sabato 8 giugno 2024

RECENSIONE: KING HANNAH (Big Swimmer)

KING HANNAH - Big Swimmer (City Slang, 2024)




avanti tutta

Le prospettive su alcuni artisti cambiano radicalmente dopo averli visti sopra un palco. I King Hannah sono delle anti-rockstar per eccellenza. L'ho appurato l'anno scorso quando suonarono prima dei Wilco al Todays Festival di Torino. La loro musica che su disco arriva con poca immediatezza ma arriva, live mi prese prima la testa per arrivare solo dopo alle gambe, senza trucchi e nessun inganno.

Hannah Merrick, chitarra e voce e Craig Whittle, chitarra elettrica, accompagnati dalla loro sezione ritmica salirono sul palco timidamente senza lo straccio di un look e con toni quasi dimessi ma piano piano dopo la mente iniziarono a impossessarsi dei corpi grazie alla loro idea di rock: molto basica, lo fi, senza inutili sovrastrutture, diretti e genuini dove il mood ipnotico, melodico e intrigante dei testi dalla penna cinematografica cantati o quasi recitati con voce salmodiante dalla Merrick vengono accompagnati e poi squarciati dell'elettricità delle chitarre che irrompono e  allungano ('The Mattress' e 'Milk Boy' qui presenti sono buoni esempi) con fare grezzo, spesso imperfetto come farebbe la old black del caro vecchio Neil Young.

Un'onda che da calma si fa tempestosa per poi smorzarsi nuovamente e riprendere vigore con la base ritmica che fa da accompagnamento senza mai prevaricare.

Presentarono il debutto I'M Not Sorry , I Was Just Being Me (2022) a cui aggiunsero la cover di 'State Trooper' di Springsteen presa da quel Nebraska che sembra dettare la via della sottrazione. 

Questo Big Swimmer è il loro american dream che in qualche modo si è avverato e materializzato molto presto in undici canzoni che riescono a darne una cifra stilistica più concreta e personale rispetto al primo disco, certamente più vario. Anche se non mancano divagazioni come  la più spensierata 'Davey Says', la title track che apre il disco in acustico per poi virare nell'elettrico (pure manifesto del loro pensiero) e l'ambient di 'This Wasn't Intentiobal'.

 Pensato e scritto durante i mesi di tour negli States  è un vero e proprio diario di viaggio da nord a sud, da una giornata tipo a  New York trascorsa tra i locali ('New York, Let's Do Nothing') fino a raggiungere i pericolosi confini con il Messico ('Somewhere Near El Paso') di due musicisti di Liverpool che caricano di suggestioni le ore di quotidianità trascorse in viaggio, spiando fuori dai vetri  e vivendo in diretta il proprio sogno americano anche citando altri artisti viventi e non ('John Prine On The Radio') e invitando la cantautrice Sharon Van Etten a collaborare in un paio di pezzi.

Inquietudine ed esuberanza che si tengono per mano. Ci sento la strada battuta dal sole e ci vedo le luci al neon in piena notte.

In questi giorni stanno avendo grande hype tra le riviste di settore e nel web, tanti cori di  positivo entusiasmo  ma naturalmente anche parecchi detrattori che ritengono eccessiva questa sovraesposizione (ho letto pure tante sciocchezze gratuite). Come sempre la verità sta nel mezzo.

Io dico solo che se in un disco di oggi ci trovi tracce di Neil Young con i Crazy Horse, Lou Reed, i Velvet Underground, Kim Gordon, Sonic Youth, Patti Smith, Lucinda Williams e Slint un disco brutto non può esserlo. Poi mi è venuto in mente Daniel Lanois: qui ci sarebbe materiale per lui. Chissà cosa riserverà il futuro?





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