domenica 30 giugno 2024

RECENSIONE: STEVE CONTE (The Concrete Jangle)

 

STEVE CONTE  The Concrete Jangle (Wicked Cool Records, 2024)


rock'n'roll solo rock'n'roll


Sarebbe veramente un delitto lasciar passare questo 2024 senza nominare uno dei migliori dischi di schietto e spavaldo rock'n'roll usciti in questi mesi. Sappiate che Ian Hunter che partecipa ai cori in una canzone scrive nello sticker che accompagna la copertina:"grandi voci, armonie, arrangiamenti, produzione e chitarre", sembra tutto perfetto per il vecchio Ian! Steve Conte, con una mamma jazzista e battezzato in giovanissima età da un concerto di Chuck Berry, non ha bisogno di troppe presentazioni: chitarra nella seconda vita dei New York Dolls, dell'attuale band di Michael Monroe e di altre decine di artisti con i quali ha collaborato e suonato. In questo disco che esce per la Wicked Cool Records di Steve Van Zandt (anche questa è una garanzia visto i gusti "vintage" del piccolo Steven) che inizialmente fu anche il primo prescelto come produttore ma alla fine ha fatto tutto Conte. Ma le sorprese non finiscono visto che il disco si divide in due facciate abbastanza distinte. Un lato A che vede la partecipazione di Andy Partridge degli XTC come co-autore nelle cinque canzoni che battono la strada del rock'n'roll stradaiolo ('Fourth Of July', 'Hey, Hey, Hey (Aren't You The One)'), del glam dal chorus contagioso ('We Like It'), del power pop ('Shoot Out The Stars') e delle strade più ardite come in 'One Last Bell' con la tromba di Chris Anderson a disegnare traiettorie. La collaborazione con Partridge sembra un sogno che di avvera per Steve Conte, da sempre fan degli XTC: "Andy è il mio eroe del rock 'n' roll e del cantautorato".

Il lato B si apre con uno scatenato omaggio alla musica uscita dalla città di Detroit ('Motor City Love Machine'), una 'Girl With No Name' omaggio al r&b sixties, la melodica 'All Tied Up' sembra uscire dalla migliore stagione del Jersey Sound caro a Little Steven e al suo "capo", ma poi a prevalere sono due esercizi beatlesiani come 'I Dream Her' e 'Decomposing A Song For You' con i suoi fiati che soffiano vento british.

Peccato siano solo 34 minuti perché di sano e vecchio rock'n'roll così non ci si stufa mai. Ottimo disco.






sabato 22 giugno 2024

RECENSIONE: MIKE CAMPBELL & The DIRTY KNOBS (Vagabonds, Virgins & Misfits)

 

MIKE CAMPBELL & The DIRTY KNOBS   Vagabonds, Virgins & Misfits (BMG, 2024)




atto terzo

Il terzo disco di Mike Campbell si apre come se stesse finendo un concerto. Un concerto di Tom Petty naturalmente. 'The Greatest' è l'ultima jam prima di salutare un pubblico entusiasta e plaudente: "tu sei il più grande, guarda questo posto, guarda queste facce..." canta Campbell con quella sua voce nasale che racchiude un terzo di Bob Dylan, un terzo di Ozzy Osbourne e un terzo di Tom Petty. Io il "più grande" me lo persi in quel Giugno del 2012 a Lucca: davanti a una scelta, scoprii di aver  fatto quella sbagliata, non immaginando minimamente cosa potesse riservare il futuro. So solo che rimane uno dei più grandi rimpianti musicali della mia vita. Ok, andiamo avanti.

Oggi però non c'è nessuno al mondo che possa fare Tom Petty come sa fare Mike Campbell. "Tutto quello che ho fatto da quando Tom è morto, incluso nell'album con i The Dirty Knobs, è nello spirito di onorare ciò che abbiamo fatto insieme" raccontò Mike Campbell all'uscita del debutto della band che mise in piedi per divertimento quasi vent'anni fa, tra un tour degli Heartbreakers e l'altro.

Vagabonds, Virgins & Misfits si candida, a pochi giorni dall'uscita, a diventare il migliore dei tre album pubblicati da Campbell con i Dirty Knobs (Chris Holt alle chitarre e tastiere, Lance Morrison al basso, Matt Laug alla batteria).

Oltre al fantasma di Petty che si aggira indisturbato tra le note di 'Angel Of Mercy' e 'Hands Are Tied' ("se ci penso troppo, divento triste" ha lasciato detto recentemente Campbell), si percepisce tutta la voglia del chitarrista di lasciarsi andare, suonare e divertirsi, portando avanti si un' eredità pesante ma segnante e significativa negli ultimi cinquant'anni di american music: che sia l'hard rock veloce e guizzante di 'So Alive', il blues di 'Shake These Blues' con quel finale di chitarre veloci, tutto l'amore per i Byrds che permea 'Innocent Man' o il tanto alcol versato nel country 'My Old Friends' che contiene nel testo più nomi di bevande alcoliche del menù del peggior bar della città.

Piacciono poi gli interventi discreti ma di spessore di tre amici ospiti: con la presenza di Graham Nash in 'Dare To Dream', Campbell corona il sogno di fare una canzone nello  stile degli amati Hollies con Nash ai cori, affida a Lucinda Williams 'Hell Or High Water' una ballata folk arricchita da archi e fiati con un testo scritto con occhio femminile e si catapulta in uno scatenato honky tonk da fine serata ('Don't Wait Up') in compagnia di Chris Stapleton e con Benmont Tench a saltellare sul pianoforte. 

Ecco, la presenza di Tench e di Steve Ferrone in un paio di canzoni, alcune di queste recuperate dal passato e lasciate riposare fino ad oggi (decisivo l'invito della moglie Marcie che compare  pure ai cori in 'Hands Are Tied') sembrano ricompattare quei cuori spezzati ma non ancora smarriti che a questo punto potrebbero essere l'ultima mia salvezza per alleviare un rimpianto che esce ogni qual volta il nome di Tom Petty compare fuori. Tipo ora. A rincarare la dose è appena uscito un tributo della scena Country americana a Tom Petty a cui partecipano tra i tanti anche Steve Earle, Chris Stapleton, Margo Price, Dolly Parton, Willie & Lukas Nelson, Marty Stuart, Rhiannon Giddens e Mike Campbell e Benmont Tench appunto.






domenica 16 giugno 2024

RECENSIONE: THE DECEMBERISTS (As It Ever Was, So It Will Be Again)

 

THE DECEMBERISTS  As It Ever Was, So It Will Be Again (Thirty Tigers, 2024)



perdersi nel loro mondo

Bentornati ai Decemberists. Oggi piove, non è certo una novità di questi tempi, ma il nuovo As It Ever Was, So It Will Be Again sembra viaggiare proprio bene tra vetri schizzati di gocce d'acqua (da immaginare come una foto in bianco e nero), foglie ormai verdi, verdissime, che dondolano pigre sotto il cadere incessante dell'acqua e nubi color grigio che non lasciano intravedere troppo in lontananza. Si può giocare di fantasia. Il dipinto di copertina disegnato dalla illustratrice Carson Ellis, popolato da esseri viventi (animali e uomini, ci siamo anche se in lontananza, giustamente ce lo aggiungo io) sembrano vivere felicemente insieme, in posa per un ritratto che cerchi di dare un senso al titolo "com'è sempre stato, così sarà ancora". Si può continuare a giocare di fantasia.

Sono passati sei anni dall'azzardo modernista del precedente I'll Be Your Girl , ma qui la creatura di Colin Meloy riprende il discorso interrotto dallo splendido, americano e rurale The King Is Dead aggiungendo quell'onirica scia progressive che abitava l'ambizioso The Hazards Of Love.

Mai banali i Decemberists. I quasi venti minuti della finale 'Joan In The Garden' riassumono bene tutte le molteplici parentesi della loro carriera: una prima parte folk, la metà ambient indie-rumorista, la seconda metà liberatoria tra chitarre cavalcanti al limite dell'hard e fughe tastieristiche verso le stagioni del prog.

 I Decemberists hanno l'innato dono di rapirti dentro al loro mondo, a tratti surreale, popolato da santi, figure letterarie, oniriche, tra passato e attualità, tra racconti popolari e il presente che ti passa davanti, dove però incontri il caldo vecchio abbraccio delle chitarre byrdsiane ('Burial Ground'), il country americano sognante attaccato a una pedal steel, i colori del folk ('The Reapers') spesso occhieggiante al Regno Unito , lo sbuffare dei fiati che ti consegnano nelle mani del sergente beatlesiano ('America Made Me'), il gusto profondo e avvincente del pop sixties.

E visto che in questi giorni si parla tanto di REM, la presenza di Mike Mills fa più che piacere. C'è pure James Mercer degli Shins.

È un disco lungo (un doppio d'altri tempi se si pensa al vinile, diviso in quattro facciate) ma si sta prenotando senza difficoltà alcuna un posto tra i dischi dell'anno. Qui dentro la musica svolge degnamente il suo compito.





sabato 8 giugno 2024

RECENSIONE: KING HANNAH (Big Swimmer)

KING HANNAH - Big Swimmer (City Slang, 2024)




avanti tutta

Le prospettive su alcuni artisti cambiano radicalmente dopo averli visti sopra un palco. I King Hannah sono delle anti-rockstar per eccellenza. L'ho appurato l'anno scorso quando suonarono prima dei Wilco al Todays Festival di Torino. La loro musica che su disco arriva con poca immediatezza ma arriva, live mi prese prima la testa per arrivare solo dopo alle gambe, senza trucchi e nessun inganno.

Hannah Merrick, chitarra e voce e Craig Whittle, chitarra elettrica, accompagnati dalla loro sezione ritmica salirono sul palco timidamente senza lo straccio di un look e con toni quasi dimessi ma piano piano dopo la mente iniziarono a impossessarsi dei corpi grazie alla loro idea di rock: molto basica, lo fi, senza inutili sovrastrutture, diretti e genuini dove il mood ipnotico, melodico e intrigante dei testi dalla penna cinematografica cantati o quasi recitati con voce salmodiante dalla Merrick vengono accompagnati e poi squarciati dell'elettricità delle chitarre che irrompono e  allungano ('The Mattress' e 'Milk Boy' qui presenti sono buoni esempi) con fare grezzo, spesso imperfetto come farebbe la old black del caro vecchio Neil Young.

Un'onda che da calma si fa tempestosa per poi smorzarsi nuovamente e riprendere vigore con la base ritmica che fa da accompagnamento senza mai prevaricare.

Presentarono il debutto I'M Not Sorry , I Was Just Being Me (2022) a cui aggiunsero la cover di 'State Trooper' di Springsteen presa da quel Nebraska che sembra dettare la via della sottrazione. 

Questo Big Swimmer è il loro american dream che in qualche modo si è avverato e materializzato molto presto in undici canzoni che riescono a darne una cifra stilistica più concreta e personale rispetto al primo disco, certamente più vario. Anche se non mancano divagazioni come  la più spensierata 'Davey Says', la title track che apre il disco in acustico per poi virare nell'elettrico (pure manifesto del loro pensiero) e l'ambient di 'This Wasn't Intentiobal'.

 Pensato e scritto durante i mesi di tour negli States  è un vero e proprio diario di viaggio da nord a sud, da una giornata tipo a  New York trascorsa tra i locali ('New York, Let's Do Nothing') fino a raggiungere i pericolosi confini con il Messico ('Somewhere Near El Paso') di due musicisti di Liverpool che caricano di suggestioni le ore di quotidianità trascorse in viaggio, spiando fuori dai vetri  e vivendo in diretta il proprio sogno americano anche citando altri artisti viventi e non ('John Prine On The Radio') e invitando la cantautrice Sharon Van Etten a collaborare in un paio di pezzi.

Inquietudine ed esuberanza che si tengono per mano. Ci sento la strada battuta dal sole e ci vedo le luci al neon in piena notte.

In questi giorni stanno avendo grande hype tra le riviste di settore e nel web, tanti cori di  positivo entusiasmo  ma naturalmente anche parecchi detrattori che ritengono eccessiva questa sovraesposizione (ho letto pure tante sciocchezze gratuite). Come sempre la verità sta nel mezzo.

Io dico solo che se in un disco di oggi ci trovi tracce di Neil Young con i Crazy Horse, Lou Reed, i Velvet Underground, Kim Gordon, Sonic Youth, Patti Smith, Lucinda Williams e Slint un disco brutto non può esserlo. Poi mi è venuto in mente Daniel Lanois: qui ci sarebbe materiale per lui. Chissà cosa riserverà il futuro?





domenica 2 giugno 2024

RECENSIONE: GUN (Hombres)

 

GUN  Hombres (Cooking Vinyl, 2024)



ritorno al passato

Chi si ricorda degli scozzesi Gun? Nati nel 1987, tra il 1989 e il 1994 fecero uscire tre dischi di discreto successo (il debutto Talking  On The World che conteneva la loro prima hit 'Better Days', Gallus, forse il loro miglior disco e Swagged), avevano fan di un certo livello come Steve Harris degli Iron Maiden, aprirono tour importanti per Rolling Stones (periodo Steel Wheels), Def Leppard e Bon Jovi poi nel 1997 si sciolsero dopo il poco riuscito 0141 632 6326. Undici anni dopo si riformarono anche se i tempi sembravano decisamente cambiati per riprendere i discorsi interrotti a metà anni novanta. E ora rieccoli con il loro miglior disco da quegli anni gloriosi. 

Questo è uno degli album di cui siamo più orgogliosi, rappresenta davvero i Gun nella loro forma migliore” racconta il chitarrista Giuliano Gizzi.

A comando della band sono rimasti i due fratelli di chiare origini italiane Dante Gizzi alla voce e Giuliano Gizzi alla chitarra. Insieme a loro Pau McManus (batteria), Andy Carr (basso) e Dave Aitken (chitarra), un mix di esperienza e gioventù che hanno donato freschezza a queste nuove dieci canzoni che non stravolgono l'idea iniziale della band: un hard rock melodico dove America e terre britanniche trovano la giusta via d'unione tra  chitarre graffianti ('All Fired Up'), riff importanti ('Boys Don't Cry', Take Me Back Home') e blues ('Fake Life'). Tanti i cori in risalto in tutto il disco, a partire dalla semi ballad 'Falling' fino a una 'Lucky Guy' che farebbe comodo agli ultimi Def Leppard, a partecipare tante ospiti come Beverly Skeete (Elton John, Tom Jones, Johnny Cash), Mary Pearce (Primal Scream, Lionel Ritchie) e Sarah-Jane Skeete (Robbie Williams, Kylie Minogue). Se la ruffiana  'You Are What I Need' sembra trasportarci allo street metal americano a cavallo tra gli anni ottanta e i novanta con un piacevole retrogusto soul,  'Never Enough' ci rammenta quanto i Bad Company siano stati importanti per tutte le band venute dopo che hanno cercato di sposare chitarre e melodia. In conclusione una 'A Shift In Time' che inizia acustica per esplodere in un corale inno da glam rock seventies, assolo incluso.

"Somo Tus Hombres" hanno gridato loro dei fan spagnoli durante il loro ultimo tour a Madrid:" siamo i vostri uomini". Ecco trovato il titolo di un disco, divertente e stimolante, per nulla pretenzioso ma che vuole solamente essere suonato a tutto volume come ai bei vecchi tempi. Bentornati.





sabato 25 maggio 2024

RECENSIONE: SLASH (Orgy Of The Damned)

 

SLASH  Orgy Of The Damned (Gibson Records, 2024)




tra le belle sorprese dell'anno

Sapere che un inedito Iggy Pop è qui alle prese con 'Awful Dreams' di Lightnin' Hopkins potrebbe bastare per dare un ascolto curioso a questo disco. Voce da crooner e chitarra i soli ingredienti. Dischi di cover blues ne è pieno il mondo: spesso inutili e di maniera, a volte divertenti, raramente indispensabili. Orgy Of Damned non è certamente indispensabile ma divertente secondo me lo è. Il taglio rock della chitarra di Slash contribuisce a dare quel tocco di diversità indispensabile per creare delle cover quantomeno singolari e ben riuscite. I puristi del blues grideranno allo scandalo. Ma chi se ne frega. La produzione di Mike Clink, l'uomo dietro a Appetite For Destruction è anche una garanzia.

E poi tutti gli altri ospiti che in qualche modo lasciano il loro segno: Chris Robinson sembra a suo agio con 'The Pusher' degli Steppenwolf che non sfigurerebbe in qualsiasi setlist dei Black Crowes, la chitarra di Gary Clark Jr. incrocia quella di Slash in mezzo al crocicchio presidiato da Robert Johnson (Crossroads) ed è un bel sentire, Billy Gibbons si intrufola in 'Hoochie Coochie Man' con la facilità con la quale pettina la sua barba ogni mattina, Crhis Stapleton in 'Oh Well' dei Fleetwood Mac è meglio di qualunque cosa abbia registrato nel suo ultimo disco. Brian Jhonson ora sa cosa fare quando smetterà di torturarsi l'ugola con gli Ac Dc ('Killing Floor' con l'armonica di Steve Tyler funziona), le quote rose sono assicurate da Dorothy ('Key to the Highway') ma soprattutto da una sorprendente e pop Demi Lovato in un classico che più classico non si può come 'Papa Was a Rolling Stone' e da una sempre rassicurante e grintosa Beth Hart in 'Stormy Monday'. Quattordici minuti totali per loro due.

Completano Tash Neal (presente in tutto il disco con la sua chitarra) in una quasi commovente 'Living For The City' di Stevie Wonder presa da quel capolavoro che fu Innervisions del 1973 ("quella era la traccia che sapevo sarebbe stata quella più insidiosa per la persona media, ma era la mia canzone preferita quando Innervisions uscì quando avevo circa 9 anni. Ho adorato quella canzone" ha detto recentemente Slash) e un impeccabile e di mestiete Paul Rodgers con 'Born Under a Bad Sign' di Albert King.

Un disco inseguito da più di trent'anni quando dopo lo scioglimento dei Guns N'Roses mise in piedi la band Slash's Blues Ball, dalla quale recupera i vecchi compagni Johnny Griparic al basso e Teddy Andreadis alle tastiere.

Un disco simile Slash lo aveva già fatto nel 2010 (Ian Astbury, Ozzy Osbourne, Lemmy, Iggy Pop, Chris Cornell, Dave Grohl tra i tanti cantanti presenti allora) ma con tutte canzoni inedite. Qui l'unica traccia inedita la lascia nel finale, la strumentale, melodica ed espressiva 'Metal Chestnut'. Prendetevi un buon cocktail e rilassatevi con queste dodici canzoni registrate senza troppe menate in una atmosfera sicuramente rilassata. Si percepisce. Funziona tutto. Poi arriveranno anche gli odiatori seriali ma li mettiamo insieme ai puristi del blues. 





sabato 18 maggio 2024

RECENSIONE: KULA SHAKER (Natural Magick)

KULA SHAKER  Natural Magick (Strange Folk Records, 2024)



il bello del 2024

Natural Magick è uno dei dischi più spassosi, divertenti e colorati che ho ascoltato in questi primi mesi del 2024. Il concerto all'Alcatraz di Milano del 13 Maggio si candida a concerto del 2024.

"Beh, quando penso al rock 'n' roll, penso ai fratelli Marx tanto quanto penso ai Kinks o a Jerry Lee Lewis. Penso che il rock 'n' roll sia uno stato d'animo. È un tipo di anarchia spirituale, sana ed eterna"  così Crispian Mills (voce, chitarra e maggior autore dei testi), recentemente, ha detto la sua sul pianeta musica che lui e la sua band circumnavigano da quel lontano 1996 quando uscì l'esordio K , perfettamente in orario per l'esplosione del brit pop di cui furono brillanti esponenti, certamente tra i più fantasiosi e poco etichettabili nel loro intento di creare ponti con l'Oriente come insegnato dai Beatles, e da George Harrison in particolare. Per tanti che li premiarono furono anche massacrati.

Due uscite in poco più di un anno per una formazione che ci aveva abituato a tempi lunghissimi tra un disco e il successivo sembrano parlare chiaro: la band di Londra sta vivendo un periodo di fertile ispirazione. Il ritorno in formazione del primo tastierista Jay Darlington li catapulta addirittura indietro di venticinque anni per riprendere in mano tutte le influenze assorbite fin dagli esordi (è il primo album con la formazione originaria dal 1998: con Mills e Darlington, il bassista Alonza Bevan e il batterista Paul Winter Hart): ci sono i Kinks già dal riff iniziale del rock 'Gaslighting' e delle successive 'Waves' e 'Natural Magick' (venuta in ispirazione dopo aver ascoltato i Can!), rock pop, semplici, trascinanti e d'impatto assicurato. Da 'Indian Record Player' iniziano ad affiorare in superficie le care influenze indiane di Mills che si amalgamano con rock'n'roll e spezie tex mex fino a confluire nella cavalcata western 'Chura Liya' cantata da Laboni Barua. Difficile annoiarsi di fronte alla psichedelia pop sixties disegnata dall'armonica e dalle percussioni in 'Something Dangerous', vietato non sognare di fronte alle ballate 'Stay With Me Tonight' e 'Give Me Tomorrow' dal forte aroma anni cinquanta tutto brillantina e neon colorati sullo sfondo, viaggiare di fantasia sotto l'accecante solarità di 'Kalifornia Blues', vietato non meditare davanti al sitar che chiama in causa Krishma nella psichedelica 'Happy Birthday', o non protestare su una 'F- Bombs', che pare quasi fuori contesto, un canto anti guerra purtroppo sempre d'attualità che esplode in ripetuti "fuck war" che dal vivo, ne sono sicuro, faranno faville.  Non il massimo dell'originalità ma sempre utile. Io per non sbagliarmi qualche settimana fa ho preso il biglietto per il loro concerto all'Alcatraz di Milano che si terrà tra circa un mese. Voglio toccare con mano questo loro ispirato e colorato ritorno.

"Il mondo ha bisogno del rock 'n' roll in questo momento", firmato Crispian Mills. Fosse anche con un "è solo" davanti, va bene ugualmente.





domenica 12 maggio 2024

RECENSIONE: ANDERS OSBORNE (Picasso's Villa)

 

ANDERS OSBORNE  Picasso's Villa (Missing Piece Records, 2024)



lo svedese di New Orleans

Durante il lockdown ci fu un "uso" alquanto superficiale e scorretto degli artisti e dei musicisti. Il loro compito sembrava fosse solo uno: far divertire la gente. Fare passare qualche minuto, qualche ora, diventati giorni e poi mesi in totale spensieratezza a chi (noi) come loro era chiuso in casa. Naturalmente senza compenso, dimenticando che tanti erano professionisti messi al palo, a paga zero, dall'epidemia. Per qualche politico un atto dovuto: l'arte come lavoro era ed è ancora qualcosa di inconcepibile per alcuni. La domanda: "sì ma di lavoro cosa fai?" non è così rara da sentire.

Nella canzone musicalmente spensierata e puntellata dall'Hammond  'Picasso's Villa' che da anche il titolo all' album, il diciasettesimo, Anders Osborne sembra proprio rivolgersi a tutte quelle persone che gravitano intorno all'arte con sprovveduta superficialità (lui è pure un pittore):

"Picasso's Villa tenta di descrivere il business della musica e il ruolo da giullare che hanno i musicisti. Siamo una valuta utilizzata, giudicata, negoziata, scambiata, valutata e talvolta scartata".

Se due anni fa Anders Osbourne si presentò al Buscadero Day in solitaria, era appena uscito lo stupendo  Orpheus And The Mermaids (2021), un disco acustico trainato dai venti leggeri della West Coast Music che continuavano a sbuffare dal precedente Buddha And The Blues (2019), con questo nuovo Picasso's Villa, invece, ritorna ad abbracciare l'intera rosa dei venti musicali che hanno scompigliato i suoi capelli, ora bianchi, negli anni. Abbiamo imparato a amare i suoi primi dischi più conosciuti come  Which Way To Here (1995) e  Living Room (1999), quelli più marcatamente intrisi degli umori di New Orleans come Coming Down (2007), le canzoni più cupe e scure come quelle che uscivano da American Patchwork (2010) e Black Eye Galaxy (2012) e cose più bizzarre e giocose come le canzoni di Peace (2013), sfrontato fin dalla copertina e che iniziava a lasciarsi indietro problemi personali che lo stavano attanagliando.

Anders Osbourne non ha mai fatto dischi brutti (forse i primi più ruspanti si fanno preferire ma sono sottigliezze) e Picasso' s Villa va ad aggiungersi ad una lista da fare invidia a nomi più blasonati che continuano a vivere di rendita.

Straordinaria voce, chitarrista eccelso , autore sopraffino, dotato di limpida ironia e della rara dote di  saper colorare i suoi pezzi con sfumature sempre sgargianti ma anche buon conoscitore dei tempi su cui mette i piedi ogni giorno: 'Bewildered' prende in esame gli accadimenti degli ultimi quarant'anni nelle terre americane (tra cronaca, musica e politica) che lo hanno adottato quando dalla Svezia andò a cercarsi la sua America, con un suono di chitarre elettriche che chiama in causa i Crazy Horse di Neil Young e non è un caso che in produzione e nei suoni ci siano uomini che con il canadese hanno intrecciato spesso il percorso, ossia Nico Bolas e Chad Cromwell.

Splendide canzoni, dal piglio elettro acustico che spesso richiamano e omaggiano New Orleans nelle liriche, luogo che lo ha accolto e dove ha piantato  le sue radici europee, succhiandone l'anima: l'apertura 'Dark Decatur Love', un country in crescendo che mi ha ricordato Johnny Cash, e la finale 'Le Grande Zombie', dedicata a un ambasciatore importante come Dr. John e portata avanti in una babilonia di strumenti (archi e fiato) e suoni che chiudono il disco con colorato carattere malinconico.

Proprio nella ormai "sua" New Orleans ha registrato il disco insieme a una bella parata di ospiti tra cui spiccano la chitarra di Waddy Wachtel, il bassista Bob Glaub, l'armonica di Johnny Sansone e Ian Neville al B3. Otto canzoni che toccano con più insistenza il rock rispetto al recente passato: 'Reckless Heart' si pone a metà strada tra Springsteen e Petty, i sei minuti di 'Real Good Dirt' e 'Returning To My Bones' hanno l'inconfondibile passo elettrico dei Crazy Horse. Oggi sono veramente pochi gli artisti così completi come Anders Osborne. Con lui si va sempre sul sicuro.






venerdì 10 maggio 2024

PFM canta Fabrizio De André Anniversary live@Teatro Alfieri, Torino, 6 Maggio 2024

 


PFM canta Fabrizio De André Anniversary live@Teatro Alfieri, Torino, 6 Maggio 2024

1980, il mio primo ingenuo approccio con Fabrizio De André fu la cassetta di “Fabrizio De André In Concerto con arrangiamenti PFM-registrato dal vivo a Firenze e Bologna, 13-14-15-16/1/1979”. Un disco che diventerà uno dei grandi live della musica italiana, per come fu suonato, per gli arrangiamenti, per quello che ha rappresentato e rappresenta ancora oggi: quell'incontro/scontro tra rock e poetica cantautorale. Anche in Italia si poteva fare seguendo l'esempio di "Bob Dylan con The Band" dirà Franz Di Cioccio.

"La nostra tournée è stata il primo esempio di collaborazione tra due modi completamente diversi di concepire e eseguire le canzoni. Un’esperienza irripetibile perché PFM non era un’accolita di ottimi musicisti riuniti per l’occasione, ma un gruppo con una storia importante, che ha modificato il corso della musica italiana. Ecco, un giorno hanno preso tutto questo e l’hanno messo al mio servizio…" raccontò De André.

Avevo sette anni e un’ attrazione per quel pezzo di plastica arancione con il timbro Siae blu di una volta in bella evidenza. Cassetta conservata ancora oggi con maniacale cura, che quando girava nell'impianto stereo nuovo di pacca e costato sacrifici a mio padre, arrivati quasi alla fine del lato B, faceva uscire una frase che qualcuno in famiglia sottolineava sempre con velata ironia, soffermandosi sull’ultima parola della seconda strofa, e io ridevo a crepapelle senza sapere bene il perché. Qualche anno dopo, tutto sarebbe stato più chiaro: “passano gli anni i mesi, e se li conti anche i minuti. È triste trovarsi adulti senza essere cresciuti, la maldicenza insiste, batte la lingua sul tamburo, fino a dire che un nano è una carogna di sicuro, perché ha il cuore troppo, troppo vicino al buco del culo”.


 


Erano le parole di ‘Un Giudice’. Quella cassetta arrivò improvvisa a svegliarmi, forse perfino troppo presto, questo concerto "PFM canta Fabrizio De André, Anniversary" (e  sono ormai 45 anni) è arrivato altrettanto improvviso. Regalo di un'amica all'ultimo momento. "Ho un biglietto in più. Vieni?". Grazie! Perché no? Mi son detto. Sarei andato a chiudere un cerchio della mia vita iniziato in diretta nel 79, anche se mancano alcuni protagonisti, il principale sicuramente. A Torino piove e la città è quindi libera di riempire l'aria con il meglio di sé stessa: sprigionare tutta la sua arcana bellezza da vecchia capitale. Quegli specchi d'acqua dove a tarda notte  i palazzi e i monumenti si specchiano donano antica magia che ogni volta rapiscono. Almeno me. Arrivo presto per un aperitivo, ma mentre aspetto la mia amica sbircio davanti al teatro proprio mentre Franz Di Cioccio e Patrick Djivas escono per andare a cena, piove forte, sono incappucciati e viaggiano veloci, non oso fermarli. Ma lo ammetto, una foto con loro avrei voluto farla. Il resto della band segue dietro decisamente più rilassata e gioviale.



Entrati, gli arredi di stoffa rossa del Teatro Alfieri, il secondo più antico della città, le luci calde e soffuse fanno proseguire la magia delle vie, dei portici e delle piazze, creando un' atmosfera antica, tanto che quel protagonista che manca pare possa uscire da un momento all'altro da dietto un drappo rosso con il fumo della sigaretta ad anticiparlo. Ad uscire, in perfetto orario è invece la Premiata Forneria Marconi in una formazione a nove elementi. In prima fila i quattro reduci di quel tour del 79 passato alla storia: un Franz Di Cioccio che dall'alto dei suoi 78 anni, con le bacchette della batteria perennemente infilate nella cintola dei jeans, si prodiga durante tutto il concerto a cantare, suonare la batteria e ballare con passi di danza da menestrello rock,   Patrick Djivas incollato al suo sgabello fa uscire note di basso che fanno tremare il teatro e sembrano dialogare, Lucio Fabbri è il violinista che tutti conosciamo, e stasera c'è pure Flavio Premoli alle tastiere, fisarmonica ('Il Giudice')  e il mitico Moog. Poco più dietro i giovani: il talentuoso Luca Zabbini alle chitarre e tastiere e pure voce in 'Zirichiltaggia', Marco Sfogli alle chitarre con il sempre difficile compito di sostituire il maestro Franco Mussida e poi ancora Roberto Gualdi alla batteria quando non deve lasciarla a Di Ciccio e Alessandro Scaglione alle tastiere. Questa sera poi c'è Michele Ascolese l'instancabile chitarrista che con Fabrizio De André ci suonò negli ultimi dieci anni della sua vita.


Delle canzoni di Deandré non dico nulla, oltre ai classici che resero immortale quel tour c'è spazio anche per una lunga parentesi dedicata all'album Buona Novella del 1970 musicato da una PFM che ancora si chiamava I Quelli. 

"Molti di quegli arrangiamenti li ho mantenuti nel tour successivi perché hanno dato alla mia musica un volto nuovo e vivace" raccontò De André. Così nuovo che ancora oggi, così ricchi, funzionano alla grande.

Quando Franz Di Cioccio lancia quel "Branca, Branca, Branca..." prima di  'Volta La Carta' mi pare esca dalla mia vecchia cassetta e il pubblico che risponde "leon leon leon" sia quello presente nel 1979. Invece questa volta ci sono anch' io.


Il  bis è lasciato a 'Celebration' ed a un breve accenno di 'Impressioni di Settembre'. 

Ma la catarsi si era già compiuta quando un leggio è stato posizionato a centro palco, una luce lo ha illuminato e la voce di De André ha cantato 'La Canzone Di Marinella'. In quel momento sì, c'eravamo tutti. (O quasi).




domenica 5 maggio 2024

RECENSIONE: IAN HUNTER (Defiance Part 2 Fiction)

 IAN HUNTER  Defiance Part 2 Fiction (Sun Records, 2024)



secondo e non ultimo capitolo

In una recentissima intervista Ian Hunter ha detto di "avere le orecchie di un ottantaquatrenne" (giustamente), di soffrire di acufene e che molto probabilmente sarà difficile vederlo su un palco per uno spettacolo elettrico e  rock, più probabilmente per qualcosa di acustico. Staremo a vedere. Ascoltando il nuovo Defiance Part 2 Fiction  che fa seguito al primo capitolo uscito lo scorso anno, viene però difficile credere che dietro a quei soliti ricci sotto cui ci sono i soliti occhiali ci  sia un uomo classe 1940, l'età di mia madre che non ha l'acufene ma fatica a fare le scale. Come difficile credere a un Ian Hunter lontano dalla musica: durante il lockdown, l'ex Mott The Hopple si è dato molto da fare, chiudendosi nel suo studio di registrazione nel Connecticut  insieme al fido Andy York, buttando giù una serie impressionante di canzoni che con questo capitolo però non scrivono la parola fine al progetto, visto che sembra già al lavoro per il terzo capitolo con canzoni nuove.

"Eravamo noi che facevamo demo nel mio seminterrato, e le demo nel mio seminterrato si sono trasformate in quello che avete" raccontò in occasione dell'uscita della prima parte.

Ciò che si nota dopo l'ascolto è il carattere in parte più gioioso di queste dieci canzoni rispetto alle precedenti. Come nel precedente però anche questa volta gli ospiti sono tanti: dai due Def Leppard Joe Elliott e Phil Collen (Def Leppard che certi suoni glam rock li amano da sempre, cercate il loro Yeah!, album di cover uscito nel 2006), i Cheap Trick quasi al completo nelle persone di Rick Nielsen, Robin Zander e Tom Petersson, Brian May ( i Queen che supportarono i Mott the Hoople nel loro tour del 1974 nel Regno Unito e nel Nord America), Waddy Wachtel, Johnny Deep (anche autore del dipinto in copertina), Lucinda Williams ("Lucinda e suo marito sono venuti a uno dei miei spettacoli a Nashville. Adoro la sua voce, c'è qualcosa di molto infantile. Capisci subito che è lei. Una voce che non si dimentica" ha raccontato Hunter), i tre Stone Temple Pilots Eric Kretz, Robert De Leo e Dean De Leo,  Benmont Tench, David Mansfield  (Bob Dylan, T Bone Burnett),  Tony Shanahan  (Patti Smith),  Steve Holley  (Wings),  Morgan Fisher, vecchio compagno nei Mott the Hoople e poi Jeff Beck e Taylor Hawkins qui nelle loro ultime registrazioni prima di morire. Forse inferiore qualitativamente al precedente, le dieci canzoni si alternano tra un inno dal chorus facile, cantabile e fin troppo sbarazzino dell'apertura 'People', alla voce invecchiata ma comunque sempre fascinosa che esce da 'Fiction' trainata dall' arrangiamento d'archi di David Mansfield e dal piano di Morgan Fisher, dalla ballata folkie 'The 3rd Rail' dedicata a Jeff Beck che lascia la sua chitarra e dal rock’n’roll a dispetto del titolo di 'This Ain't Rock And Roll'. 

Piacciono la tesa e rock 'Precoius' con la chitarra di May al comando, la ciondolante ballata bluesy a ritmo di valzer 'Weed', inno alla legalizzazione, la pesante, hard e scura 'Kettle Of Fish' che avanza minacciosa, l'immancabile ballata in stile dylaniano 'What Would I Do Without You' con la voce di Lucinda Williams. A chiudere il rock di Everybody' s Crazy But Me' e la ballata 'Hope' con la Williams e Billy Bob Thornton ai cori.

Gli ospiti, tanti, ci sono ma non stravolgono mai il trade mark ormai consolidato di Hunter. Pur mancando dell'intensità di alcune canzoni uscite lo scorso anno, Defiance Part 2 si fa comunque apprezzare: il livello di scrittura di Hunter è sempre superiore alla media e nonostante tutto gli si deve dare il merito di continuare a guardare avanti nonostante l'età. Insomma: una canzone a caso qui contenuta potrebbe fare comodo a qualunque songwriter in erba. Classe e mestiere se li hai li hai, a qualunque età e Ian Hunter ne ha pure d'avanzo.







domenica 28 aprile 2024

RECENSIONE: NEIL YOUNG & CRAZY HORSE (Fu ## in' Up)

NEIL YOUNG & CRAZY HORSE  Fu ## in' Up (Reprise Records, 2024)




cavallo vecchio non muta ambiatura

Mentre sta uscendo questo ennesimo disco live, Neil Young e i Crazy Horse hanno iniziato in America un nuovo tour e dai video che circolano sembrano tutti in buona forma, anche il vecchio Neil sembra essersi ripreso da una forma di artrite che lo ha perseguitato ultimamente. Micah Nelson (Promise of the Real) ha preso il posto di Nils Lofgren, impegnato con la E Street Band di Springsteen ma qui in questo concerto registrato al Rivoli club di Toronto, davanti a 200 persone in una serata privata per pochi, ci sono tutti e due (si scambiano il ruolo tra chitarre e pianoforte) che uniti alla Old Black di Young, al basso di  Billy Talbot e la batteria di Ralph Molina portano a sublimazione il lato elettrico della sua carriera.

Viene celebrato Ragged Glory (già osannato live con Weld e pure recentemente con l' uscita di Way Down In The Rust Bucket , registrazione live risalente al 1990 ), uno dei tanti vertici elettrici dei Crazy Horse, disco che nel 1990 sembrò aprire un nuovo inaspettato decennio per il rock, ma visto che Neil Young non sarebbe lui senza qualche bizzarria di mezzo, le nove canzoni, a parte Farmer John che è una cover (e Mother Earth presente su Ragged Glory ma qui assente), sono state ribattezzate con titoli diversi, estrapolando una frase dal testo di ognuna di esse. Così Country Home diventa City Life e Over And Over è Broken Circle.

Un modo, secondo l'autore, per far continuare a vivere in eterno queste canzoni (eterne come l'amore) che ancora una volta esplodono in tutta la loro veemenza di feedback e spirito garage con qualche divertissement honky tonk portato dal pianoforte (in Feels Like A Railroad (River Of Pride) ossia White Line).

Certo, un disco per conpletisti incalliti, come gran parte delle ultime uscite legate agli archivi, e poco digeribile per chi apprezza maggiormente il lato bucolico di Young ma cosa si può dire davanti a un settantottenne e due ottantenni che  spingono come ragazzini sopra ai dodici minuti di Valley Of Hearts (Love To Burn) e  ai quindici della finale A Chance On Love (Love And Only Love)? Insomma nulla di nuovo sotto il sole del canadese ma buono per provare lo stato di salute dal vivo dopo gli anni di stop dovuti al lockdown. E le parole di Micah Nelson confermano: "c'è qualcosa di così primordiale e primitivo in Neil, specialmente quando è con Crazy Horse".





domenica 21 aprile 2024

RECENSIONE: MARK KNOPFLER (One Deep River)

 

MARK KNOPFLER  One Deep River (EMI, 2024)




luci gentili

Diciamo la verità: Mark Knopfler con il canzoniere messo in piedi con i Dire Straits potrebbe vivere di rendita all'infinito. Potrebbe fare tour nostalgici e accontentare quei fan distratti con un piede ancora negli anni ottanta che dopo i suoi concerti odierni si domandano "ma come? Solo due canzoni dei Dire Straits?". Li ho sentiti con le mie orecchie. Che poi, a fare queste cose ci pensano le cover band. E Mark Knopfler da più di trent'anni ha scelto di non essere la cover band di se stesso. Vi sento: "ma come? I suoi dischi sono tutti uguali. Fanno dormire". Troppo facile liquidare un disco così. Ha scelto una strada, la sta percorrendo e probabilmente la seguirà fino alla fine dei suoi giorni. Alcune recenti dichiarazioni non lasciano dubbi "con i Dire Straits non tornerò mai". Ma nemmeno dal vivo da solista a quanto pare. Una strada onesta che serpeggia elegantemente in mezzo al folk, al country, al blues, ai toni jazzati, dove i guizzi veramente elettrici sono pochi (in questo disco quasi assenti), dove i tempi sono lenti, contemplativi, da lungo viaggio, dove comunque a prevalere sono sempre le belle canzoni. E qui calo il mio asso che sa di sentenza: Privateering rimane il suo album migliore e per ora inavvicinabile.

Perché le canzoni di Mark Knopfler sono tutte belle: basterebbe sceglierne una a caso anche da questo disco, e ascoltarla senza pregiudizio. Prendetevi quattro minuti. Fatto? Non è bella? Ecco, questo mio scritto potrebbe finire qui, senza che vi racconti di quanta malinconia e contemplazione serpeggi tra le dodici canzoni che compongono questo suo decimo disco in studio, popolate da continui rimandi al Tulsa Sound del suo mentore JJ Cale, fin dall'apertura 'Two Pairs Of Hands' , canzone che si sofferma sulla sempre dura vita del musicista on the road insieme a una band, mentre in 'Ahead Of The Game' ricorda con velata nostalgia i primi passi musicali.

Serve ricordare quanto la sua scrittura sia sempre magnificamente descrittiva come nel bel blues 'Scavenger's Day' (uno dei pochi up tempo con la chitarra elettrica in evidenza) dove racconta di un poco di buono o in 'Tunnel 13' dove racconta la storia di tre banditi, i fratelli D'Autremont, con l'aiuto delle coriste? Potrei raccontarvi di quanto gli archi di ' Black Tie Jobs' diano una solenne grevità a una delle tante ballate del disco che indugia alla riflessione, al sogno, come in 'Watch Me Gone' con la lap steel di Greig Leisz riesca a citare due vecchi amici. A voi scoprire chi. Potrei dirvi come in 'Sweeter Than The Rain' che si apre con un canto a cappella riesca ad evocare antiche lande britanniche, o come non possa mancare un treno in arrivo ('Before My Train Comes'), che potrebbe essere anche 'slow' come quello del 1979 ('that's my train coming' canta) mentre il batterista Ian Thomas spazzola sui tamburi unendo America e Inghilterra.

"Se ascolti il suono del treno interpreti meglio il suono della vita" ha detto recentemente.

Potrei raccontarvi di come in 'This One's Not Going To End Well' giochi di classe aiutato dal violino di John McCusker con una storia di schiavitù inclusa nel.testo o come in 'Smart Money' le tastiere del sempre fedele Guy Fletcher portino verso lande caraibiche.

Ascoltando la finale, autobiografica (il fiume è il Tyne della sua Newcastle) e dylaniana 'One Deep River' (che già da sola varrebbe l'acquisto) mi assale quella strana voglia di pensare a cosa uscirebbe oggi da una collaborazione tra Mark Knopfler e Bob Dylan, ora che la saggezza ha preso il sopravvento, il tour quasi "pacco" insieme lo hanno già fatto e sembra un vecchio ricordo e il rosicato tempo davanti non è più quello che c'era ai tempi di Infidels.





lunedì 15 aprile 2024

RECENSIONE: THE BLACK KEYS (Ohio Players)

THE BLACK KEYS  Ohio Players (Nonesuch Records, Easy Eye Sound, 2024)




buona partita!

Chissà, forse mi sto rincoglionendo io (è la cosa più probabile) vista l'accoglienza tiepida che ha ricevuto nella sua prima settimana d'uscita il dodicesimo album dei Black Keys: ma secondo me è il loro miglior disco dai tempi di El Camino. Se nei due precedenti dischi, che comunque mi erano piaciuti (i Black  Keys mi piacciono anche nella loro onesta paraculaggine) la coppia formata da Dan Auerbach e Patrick Carney aveva tirato il freno per stazionare su lidi sicuri (sto parlando degli album  Let's Rock e Dropout Boogie), con Ohio Players (notare l'omaggio alle loro radici - Akron - e alla band funky loro concittadina) si ributtano nella mischia degli sperimentatori, rischiano e escono dalla comfort zone che li recintava ultimamente. Si può rischiare anche pacioccando e divertendosi con il pop, i generi e coinvolgendo alla festa altre persone.

Per farlo cedono alle collaborazioni e  radunano alcuni amici.  Primo: Beck che collabora come co-autore, voce e strumentista in quasi metà disco, un incontro, il loro, avvenuto più di vent'anni fa in tour e che ora da i suoi primi frutti anche in studio di registrazione, poi Noel Gallagher presente pure lui in modo massiccio,  più alcuni featuring dei rapper Lil Noid e Juicy J. e infine il produttore Dan the Automator

"Volevamo potesse stare al passo con Brothers ed El Camino . Alla fine abbiamo lavorato molto duramente su questo album e abbiamo trascorso più tempo in studio rispetto a Brothers , El Camino e Turn Blue messi insieme. Penso che siamo stati in studio circa 150 giorni" dice Patrick Carney. 

Cosa ne è uscito? Un disco che al primo ascolto dici "boh?", al secondo ti prende voglia di riascoltarlo, al terzo ti ci infili dentro fino alle scarpe. Così è successo a me, naturalmente. "Una collezione di 45 giri" come dicono loro: 14 canzoni dal basso minutaggio, uno strike di motivi pop sixties, freschi e ballabili ('This Is Nowhere', 'Don't Let Me Go', 'Only Love Matters'), di funky e soul ('Beautiful People (Stay High)), di onde surf (You'll Pay), glassa pop aroma Beatles in primo piano (On The Game), poi certe cose che sembrano riportare le lancette agli albori del crossover ('Candy Y And Her Friends' con Lil Noid e 'Paper Crown' con Beck e Juicy J. e quella chitarra "alla Santana") quando mischiare i generi era ancora un azzardo visto con occhi storti da certi puristi. Il rap che va a braccetto con il rock.

A tenere i ganci con il passato ci pensano la cover di William Bell e Booker T. Jones

('I Forgot To Be Your Lover') e certe reminiscenze garage blues che escono da 'Please Me (Till I'm Satisfied)' e 'Everytime You Leave', una 'Live Till I Die' che inizia là dove finiva 'Cinnamon Girl' di Neil Young e le atmosfere Western di 'Read Em And Weep' che piacerebbe tanto a Quentin Tarantino.

Si percepisce voglia di divertirsi. Dategli un po' di tempo...il tempo di una serata al bowling aspettando il primo strike. Con me è arrivato quasi subito.





domenica 7 aprile 2024

JUDAS PRIEST live@Forum Assago, 6 Aprile 2024



JUDAS PRIEST live@Forum Assago, 6 Aprile 2024

sei foto da portarsi a casa

1 - Quando cala il telone sulle note di War Pigs dei concittadini Black Sabbath (non è forse l'operaia Birmingham una delle città più rock'n'roll di sempre?) e il concerto inizia con la band raggruppata intorno alla batteria di Scott Travis. Sembra un'istantanea rubata ai primi tempi quando gli spazi erano ancora stretti e angusti. I loro abiti con rifiniture d'acciaio e d'argento brillano, poi entra in scena  il sontuoso impianto luci, semplice ma d'effetto e capisci quanta strada abbiano fatto.



2 - Le canzoni dell'ultimo album Invincible Shield non soffrono a stare in mezzo ai loro classici. Panic Attack è l'opener del concerto e funziona, la melodia di Crown Of Horns sembra già un classico e ha solo poche settimane di vita. Ma in definitiva quanti fottuti "classici" possono vantare i Judas Priest? Stasera hanno tirato fuori una Saints In Hell da Stained Class (1978). E quanti sono rimasti fuori dalla setlist stasera? Io ad esempio avrei voluto Night Crawler.


3 -  Richie Faulkner e Andy Sneap sono una bellezza da vedere insieme tanto che KK Downing è ormai storia e passato. L' uno-due Victims Of Changes/ The Green Manalishi da manuale.



4 - Scott Travis e Ian Hill sono invece una macchina da guerra là dietro. Il bassista, 72 anni, è inchiodato al pavimento ma non butta via un colpo, l'attacco di batteria di Painkiller nella mia testa è sempre la versione metal anni novanta di Rock’n’Roll di John Bonham. 


5 - Rob Halford a 72 anni ha ancora una voce della madonna e una presenza scenica carismatica. Sui toni bassi è molto interessante e tra poco uscirà il suo progetto blues. Quando si invecchia si arriva lì.

Cambia giacche come una modella sulla passerella e gioca e fa giocare con la voce come faceva l'amico Freddie Mercury. L'entrata in scena con moto e frustino su Hell Bent For Leather è tanto pacchiana quanto fotografia insostituibile da tramandare ai posteri tra le migliori trovate rock'n'roll di sempre sopra le assi di un palco, giocandosela con i Blue Oyster Cult, la ghigliottina di Alice Cooper e tante altre. Se non ci sono ti mancano. Cose che via via andranno a scomparire. Lo sapete?

E poi... dopo aver letto la sua autobiografia  Confesso che non è certamente un saggio letterario ma  la schiettezza e l'autoironia di Halford ne fanno una  autobiografia  "vera", esplicita, godibile e diretta come poche, facendotelo amare ancor di più. Quindi: anche se sei un fan del folk britannico, un suonatore di country bluegrass, un jazzista, un alternativo a tutti i costi, credo che la vita di Rob Halford meriti di essere letta e conosciuta comunque. 

"Ero il vocalist di una delle più grandi metal band esistenti, eppure ero troppo spaventato per dire al mondo di essere gay. La notte me ne stavo a letto sveglio, turbato, a domandarmi:" cosa succederebbe se facessi coming out? ". L'ha fatto e ne è uscito più forte di prima.



6 - l'amorevole devozione con la quale Halford si prende cura di Glenn Tipton, affetto da Parkinson, abbracciandolo e bisbigliandogli frasi d'incoraggiamento, uscito nel gran finale per eseguire Metal Gods e la sempre spassosa Living After Midnight mi ha stretto il cuore. Tipton non riusciva a lanciare i plettri al pubblico a fine concerto, li ha lasciati uno ad uno a un addetto alla sicurezza che ha fatto da tramite dalla sua mano a quelle dei fan.


"In this world we're livin' in we have our share of sorrow, answer now is: don't give in, aim for a new tomorrow"



giovedì 4 aprile 2024

RECENSIONE: ANDREA VAN CLEEF & The Black Jack Conspiracy (Horse Latitudes)

 

ANDREA VAN CLEEF & The Black Jack Conspiracy  Horse Latitudes (Rivertale Productions, 2024)



cavalcate in libertà

Mi perdonerà Andrea se oso mettere in pubblica piazza un argomento su cui si discuteva qualche mese fa in chat e sui cui entrambi eravamo d'accordo: certo giornalismo musicale degli anni settanta e ottanta ha creato barriere e paraocchi negli ascoltatori più che aprire menti e stimolare orecchie. Quando da uomo di valle sbarcai a Brescia quasi dieci anni fa, uno dei primi concerti che vidi in città fu quello di Andrea Van Cleef con il suo  defunto progetto Van Cleef Continental: un concentrato di stoner pesante che sapeva aprirsi verso territori prog e psichedelici. Con il trascorrere degli anni ho capito quanto la curiosità musicale di Andrea invece (figlia degli anni novanta) gli abbia permesso di viaggiare, suonare e incidere in totale libertà ciò che più gradiva sul momento in base all'ispirazione. Eccolo così cantare e suonare la chitarra nei bergamaschi Humulus, band stoner con un buon seguito in Europa (recentemente ha lasciato la band), eccolo con i suoi tanti progetti solistici, partendo dal folk psichedelico di Sundog, passando dal precedente e vario Tropic Of Nowhere (2018) e poi i suoi tanti omaggi alla musica, tra tutti quello dedicato ai Morphine, insieme ad altri musicisti bresciani, che ogni tanto rispolvera dalla naftalina e porta sopra a un palco. E proprio dalla fine di questo nuovo disco vorrei partire: la traccia finale 'The Real Stranger', con i suoi sette minuti la più lunga del disco, vede proprio ospite Dana Colley, sassofonista della inimitabile band americana capitanata dal compianto Mark Sandman. 

È un disco, il suo primo senza chitarre elettriche, che all'ascolto potrebbe dividersi in tre atti: una prima parte legata in modo indissolubile al country americano, c'è molto di Johnny Cash in tracce come 'The Longest Song' e 'Love Is Lovely' dove la voce profonda viene doppiata da una voce femminile quasi a ricreare il connubio Cash- June Carter, ma scava ancora  più in profondità serpeggiando tra i fantasmi e i simbolismi che popolano certa letteratura gotica a stelle e strisce e al fantasma più terreno di Mark Lanegan nell'iniziale e primo singolo 'A Horse Naned Cain' e in 'Arrows'. 

In mezzo due tracce più ritmate come 'Thing', doo-wop non troppo distante dell'approccio su cui Dan Auerbach ha incanalato i suoi Black Keys e 'Oh La La', l'unica cover del disco, canzone dei Faces che ai tempi perfino Rod Stewart si rifiutò di cantare, salvo poi farla sua da solista, lasciando l'incombenza a  Ron Wood che se la cavò alla grande. Andrea non solo la canta ma riesce anche a vestirla con i suoi abiti.

Se 'Fires In My Bones' è un folk con strumenti a corda e violino che conducono verso terre irlandesi, il finale del disco sembra allargare gli orizzonti sonori verso soluzioni più ardite: prima con 'Come Home' che assume quelle trame cupe e misteriose che Daniel Lanois imbastì per Oh Mercy' di Bob Dylan, poi con  'The 'Disappearing Child' che avanza in un crescendo quasi orchestrale che mi ha ricordato certe composizioni di  Glen Campbell (di rimando anche Western Stars di Bruce Springsteen) per poi concludersi con la già citata 'The Real Stranger' dove contrabbasso e percussioni preparano l'entrata in scena del sax di Colley che si prende tutta la scena. Canzone dalla grande atmosfera e degna chiusura di un disco dal fascino oscuro, misterioso, avvolgente, dai tratti filmici e dal carattere ben preciso. 

Registrato tra lo Studio Rick Del Castillo in Texas dove hanno suonato ospiti come Matthew Smith, Haydn Vitera, Jason Murdy e il Buca Recording Studio di Montichiari  con Simone Piccinelli in prima linea e una lunga schiera di musicisti bresciani: Ottavia Brown, Pietro Gozzini, Simone Grazioli, Simone Helgast, Giulia Mabellini, Matteo Rossetti.

L'altra sera ero a vedere Steve Wynn quando un amico particolarmente curioso mi ha chiesto quale fosse l'ultimo disco da me ascoltato: consigliandolo, gli ho risposto questo, in macchina, durante il tragitto verso Torino. Consiglio che allargo anche a tutti voi, naturalmente.





mercoledì 3 aprile 2024

RECENSIONE: LITTLE ALBERT (The Road Not Taken)

LITTLE ALBERT   The Road Not Taken (Virgin/Universal, 2024)



blues again

Che i Messa siano una delle rock band italiane più interessanti apparse negli ultimi anni è ormai un dato di fatto assodato: parlano chiaro i loro dischi, i loro concerti, i loro tour  negli Stati Uniti (la foto di copertina scattata in Arizona) e le presenze ai maggiori festival europei. Alberto Piccolo della band veneta è il chitarrista (qui anche voce) e per la seconda volta si concede l'uscita solistica sotto il nome, non troppo camuffato, di Little Albert. Ha firmato per la prestigiosa Virgin e fatto uscire questo The Road Not Taken riprendendo quella strada blues iniziata quattro anni fa con il precedente Swamp King ma che di fatto ha iniziato a percorrere appena ha preso una chitarra in mano quando in casa giravano i dischi dei Led Zeppelin. Qualcosa che ha dentro, si sente e lo si capisce guardandolo sopra a un palco.

Ad accompagnarlo la batteria di Diego Dal Bon e il basso di Alex Fernet, più l'aiuto nella stesura dei testi della compagna di band nei Messa Sara Bianchin. Registrato alla vecchia maniera all'Outside Inside  Studio insieme a Matteo Bordin.

Un disco blues che pare uscito tra i fine anni sessanta e i primi settanta: qui si parla la lingua dei Cream, dei Led Zeppelin, dei Ten Years After, Johnny Winter, Blue Cheer, Black Sabbath, Hendrix e Steve Ray Vaughan, più tutti i padri neri naturalmente, aggiungendo quel tocco personale derivante dai suoi studi jazz.

Se l'iniziale 'Still Alive' tradisce l'amore per l'hard blues hendrixiano e lo stoner, proseguendo le cose si fanno via via sempre più interessanti e complicate. 'Demon Woman' batte territori da "dirigibile" inseguendo Jimmy Page (tornato in auge sulla bocca di tutti, se mai qualcuno l'abbia  dimenticato, dopo il film al cinema dei Led Zeppelin dove pare un extraterrestre non replicabile), 'See My Love Coming Home' è lenta come il più nero sabbath con il bel solo finale, ' Hiding All My Love Away' e 'Magic  Carpet Ride' volano alte di psichedelia e prog, 'Blue And Lonesome' di Little Walter è l'unica cover,  fino ad arrivare a 'This House Ain't No Home', la mia preferita, dinamica, prova di squadra per power trio, con i suoi cambi di tempo, soffusa pronta ad esplodere con la lunga jam finale che passa dal jazz, altro suo grande amore. Alberto è uno dei migliori chitarristi italiani degli ultimi dieci anni: tecnico ma anche pieno di passione, non aggiunge mai troppo,  fa il giusto, lasciando spazio alla composizione. Trentasei minuti che volano, con la non scontata bravura di lasciare il suo personale tocco in un genere destinato all'eternità.





martedì 2 aprile 2024

TYGERS OF PAN TANG live@Legend Club, Milano, 30 Marzo 2024



Diciamolo: alcuni grandi gruppi della NWOBHM a distanza di più di quarant'anni dalla loro apparizione sono ancora in splendida forma, pur con l'età che avanza, con le immancabili defezioni che la vita porta in conto e con l'inevitabile innesto di nuovi componenti a portare forze nuove. Qualcuno che storce il naso, comunque, c'è sempre: Jacopo Meille prima del concerto mi ha raccontato di quanti non riescano ancora ad accettare che i Tygers Of Pan Tang girino il mondo con questo nome perché è rimasto un solo componente originale."Quanti gruppi possono vantare tutti gli originali in formazione? Forse solo gli U2". 

L'esempio degli ultimi album di Judas Priest e Saxon freschi di pubblicazione le  cantano chiaro alle nuove generazioni, il DNA non mente (il prossimo weekend insieme live a Milano per chi ci sarà), i Tygers Of Pan Tang guidati dal veterano chitarrista Robb Weir, uno che ci crede ancora, si accodano  e confermano il tutto su disco con lo strepitoso Bloodlines uscito l'anno scorso (sapete quei dischi perfetti dove forza e melodia sono incastrate in modo  spettacolare e le canzoni ci sono e funzionano? Eccolo!) e live dove passato e presente si rincorrono senza prevalere l'uno sull'altro.  Jacopo Meille con la sua presenza bluesy, "toscana" e "Plantiana" è in formazione da vent'anni, il terremotante batterista Craig Ellis pure (più Tygers Of Pan Tang di così), i più recenti innesti di Francesco Marras che ha portato il suo funambolico e fresco chitarrismo donando pure un altro pezzetto d'italia alla band britannica (siamo a 2/5) e del basso di Huw Holding, sinonimo di mestiere e solidità d'altri tempi, hanno donato ulteriore vivacità a canzoni entrate di diritto nella storia del metal britannico.

Album come Wild Cat (Euthanasia, Slave To Freedom, Suzie Smiled), Crazy Nights (Do It Good, Love Don't Stay, Running Out Of Time), Spellbound (Gangland, Hellbound) non fanno ombra alle canzoni degli ultimi vent'anni (Destiny, Keeping Me Alive) e dell'ultimo uscito Bloodlines (A New Heartbeat, Fire On The Horizon, Back For Good, Edge Of The World) così come i ricordi del passato non sembrano mettere in ombra una formazione vitale e scalpitante che ha ancora qualcosa da dire. Non c'è traccia di tempi passati, revival e nostalgia ma solo di presente e futuro. Buona cosa per una band nata nel 1978.

Di imminente uscita un nuovo live album ma il consiglio è di passare a vederli per togliersi ogni dubbio.