelle pagine musicali dei quotidiani nostrani che tirano, band pavese tosta e arcigna con il piede nel presente, il cuore nel passato, e la fama internazionale più grande di quella nazionale.
Mentre ascolto, leggo le note del CD accorgendomi che c'è qualcosa che non torna. Sono citate una band, composta da due pezzi da novanta come Mike "Slo-Mo" Brenner al basso e Winston Watson alla batteria, musicista che vanta collaborazioni con Bob Dylan, Bob Marley,Warren Zevon, Giant Sand nel curriculum, più una buona dose di ospiti. Quando è tutto più chiaro mi accorgo di avere inserito il bonus disc, omaggiato solamente nella edizione limitata (un vero peccato che tutti non possano ascoltarlo), che presenta la nascita delle canzoni, il work in progress registrato con mezzi di fortuna (un telefonino) nell' abitazione di Abbiati dai soli Cacavas e il padrone di casa. Lascio finire le canzoni-un peccato interrompere il mood che si era instaurato-cambio il CD: i protagonisti si spostano da casa Abbiati e si rifugiano per soli cinque giorni nella cascina dietro l'angolo in quel di Pavia, la band li segue. Questo per dire quanto le buoni canzoni funzionino anche così spartane, e ve lo dice uno che ha trovato del buono in quell'opera bizzarra-e maltrattata- a titolo A Letter Home (poteva essere un bonus disc pure quello, è vero), l'ultima uscita di Neil Young. Non crocifiggetemi.
Tutto cambia e tutto resta uguale. Gli spazi vuoti vengono riempiti, la battente Against The Wall è un mantra ipnotico che detta i tempi del disco: fuoco che arde lentamente per crescere e bruciare, qui alimentato dal sax di Andres Villani, scheggia impazzita che si insinua tra i solchi; altrove, come nella successiva Me & The Devil  ci pensano l'armonica di Richard Hunter e le tastiere di Cacavas a tenere accessi i tizzoni dell'immortale blues: una perenne, ipnotica e sospesa danza. Accenti ispanici alla Calexico (Oh Baby, Please) che fanno a cazzotti con Long Dark Sky, la scarica rock più incisiva del disco, scheletriche e desertiche vie che piacerebbero a Howe Gelb (Can't Wake Up), fascinosi, misteriosi e notturni allunghi west coast alla Neil Young annata '74 (The Other Side), Hay Into Gold con il cello di David Henry, passeggiate lievi e delicate (The Week Song, I'll See Ya) e dolci sussurri accompagnati dalla Lap Steel di Mike Brenner nel country conclusivo (Rest Of My Life).
Dividere credits e meriti con la parte internazionale del disco è d'obbligo, ma Me And The Devil si candida, fin da ora, a diventare una tra le migliori uscite italiane dell'anno. Il feeling, la spontaneità e l'ispirazione che si percepiscono lungo la strada sono reali: un allungo visionario, desolato e cocente. Intrigante.




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