martedì 17 luglio 2012

RECENSIONE: JIMMY CLIFF ( Rebirth )

JIMMY CLIFF  Rebirth  ( Sunpower-Universal, 2012)

Quella Pasqua freddolosa e frizzante del 1993 allo stadio Bentegodi di Verona me la ricordo molto bene. Su in tribuna vidi il campione olimpico Gelindo Bordin-ora abita dalle mie parti-, pochi minuti dopo, con uno scatto degno del maratoneta a pochi metri dall'arrivo, mi ritrovai nel scivoloso prato calpestato, dieci anni prima,dai tacchetti del magico e miracoloso Hellas Verona di Osvaldo Bagnoli, scudettato nella stagione 1984-85. Pioggia fino a pochi minuti prima dell'inizio del concerto, Bruce Springsteen, fazzoletto al collo, senza la E Street Band e salute un po' così, dopo una manciata di canzoni fece salire sul palco l'ospite Jimmy Cliff. I due eseguirono insieme un solo classico del reggae: Time Will Tell. Successivamente eseguì anche Many River to Cross, però inspiegabilmente senza il suo autore.
Jimmy Cliff è rimasto l'ultimo superstite di quella triade reggae "Marley-Tosh-Cliff" che raggiunse il mainstream e riuscì a sdoganare il ritmo in levare portandolo ai bianchi. Jimmy Cliff durante la sua altalenante carriera non si è fatto mancare mai nulla. Divenne l'idolo degli skinhead londinesi nei '60; intrattenne rapporti con il rock ripagati con stima reciproca (le collaborazioni con Paul Simon, Rolling Stones, Elvis Costello, Sting, Joe Strummer ) tanto da ricevere gli elogi di Dylan (Cliff ha recentemente ringraziato rifacendo impeccabilmente alla sua maniera A Hard Rain's A-gonna Fall) e lo stesso Springsteen che in scaletta ha anche la sua Trapped e  pochi mesi fa, nel marzo 2012 i due hanno duettato ancora insieme al SXSW in Texas; scrisse canzoni sociali ed impegnate come Vietnam, Hard Road to Travel, They Harder They come e Many Rivers to Cross; altre meno serie e più divertenti che gli fruttarono anche qualche soldino negli anni ottanta-vi ricordate del tormentone estivo Reggae Night? del 1983; dovette vivere gli anni più ispirati della sua carriera all'ombra di Bob Marley, quando ebbe strada libera, suo malgrado, si permise lunghi anni sabbatici; divenne perfino un celebre attore in They Harder They Come, film del 1972 con la sua immortale colonna sonora che contribuì, non poco, a diffondere il reggae in tutto il mondo.
Rebirth prende forma a otto anni di distanza dal suo ultimo lavoro Black Magic, album che pur includendo numerosi ospiti era zoppicante nelle canzoni.
Anticipato dall'Ep Sacred Fire uscito nel 2011 e che già vedeva la collaborazione con Tim Armstrong, cantante e chitarrista dei punkers americani Rancid (attesi sabato 21 Luglio al Rock in IdRho a Milano), veri eredi testual/musicali dei Clash, con le dovute proporzioni naturamente. Proprio alla produzione di Armstrong si deve questa rinascita di Cliff. Seguendo il canovaccio della parte più giamaicana dei suoi Rancid (il disco Life Won't Wait-1998, nè è brillante esempio) e dei suoi dischi solisti ska/rock steady( Poets Life-2007 ), Tim Armstrong riesce a riportare Cliff verso le radici del reggae senza cadere nelle facili soluzioni elettroniche e di synth artificiali che spesso facevano capolino nei dischi più commerciali di Cliff (mi ricordo di un  poco riuscito Breakout) ma con una vera band-la stessa che lo accompagna da solista-con lo stesso Armstrong alla chitarra, J Bonner al basso, Scott Abels alla batteria, Kevin Bivona al piano e Dan Boer all'organo, ed una nutrita sezione fiati e coriste. Prova ne è la splendida rilettura latineggiante di Guns of Brixton dei Clash. Canzone in grado di mettere d'accordo tutti, rockers, punkers e reggaers così come Ruby Soho, canzone dei Rancid inclusa in ...and Out Come the Wolves(1995) che Armstrong affida alla cura ska di Cliff. Due brillanti e fresche riletture.
Ma è il resto del disco a stupire. Un ritorno alle radici che fa muovere il sedere (provate a rimanere fermi durante lo scatenato Rhytm and Blues alla James Brown di Outsider) e pensare il cervello: Children's Bread, World Upside Down (scritta con lo scomparso "padre del reggae" Joe Higgs) sono il reggae/ska perfetto con i messaggi perfetti. Mondo sottosopra con il pane in mano alle persone sbagliate.
Cry No More  inizia con voce spezzata (ottima prova vocale in tutto il disco) e l'organo ad accompagnarla, poi sprofonda nelle radici più profonde del soul/reggae.
One more, primo singolo e presente anche in una alternate version è ska da sound system che rapisce al primo ascolto e fa coppia con Reggae Music, testamento d'amore verso la sua musica ("Reggae Music's gonna make me feel good, reggae music's gonna make me feel alright now"), roots reggae a ripercorrere cronologicamente la sua carriera dal 1962 in Orange Street ad oggi.
Bang inizia come solo i Clash avrebbe potuto fare in Sandinista! per poi diventare un reggae/rock trascinante come  Rebel Rebel con la sezione fiati a contagiare un reggae corale e frizzante. Il messaggio d'amore universale di Blessed Love e Ship is Sailing sono talmente vintage che è difficile non pensare che il buon Tim armstrong  sia per Jimmy Cliff quello che  Rick Rubin fu per la rinascita artistica di Johnny Cash.
Un disco suonato, divertente, solare e diretto che ci riconsegna un sessantaquatrenne tra i principali protagonisti della scena Reggae mondiale-anche se troppo riduttivo inserirlo in un solo genere musicale, visto il personaggio- e tra i principali diffusori di messaggi socialmente positivi ancora esistenti. Anche grazie a lui la voce dei poveri giamaicani è diventata quella di tutti i poveri del mondo alla pari dei più grandi folk singers della storia.
Qualche volta è bene dirlo alla Jimmy Cliff:"Reggae Music 's gonna make me feel good" .



vedi anche RECENSIONE: GASLIGHT ANTHEM-Handwritten (2012)






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