venerdì 24 novembre 2023

RECENSIONE: DIRTY HONEY (Can't Find The Brakes)

 

DIRTY HONEY  Can't Find The Brakes (Dirt Records, 2023)




California dreamin'

Siamo ancora fortunati dai. Nel 2023 abbiamo due possibilità per ascoltare quello che tutti chiamano ancora classic rock, quella miscela di rock&roll,  blues e hard rock che non sembra avere date di scadenza pur avendo vissuto i propri giorni migliori in passato con strascichi a scadenza più o meno fissa: da una parte ci sono ancora band in pista da sessant'anni che sfornano dischi freschi e battaglieri (sì mi sto riferendo ai Rolling Stones) dall'altra si può dar fiducia a giovani band che certi suoni li hanno metabolizzati così bene nel proprio DNA che a volte pare di ascoltare gli originali dei bei tempi che furono, come i californiani Dirty Honey arrivati all'importante traguardo del secondo disco (c'è anche un Ep di debutto). Tra una decina di anni (ad essere ottimisti) ci rimarranno solo i secondi, lo sapete vero?  Quindi stiamo buoni e godiamoci entrambi senza troppe seghe filosofiche dietro. Il titolo Can't Find The Brakes gioca sul fatto che la band californiana è in tour ininterrotto da un paio di anni, aprendo per colossi come The Who, Kiss, Black Crowes e Guns 'N Roses ma anche come headliner, proprio come li ho visti questa estate a Torino e devo dire che mi hanno fatto una buonissima impressione, presentando anche qualche canzone qui presente. Una band senza trucchi e sovrastrutture, gente che sale sopra a un palco, attacca gli strumenti e parte. Un po' come l'artista graffitaro Kelly “RISK” Graval ha disegnato la copertina: d'istinto.

Musicisti con l'attitudine giusta che sanno scrivere canzoni, buoni riff e conosco così bene il passato da riuscire a proiettarlo in qualche modo nel futuro. Gente che ha studiato la storia del rock'n'roll con passione e voti alti. Ecco quello che ci aspetta nel futuro.

Pure per registrare queste nuove undici canzoni i Dirty Honey hanno viaggiato: sono volati in Australia dal produttore Nick DiDia.

L’album Can’t Find The Brakes è stata un’esperienza completamente diversa rispetto alla realizzazione dell’album Dirty Honey. Il Covid ha creato una situazione in cui non stavamo realmente vivendo o sperimentando. Ma, per il nostro nuovo album, abbiamo potuto trascorrere di nuovo del tempo insieme. Abbiamo trascorso più di un mese con Nick, il nostro produttore, nel suo studio in Australia. Il semplice fatto di tornare in studio con lui – senza Zoom questa volta – essendo tutti noi fisicamente insieme nello stesso spazio, ci ha permesso di fare qualche sperimentazione, il che ha contribuito all’ampio spettro di emozioni del nuovo album” racconta il cantante Marc LaBelle.

Quello che più mi piace dei Dirty Honey, a parte la voce di LaBelle che insieme a Jay Buchanan dei Rival Sons possiamo considerare tra le migliori voci hard con sfumature soul di questi anni, è quel groove funky che batte come un metronomo sotto a quasi tutte le canzoni, quel ritmo incalzante che avevano gli Aerosmith negli anni settanta per intenderci. Lo si può ascoltare in episodi come 'Won't
Take Me Alive' o nella più veloce 'Can't Find The Brakes'. Altrove lasciano trasparire influenze southern come in 'Get A Little High' o nell'apertura 'Don't Put Out The Fire', che rievoca i primi Black Crowes o i Cinderella di Heartbreak Station,  bluesy in 'Ride On', country e folk nella ballata 'You Make It All Right', i Led Zeppelin della finale 'Rebel Son'.

Li si può apprezzare ancora meglio dal vivo guardando il bassista Justin Smolian che da questo disco ha un nuovo compagno di ritmo: il batterista Jaidon Bean.



Detto di Labelle, del suo carisma sul palco e della sua voce in evidenza nelle altre slow song, l' acustica e molto Led Zeppelin giocata sul fingerpicking 'Coming Home' e il falsetto che usa nella ballata 'Roam" puntellata da un Hammond , merita un plauso anche la chitarra di John Notto, sul palco le sue mosse sono un ben calibrato mix tra Eddie Van Halen e Gary Moore, mentre la sua tecnica non è in discussione e i riff e la ritmica in una canzone cone 'Dirty Mind' sono lì da ascoltare.

I Dirty Honey non vogliono certo rivoluzionare il rock ma portarlo solo il più avanti possibile nel tempo e hanno tutti i numeri per farlo.





domenica 12 novembre 2023

KARMA live@Spazio 211, Torino, 11 Novembre 2023


Le rimpatriate in stile "compagni di scuola" dopo trent'anni di lontananza spesso si consumano in delusione. Ma ti ricordi come era bella quella lì? Ma cosa le  è successo? E quello? Irriconoscibile senza capelli. Queste le conclusioni più scontate. La musica invece, a volte, fa miracoli e possono succedere cose straordinarie tipo: che i Karma tornino dopo 27 anni di assenza con un disco monstre come K3 e un nuovo tour che ne conferma tutta la bontà.  L'hanno suonato integralmente creando un lungo ponte che dagli anni novanta li ha catapultati nei nostri giorni. Poi nel futuro. E il tempo sembra essersi fermato veramente ma con la maturità acquisita in tutti questi anni: Andrea Viti dall'alto della sua calma Zen è lo stesso motore ritmico di sempre, David Moretti canta e dirige (da art director) con strordinaria presenza scenica e pienezza, Ralph Salati (Destrage) è il chitarrista che in un mese ha imparato le canzoni di tre dischi ed è partito in tour in sostituzione dell'assente Andrea Bacchini, Pacho e Diego Besozzi là dietro creano un muro percussivo che ha pochi eguali, un fiore all'occhiello concesso a pochi.


La seconda tappa del tour, dopo l'esordio sold out in casa della sera prima, al Bloom di Mezzago, con tanto di ospite (Manuel Agnelli), li vede sul piccolo palco dello Spazio 211, locale  che ha vissuto momenti terribili pochi mesi fa ma che oggi è ancora qui, aperto e resistente per ospitarci. La sua chiusura sarebbe stata un fallimento della società tutta e la musica non lo avrebbe certamente meritato.

Se K3 è un disco monolitico e intenso da prendere in blocco seppur ricco di sfumature, contempraneo e per nulla nostalgico, un'ascesa, le sue canzoni ('Neri Relitti', 'Abbandonati A Me', 'Atlante', 'Il Monte Analogo' e 'Eterna' le mie preferite)  vanno a incastrarsi in modo perfetto con il passato, o meglio è K3 che sembra accoglierie e lasciare spazio al resto.

Alle due cover, 'Quello Che Non C'è' degli Afterhours (sbirciando la scaletta prima del concerto qualcuno aveva ipotizzato la presenza di Agnelli anche stasera ma "non possiamo portarcerlo sempre dietro" ha ironizzato Moretti) canzone che Viti contribuì a scrivere durante la sua permanenza nel gruppo di Agnelli, e 'Teardrop' dei Massive Attack, scritta e dedicata a Jeff Buckley, fino alle canzoni dei due storici album degli anni novanta: 'Cosa Resta', 'Terzo Millennio', 'La Terra', 'Jaisalmer' e l'immancabile 'Il Cielo' che fa da sipario e grido di liberazione. Un grido di nuova accoglienza e speranza per il futuro.

I Karma sono tornati. Guardando avanti non c'è più troppo spazio per un'altra lunga assenza, quindi per "restare" è l'imperativo che facciamo nostro. Il pubblico caloroso di questa sera il messaggio l'ha mandato chiaro e preciso. Bentornati. 


RECENSIONE: KARMA - K3 (2023)


domenica 5 novembre 2023

RECENSIONE: PAUL RODGERS (Midnight Rose)

PAUL RODGERS  Midnight Rose (Sun Records, 2023)



libero

Il mondo è anche quel brutto posto dove nessuno parla del nuovo disco di inediti di Paul Rodgers dopo 23 anni di assenza (l'ultimo fu Electric del 2000) con in mezzo tante cose tra cui i Queen naturalmente, un buon potenziale buttato in canzoni così e così tendenti al "dimenticate in fretta" (The Cosmos Rocks), un tour di reunion con i Bad Company, parecchie cover e un buon live per ricordare i vecchi tempi dei Free (Free Spirit del 2018).

Sì ok, anche Midnight Rose  non sarà un capolavoro ma lui è pur sempre uno dei più grandi e influenti cantanti rock blues apparsi sulla scena e dimenticarsene così non fa  noi onore. Midnight Rose, suonato insieme alla band che lo accompagna in tour,  ha il lancio del nuovo disco dopo tanta assenza, la produzione di Bob Rock (e della moglie Cynthia Rodgers), l'uscita per la prestigiosa Sun Records (un sogno per lui cresciuto a pane e Elvis) ma nella sostanza ha numeri di un EP: otto canzoni per la durata totale di poco più di mezz'ora. Forse però è solo un disco alla vecchia maniera a cui non siamo più abituati troppo. Paul Rodgers ha 74 anni ma ha mantenuto quella voce unica e graffiante che possiamo apprezzare sia nei momenti più rock ('Take Love' sa tanto di Bad Company e southern rock) e hard ('Photo Shooter', 'Living It Up' ha il tiro hard dei seventies e la ricerca della tranquillità nel testo) sia nelle ballate ('Midnight Rose' piano e archi per atmosfere molto Irish, la spagnoleggiante e soul 'Dance In The Sun', una 'Highway Robber' da viaggio on the road) e nei blues, l'iniziale 'Coming Home' e la finale 'Melting' che vuole riportare tutto agli anni meravigliosi dei Free.

Se poi consideriamo l'ictus che lo ha colpito pochi anni fa e da cui è uscito dopo vari interventi chirurgici ("quando mi sono svegliato, ho aperto gli occhi e ho pensato 'Oh, sono ancora qui' ") è comunque bello parlare ancora di Paul Rodgers a prescindere da questo disco comunque onesto, ben cantato, ben suonato e pure piacevole. 






mercoledì 1 novembre 2023

RECENSIONE: KARMA (K3)

 

KARMA  K3 (Vrec, 2023)





il ritorno

I Karma furono un sogno lisergico durato il giro di due soli dischi, anche se Fabrizio Rioda (chitarrista dei Ritmo Tribale e  produttore) ricordo che qualche tempo fa in un vecchio post su facebook confessò che in mezzo ci sarebbe dovuto essere un terzo disco registrato addirittura tra i deserti del Mojave, con canzoni poi disperse da sabbia e vento chissà dove. 

Proprio intorno ai Jungle Sound di Rioda a Milano, i Karma fecero nascere i loro dischi. All'inizio c'era l'amore di David Moretti (voce e chitarra), Andrea Viti (basso), Andrea Bacchini (chitarre), Diego Besozzi (batteria) e Alessandro Pacho Rossi (percussioni)per la psichedelia tardi anni 60, i Pink Floyd, i Led Zeppelin, Jimi Hendrix, in quegli anni novanta si inbastardì  con il grande fermento musicale proveniente da oltreoceano, il grunge di Alice in Chains, lo stoner dei Kyuss. Aggiungete un amore incondizionato per l'oriente e  i suoi ritmi spirituali e otterrete un suono che pochi avevano in Italia in quel preciso momento. E quell'adesivo "grunge all'italiana" andava loro perfin troppo stretto, nonostante la scelta di cantare in italiano faccia loro onore. 

Per questo il rimpianto per un'avventura di così breve durata fu tanto, almeno fino a quando, in tempi di lockdown, iniziarono a girare le prime indiscrezioni su qualcosa che si stava muovendo.

E pensare che Moretti e Viti ci riprovarono nel 2007 con il progetto, desertico e stoner, Juan Mordecai, ma anche quello fu archiviato e dimenticato in fretta. 

Karma (1994) e Astronotus (1996) sono dischi nati dalle lunghe jam notturne ai Jungle Sound di Milano, una comune musicale più unica che rara in quegli anni, frequentata da Afterhours (ecco Manuel Agnelli ospite in 'Nascondimi'), Ritmo Tribale (ecco Andrea Scaglia ospite in 'Una Stella Che Cade') , Casino Royale, Scisma, La Crus. Mentre nel debutto ci sono ancora le terrose radici rock che però piano piano si stavano arrampicando verso il cielo, nel secondo iniziarono un viaggio liquido, stellare, inafferrabile e alquanto affascinante. Un grande cerchio che sembrava chiuso ma che oggi a distanza di  26 anni si riapre e sembra proprio riprendere da quel 1996 aggiungendo alle già note influenze almeno un altro quarto di secolo di musica assorbita (Tool, Radiohead, Porcupine Tree, Opeth e Sigur Ros), masticata e riscritta come pochi in Italia stanno facendo ora. 

David Moretti che ormai vive negli Stati Uniti da molti anni pesca dall'alta letteratura e dalle suggestioni della natura gli spunti per i suoi testi incastonati dentro un flusso di coscienza musicale a cui piace giocare in continuazione con sali e scendi emozionali fatti di liquidità (Luce Esatta) ed esplosioni elettriche (Corda Di Parole). Registrato tra la California e le Officine Meccaniche di Mauro Pagani a Milano, K3 è un lavoro di una intensità quasi devastante, di rinascita (Neri Relitti), di poetica lucidità romantica (Abbandonati A Me), tribalità primordiale (K3), profondità abissale (Atlante) e scalate elettriche in cielo (Il Monte Analogo). Un disco che segue un suo corso, un cammino che lo porta a un finale esaltante scritto in canzoni come Ophelia ed Eterna, undici minuti ricchi, avvolgenti, drammatici, psichedelici, temprati. "Gambe e polmoni". Anticipazione di quello che ci aspetta nell'imminente tour.

Se negli anni novanta i Karma erano una delle band di una scena fiorente e numerosa che ha lasciato musica e ricordi indelebili, oggi sono una mosca bianca, rara, da proteggere e accudire, sperando non sfugga via ancora una volta per altri decenni in cerca di libertà e nuove ispirazioni. Se sarà così l'aspetteremo ancora una volta, intanto godiamoci questo sorprendente presente.

Tra i miei dischi italiani dell'anno.







sabato 28 ottobre 2023

RECENSIONE: RIVAL SONS (Lightbringer)

RIVAL SONS  Lightbringer (A Low Country Sound/Atlantic, 2023)




doppietta

Uscire con un nuovo disco lo stesso giorno dei Rolling Stones non è cosa facile per nessuno. I titoli da prima pagina saranno per la prossima volta. I RIVAL SONS, in verità, con Lightbringer, prodotto ancora una volta da Dave Cobb, vanno a completare la loro opera omnia di questo 2023 che li ha visti già protagonisti a Giugno con la prima parte Darkfighter. Complesso di canzoni nate e registrate nello stesso periodo ma divise in due, un concept sull'oscurità di questi ultimi tempi che poteva diventare un disco doppio ma si è optato per due uscite a distanza. "C'era troppa musica per un solo disco. Non appena ho presentato l’idea di dividerlo a Jay (Buchanan), gli è piaciuta moltissimo” racconta il chitarrista Scott Holiday.

Là regnava una certa rassegnazione, qui l'umore sembra più disteso e ottimista. Dove c'era il buio ora si intravede un barlume di luce. La redenzione ('Redemption').

Ormai non hanno più bisogno di troppe conferme e possono permettersi di aprire l'album con i ben nove minuti di Darkfighter, cangiante canzone che fa da ponte con il precedente album (che portava quel titolo) ne riassume le caratteristiche che esplodono nella loro parte più selvaggia e hard in altre canzoni come la tirata 'Sweet Life' e nella parte più distesa nella finale 'Mosaic'.

"Darkfighter segna una nuova era dei Rival Sons e Lightbringer è la chiara definizione di ciò che siamo ora. Con Darkfighter abbiamo aperto un varco, ma Lightbringer è un passo avanti rispetto alla nostra innovazione ed esplorazione personale. Si spinge un po’ più in là. Abbiamo davvero preso tutto nelle nostre mani e ci siamo spinti fino a dove potevamo arrivare" così parla Jay Buchanan.

La calma che tocca il folk bucolico, le esplosioni hard, gli allunghi di tastiere che fanno immaginare la lontana stagione progressive, tutto segni distintivi del loro approccio musicale mai stantio, dove il passato seventies ben si incastra con il presente ('Before The Fire').

Jay Buchanan rimane lo strepitoso cantante di sempre, graffiante ma anche pregno di calore soul, Scott Holiday un chitarrista che tra riff di elettrica, slide e arpeggi acustici sa il fatto suo. Sicuramente tra i migliori della sua generazione e da tenere in considerazione.

 A proposito di Stones, in questi giorni Mick Jagger ha dichiarato: "i Maneskin sono oggi la più grande rock band al mondo. Stupisce che sia un gruppo italiano». Beh per me una delle più grandi rock band di classic rock di oggi proviene da Long Beach, California, ha ormai una carriera lunga 14 anni sul groppone e otto dischi in bacheca. Per i miscredenti l'appuntamento è all'Alcatraz di Milano, domenica 29 Ottobre.






martedì 17 ottobre 2023

RECENSIONE: THE RECORD COMPANY (The 4th Album)

 

THE RECORD COMPANY  The 4th Album (Round Hill Records, 2023)





ritorno alla partenza


Che i Record Company avessero le strade spianate per ottenere un buon successo lo si capì fin  da subito. Nati a Los Angeles facendo bisboccia in un pub intorno a un disco epocale come Hooker 'N Heat che girava, prima ancora dell'uscita del loro esordio Give It BackTo You (2016), la loro canzone 'Off The Ground' fu scelta dalla birra Miller Lite per uno spot pubblicitario.  La fama accresce velocemente e si trovano a suonare come spalla di Buddy Guy, B.B.King, Social Distortion, Bob Seger, Blackberry Smoke. Quando esce il debutto che in copertina li ritraeva on stage, loro habitat naturale, i consensi furono unanimi e il disco finì in nomination per i Grammy . Il successore All Of This Life (2018) batte le stesse strade di quel blues che scavava nel passato ma con costanti proiezioni nel presente che ne garantivano una rara dote di freschezza. Poi con il terzo disco Play Loud (2021) fecero il classico passo più lungo della gamba: si aprirono a suoni più commerciali, patinati e moderni che snaturarono il loro sound primordiale. La loro casa discografica, la Universal, li abbandonò.

"È stato difficile da digerire, perché avevamo già deciso di scrivere il disco più essenziale e grezzo che avessimo fatto negli ultimi anni, e avevano dei demo di questa nuova musica. Combinando tutto questo con alcune nuove realtà economiche, un tour cancellato, ci siamo sentiti davvero come se tutto stesse crollando all’improvviso” racconta il bassista Alex Stiff.

Sono passati due anni  e la band di Chris Vos (voce, chitarre e armonica), Alex Stiff (basso) e Marc Cazorla (batteria) decide di tornare all'umiltà delle origini: mettono la produzione nelle mani delli stesso Stiff, cambiano casa discografica e ritornano veramente al suono semplice e primordiale del blues, senza troppe sovrastrutture: chitarre, voce, armonica, basso e batteria.Una scelta che paga sempre. 

 “Un tema comune in questo disco era mantenere il suono grezzo e un ritorno alle origini. Con Talk To Me abbiamo utilizzato la stessa batteria scadente ascoltata nelle nostre prime registrazioni".

Così tra rock blues movimentati e caricati a groove come 'I'm Working' e l'apertura 'Dance On Mondays' ("mi riprendo la mia vita e non ballerò per nessuno" è il suo significato), rock’n’roll blues guidati dall'armonica  ('I Found Heaven'), rockabilly ('Roll With It') e momenti acustici come l'inno On the road 'Highway Lady' e la finale 'You Made A Mistake', un blues che sa di antico, i Record Company dimostrano quanto la semplicità sia sempre il miglior antidoto per riprendersi in mano la carriera.





sabato 7 ottobre 2023

RECENSIONE: GRAVEYARD (6)

 

GRAVEYARD  6 (Nuclear Blast, 2023)




facciamolo diverso

Un sabato notte, siamo quasi a fine concerto dei Graveyard al Bloom di Mezzago: i quattro svedesi salutano e si dileguano nel backstage. Le luci del locale non si accendono. È chiaro: c’è tempo per altre canzoni. Saranno poi tre. Davanti al palco due fan (ma chiamiamoli pure coglioni) che durante il concerto non hanno fatto altro che farsi i cazzi loro (ma a questi individui il biglietto chi lo paga?) parlando a voce alta e facendo spola tra la sala e il bar con birre medie in mano, approfittando dell’assenza della band decidono di raccattare tutti i plettri (quattro o cinque) che il bassista Truls Mörck aveva comunemente infilato nell’asta del microfono. Quando i Graveyard rientrano per i bis, dopo due minuti di canzone, il bassista fa due passi in avanti, allunga la mano verso il microfono cercando i plettri con le dita, abbassa lo sguardo e non ne trova più nemmeno uno. Sorpreso e corrucciato, indietreggia cercandone altri sopra gli ampli. Non li troverà e finirà il concerto senza plettri. A questa scena i due coglioni (non sono dei fan ho deciso!) se la ridono con i loro miseri feticci nelle tasche, lì mischiati a chiavi, chewing gum e ai loro cervelli…

Si concluse così il concerto dei Graveyard al Bloom di Mezzago nell'ottobre del 2018, concerto che portava in giro il loro ultimo album Peace, uscito pochi mesi prima, un disco che ne sanciva il ritorno dopo pochi mesi bui, durante i quali decisero addirittura di sciogliersi. 

Sono trascorsi cinque anni da allora e gli svedesi provenienti dall'isola di Hisingen, quartiere operaio di Goteborg,  ritornano con 6 (il numero dei loro dischi naturalmente), un disco che testimonia, se ancora ce ne fosse bisogno, di come la band abbia ragione di esistere. Rispetto al precedente e ruspante Peace che guardava all'hard blues queste nuove nove tracce circondate da un progetto grafico molto vintage, portano il suono verso un'aurea intimista e psichedelica di stampo seventies, viaggiando leggere più in cielo che in terra.

Fin dall'apertura 'Godnatt', liquida e lisergica quanto basta per tarare il mood dell'intero album. A farle  compagnia le impronte desertiche lasciate su 'Breathe In Breathe Out' con i cori femminili che allungano sul gospel, la malinconia di una 'Sad Song' che nel titolo ha già tutto, la psichedelia di 'Bright Lights' fino alla lenta calata della finale 'Rampant Fields', blues notturno e fumoso.

Le chitarre di  Joakim Nilsson (anche voce) e Jonatan La Rocca Ramm giocano spesso di fino ma sanno anche ritornare all'antico dando un tiro hard zeppeliano a 'Twice', suonando  blues nel crescendo di 'No Way Out', nello sviluppo alla Doors del  rock’n’roll di 'I Follow You' incastonato tra inquietanti trame bluesy folk, nella cavalcata 'Just A Drop' che si guadagna il titolo di canzone più heavy del disco.

Un disco "diverso" che va ad arricchire la loro discografia e che li conferma come una delle migliori band europee degli ultimi anni nelle latitudini seventies che non passeranno mai si moda.





domenica 24 settembre 2023

RECENSIONE: RUDY MARRA & the M.O.B. ft. Dana Colley (Morfina)

RUDY MARRA & the M.O.B. ft. Dana Colley  Morfina (Viceversa Records, 2023)



effimera come la morfina

A più di trent'anni da quella sua apparizione al festival di Sanremo del 1991 dove venne subito eliminato nella categoria "esordienti" presentando la canzone Gaetano (ma vinse il premio della critica), Rudy Marra è tornato quest'anno con il suo quinto disco in carriera, l'ultimo fu Sono Un Genio Ma Non Lo Dimostro datato 2007.

In quel lontano Sanremo interruppe il presentatore con un "lasciami cantare che è meglio" mettendo subito in chiaro le cose. Dritto al punto.

Marra è uno che fa uscire dischi solamente quando ha veramente qualcosa da sputare fuori (quando non escono dischi scrive anche libri), non certo schiavo delle mode o della frenesia del mercato discografico o di quel che è rimasto per chiamarlo ancora così. Un cane sciolto che si aggira beffardo tra la musica d'autore italiana lasciando morsi, graffi e qualche acida pisciata disturbante al suo passaggio. Un cantautore per chi ha voglia di uscire dai soliti binari preconfezionati da case discografiche e mass media.

Morfina è  un concept album che rinsalda la sua collaborazione con Dana Colley e tutto l'amore per i Morphine, celebrati sia nel titolo dell'album (che in verità prende il nome dal romanzo di Bulgakov) sia con ben due cover (Thurday che diventa Corde e Let’s Take A Trip Together riadattata in Su e Giù) più una composizione che vede come protagonisti nel testo Mark Sandman, compianto leader dei Morphine e la sua compagna Sabine Herechdakian (Mark & Sabine).

Canzoni appuntate come pagine di un diario, dove male e bene, buono, cattivo, salute, malattia, sano e guasto  lottano eternamente per prevalere nel cammino della vita, quella lunga parentesi (a volte pure breve), imbastita su tante scelte giuste e molte sbagliate nel tentativo di catturare quella  felicità che lo stesso Marra sostiene "effimera come la morfina". Blues scarni e all'osso (l'ipnotica Amore Sexy, la più movimentata e di denuncia Voglio il Lavoro), carichi di beffarda ironia (Di Mercoledì), smussati negli spigoli dalla presenza del sax di Colley che serpeggia con disinvoltura tra le parole in canzoni che sfiorano  il jazz (Sto Perdendo Tempo), il funk (Oggi Sto Guasto) e con dediche al suo Salento (Filare De Tabbaccu). Tra le sedici canzoni spuntano anche altre due cover rifatte in modo personale: la strumentale Obscured By Clouds dei Pink Floyd e una Diesel, rallentata e fumosa, di Eugenio Finardi con lo stesso autore ospite.

Tra le migliori uscite italiane di questo 2023 ma pochi ancora lo sanno.






domenica 17 settembre 2023

RECENSIONE: JONATHAN WILSON (Eat The Worm)

JONATHAN WILSON  Eat The Worm (BMG, 2023)



alzare l'asticella

Ritorna Jonathan Wilson ma dove sia veramente diretto è sempre difficile capirlo. Lo avevamo lasciato nei pressi di Nashville con il precedente Dixie Blur (2020) quello che era il suo disco più roots e terreno della carriera. Sembrava aver piantato i piedi in terra. Invece... Intanto ha continuato la sua carriera di produttore (Father John Misty, Lana Del Rey) e musicista e la collaborazione con Roger Waters è il fiore all'occhiello che ripaga la sua bravura.

"Sono finalmente arrivato al punto in cui mi sento totalmente libero di correre dei rischi" e qui Wilson ne corre tanti. 

I piedi si alzano da terra e iniziano a librare in cielo, attraversando decenni di musica rock e dintorni. Un lungo ponte tra passato e futuro attraversato con spavalderia, coraggio, intuizione. Sì: corre tanti rischi. Il primo proprio quello di non essere capito e quindi subito accantonato dai più pigri. Ma pochi oggi riescono a unire così tanti puntini con occhi visionari e totale devozione alla musica come Wilson: sia che  passi da Harry Nilsson ('Marzipan' dove cita Jim Pembroke, cantautore britannico, frontman della band prog finlandese Wigwam che pare sia stato la maggior ispirazione di questo disco) alle strambe alchimie  Zappiane, dai sempre amati Pink Floyd alla West Coast californiana ('Hollywood Vape' con i suoi scatti rock), da arrangiamenti alla Bacharach ('Ridin In A Jag') al jazz, con pochi  battiti d'ala ma con una visione d'insieme magniloquente dove le canzoni prendono strade cangianti, a volte impreviste, a tratti languide e liquide ('Ol' Father Time', la malinconica 'Lo And Behold'), solari come succede in 'The Village Is Dead', la più movimentata con il suo forte e aspro sapore sixties.

Un pianoforte come guida ('Hey Love', 'East LA' battono i tasti di Randy Newman), arrangiamenti orchestrali di fiati e archi, sax improvvisi, synth, citazioni curiose e non (il bizzarro carnevale di 'Bonamossa', il soffuso R&B 'Charlie Parker' che si trasforma in prog pinkfloydiano, la bossa nova 'Wim Hof'), svolazzi sperimentali e percorsi tortuosi.

Pura psichedelia pop (in 'B.F.F.' traccia certi aspetti negativi dell'industria discografica) dove Wilson suona quasi tutto da solo, anche se un grande aiuto lo da Drew Erickson.

Ambizione e coraggio tarati a cento per chi vuole immergersi in qualcosa di poco rassicurante. Certo, a volte dalla musica vorremmo solo un abbraccio amico, poteva ripetete l'incredibile Fanfare a vita, Wilson invece ti prende per mano, ti invita a fantasticare nuovi mondi. E sognare è  ciò che ci fa rimanere ancora vivi. Wilson è un ottimo corroborante.





mercoledì 13 settembre 2023

RECENSIONE: THE HIVES (The Death Of Randy Fitzsimmons)

 

THE HIVES  The Death Of Randy Fitzsimmons (Disque Hives, 2023)






il disco rock'n' roll dell'estate che sta finendo

Gli svedesi The Hives nonostante i dodici anni di assenza discografica non sono per nulla cresciuti, la parola maturità  nel loro dizionario non è contemplata, il vocabolario dev'essere lo stesso usato in vita anche dal povero e saggio Lemmy Kilmister che soleva ripetere la stessa cosa.

"Il Rock’n’roll deve restare come  nel primo disco di Little Richard" dicono...

"Molta energia ma nessuna direzione – questo è il rock'n'roll!

Allora si invecchia con la stessa voglia di divertirsi che avevano venticinque anni fa quando uscirono a conquistare il mondo con dischi come Barely Legal (1997) e Veni Vidi Vicious (2000). E pensare che questo disco verte intorno alla scomparsa del loro mentore e fondatore, nonché autore di tutti i testi, Randy Fitzsimmons, che ha lasciato loro queste ultime dodici canzoni da suonare e portare in giro. Che poi il signor Fitzsimmons esista veramente o sia un'invenzione  della loro mente passa in secondo piano davanti alla solita centrifuga di rock’n’roll dove punk ('Bogus Operandi'), garage rock ('Countdown To Shutdown', 'Step Out The Way'), power pop ('Two Linds Of Trouble'), boogie ('The Way The Story Goes'), rockabilly ('Crash Into The Weekend') e una  leggera spruzzata di elettronica ('What Did I Ever Do To You?') adornano i loro testi irriverenti, pungenti e sarcastici e quei cori irresistibili e acchiappa like ('The Bomb'). Oltre a Fitzsimmons gli altri mentori (dalla certificata esistenza) sono tutti presenti: da Screamin' Jay Hawkins ('Stick Up') ai Cramps ('Rigor Mortis Radio') fino ai Ramones ('Smoke & Mirrors').

Poco più di mezz'ora inscatolati dentro a una copertina molto sixties e vestita di abiti sgargianti e una forte dose di divertimento, guidati da Howlin' Pelle Almquist sopra ai palchi di tutto il mondo.

E se siete di quelli che il rock’n’roll lo date per morto un giorno sì e quell'altro pure, ascoltate qua:"la tua band e la tua musica muoiono insieme ai tuoi fan. Una band che attrae nuovi fan vivrà per sempre. Devi avere una specie di ricrescita. Gli spettacoli e la folla sono sempre rinvigoriti dai fan più giovani. Se proiettiamo energia, loro reagiranno a questo”. Long live rock’n’roll.





giovedì 31 agosto 2023

RECENSIONE: ALICE COOPER (Road)

 

ALICE COOPER  Road (EDEL/Ear Music, 2023)

on the road again



C'è una scena in  Daliland, il film uscito quest'anno ma in verità poco preso in considerazione, che si concentra sull'anno (1974) trascorso da Salvador Dalì a New York visto con gli occhi di un giovane gallerista alle prime armi: durante uno dei tanti baccanali a base di sesso e cocaina organizzati per Dalì, Jeff Fenholt (cantante della versione teatrale di Jesus Christ Superstar in quel momento al top) e Alice Cooper si raccontano le loro esperienze musicali quando si presenta Gala, musa di Dalì, e si porta via il suo nuovo pupillo Fenholt: "lascia stare quello che è un fallito, con i suoi foschi spettacoli non farà molta strada". Sappiamo tutti com'è finita: Road, appena uscito, è il ventinovesimo disco di Alice Cooper e proprio di tutti quei chilometri macinati in più di cinquant'anni di carriera si nutre.

Ho seguito gli ultimi due tour italiani di Alice Cooper e devo confessare di essermi sempre divertito tantissimo: Alice Cooper mette ancora in scena uno spettacolo dove rock’n’roll e teatro non prevaricano uno sull'altro accontentando tutti, grandi e piccini, adepti e nuovi fan.

Road è l'ennesimo concept album di Vincent Furnier, dopo l'omaggio alla musica della città di Detroit del precedente disco Detroit Stories, questa volta ha deciso di dare spazio ai musicisti della band che lo accompagna in tour: i chitarristi Nita Strauss, Ryan Roxie e Tommy Henriksen, Chuck Garrick al basso e Glen Sobel alla batteria sono tutti coinvolti anche in fase di scrittura. Il vecchio e sodale Bob Ezrin è in produzione ancora una volta.

"Volevo mettere in mostra la band in tournée, quindi abbiamo scritto le canzoni, siamo andati in studio e ho detto: 'Ecco l'accordo su questo album: niente sovraincisioni'. Ho detto".

Un disco che non cambia di una virgola la sua carriera  ma continua a proiettarlo nel presente ancora da protagonista non cedendo di un millimetro: qui dentro c'è ancora tutto lo scibile rock di Alice Cooper. Autobiografia di un musicista continuamente on the road.

Anche quando i testi sembrano adagiarsi un po' troppo sulla retorica della band rock in tour, l'ironia prevale e riporta tutto a posto.

È la sua storia di viaggiatore del rock ('I'm Alice' canta nel brano di apertura come se ci fossero ancora bisogno di presentazioni) proiettata su tredici canzoni che recuperano i suoni di sempre: dai rock’n’roll di 'Welcome To The Show' (ennesimo benvenuto a un suo concerto), e di 'Go Away' ai  suoni più hard e heavy di 'Dead Don't Dance' con la vecchia conoscenza Kane Roberts alla chitarra (rientrò nella band per un breve periodo in sostituzione di Nita Strauss, fresca di un disco solista ma rientrata presto in formazione) di 'White Line Frankenstein' con l'ospitata di Tom Morello, qui autore di un assolo dei suoi ma con qualcosa di diverso e la più heavy del lotto 'The Big Goodbye'.

Passando dalle influenze soul black che ruotano intorno a 'All Over The World', a quelle più country della ballata 'Baby Please Don't Go' (tra gli autori Keith Nelson dei Buckcherry) fino agli episodi più leggeri e giocosi come 'Big Boots', rock’n’roll con il pianoforte saltellante tra i doppi sensi o al veloce e corale blues  'Rules Of The Road', vademecum per giovani rockstar in erba scritta insieme a Wayne Kramer (Mc5). Per chi ama l'Alice Cooper dalle atmosfere tetre e teatrali c'è spazio per la breve '100 More Miles'. Mentre 'Road Rats Forever', uno speciale tributo ai roadie sembra riprendere là dove finiva 'Road Rats' contenuta in Lace And Whiskey, album del 1977. Il viaggio si conclude con la cover di 'Magic Bus' degli Who a cui viene aggiunto un assolo di batteria di Glen Sobel.

Ma il messaggio sembra chiaro: c'è ancora tanta strada da percorrere e il buon Alice Cooper non ha nessuna intenzione di fermarsi, almeno finché i copertoni tengono così bene l'asfalto e credetemi, di settantacinquenni che fanno ancora rock’n’roll così ne sono rimasti pochi.






sabato 26 agosto 2023

RECENSIONE: RYAN BINGHAM (Watch Out For The Wolf)

 

RYAN BINGHAM  Watch Out For The Wolf  (Thirty Tigers, 2023)



parentesi

Messa in stand by la sua carriera d'attore arrivata al momentaneo culmine con la partecipazione nella serie di grande successo Yellowstone e nel pieno della sua nuova storia d'amore con Hassie Harrison, attrice conosciuta proprio sul set, Bingham ritorna alla musica a quattro anni dall'ultimo disco American Love Songs. Lo fa però in misura ridotta con un Ep di sette canzoni, poco più di venticinque minuti di musica, ma soprattutto mettendosi completamente in gioco come mai prima: Ryan Bingham scrive, canta, suona e produce. Un disco atipico, scarno fino all'osso, registrato in solitaria nel suo "rifugio" del Montana.

"Un microfono, una chitarra, una tastiera MIDI, una chitarra elettrica" questo è tutto quello di cui ha avuto bisogno.

La scrittura in solitudine era già stata sperimentata molto bene nell'album Fear & Saturday Night (2015), nato tra le montagne della California, per me uno dei suoi vertici dopo il debutto. Sette canzoni che forse servono più all'autore per mettere ordine alla sua carriera che a noi.

"Creare questo album in solitudine è stato ultraterreno, spirituale e talvolta semplicemente dannatamente terrificante" ha raccontato.

 Un ponte ,un passaggio, un bisogno di tornare alla musica, per far dire a se stesso  e ai fan "ci sono ancora". Inizia e finisce fischiettando Ryan Bingham in Where My Wild Things Are e nella conclusiva This Life. Nella prima si cala completamente nel paesaggio naturale che lo circoda: lui, la solitudine, la notte che cala e le stelle che illuminano la natura intorno, in This Life ci invita a vivere al meglio la vita. In mezzo ci si cala in canzoni dal forte impatto atmosferico (Automated), desertiche (Shivers), di blues ombroso e solitario (The Devil Stole My Style), ritmi quasi tribali tra l'acustico e l'elettrico nella strumentale Internal Intermission e il country tra mandolino e elettrica di River Of Love. Certo, la presenza di una batteria campionata sembra togliere un po' di calore a queste canzoni solitarie da falò nel bosco ma se le si prende per quello che sono riescono a disegnare il giusto quadro di dove sia oggi Ryan Bingham.

"Durante la realizzazione di questo album, ho attraversato una precisa evoluzione personale o trasformazione spirituale che non riesco davvero a spiegare".

Lo chiameremo disco di passaggio, aspettando qualcosa di più sostanzioso, sempre che non voglia rituffarsi dietro a una camera da presa, lasciando la sua musica agli spiriti del bosco e alle stelle.





mercoledì 16 agosto 2023

RECENSIONE: NEIL YOUNG (Chrome Dreams)

NEIL YOUNG - Chrome Dreams (Reprise, 1977/2023)



la leggenda perduta

Si potrebbe fare un piccolo quanto inutile giochino: prendere matita e gomma, l'elenco dei dischi ufficiali di Neil Young usciti, l'elenco dei lost album lasciati nel cassetto durante gli anni e spuntare, cancellare, rimaneggiare i primi dando per buoni e non dimenticati i secondi. Poi fare la conta di cosa è rimasto. 

"Nel 1976 ero una furia è siccome avevo preso l'abitudine di scrivere diverse canzoni alla settimana, mi ritrovai ingolfato: avevo troppo materiale e poco tempo in studio. Registravo ovunque potessi farlo e mi muovevo velocissimo, finendo i miei dischi rapidamente. Per me non era tanto importante creare un disco perfetto, quanto piuttosto catturare su nastro le performance e il sentimento originale delle nuove canzoni. Che sia qualcun altro a fare il disco perfetto. Io dovevo prendermi cura delle canzoni". Così Neil Young spiegò quella bulimica vena artistica compresa tra 1972 e il 1977. Chrome Dreams esce con quasi cinquant'anni di ritardo per cercare di mettere ordine ai suoi infiniti archivi, farci spendere un po' di soldi (ma non è un obbligo) e permetterci di fare il gioco sopra proposto naturalmente. Scorrendo le canzoni nulla ci parla di sorprese e novità ma apre l'immaginazione dei "se e dei ma": cosa sarebbe cambiato se Chrome Dreams fosse uscito in quel 1977? Certamente American Stars 'N Bars sarebbe stato monco di tante canzoni straordinarie (e forse non sarebbe mai esistito) come 'Homegrown' (che in versione acustica doveva essere la title track di un altro lost album e invece qui compare nella versione Crazy Horse),  'Star of Bethlehem' (già apparsa anche su Homegrown), una 'Hold Back The Tears' qui in una versione embrionale, due canzoni amare sulla fine di un amore, o 'Will To Love' "una delle migliori robe che abbia mai fatto" racconterà Young di quella canzone composta davanti a un camino acceso da un uomo stonato, con la sua solitudine e il suono di una chitarra che si confondeva con lo scoppiettio dei ceppi sotto il fuoco. Un registratore a cassette Sony stava registrando tutto.  Nasce così un piccolo capolavoro di "scrittura libera" (mai suonato dal vivo) che lo ritrae nelle sembianze di un salmone che risale la corrente, oppure quella cavalcata carica di suggestioni con le chitarre elettriche in evidenza che è Like A Hurricane ("scrissi il testo di ‘Like a Hurricane’ su un pezzo di giornale sul retro della DeSoto Suburban del 1950 di Taylor Phelps, una sera verso la fine di Novembre del 1975"). Oppure Rust Never Sleeps non avrebbe mai avuto 

'Pocahontas', composta  nel 1976 e che sabbe dovuta finire prima ancora su Hitchhiker, 'Sedan Delivery' e 'Powderfinger' già promessa anche lei a Hitchhiker.

Su Freedom, disco che anticipava la rinascita degli anni novanta, non avremmo avuto 'Too Far Gone' che qui però compare nella sua prima stesura sempre con il mandolino di Poncho Sampedro in bella evidenza. Su Hawks & Doves non ci sarebbe stata 'Captain Kennedy' che però era già prevista sul lost album Hitchhiker. Una 'Stringman', ballata al pianoforte che comparirà per la prima volta nell'Unplugged per MTV solamente negli anni novanta, anche qui la versione è registrata live ma nel 1976. Una 'Look Out For My Love' che finì su Comes A Time.

Naturalmente anche questo Chrome Dreams sarebbe stato monco se avessimo applicato lo stesso criterio ma "lost album" contro "lost album". Perchè pare ci sia sempre un lost album prima di un lost album.

Sì insomma, un bel casino questo giochetto. Certo: un disco per completisti, per fan incalliti che già lo conoscevano attraverso i bootleg che circolavano dai primi anni novanta ma che ora possiamo ascoltare tutti proprio così come fu pensato. Apparentemente poco imparentato con Chrome Dreams II che uscì nel 2007 se non l'idea di assemblamento di canzoni provenienti da periodi diversi.

 Molte anche le leggende che ruotano intorno ad alcune canzoni pensate per questo album: 'Powderfinger', 'Captain Kennedy' e 'Sedan Delivery'  sarebbero state proposte ai Lynyrd Skynyrd del periodo Street Survivors, un ulteriore segnale di distensione tra Neil Young e il gruppo dopo le scaramucce post 'Alabama'. Infine la copertina: disegnata da Ronnie Wood.

Un fottuto capolavoro se fosse uscito con i tempi giusti. Oggi sembra un superbo greatest hits. E sono solo 12 canzoni.








sabato 5 agosto 2023

RECENSIONE: STEPHEN STILLS (Live At Berkeley 1971)

 

STEPHEN STILLS  Live At Barkeley 1971 (Iconic Artist Group, 2023




tesori nascosti


Sembra che David Crosby in quelle serate del 20 e 21 Agosto del 1971 al Berkeley Community Theater fosse tra il pubblico per assistere ai concerti del primo tour solista americano dell'amico STEPHEN STILLS. Una presenza significativa visto che da poco il supergruppo CSN & Y non esisteva più. Crosby fu chiamato sul palco a sorpresa, senza prove,  ma d'altronde l'intesa fu da sempre uno dei punti di forza del trio insieme a Nash che ci si vedeva a occhi chiusi. Pura magia.

Le due canzoni cantate insieme ('You Don't Have To Cry' e una superlativa 'The Lee Shore') sono solo la conferma e uno dei momenti più alti di queste registrazioni trovate recentemente dalla stesso Stills. 

"Stephen era un genio e aveva un groove stupefacente. Possedeva un senso del ritmo sovrannaturale, tutto suo, era un orologio con l'anima, non tirava nè arretrava mai" così scriveva Neil Young tra le pagine della sua autobiografia. Questo primo tour americano fu anche la conferma di quelle parole. Stills sentiva la necessità di uscire dai gruppi (Buffalo Springfield prima CSN&Y dopo) per esprimersi in tutte le sue potenzialità, forte di due album, i migliori della sua carriera, che mostravano un musicista perennemente curioso, caldo, verace, strabordante, capace di tirare fuori il meglio da ogni genere musicale con la naturalezza concessa a pochi fuoriclasse della musica. Concerti che partivano in acustico con Stills che faceva sfoggio del suo proverbiale fingerpicking all'acustica ('Love The One You're With', 'Black Queen'), e abilità pianistica (l'intima esecuzione di '49 Bye Bye/For What it's Worth'). Una menzione anche per Steve Fromholz, chitarra e voce (lo sentiamo in 'Jesus Gave Love Away For Free'), e vero braccio destro di Stills in quel tour.

Per poi esplodere nella seconda parte, straripante di soul, blues e rock latino grazie alla presenza dei Memphis Horns che daranno pure il nome al tour (The Memphis Horns Tour). Una sarabanda di suoni ('Ecology Song' è un carnevale) e colori ('Cherokee', 'Lean On Me' con le chitarre elettriche in pimo piano) che sembrava controbilanciare una vita privata disordinata e fosca dettata dall'uso di cocaina e barbiturici che lo portarono perfino ad un arresto a La Jolla in California.

"È stato il mio primo tour come artista solista e questi spettacoli erano rauchi e sfrenati , catturati qui in queste registrazioni."

Un live intenso, ipnotico e magico in più momenti. Peccato le due serate non siano state recuperate per intero, si è preferito fare un mix tra le due, dando anche più spazio alla prima parte acustica rispetto alla seconda elettrica. Da avere.








sabato 29 luglio 2023

RECENSIONE: NILS LOFGREN (Mountains)

 NILS LOFGREN  Mountains (Cattle Track Road Records, 2023)


gregario di lusso




"Queste canzoni nascono tutte da emozioni crude. Mi sono  permesso di condividere le mie paure e la mia rabbia, il mio amore e la mia speranza, di essere aperto su ciò che stavo vivendo senza analizzare eccessivamente o modificarne la vita" così Nils Lofgren racconta il suo nuovo disco di dieci canzoni, uscito un po' a sorpresa dopo il buon disco All Roads Lead Home con i restanti Crazy Horse Billy Talbot e Ralph Molina e a quattro anni dal precedente Blue With You dove a risaltare erano alcune canzoni scritte con Lou Reed nei fine anni settanta mai apparse prima.

Lofgren che vanta una carriera strabiliante all'ombra dei grandi, contribuendo alla fortuna di due delle più grandi rock band americane: i primi Crazy Horse e la seconda incarnazione della E Street Band, quella che iniziò a frequentare i grandi stadi. Entrato quasi per caso, è in pianta stabile nella E Street Band dal 1984, non ne è più uscito, ed ora ne è un senatore tanto quanto i "vecchi" Van Zandt, Tallent, Bittan e Weinberg.

Carriera decollata  appena diciassettenne (prima ancora ci furono i Grin) come pianista e chitarrista di Neil Young e lasciando i suoi contributi sugli imperdibili After the Goldrush(1970), Tonight's the Night(1975) e poi su Trans(1982). E recentemente quando è ritornato in sella al cavallo sostituendo Poncho Sampedro negli ultimi dischi usciti a nome Neil Young and Crazy Horse.

La carriera di Lofgren è anche piena di tantissimi dischi solisti, spesso dimenticati (alcuni nel cesto degli usati si trovano frequentemente, e i primi due sono sicuramente da avere) e questo Mountains ne conferma la bontà di strumentista, mentre la voce rimane il suo punto debole ma non così tanto da inficiare il risultato finale.

Un disco che mischia il politico e il privato: se con il rock  dell'iniziale 'Ain't The Truth Enough' (con la presenza di Ringo Starr alla batteria e Cindy Mizelle, corista della E Street Band) attacca direttamente la disinformazione e la demagogia su cui sembra basarsi la società moderna, nell'andamento country folk di 'Nothin' s Easy (For Amy)' che vede la partecipazione di Neil Young alla seconda voce sembra cementare definitivamente il suo lungo amore con la moglie Amy sbocciato nel New Jersey negli anni settanta.

L'altra dedica del disco esce dal blues 'Won't Cry No More' indirizzata a Charlie Watts. Un disco che sembra vagare libero tra i generi, passando dal rock graffiante di 'Only Ticket Out' con un bel lavoro alla  chitarra solista, al gospel soul di 'Back In Your Arms', scritta da Bruce Springsteen, con la partecipazione del Howard Gospel Choir, una 'Dream Killer' dai vaghi sapori eighties, la jazzata 'Only Your Smile' con il basso ospite di Rong Carter, nella vivace e funky 'I Remember Her Name' ospita David Crosby in quella che potrebbe essere una delle sue ultime registrazioni in studio, fino alla ballata finale 'Angel Blues' costruita sul pianoforte.

"È stato così liberatorio lavorare senza alcuna restrizione, scrivere semplicemente quello che è venuto fuori, e si è trasformato in uno dei lavori più ispirati che penso di aver mai realizzato".

Un disco piacevole che non cambierà la storia del rock ma che in qualche modo farà storia: l'ultimo su cui si potranno ascoltare Neil Young e David Crosby cantare sullo stesso disco.






martedì 18 luglio 2023

RECENSIONE: DUANE BETTS (Wild & Precious Life)

 

DUANE BETTS   Wild & Precious Life (Royal Potato Family, 2023)






come una volta

Il primo strumento che suo padre Dickey gli fece imparare fu la batteria ma sembrò chiaro fin da subito che con quel nome e quel cognome l'arrivo di una chitarra tra le sue mani fosse solo questione di poco tempo. Dai tredici anni ad oggi che ne ha quarantacinque, Duane Betts non l'ha più mollata, continuando la tradizione di famiglia, suonando ed esplorando anche altri terreni musicali, vedi l'esperienza  con i Dawes.

Messo temporaneamente in un angolo anche il progetto con l'altro figlio della grande famiglia (sto parlando di Devon Allman naturalmente e la loro Allman Betts Band), liberatosi dai pesanti fardelli delle dipendenze che lo hanno imbrigliato per un buon numero di anni, Wild & Precious Life è il primo disco solista a suo nome che si candida fin da subito a diventare il disco southern rock dell'annata in corso. 

Il perché è presto detto. Qui dentro c'è tutto quello che ci deve essere: grandiose chitarre ("questo è un disco che i chitarristi adoreranno, ma in fondo è davvero un disco di canzoni. È un album su chi sono, da dove vengo e in cosa credo") che ricamano grandi spazi incontaminati richiamando gli Allman Brothers di Brothers And Sisters ('Waiting On A Song', 'Forrest Lane'), chitarre più possenti (l'iniziale 'Evergreen' con l'incursione di una bella tromba, 'Saints And Sinners', 'Sacred Ground'), due ospiti di peso come Marcus King nel blues 'Cold Dark World' e Derek Trucks in 'Stare At Sun' un chiaro omaggio di Duane al padre Dickey, passaggi in territori country ('Colors Fade' con la presenza di Nicki Bluhm) e jazzati (la strumentale 'Under The Bali Moon') e ballate dal sapore agreste come la finale 'Circles In The Stars'. Si respira quell'aria di libertà, natura e "vecchio vinile"  dall'inizio alla fine come nelle intenzioni del suo autore: "ho voluto fare un disco che catturasse davvero l'atmosfera della vecchia scuola della Florida". 

Anche la copertina non lascia dubbi sui  territori dove si sta così bene viaggiando: registrato allo Swamp Raga Studio di Dereck e Susan Tededchi a Jacksonville cercando di preservare il più possibile il suono live senza troppe sovraincisioni con la sua band formata dal chitarrista Johnny Stachela, il bassista Berry Duane Oakley, il tastierista John Ginty e il batterista Tyler Greenwell. 

"L'atmosfera e la natura circostante, i boschi, e la possibilità di camminare attraverso questo tipo di palude fino a quel fiume. Un ambiente davvero ideale per registrare un disco ed essere vicino alla natura".

In soli cinquanta minuti si può andare molto lontano.






sabato 15 luglio 2023

RECENSIONE: MALCOLM HOLCOMBE (Bits & Pieces)

MALCOLM HOLCOMBE  Bits & Pieces (Proper Music, 2023)


suonane ancora Malcolm


Già solo la notizia di un nuovo disco di Malcolm Holcombe è una bella notizia. Bella notizia che in verità si ripete dopo ogni disco ma questa volta di più. Holcombe arrivato alla musica che conta solo dopo i quarant'anni è uno dei pochi che possa indossare gli abiti del vero loser con fierezza e orgoglio da vincitore. Dopo una vita a combattere alcolismo e depressione questa volta sembra riuscito a mostrare il dito medio pure al cancro che minaccioso gli ha presentato il conto due anni fa. Holcombe saputo della malattia si è chiuso in studio insieme alla sua chitarra e al fido Jared Tyler che qui suona praticamente tutto il resto (dobro, lap steel, chitarra elettrica, basso, batteria, mandolini e banjo) per regalarci tredici nuove canzoni che non rivoluzioneranno il mondo musicale ma regaleranno ancora purezza e sincerità, quello di cui c'è veramente bisogno.

Tecnica chitarristica fingerpicking unica, voce consumata, profonda e vissuta e testi che sbirciano l'America dalla porta secondaria dove entrano disperati e reietti, dove regna l'odio e l'ingiustizia e i truffatori sono dietro ogni angolo. Dove tutto sembra più sporco di quanto ci raccontano.

Sarà pure il suo solito folk blues ('Bits And Pieces', 'Happy Wonderland'), oscuro e solitario ('Bring To Fly'), suonato ('Fill Those Shoes') ma qui ancora più grezzo, che ogni tanto sconfina nel country ('Hard Lucky City', 'Rubbin' Elbows'), registrato con pura urgenza rincorrendo il tempo che scappa ma porca miseria ti fa venire sempre un groppo in gola. Vero, urticante, viscerale. Il suo fisico provato parla per lui, le sue canzoni arrivano a noi con la stessa forza che avevano quelle di Townes Van Zandt .






domenica 9 luglio 2023

DIRTY HONEY live@Spazio 211 Open Air, Torino, 8 Luglio 2023

Gli attestati di stima che da Los Angeles hanno attraversato l'oceano in pochi mesi con lunghe e ampie falcate, i piccoli record (il primo gruppo senza un contratto discografico a raggiungere la prima posizione nella classifica rock di Billboard con una canzone), l'ascesa irrefrenabile che dai piccoli palchi li hanno portati ad aprire per colossi come The Who, Kiss, Black Crowes e Guns 'N Roses, sono tutti indizi che mi hanno condotto qui questa sera per verificare con i miei occhi ciò che altri  hanno ben raccontato, l'alternativa sarebbe stata Edoardo Bennato poco distante da qui (mi perdonerà Bennato a cui voglio tanto bene): i Dirty Honey sono una delle migliori realtà di hard street rock'n'roll degli ultimi anni, eredi di quella musica tanto sporca quanto melodica che partendo dal blues ha aggiunto kw di chitarre elettriche, attitudine stradaiola e voglia di divertirsi. Perché sì, dopo tutto ci vuole ancora la voglia di divertirsi.

A fare gli onori di casa i torinesi Dobermann con il loro glam metal d'assalto guidati dal veterano Paul Del Bello, voce e basso e dalla chitarra e presenza scenica di Valerio “Ritchie” Mohicano. Alla batteria siede Antonio Burzotta. Set corto il loro ma abbastanza per scaldare e "sparare" il loro hard metal intransigente su un pubblico chiassoso ma che per la verità mi aspettavo ben più numeroso.


La carriera dei Dirty Honey è lunga solamente 54 minuti, tanto è la durata complessiva dell'ep d'esordio e del seguente album del 2021 a cui si aggiungono i tre minuti e quarantasei secondi del nuovo singolo dal contagioso groove 'Won't Take Me Alive' uscito proprio in questi giorni e che anticipa un nuovo album che arriverà. Naturalmente il pezzo è già stato testato sul palco. E funziona.

Sì ok. Ma allora? I Dirty Honey meritano tutta,questa esposizione? Basterebbero la prova del cantante e del chitarrista per rispondere di sì. Marc LabelleJohn Notto sembrano impersonare ancora così bene quelle coppie indissolubili che hanno segnato la storia del rock'n'roll: nel loro DNA ci sono Robert Plant e Jimmy Page, Steven Tyler e Joe Perry, Axl Rose e Slash, David Lee Roth e Eddie Van Halen, Paul Rodgers e Paul Kossoff, i fratelli Robinson dei Black Crowes. Labelle sa come intrattenere il pubblico, spesso cerca il contatto, gioca con l'asta del microfono, ha movenze che mi ricordano Chris Robinson che mi ricorda Rod Stewart e la sua voce ha la giusta sfumatura soul blues per graffiare le anime, Notto è un chitarrista straordinario, solido nei suoi riff e tanto straripante quanto contenuto nei suoi assoli, guardandolo ho rivisto un mix tra Eddie Van Halen e Gary Moore.



Ma sarebbe un grande torto per la visione d' insieme della band non citare lo straordinario lavoro del bassista Justin Smolian e del  batterista Corey Coverstone forse l'uomo più in ombra stasera ma solo per esigenze di palco.

I Dirty Honey sono una grande band che rivisitando la storia dell'hard rock’n’roll sta cercando di mettere la propria impronta con canzoni mai troppo lunghe ma che sanno lasciare il segno: California Dreamin, Gypsy, Heartbreaker, When I'M Gone, Rolling 7s, Scars, Tied Up, The Wire, Another Last Time, l'unica concessione al lento, sembrano già dei piccoli  classici. A cui aggiungono una Let's Go Crazy di Prince. Hard blues, qualche bella tirata funky rock e alcune concessioni southern sono il loro biglietto da visita. I primi Aereosmith il punto di riferimento principale.

Attitudine giusta e movenze sul palco forse già viste ai tempi d'oro della musica ma necessarie per dare quel ricambio generazionale a band storiche che certe cose non riescono più a farle per raggiunti limiti d'età. Sì insomma, negli anni novanta band così erano numerose, forse troppe, oggi teniamociele strette.  Hanno tanta strada davanti e canzoni da scrivere ma sono certo che ne sentiremo parlare ancora e bene perché non hanno trucchi: una chitarra, una voce, un basso e una batteria resteranno per sempre e dovrebbero convincere chi va ancora in giro a dire che il rock è morto. Ho visto tanti giovanissimi stasera davanti alle transenne. Qualcosa vorrà pur dire...




sabato 8 luglio 2023

JASON ISBELL and the 400 UNIT (Weathervanes)

 

JASON ISBELL and the 400 UNIT  Weathervanes (Southeastern, 2023)



direzioni

A Settembre uscirà una nuova versione di Southeastern, il disco crocevia della sua carriera uscito dieci anni fa. Un disco bellissimo, uno dei migliori di questi anni duemila, salvifico, di autoanalisi, che lo proiettò verso una nuova carriera, dopo la parentesi dentro ai Drive-By Truckers, che non ha conosciuto soste se non quella imposta dalla pandemia. Fu il disco della ritrovata sobrietà dopo una parentesi di vita che lo mandò allo sbando. In mezzo Jason Isbell ha continuato a incidere dischi come solista e con i suoi 400 Unit (Derry deBorja, Chad Gamble, Jimbo Hart e Sadler Vaden) portandosi a casa una valanga di Grammy e quell'attestato di stima di David Crosby  "Jason è tra i migliori songwriters di questi tempi" che oggi dopo la dipartita del buon Croz sembra assumere ancor più valore.

A conferma questo nuovo Weathervanes, un disco pieno di belle canzoni che sanno guardare in faccia i tanti problemi della sua America (in 'Save The World' volge lo sguardo a una piaga sempre d'attualità come le sparatorie nelle scuole americane), in 'Death Wish' e  'Middle Of The Morning' affronta senza remore il peso delle malattie mentali, delle dipendenze ('King Of Oklahoma') e in generale scava ancora dentro se stesso e fruga tra le pieghe dei sentimenti con una scrittura sempre brillante e mai banale. L'aborto di 'White Beretta' lo tocca da vicino (" è una canzone molto personale, e ho usato molti dettagli personali. Tra le altre cose, parla di interrompere una gravidanza").

 Sostanzialmente un disco di ballate, ariose, con la brezza del sud a spingere, prodotto da lui stesso dopo il lungo sodalizio con Dave Cobb, dove il violino della moglie Amanda Shires è spesso presente a cucire dolenti note ('King Of Oklahoma', 'If You Insist'). Ci sono alcune concessioni alla solitudine da folk singer (la bella 'Strawberry Woman', 'Cast Iron Skillet') e al country in 'Vestavia Hills' con una slide evocativa, ci sono gli archi che arricchiscono 'Volunteer', e poi qualche scatto più elettrico come succede in 'When We Were Close' e nell'accoppiata finale composta da 'This Ain't It' e dai sette minuti di 'Miles', una cavalcata che sembra avere Neil Young e i Crazy Horse voce mentori, evocativa quanto basta per misurare tutti quei kilometri che spesso ci separano dagli affetti più cari."È una specie di viaggio epico  quella canzone. Mentre eravamo in studio, l'ho chiamata Neil Young e Wings".

Nella canzone  che apre il disco Isbell canta: "tutti muoiono ma devi trovare un motivo per andare avanti", credo che questo disco potrebbe essere quel motivo, prenotandosi già da ora un posto tra le migliori uscite americane dell'anno.





venerdì 30 giugno 2023

RECENSIONE: LUCINDA WILLIAMS (Stories From A Rock’n’Roll Heart)

LUCINDA WILLIAMS  Stories From A Rock’n’Roll Heart (Highway 20 Records, 2023)



cuore da combattente

Ho un fotogramma che penso mi porterò dietro per sempre: Lucinda Williams che entra in scena  durante il suo concerto dello scorso 10 Gennaio al Teatro Gaber di Milano, i musicisti che attaccano 'Blessed' e lei dopo poche strofe si ferma, sofferente. Un buco di memoria che unito ai lasciti dell'ictus (precaria deambulazione e l'impossibilità di imbracciare una chitarra) le hanno fatto passare almeno quindici minuti di calata negli inferi. Poi un miracolo sembrò impossessarsi della scena, la sua voce tornò quella di sempre, profonda e graffiante e il concerto finì quasi in gloria con Lucinda che lasciò il palco mentre con le dita faceva la "v" di vittoria. Il trionfo della vita e della perseveranza. Uno dei concerti più surreali e toccanti che abbia mai visto.

Questo nuovo disco che fa seguito ad una sfilza di dischi di cover, tanto inutili per la sua carriera quanto utili per tenerla in vita e all'uscita della recente autobiografia Don’t Tell Anybody the Secrets I Told You, è un po' la testimonianza di questa vittoria e di quelle dita alzate: un disco che l'ha vista rimettersi in gioco rivedendo completamente il suo modo di scrivere  e di approcciarsi alle canzoni. Si è fatta aiutare molto nella stesura dei pezzi: dal marito  Tom Overby, da  Travis Stephens e dall'amico Jesse Malin, la cui sorte proprio in questi giorni sembra aver giocato un brutto scherzo pure a lui (forza Jesse!).

"La malattia mi ha aperto alla collaborazione con altre persone, il che è stato piuttosto divertente per me. Non lo  avevo mai fatto così assiduamente prima".

Un disco, prodotto da una vecchia conoscenza come Ray Kennedy (già in Car Wheels on a Gravel Road) che trascina con sé i sentimenti, che viaggia tra i luoghi della memoria, della gioventù, che guarda in faccia i momenti bui che gli ultimi anni hanno affievolito la sua luce ma che guarda anche al futuro che resta da combattente come sembra rivendicare nel bel blues 'Let's Get the Band Back Together', in 'Never Gonna Fade Away' e nella ballata 'Where The Song Will Find Me' con la presenza degli archi. Di rock&roll c'è n'è tanto, anche nelle storie raccontate.

'Hum' s Liquor' è una dedica a Bob Stinson (tutto.il disco è a lui dedicato) a cui partecipa il fratello Tommy, una storia raccolta dal marito Tom Overby che quando abitava a Minneapolis era solito vedere Bob Stinson, chitarrista dei Replacements fare incetta di alcolici giù nel negozio di liquori.

'Stolen Moments' è una dedica on the road a Tom Petty ("amo le sue canzoni") che la portò in tour con sé quando era ancora una sconosciuta, e  la presenza alla batteria di Steve Ferrone, ultimo batterista degli Heartbreakers chiude il cerchio.

Lucinda si circonda anche di tanti amici: nei suoni urbani del classic rock 'New York Come Back' e in 'Rock'n'roll Heart' partecipano Bruce Springsteen e Patti Scialfa ("da anni sognavo di collaborare con loro" dice Lucinda), Margo Price canta in altri due brani tra cui la corale 'This Is Not My Town' e Angel Olsen partecipa nel country di 'Jukebox', un' ode a ai luoghi che l'hanno vista crescere.

Stories From A Rock’n’Roll Heart è un disco importante, salvifico, non tanto per quello che aggiungerà alla sua carriera quanto per il segnale ben chiaro: Lucinda Williams è ancora qui con noi, forte, combattiva, senza paura di guardare in faccia il dolore e la morte e con tante canzoni ancora da scrivere. Lei stessa dice di averne già da parte per un prossimo album. Alziamo tutti le dita a V.