sabato 28 gennaio 2023

RECENSIONE: URIAH HEEP (Chaos & Colour)

URIAH HEEP   Chaos & Colour (Silver Lining, 2023)



inossidabili

Guidati dall'inossidabile Mick Box, compositore e chitarrista mai troppo lodato, gli Uriah Heep ritornano a riprendersi la "vecchia" scena hard rock dopo gli anni di pandemia che hanno visto crescere e germogliare questo Chaos & Colour che ne vuole raccontare luci, ombre, incubi e speranze. 

"Quando il blocco ha iniziato ad allentarsi nel Regno Unito, siamo stati in grado di andare in studio (Chapel Studios, Lincolnshire) e registrare il nuovo album con il produttore Jay Ruston che era arrivato dall'America. Jay aveva anche registrato il nostro precedente album Living The Dream e siamo rimasti molto contenti del risultato. Quindi volevamo lavorare di nuovo con Jay su questo progetto" racconta il batterista Russell Gilbrook in una recente intervista.

Un album che prosegue in qualche modo il trend del precedente Living The Dream (2018) e se possibile migliorandone ancor di più ispirazione, freschezza e tiro. Con più di cinquant'anni di carriera, arrivati al venticinquesimo album, chiunque potrebbe sedersi sugli allori e godersi i fasti del passato, anche se bisogna dirla tutta, gli Uriah Heep hanno sempre dovuto lottare per farsi largo tra critica, cangianti mode musicali e cambi di formazioni.

Eppure, quando parte 'Save Me Tonight' scritta insieme a Jeff Scott Soto, capisci subito che non sarà così, ancora una volta. L'essere ancora qui, presenti e scalcianti nel 2023 è la loro miglior risposta e vittoria. La straordinaria voce di Bernie Shaw e le tastiere di Phil Lanzon, entrambi in formazione dell'ormai lontano 1986 sono diventate un nuovo marchio di fabbrica degli ultimi trent'anni di carriera ma in perfetta continuità con la storia della band. La freschezza della sezione ritmica formata dal batterista Russell Gilbrook e dal bassista Davey Rimmer donano invece dinamicità a un suono che cerca di legare la tradizione del passato con i nostri tempi. In mezzo alla già citata apertura e alla finale 'Close To Your Dreams', che sembra iniziare là dove finiva la vecchia 'Easy Livin', c'è tutto il loro universo fatto di massiccio hard rock ('Hurricane', 'Fly Like An Eagle'), di incalzante groove melodico ('Silver Sunlight'), break psichedelici ('Hail The Sunrise' con il suo Hammond imperante sembra uscita dai 70, la cangiante e fantasy 'You'll Never Be Alone'), fughe progressive (gli otto minuti di 'Freedom To Be Free', 'Golden Light', 'Age Of Changes') e ballate (il pianoforte e la voce si Shaw sono protagoniste di 'One Nation, One Sun').

Un album compatto che cerca di unire tanti anni di carriera e tutte le sfumature musicali che hanno da sempre caratterizzato il loro suono. L'inconfondibile miscela di chitarre e tastiere, le fughe strumentali, l'intersecarsi perfetto tra potenza e melodia, le armonie vocali e le atmosfere epiche  sono quelle di sempre. Riconoscibili.

Potrebbe essere impresa difficile dopo tanti anni, e invece il miracolo continua a compiersi con rigenerante vivacità.




giovedì 26 gennaio 2023

DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA # 86: DAVID CROSBY (Croz)

DAVID CROSBY  Croz (Blue Castle Records, 2014)


un ricordo

Quando lo vedi sopra al palco catalizza l'attenzione con il solo carisma senza spostarsi di un centimetro, tanto da mettere in ombra i suoi fidi compagni di sempre: il lunatico e bizzoso Stephen Stills e l'etereo e più ginnico Graham Nash. I pochi ma sempre lunghi e candidi capelli bianchi al vento, i baffoni come li portava già nel 1969-gli manca solamente la giacca di renna scamosciata con le frange, la stessa indossata poi da Dennis Hopper in Easy Rider-la voce inconfondibilmente pura che fluttua nell'aria, il fisico segnato dalla vita- ma poi nemmeno troppo diverso rispetto a noi comuni mortali-David Crosby ha sempre incarnato lo spirito del suo tempo "migliore", quello sognante, quello ancora lontano da una tentata autodistruzione culminata negli anni ottanta e costruita su abusi, armi da fuoco illegali, galere e dalle inevitabili conseguenze prodotte da un trapianto di fegato avvenuto nel 1994 e da ripetuti attacchi al suo debole ma roccioso cuore. Nonostante tutto sembra ancora lo specchio di quel periodo, epoca che apriva e chiudeva il sogno americano con la conseguente rassegnazione di chi si è bruciato tutto, troppo in fretta, per troppi ideali disattesi e troppe utopie. Una generazione che ci ha provato: "un grande uomo disse 'ho un sogno'. Un altro arriva e gli spara in testa" canta in Time I Have. La fortuna di guardarsi indietro e spiare in avanti fa spesso capolino tra i testi (Slice Of Time, Holding On To Nothing). La  fortuna di un sopravvissuto. Crosby ringrazia. Di tutte queste cadute con relative rinascite canta nella personale Set That Baggage Down, uno dei picchi confessionali e musicali del disco con una chitarra elettrica che fa il suo, un groove che sale ed un'esortazione ad alzarsi sempre e comunque davanti ad ogni sciagura: "Rise Up, Rise Up" canta nel finale.

Dopo un capolavoro epocale e tanto "malato" da non fargli nemmeno ricordare il proprio nome (If I Could Only Remember My Name del 1971), disco che lo consacrò guida spirituale dell'intero movimento della West Coast Californiana e tra i manifesti più puri e lisergici dell'epoca, dopo la risposta a quella domanda avvenuta a quasi vent'anni di distanza, anni di rinascita soprattutto fisica (Oh,Yes I Can del 1989), dopo le tante strade percorse, anche sbagliate, del poco significativo disco di cover Thousand Roads del 1993: ad altri vent'anni dal quest'ultimo disco, ci rivela il nome, la sua identità. Chiamatemi tutti Croz sembra voler dire, sbattendo un significativo primo piano del suo faccione in copertina senza nessuna remora nel mostrare rughe e segni di vecchiaia (il CD è avvolto in un digipack veramente ben rifinito). Con l'unico rimpianto-suo e nostro-di essere arrivato al solo quarto disco solista in cinquant'anni di carriera, trascorsi come si farebbe sopra ad una montagna russa senza fine, dai fasti inarrivabili di Byrds e CSN & Y ai buchi degli anni ottanta pur con qualche sporadica e buona perla da cercare nei dischi targati CSN (Delta, Compass, Dream From Him).



Un disco che non lascia sorprese epocali, non si avvicina minimamente al capolavoro della vita anche se ha in comune quella impalpabile flessuosità che lo accompagna da sempre, ma  è una foto fedele del suo autore negli ultimi anni, uno sguardo attento alla sua anima interiore e a quello che lo circonda, perché lontano dalle scene e dalla vita, nell'ultimo ventennio, non ci è mai stato veramente. In pista sia con i compagni di una vita girando il mondo in tour, con il solo fraterno Nash (bello e spesso dimenticato è il loro disco del 2004), e con il gruppo CPR messo in piedi con il figlio ritrovato James Raymond (qui arrangia, produce e suona molto). Proprio da qui si riparte. Scritto interamente con il figlio, Croz è un album  dal passo lento, armonico, dal feeling jazzato che non ha fretta di arrivare, che non cerca i facili consensi: "l'ho scritto per me stesso" dice Crosby.

Un album contemplativo fin dall'iniziale What's Broken con la chitarra carezzevole di Mark Knopfler, brano piacevole anche se i due non si sono mai incontrati veramente-hanno collaborato a distanza-un qualcosa che ai tempi d'oro non sarebbe mai successo. A pensarci si perde un po' di quella antica magia che invece sembra avvolgere tutto il lavoro. Se ne prende atto e si va avanti tra stoccate alla moderna politica militare USA (la fumosa Morning Falling); acuti quadretti sulla prostituzione giovanile condotti con sola voce e chitarra arpeggiata (If She Called) e dipinti con la saggezza paterna dopo aver visto delle giovani ragazze al lavoro in un marciapiede fuori da un hotel dove soggiornava in Belgio; le immancabili armonie vocali che escono da Radio; i raffinati velluti jazzistici sia in Holding On To Nothing offerti dalla tromba di Wynton Marsalis che si mescola ad una chitarra acustica e nella finale Find A Heart vetrina musicale per i virtuosi ospiti Steve Taglione (sax) e Leland Sklar (basso); ma anche la sorprendente esplosione elettrica nella seconda metà di The Clearing, tra le più rock delle undici tracce -insieme a Set That Baggage Down- con il synth del figlio James Raymond e le chitarre di Marcus Eaton e di Shane Fontayne (che qualcuno ricorderà alla corte di Bruce Springsteen nel tour del 1993) a  dar battaglia. Però non tutto gira bene e Dangerous Night cade nello scalino di un AOR stanco e poco incisivo.

Eterno rispetto per un uomo (superstite) che ci fa visita solo quando ha qualcosa da dire. Un disco che avrà scritto solamente per se stesso, come dice, ma con la classe appartenente a pochi e la capacità di arrivare ancora a molti.




giovedì 12 gennaio 2023

LUCINDA WILLIAMS live@Teatro Lirico Giorgio Gaber, Milano, 10 Gennaio 2023

 


Quando parte 'Blessed', la prima canzone ma dopo poche parole Lucinda si ferma confusa in preda a chissà quali fantasmi, si capisce che sarà un concerto tutto in salita. Fortunatamente il caos mentale (oltre alla deambulazione sofferente lascito dell'ictus che l'ha colpita un paio di anni fa) dura circa un quarto d'ora  infarcito da colpi di tosse, soffiate di naso, strofe e attacchi  di canzoni sbagliate e così anche l'esecuzione della mia tanto attesa 'Drunken Angel' va a farsi "benedire". I suoi bravi musicisti con Doug Pettibone in prima fila cercano di metterci una pezza. A questo punto o va tutto in vacca, ciao e arrivederci, o ci si aggrappa a un miracolo. E qualcosa avviene veramente. Come quelle partite di calcio che si mettono subito male dopo il fischio d'inizio: dopo pochi minuti perdi due a zero e giochi pure in dieci perché un giocatore viene espulso. Ma con il cuore e la caparbietà a fine partita porti a casa un pareggio che vale come una vittoria. Lucinda Williams da metà concerto e soprattutto nel finale rinasce e pareggia ciò che ha fatto, o non  ha fatto all'inizio. La sua voce, a tratti straordinaria, e l'esecuzione di 'Essence', 'Copenhagen', 'Honey Bee' e 'Joy' pareggiano il conto. Dalla truffa al trionfo il passo è stato breve ma sudato. Un po' cone nella vita e stasera Lucinda ce l'ha messa tutta davanti agli occhi la sua vita, le sue debolezze, il suo fisico, il suo cervello e il suo cuore. 

Ecco, io il finale non lo avrei regalato a Neil Young, ma sono particolari e Rockin' In The Free World sembra messa lì come atto simbolico e Lucinda Williams con la mano in alto e le dita a "v" di vittoria con il teatro in piedi è il fotogramma che mi porto a casa di una serata sofferente che verrà ricordata, non come una delle migliori ma una delle più umane certamente.

Setlist

Blessed

Protection

Right in Time

Stolen Moments

Drunken Angel

Lake Charles

Big Black Train

Born to Be Loved

Copenhagen

All I Want

Essence

Pray the Devil Back to Hell

Honey Bee

Joy

Righteously

Rockin' in the Free World



domenica 8 gennaio 2023

THE LU SILVER STRING BAND live@Blah Blah, Torino, 5 Gennaio 2023



Primo concerto del 2023 all'insegna del puro rock’n’roll. Un battesimo ben'augurante, speriamo, con una delle migliori band italiane del settore.

Lu Silver (Luca Donini), una carriera trentennale alla spalle, divisa tra gli Small Jackets che lasciò nel 2010 per intraprendere una carriera solista che a sua volta si divide in due facciate "ma della stessa medaglia" come dice lui. E ieri sera le ha presentate entrambe in un concerto diviso in due set.

La prima faccia, quella "soft rock" del suo album solista Luneliness, frutto del lockdown, è più intimista e legata al folk, al country e a un certo west coast sound anni settanta. Ad accompagnarlo i fidi El Xicano, flemmatico, al basso, il tarantolato Ale Tedesco alla chitarra e Riccardo Bufalini alla batteria. Una maniera diesel per scaldare il pubblico in attesa della seconda faccia rockista ed elettrica. Veloce cambio di batteria ed ecco arrivare la furia di Danny Savanas direttamente dagli Small Jackets.


Un set incendiario quello dei romagnoli che ripercorre l'ultimo album intitolato citando e rubando  dal canzoniere di Neil Young: Rock'N'Roll Is Here To Stay, uscito nel 2020 per la GoDown Records, è il loro secondo disco.

Lu Silver è carismatico e il boogie rock'n'roll che esce instancabile è un treno in corsa che ha poche soste, quando lo fa, si ferma nelle più calde stazioni rock popolate da Faces, Status Quo, Stones, Quireboys, Grand Funk e il caldo southern rock americano. Un set viscerale e vibrante con un pubblico partecipe e pure il sipario per una sorpresa "indigena" sul palco. Torino, "la Detroit d'Italia" come Lu Silver apostrafa la città, ha risposto alla grande.

In scaletta anche 'Hard Road' dell'australiano Stevie Wright "papà non accreditato" degli AcDc e una elettrica e sempre terremotante Ramblin' Rose degli MC 5 posta in chiusura.

Buon 2023!


venerdì 6 gennaio 2023

RECENSIONE: IGGY POP (Every Loser)

IGGY POP   Every Loser (Atlantic Records/Gold Tooth Records, 2023)


il primo disco del 2023

Parlando del suo ultimo album Free uscito nel 2019 Iggy Pop disse: "questo album in qualche modo mi è capitato e ho lasciato che accadesse". Ne venne fuori un disco amaro, contemplativo, meditativo, dal carattere musicale vicino al jazz.

Ora non so se si potrà dire la stessa cosa di queste nuove undici canzoni (ma due sono brevi interludi parlati) visto il dispiegamento di forze che c'è dietro. In regia c'è il produttore e musicista Andrew Watt, il novello Rick Rubin che non si fa problemi a passare dal pop di Justin Bieber e Ed Sheran a leggende del rock. Facendo incetta di premi. Sue sono le flebo che hanno tenuto in piedi gli ultimi due dischi di Ozzy Osbourne. E visto che dietro si è creato un bel impero, ecco la sua etichetta e alcuni musicisti come Chad Smith e Duff McKagan che porta sempre con sé (c'erano anche sull'ultimo Patient Number 9 di Ozzy). In più per non farsi mancare nulla  una parata di stelle del rock che comprendono Travis Barker dei Blink 182 , Stone Gossard dei Pearl Jam, l'ex chitarrista dei Red Hot Chili Peppers Josh Klinghoffer, Dave Navarro ed Eric Avery dei Jane's Addiction e Taylor Hawkins dei Foo Fighters forse in una delle sue ultime performance in studio di registrazione.

"Persone che conosco fin da quando erano bambini e la musica vi farà impazzire" ha lasciato detto un raggiante Iggy Pop.

Quando attacca 'Frenzy' però capisci che Iggy Pop si è lasciato alle spalle lo sguardo contemplativo sul trascorrere del tempo, quasi una dichiarazione di sopraggiunta vecchiaia che permeavano gli ultimi dischi (toccando il top con Post Pop Depression, il progetto insieme a Josh Homme) per riprendersi, fosse anche solo per l'ultima volta, la paternità di certi suoni. Dentro ha ancora qualcosa da sputare fuori e si fa aiutare volentieri da Watt, la sua chitarra e la sua nutrita squadra.

 Every Loser saccheggia qua e là nella sua carriera con gli Stogees e solista. Non lo sentivamo così dentro a certi suoni dai tempi di Skull Ring, un disco che abbracciava il punk ma che poi non fu così memorabile. Meglio tornare indietro ai tempi di Naughty Little Doggie (1996) e del sempre bistrattato Beat Em Up (2001).

Le prime parole che si sentono quando attacca 'Frenzy', un rock contagioso e ululante ma abbastanza scontato con cori da arena rock, è "got a dick and two balls"!  Come tutti noi uomini ma lui è Iggy Pop. Naturalmente a dispetto dei suoi 75 anni sembra funzionare ancora tutto bene.

Tra assalti rock'n'roll in stile Detroit sound come 'Modern Day Rip Off', che ricorda da vicino Alice Cooper, il punk tout court di 'Neo Punk', i suoni eighties con reminiscenze New wave di 'Strung Out Johnny' e 'Comments' (una riflessione sui social media), a colpire nel segno sono però le canzoni dove la sua vecchia voce da crooner si piazza davanti a tutto e la musica dietro si quieta: 'New Atlantis' (un'ode a Miami), la ballata acustica 'New Morning', tra i picchi melodici e malinconici del disco e la finale 'Regency', la più lunga e sfaccettata che parte lenta per poi aprirsi ad una invettiva contro un certo potere imperante.

Non farà compagnia ai suoi grandi dischi ma Every Loser suona comunque fresco e battagliero per essere uscito da un settantacinquenne che in vita ne ha viste di tutti i colori e con le ultime uscite sembrava godersi la meritata pensione dei rocker crogiolandosi su territori e colline più dolci e meno aspre.

Un disco spassoso e divertente per aprire un nuovo anno di musica.





lunedì 2 gennaio 2023

RECENSIONE: MESSA (Close)

MESSA  Close (Svart Records, 2022)


davanti a una scelta: ecco il mio disco del 2022

Ecco il disco che smentisce tante persone: chi con troppa facilità ripete "non escono più dischi rock con qualcosa da dire", chi "in Italia non si fa rock", chi "ascolto solo cose vecchie che tanto...", chi "il rock italiano non sfonda all'estero", chi "i giovani non suonano più rock". 

In giorni dove i confini sono teatro di sanguinose atrocità nel nome della supremazia è bello rifugiarsi in dischi come questo. Sì, i Messa sono italiani e qualcuno dall'alto del loro stupendo terzo album Close li ha innalzati a suprema eccellenza tutta italiana. Certo, fa piacere. Però c'è veramente di più. Lo si capisce osservando la danza tribale Nakh delle donne nordafricane nella bella foto di copertina (e libretto compreso): agitano i capelli, muovono il collo, sono in movimento. Ecco: "movimento senza confini" sono parole che ben si adattano a questo disco e alla filosofia "aperta" della band. I Messa hanno fatto un lavoro straordinario: partendo dalla base heavy doom non hanno posto limiti (come la voce della brava Sara Bianchin) alla loro visione musicale che serpeggia senza guardare l'orologio tra il blues americano e il folk africano e mediorientale, il prog anglosassone, la psichedelia e il jazz (qui sale in cattedra il chitarrista Alberto Piccolo) in un vortice emozionale che non respinge ma ingloba. Dove luce e oscurità, occulto e sensualità, mistico e terreno, drammaticità e nostalgia flirtano in continuazione senza dare riferimenti, senza prevaricazioni. Dai territori carsici del loro Veneto ai deserti sahariani e poi ancora in qualunque parte voi vogliate.

I loro live poi, sono un'esperienza da vivere fino in fondo: catartici, ispirati, coinvolgenti anche per orecchie non avvezze a certi suoni. Se entri in sintonia con il loro vortice è fatta. Ne esci solo a concerto finito. Forse. È lì che vincono e convincono. La capacità innata di assorbire cinquant'anni di rock  sprigionandoli fuori in modo originale è virtù rara concessa a pochi. Sara tocca vette vocali con disarmante facilità, Alberto con la chitarra spadroneggia passando dal doom al jazz con tutto quello che c'è in mezzo (sua maestà il blues), il basso distorto e psichedelico di  Marco e la batteria di Rocco disegnano lo scenario intorno.

Si insomma, se l'Italia avesse la cultura rock di altri paesi europei, i MESSA sarebbero  venerati come si deve. Un patrimonio da difendere con passione ma con ancora tutta una carriera davanti.

Coraggiosi, interessanti, sorprendenti.





domenica 1 gennaio 2023

32 DISCHI per ricordare il mio 2022




LEE FIELDS - Sentimental Fool

KEVIN MORBY - This Is A Photograph

BUDDY GUY - The Blues Don't Lie

THE HELLACOPTERS - Eyes Of Oblivion

MEGADETH - The Sick, The Dying And The Dead!

JONATHAN JEREMIAH - Horsepower For The Streets

JOHN MELLENCAMP - Strictly A One- Eyed Jack

JACK WHITE - Entering Heaven Alive

THE AFGHAN WHIGS - How Do You Burn?

MADRUGADA - Chimes At Midnight

THE BLACK ANGELS - Wilderness Of Mirrors

THE HANGING STARS - Hollow Heart

SCORPIONS - Rock Believer

MICHAEL MONROE - I Live Too Fast To Die Young!

FANTASTIC NEGRITO - White Jesus Black Problems

JOHN DOE - Fables In A Foreign Land

KING'S X - Three Sides Of One

BEN HARPER - Bloodline Maintenance

MESSA - Close

EDDA - Illusion

NEBULA - Transmission From Mothership Earth

PAOLO NUTINI - Last Night In The Bittersweet

TEARS FOR FEARS - The Tipping Point

MANUEL AGNELLI - Ama Il Prossimo Tuo Come Te Stesso

THE CULT - Under The Midnight Sun

KREATOR - Hate Uber Alles

OZZY OSBOURNE - Patent Number 9

MICAH P.HINSON - I Lie To 

TOM PETTY And The HEARTBREAKERS - Live At The Fillmore 1997

JOHN NORUM - Gone To Stay

OLD CROW MEDICINE SHOW - Paint This Town

ZZ TOP - Raw

martedì 27 dicembre 2022

RECENSIONE: STEVE RUDIVELLI (Calypso Gin)

STEVE RUDIVELLI  Calypso Gin (2022)


un cocktail a mezzanotte

È stato un anno "strano" per me questo 2022. Pieno di persone e cose che hanno sostituito persone e cose. Un gioco di scambi che non ho ancora messo bene a fuoco. Sicuramente non noioso ma...c'è sempre un ma a rompere i coglioni.

Tanti chilometri come sempre, a piedi e in auto, perché ho imparato che nessuno ti viene incontro. Devi sempre muovere il culo e l'importante è non venderlo mai.

E combinazione l'anno si chiude con questo "piccolo" disco di Steve Rudivelli. Combinazione perché Steve, "il cowboy" della Brianza è un personaggio difficile da mettere a fuoco un po' come il mio 2022. Perché per incontrarlo devi andargli tu incontro nel suo Texas brianzolo. L'ho fatto una volta ma ritornerò. Lo prometto e non è una minaccia. Sicuramente un piacere.

Quando scrivo "piccolo", invece,  è perché Steve si fa bastare ancora l'antica magia artigianale: non rompe le palle a nessuno e registra i suoi dischi con la passione di sempre. Calypso Gin è il fratello del precedente Gasoline Beauty (2021) che a sua volte era fratello del precedente Metropolitan Chewingum (2020). "Un disco alcolico" mi ha scritto Steve. Non avevo dubbi.

Tante canzoni me le ha mandate in anteprima in questi mesi e per questo lo ringrazio pubblicamente.

Io aggiungo un disco dai tratti malinconici che fa battaglia con la spiaggia di copertina. E quando il mare c'è, è quello più triste e malinconico dell'inverno. 


Un disco folk di armonica e chitarre acustiche, ad aiutare le ficcanti incursioni delle chitarre elettriche di Andy D ('Tabacco Kentucky'), che mi ha riportato in mente quelle serate invernali di provincia, proprio come quella di oggi mentre scrivo, avvolte nella nebbia trafitta dalla luce gialla proveniente dalla vetrina di un bar tabacchi (in un paese "c'e sempre un bar tabacchi" canta) aperto fino a tarda sera: c'è chi gioca a carte, chi ancora a scacchi. Chi ordina due Negroni, chi compra tabacco, ci sono bicchieri vuoti e mezzi pieni, c'è chi indossa stivali "made in Mexico" e chi un pullover. Non fatevi illusioni "esotiche": siamo a Oreno city, frazione di Vimercate. Ogni mondo è paese. E il paese è bello, tranquillo e puoi tenere in mano un bicchiere con più scioltezza.

Le atmosfere da Sergio Leone di 'Caterina Malibu', quelle esotiche di 'Bikini Pub', quelle da frontiera americana alla Tom Russell di 'Mexico Boots', le atmosfere da Nashville Skyline dylaniano che si fondono con i cantautori milanesi in 'Timo It'. Jannacci meets Dylan.

Il disco si conclude con una serenata d'amore chitarra e armonica ('Serenade Of Love') che non può che essere di buon auspicio a tutti per un sereno 2023. "...la luna è sempre stanca, la luna è sempre lì da lunedi" canta Steve. Guardo fuori dalla finestra per cercare 'sta luna: c'è solo nebbia stasera, che fregatura la vita, ma è bello ugualmente.



RECENSIONE: STEVE RUDIVELLI - Metropolitan Chewingum (2020)

domenica 25 dicembre 2022

RECENSIONE: MICAH P. HINSON (I Lie To You)

MICAH P.HINSON  I Lie To You (Ponderosa Records, 2022)


punto e a capo

Così, a conferma di quanto le classifiche di fine anno contino veramente poco se fatte già a Novembre, il nuovo disco di Micah P Hinson esce a Dicembre e pretende tutte le attenzioni possibili. Uno, perché l'autore titorna a incidere dopo una pausa di quattro anni; due, perché c'è molta Italia dentro (anche se fare i patrioti non è mai bello, figuriamoci di 'sti tempi con i politici che girano in giaccia mimetica); tre, perché è un disco da groppo in gola che rischia di mandare di traverso il gran cenone di Natale e dare un cazzotto ben calibrato a tutto il finto perbenismo di questi giorni di festa. Dopo il sei Gennaio si torna alla "finta normalità" tanto vale non perdersi in illusioni e rimanere a combattere nella dura normalità.

A proposito, da oggi in avanti 'Please Daddy, Don't Get Drunk This Christmas', la canzone natalizia anomala di John Denver avrà la sua versione firmata da Micah P. HInson.

Nato e finito nel giro di una settimana in Irpinia, questa estate quando il cantautore è stato ospite di Vinicio Capossela allo Sponz festival, Lie To You, che esce per la Ponderosa Records, è un disco confessionale pieno di passato ma anche di visioni proiettate nel presente, con la voce profonda che scava nella vita  riportando a galla attimi, rimpianti, sensazioni, fallimenti e tutti quei demoni che hanno accompagnato la sua vita, dall'adolescenza in avanti. Una voce che pressa sulla musica tirata all'osso e preparata con dovizia da Asso Stefana che oltre a metterci la sua "benedetta" chitarra, produce il tutto e chiama a raccolta musicisti come Raffaele Tisero (la sua viola d'amore è un punto cardine su tutto il disco), Zeno De Rossi (batteria), Greg Cohen (contrabbasso).

Arrangiamenti d'archi che tessono trama e ordito di melodie da cui scaturiscono candide  lenzuola, leggere e svolazzanti su cui si adagiano grevi le parole di Hinson. 

Alla cupa, ipnotica e struggente 'What Does It Matter Now', uno dei momenti più intensi di questa mezz'ora di canzoni si contrappone il banjo della folkish 'Wasted Days And Wasted Nights'.

Agli scatti elettrici di 'Find Way Out' risponde 'People', opera di David Bazan che Hinson fa sua apportando alcune modifiche.

E se nel lento valzer di 'Carelessly' trova solo ora il coraggio di esplorare una triste parentesi del suo passato (l'aborto di una sua ex ragazza), "essendo giovani umani, abbiamo preso misure che, all'epoca, capivamo poco: ha abortito. Solo nella forma di una canzone sono stato davvero in grado di esprimere le mie emozioni e i miei pensieri sull'argomento" ha raccontato recentemente, in  '500 Miles' sembra calarsi nelle American Recordings di Johnny Cash, con l'unica differenza che Cash all'epoca ultra sessantenne entrava nell'ultima fase della sua vita mentre Micah P Hinson di anni ne ha solo quarantuno e prima dei vent'anni pare abbia già vissuto quattro vite.

Un disco che chiude la parentesi dei suoi primi quarant'anni come annuncia in 'Ignore The Days', l'unica veramente proiettata nel suo nuovo futuro.

"Come puoi progredire come essere umano nel futuro se tutto ciò che stai facendo è scrivere di tutta la merda che ti incatena al passato?". Una dichiarazione che sa di nuova rinascita.

(Rimane il mistero del perché  una canzone come 'You And Me', voce e pianoforte sia reperibile solo in versione digitale).






sabato 17 dicembre 2022

RECENSIONE: CORY BRANAN (When I Go I Ghost)


CORY BRANAN   When I Go I Ghost (Blue Elan Records, 2022)



Mi è sempre piaciuto Cory Branan, uno dei migliori cantautori americani di quella generazione di quasi cinquantenni che seguendo le orme dei grandi songwriter a stelle e strisce è riuscita creare una piccola scena. Branan non è certamente tra i più prolifici: questo è solo il suo sesto album e esce a cinque anni dal precedente Adios, che non era un addio ma un arrivederci a data da destinarsi. Ci siamo.

Nativo della terra del Misssissippi, figlio di un batterista, inizio carriera in una metal band e folgorazione cantautorale ascoltando John Prine da cui eredita quel modo di scrivere disincantato, la cinica lettura della vita con in primo piano i sentimenti compresi cuori spezzati, malesseri e storie intriganti, tanto che i Lucero lo citarono in una loro vecchia canzone 'Tears don't Matter Much' contenuta in That Much Further West(2003).

Per questo disco ha scelto undici canzoni dalle cinquanta che aveva a disposizione, lascito del tanto tempo creato dalla pandemia.

"Brani che parlano di dubbi esistenziali, della perdita di persone care, di depressione e di ansia generalizzata" dice. Per farlo mette in campo tutto il suo estro musicale che tocca sempre con disinvoltura il rock dalle influenze springsteeniane come avviene nell'apertura 'When in Rome, When in Memphis' che ospita  Jason Isbell e Brian Fallon. Per chi ama Springsteen consiglio però l'album Mutt uscito nel 2012, forse il suo migliore. Su di giri anche la tesa 'When I Leave Here'  e una 'One Happy New Year' che gravita invece dalle parti di John Mellencamp. 

Mentre in 'O Charlene' escono tutte le influenze ereditate da John Prine, 'Angels in the Details' e 'That Look I Lost' si muovono sinuose nel soul. A conferma della sua grande bontà di scrittura che ama spaziare nei generi, a una ballata notturna e malinconica come 'Pocket Of God', certamente tra le più riuscite del disco, contrappone due pezzi dal retrogusto pop come 'Waterfront', cantata insieme alla cantautrice Garrison Starr e 'Come on If You Wanna Come'.

Branan si conferma un cantautore randagio e poco omologato, libero di muoversi nello scacchiere musicale americano senza troppi obblighi di tempo e generi.




venerdì 9 dicembre 2022

VOIVOD live@Bloom, Mezzago, 6 Dicembre 2022

 

"Siete leggenda", grida uno dietro di me a fine concerto quando i canadesi a centro palco distribuiscono strette di mano e ringraziamenti a un pubblico caloroso. Sono realmente commossi per l'accoglienza e per come è andata la serata. Lo si capisce dalle loro facce.

Perché i Voivod non frequentino i grandi palazzetti del rock rimane uno dei tanti misteri della musica pesante (e non). Ci sarebbero tante risposte per capire questo mistero ma guardandoli questa sera sul palco, divertirsi come dei ragazzini alle prime armi si capisce tutto, anche che a loro, pur con una carriera lunga quarant'anni piena di attestati di stima da parte di critica e pubblico, interessa solo stare lì davanti  e suonare. La storia e i loro dischi parlano per loro. Non  c'è bisogno d'altro.

E allora mi capita di osservare spesso Michel "Away" Langevin dietro alla sua batteria essenziale e pratica, sorridere in continuazione mentre suona, si diverte ancora una cifra, potrebbe tirarsela come la più celebre delle rockstar e invece puoi incontrarlo dentro ai cessi del Bloom, timido, pacato e riservato. Denis  "Snake" Belanger potrebbe invece essere il compagno di bevute ideale, il mattacchione della compagnia, con la battuta sempre pronta, le mosse da scemo e le smorfie pure, Daniel "Chewy" Mongrain (chitarra) e Dominique "Rocky" Laroche (basso) sono gli uomini affidabili su  cui puoi contare sempre, rispettosi dei ruoli che stanno coprendo e di chi è venuto prima di loro. Denis Piggy D'Amour è stato ricordato, come sempre.


I Voivod hanno sempre avuto uno strano destino, quasi maledetto, che però è sempre stato combattuto, avendone in cambio l'assoluta certezza di essere uno dei gruppi più inimitabili della scena rock. I Voivod hanno avuto il merito artistico di elevare il metal, portarlo in un altra dimensione, a volte troppo avanti ed "intelligenti"per essere capiti ma alla fine dei conti irrangiungibili ed inimitabili.

Hanno elevato il metal, l'hanno complicato così tanto che l'unico modo per presentarlo al pubblico è quello di svestirlo di certi luoghi comuni, di abbandonare certe pose da duri e puri e giocare tutto sulla spontaneità, la generosità e l'umiltà. Ai loro concerti ci si diverte. E poco importa se suonano la vecchissima e tirata Voivod, le nuove canzoni del loro ultimo album Synchro Anarchy (tra i dischi dell'anno come ogni anno che esce un loro disco) o quelle di album epocali come Nothingface, Dimension Atross, Angel Rat o Outer Limits, la loro carriera è sempre stata livellata sull'eccellenza. Non hanno scheletri da nascondere.

Ma poi, chi altri si è impossessato di una canzone dei Pink Floyd ( Astronomy Domine) così bene da farla propria?

Setlist

Experiment

The Unknown Knows

Tribal Convictions

Synchro Anarchy

Iconspiracy

The Prow

Holographic Thinking

Overreaction

Pre-Ignition

Sleeves Off

Astronomy Domine 

Voivod

Fix My Heart




sabato 3 dicembre 2022

RECENSIONE: TOM PETTY And The HEARTBREAKERS - Live At Fillmore 1997

TOM PETTY And The HEARTBREAKERS  Live At Fillmore 1997 (Warner Records, 2022)



il concerto infinito...

Abbiamo assistito a tanti concerti nella nostra vita, così tanti da riuscire ad acquisire quella capacità che ti fa capire quando gli artisti e le band sopra al palco si divertono o stanno solamente suonando per contratto, per portare a casa l'agognata pagnotta: tanto domani siamo in un'altra città. "Un'altra città, un altro posto, un'altra ragazza, un'altra faccia" ringhiava Lemmy. "Caffè al mattino, cocaina al pomeriggio" gli fa eco Jackson Browne. È la routine che serpeggia, in qualche modo deve essere spezzata e alleviata. 


Sbirciare le scalette da già un'idea: se è sempre la stessa, sera dopo sera, la noia può far visita. Figuriamoci se la città è sempre la stessa, il palco anche e l'hotel dove si alloggia, il Miyako Hotel, pure. 

Al Fillmore di San Francisco in quelle venti date consecutive sold out comprese tra il 10 Gennaio e il 7 Febbraio del 1997 non c'era nessuno di noi (se sì fatevi avanti e raccontate per dio!) ma il divertimento è palese, si sente, ti entra sotto pelle anche solo ascoltando le canzoni senza vedere gli sguardi complici dei musicisti. E la scalette furono messe giù sul momento (per un totale di 85 canzoni eseguite), sera dopo sera, (per la felicità dell'ultimo entrato in formazione, il batterista Steve Ferrone), così piene di tanti devoti  omaggi alla musica (da Bob Dylan ai Kinks, da J.J.Cale agli Everly Brothers, da Bill Withers a Chuck Berry, dagli Stones a Booker T. & the M.G.’s), una narrazione avvincente ed esaltante di tutte le corde che può solleticare, toccare e stringere forte il rock’n’roll.

Gli Heartbreakers uniscono i puntini che separano John Lee Hooker dai Byrds ( ospiti sul palco il bluesman e Roger McGuinn) compreso tutto quello che sta in mezzo (peccato non vi sia la testimonianza dell'altro ospite Carl Perkins), agli Heartbreakers, invece, il compito di proseguire a tratteggiare la strada futura, almeno fino a quando hanno potuto, fino alla prematura morte di Petty.

Ed è stato già tanto. Ma tanto è anche quello che potevano ancora dare. 

Un gioco di squadra che non ha boss (anche nei dischi "solisti" di Petty gli Heartbreakers in qualche modo c'erano sempre). E quella solida unione la si percepisce guardando e ascoltando quella American Girl così straziante che sta girando in rete in questi giorni, eseguita da Benmont Tench e Mike Campbell, solo piano e chitarra. Tom dove sei?

E tutto sembra riportare a quel club a Gainesville in Florida quando Tom, Mike e Benmont nel 1970 erano la resident band di un locale. Iniziò tutto lì. Questa è la chiusura del cerchio o forse meglio ancora la continuità con in più l'esperienza.

Paragoni e assolutismi li lascio volentieri ad altri, perché ho hai ascoltato tutti i live della storia o si finisce per tirare in ballo i soliti cinque titoli. (A proposito: ma perché nessuno cita mai live di band hard rock e heavy?).

L'importante è che queste date abbiano smesso di circolare nel sottobosco dei fan sottoforma di bootleg ma abbiano incominciato a volare sopra alle teste di tutti, encomiabile esempio di cosa voglia dire suonare sopra a un palco. Palestra, manifesto, enciclopedia per chiunque si avvicini al rock'n'roll.

"Ho pensato che il Fillmore sarebbe stato il posto migliore per farlo, perché il pubblico qui è molto più indulgente nel permetterti di sperimentare. E si è rivelato vero. Sono semplicemente venuti con noi, al punto che ci siamo sentiti molto a nostro agio in quel lungo periodo. Penso che il lungo termine sia stata una grande idea, perché non stavamo promuovendo nulla e non avevamo motivo di farlo, a parte il fatto che volevamo farlo" disse in una vecchia intervista Petty.

E poi c'è una cosa che Tom Petty, suo malgrado mi ha insegnato: ogni lasciata è persa. Me lo persi stupidamente a Lucca nel 2012. E il finale è stato quello che è stato.

Di questo disco avevo ordinato la versione con due CD. Qualcosa mi diceva che me ne sarei pentito, nuovamente: l'ho subito cambiata con il cofanetto da quattro dischi. Al diavolo anche il vile denaro. Ogni lasciata è persa e questo è veramente imperdibile.






domenica 27 novembre 2022

CLUTCH live@Fabrique, Milano, 26 Novembre 2022



Sono arrivato a casa prima di mezzanotte da un concerto milanese con un'ora e venti minuti di strada che mi separavano da casa. Ecco uno dei motivi per cui questo concerto verrà certamente ricordato. Saliti sul palco alle 20 e 40, scesi alle 22 e 10 e due band di supporto prima (i rimarchevoli londinesi Greenlung) che hanno praticamente suonato in orario di aperitivo, ma quello che dopo ne fai subito un altro perché è troppo presto per andare a cena. Queste sono le notti milanesi. E a una certa età va benissimo così anche se trattati da bambini a cui dopocena viene concesso un bel cartone animato prima di andare a nanna.

Poi ci sono i motivi musicali ma su quelli non avevo dubbi: i Clutch sono una macchina schiacciasassi, pachidermica, che lavora ininterrottamente da trent'anni con la stessa formazione guidata da Neil Fallon, un predicatore folle che celebra i suoi sermoni con voce profonda (a volte pare Screamin' Jay Hawkins) e gesti da vero ipnotizzatore e arringa folle. Difficile scampare al suo indice quando ti punta. Indemoniato canta da dio e non sbaglia un colpo. Niente trucchi e niente inganni però, uniche concessioni extra un campanaccio, una fisarmonica e il theremin usato per 'Skeletons On Mars'. Questa sera ho scoperto pure che beve molto e che dopo quasi ogni canzone cambia chewingum. Starà dentro a quel vasetto di gomme il suo segreto? 


Intorno a lui come due solidi pilastri, fermi e inamovibili, il bassista Dan Maines che sfoggia una t shirt dei Bad Brains e Tim Sult impassibile e perennemente chino sulla chitarra a macinare riff e assoli. Dietro la batteria di Jean-Paul Gaster.

In questo tour europeo la band del Maryland presenta il nuovo album  Sunrise On Slaughter Beach uscito quest'anno.

Che i Clutch non abbiano mai seguito mode durante la loro carriera lo dimostra la scaletta (sempre diversa ogni sera!), un su e giù dove stoner, hard rock, funk, psichedelia e pesante blues si alternano nel nome di un comune denominatore chiamato groove: ecco così 'Burning Beard', le sempre coinvolgenti '50.000 Unstoppable Watts' e 'Earth Rocker', una lontanissima 'Rats', datata 1993 vicina alle nuove 'Slaughter Beach' e 'Nosferatu Madre'. 

Il crossover dei novanta non è mai stato così vicino al blues come succede durante 'D.C Sound Attack!' e 'Electric Worry' proposte nel torrido finale.

Eclettici e credibili come pochi in un mondo dove l'apparire la fa da padone, con la loro semplice basicità emergono come dei giganti e il buon Fallon, impettito e carismatico, dall'alto della sua bassa statura un gigante lo è a tutti gli effetti. 

SETLIST:

Slaughter Beach

Burning Beard

Struck Down

Rats

Sucker for the Witch

H.B. Is in Control

Nosferatu Madre

Walking in the Great Shining Path of Monster Trucks

50,000 Unstoppable Watts

In Walks Barbarella

Skeletons on Mars

Green Buckets

Earth Rocker

The Elephant Riders

Abraham Lincoln

A Shogun Named Marcus

Ghoul Wrangler

D.C. Sound Attack!

Electric Worry

Impetus




sabato 26 novembre 2022

RECENSIONE: LEE FIELDS (Sentimental Fool)

LEE FIELDS  Sentimental Fool (Daptone Records, 2022)


dammi il tuo soul

Porca miseria ragazzi: "I'm falling in love". Again. Se la musica non serve a questo a cosa serve? Vieni sempre ricambiato. Sto ascoltando questo disco a ripetizione. Al mattino quando è ancora buio mentre faccio colazione con tutta la giornata davanti, alla sera quando la giornata ha lasciato pochi segni dietro di sé. Le corte giornate autunnali sono un po' così, le ore scorrono ed è già nuovamente buio. Nell'oscurità questo disco gira alla grande.


LEE FIELDS, 72 anni,  mastica soul come fosse chewing gum zuccherato. Con quella facilità disarmante che solo chi non soffre di diabete può permettersi. Così si nasce, non lo diventi mica strada facendo. Eppure di strada ne ha macinata anche lui dal  lontano 1967, dal suo traferimento a New York proveniente dal North Carolina, giovanissimo e con tanti sogni nel cassetto e James Brown nel cuore, dal primo singolo uscito nel 1969 a una carriera lunga con alti e qualche inevitabile sbandata disco music in tempo reale (che poi anche quella è un'arte nobile) di cui però sembra non pentirsi assolutamente ("gli anni '80 mi hanno dato una prospettiva più ampia su ciò che potevo fare") tanto che quel chewing gum, ora che è rimasto ancora uno dei pochi, è diventato quasi poltiglia ma di quelle che mantengono ancora bene intatto il sapore. Una marca buona insomma. Il "piccolo James Brown", soprannome che si guadagnò quando era ancora giovanissimo ora sembra più che mai appartenergli di diritto. 

Passati a riposo gli anni ottanta, si dedicò alla lettura della Bibbia, così dice, ritornò agguerrito nei novanta. In questi ultimi anni  prolifici si è ripreso il posto che si merita di diritto o almeno per raggiunta anzianità. Anche se non dimostra la sua età.

E in giorni nei quali il soul sembra tornato sulle prime pagine portato dal battage pubblicitario, a volte insensato e diciamolo...pure esagerato, di una rockstar più che benestante, il regalo più bello sarebbe tributare il giusto omaggio anche questo ultimo vero eroe del genere che se ne esce con SENTIMENTAL FOOL, un disco di inediti per la Daptone Records di Gabriel Roth che fa suonare il soul con la giusta solennità e con ben poca pomposità. 

Canzoni senza tempo che legano in maniera indissolubile gospel (è da lì che arriva) e soul. Con qualche bella incursione r&b, jazz e funk.

A tal proposito Lee Fields ha una sua idea:"la musica soul per me viene dallo spirito. C'è una linea molto sottile tra gospel e soul. Il Vangelo parla delle meraviglie, della gloria e delle storie della Bibbia. La musica soul, con lo stesso sentimento, canta ciò che sta accadendo nelle nostre vite oggi, qui, su questo pianeta".

Malinconia, relazioni, amore anche non corrisposto, e emozioni sono le sue linee guida. E canzoni come

'Forever', 'Sentimental Fool', 'Save Your Tears For Someone New' e 'Whithout A Heart' mettono in mostra quella rara capacità di usare la voce come il più complesso degli  strumenti in mezzo a pianoforti, organi  vibrafoni e fiati.

E poi questa copertina stupenda (a mio parere), un'immagine così seventies da farmi ricordare la foto di An Anthology di Duane Allman che proprio il 20 Novembre 1946 nasceva. Intanto fuori è già buio.





sabato 19 novembre 2022

RECENSIONE: NEIL YOUNG With CRAZY HORSE (World Record)

NEIL YOUNG With CRAZY HORSE  World Record (Reprise REcords, 2022)



no more war, only love

C'è una frase estrapolata dal libro Special Deluxe con la quale Neil Young ritrae se stesso meglio di chiunque abbia cercato di farlo al suo posto. E potrebbe pure andare bene per liquidare ogni nuovo album del nostro. Leggi e avrai Neil Young sotto la lente di ingrandimento.

Dice:"a volte divento talmente ossessionato da una nuova idea che finisco per perdere la prospettiva e inizio a sognare davvero in grande. Ovviamente io sono sempre stato un passionale, il che nella mia vita è stato un bene e un male e ha portato ad alterni risultati". Ora tocca a noi. Dove si pone questo nuovo World Record? Di certo c'è la passione. Di certo non è un male ma nemmeno un gran bene. Alterno sì.

Trovare parole nuove per descrivere un nuovo disco di Neil Young è quindi diventata impresa sempre più difficile. In qualche modo abbiamo già detto tutto e sentito anche. Qualche maligno suggerisce: c'è sempre il "copia e incolla", lo usa lui nelle canzoni, perché non noi?

Lui come al solito anche quest'anno ci ha dato dentro: mettendo da parte gli archivi e i prossimi festeggiamenti per i cinquanta di  Harvest, dopo il live Noise And Flowers che testimoniata la collaborazione con i Promise Of The Real di Lukas Nelson , dopo Toast, il disco dimenticato dei primi anni duemila ecco a sorpresa, a un anno esatto dall'uscita di Barn questo ennesimo grido ecologista urlato alla veneranda età di 77 anni  a più di cinquant'anni da quando ci avvertiva di "madre terra in fuga". Un po': io vi avevo avvertito. Ve lo ripeto ancora una volta. E non credo sia demenza senile. 

Perché sì, ammettiamolo: a questa generazione di musicisti vogliamo un gran bene. Tanti ci hanno già lasciato, coccolamioci quelli rimasti. Tanto, mettiamoci il cuore in pace: in pensione non andranno mai e chi è andato dopo poco è tornato per troppa nostalgia. Ah ok, Poncho Sampedro ci saluta da una spiaggia con la chitarra appesa in soggiorno e anche questa volta nei Crazy Horse c'è Nils Lofgren, musicista dal grande talento spesso sacrificato all'ombra dei boss. Con lui gli altri cavalli pazzi quasi ottentenni Ralph Molina e Billy Talbot questa volta non si sono chiusi in un fienile ma ai Shangri-La  di Malibu di Rick Rubin. Il risultato? Lo stesso degli ultimi Colorado e Barn ma con piùvarietà. Rick  Rubin ha messo poco il becco: si sarà accarezzato la lunga barba bianca e avrà pensato "cosa posso insegnare a questi qui, io?".





Undici canzoni registrate in analogico, senza sovrastrutture che mantengono intatte purezza e immediatezza con il messaggio davanti a tutto. Messaggi che spesso arrivano con tono nostalgico rivolto a quello che avevamo, abbiamo ancora e forse non avremo più continuando di questo passo, anche se poi a prevalere è un velato ottimismo. Ah, anche lo scatto di copertina che ritrae suo padre Scott nel pieno del suo vigore sembra raccontarci tutto questo.

Insomma, il rispetto prima di tutto come predica in 'This Old Planet (Changing Days)', ballata pianoforte e fisarmonica. "Non sei solo in questo pianeta', il monito.

In 'Love Earth' che apre il disco canta: "abbiamo vissuto vicino al sole e abbiamo tutto, stavamo vivendo in un sogno, ama la Terra".È una ballata ciondolante che subito lascia spazio al corale blues 'Overhead', guidato dal pianoforte e a  'I Walk With You (Earth Ringtone)' primo vero incontro con le chitarre che diventano d'assalto nel rumoroso blues ' Break The Chain' (nel video, qualcuno alla fine dice: "anche la console sta fumando") e protagoniste assolute nei quindici minuti del "nostalgico" amore per il passato e le auto d'epoca 'Chevrolet', soprattutto antico saggio su cosa voglia dire suonare con i Crazy Horse ancora oggi. Potrebbe uscire da Re Ac Tor o da Ragged Glory, quando la band si lascia andare è questa qui. Ennesimo fumante manifesto da attaccare alla parete finché sta su.

Di contro, a testimoniare quanto World Record sia un disco disordinato e stropicciato musicalmente ecco tre ballate con l'organo a pompa protagonista: 'The Long Day Before', la sbilenca 'The Wonder Won't Wait' e il country di 'Walkin’ On The Road (To The Future)' dove a farla da padrone è un messaggio ripetuto, tanto semplice e ingenuo quanto istantaneo per raccontarci il vecchio Neil. Dice: "no more war only love". 

E cosa vuoi dirgli? Hai ragione!





venerdì 18 novembre 2022

RECENSIONE: ENUFF Z'NUFF (Finer Than Sin)

ENUFF Z'NUFF  Finer Than Sin (Frontiers Records, 2022)



in Beatles we trust

Ascoltare un nuovo album della band di Chicago guidata da Chip Z'Nuff è sempre piacevole, anche se della formazione originale è rimasto ben poco. Dopo quarant' anni dalla loro nascita e trentatre dal debutto continuano a far uscire dischi (il diciottesimo!) comunque piacevoli e devoti a quel glam rock intriso di  power pop e psichedelia che li fece risaltare ai tempi d'oro. La loro tripletta di inizio carriera (Enuff Z'Nuff del 1989, Strenght del 1991 e Animals With Human Intelligence del 1993) rimane ineguagliabile per freschezza ma bisogna dare atto che pur con tutte le sfortune e i cambiamenti in corsa, gli Enuff Z'Nuff hanno continuato la loro carriera con coerenza, costanza e senza cadute di tono.

Non fa eccezione questa nuova manciata di canzoni. Sembra che Chip entrato in studio abbia detto ai suoi ragazzi (i chitarristi Tory Stoffregen e Tony Fennell e il batterista  Benjamin Hill): "non impazziamo con le sovraincisioni'. Quello che è uscito sono quaranta minuti di piacevole e scorrevole rock’n’roll, che ha nell'iniziale e strumentsle 'Sound Check', la canzone  che serve da preparazione a quel che seguirà dopo, proprio come fosse un set live. (A proposito: ma il tour italiano di fine Ottobre che fine ha fatto?)

Ossia il mai nascosto amore per le melodie beatlesiane in tutte le sue forme (l'ultimo disco Hardrock Nite era proprio un tributo ai quattro di Liverpool) che escono prepotenti in 'Catastrophe' nella viziosa 'Steal The Light', nell'hard rock'n'roll veloce e scattante 'Lost And Out Of Control', nella sognante 'Intoxicated', nel quadrato hard rock 'Trampoline', raggiungendo l'apice nei sei minuti con arrangiamenti orchestrali di 'Hurricane', canzone che pare raccolta, fresca fresca da quel "campo di fragole" colorato degli anni sessanta.

Rimane il tempo per una super abusata cover di 'God Save The Queen' che Chip spiega così:  "i Sex Pistols sono stati una delle nostre grandi influenze, quindi è bello poter finalmente chiudere quel capitolo e mettere "God Save the Queen" su uno dei miei dischi" e il finale di disco 'Reprise' che riprende l'iniziale 'Sound Check', praticamente un minuto e mezzo di assoli di chitarra.

Gli Enuff Z'nuff ancora oggi possono vantarsi di essere stati uno dei gruppi più originali, personali, coraggiosi e allo stesso tempo sfortunati di una scena che oggi più che mai sembra vivere di ricordi e passato. Loro, tra alterne fortune, sono ancora qui a buttare fuori dischi originali e girare il mondo con il loro consueto mix di colori, pace, amore, pop e rock'n'roll.





venerdì 11 novembre 2022

RECENSIONE: THE PROCLAIMERS (Dentures Out)

THE PROCLAIMERS   Dentures Out (Cooking Vinyl, 2022)

guardare avanti

Alzi la mano chi di voi segue ancora le vicende dei gemelli Craig e Charlie  Reid? Vedo poche mani. Sarò mica rimasto l'unico che continua a seguire le vicissitudini musicali di questi scozzesi che non le hanno mai mandate a dire (da sempre in lotta per l'indipendenza scozzese), con il loro accento infondondibile, usando un linguaggio musicale dove pop, folk, vecchio skiffle e rock'n'roll la fanno da padrone?

Dentures Out è il loro dodicesimo disco e se i fasti degli esordi segnati da album come This Is The Story (1987) e Sunshine On Leith (1988) sembrano ormai un lontano ricordo almeno fuori dalla Scozia, dove invece rimangono personaggi da prima pagina e serata, l'ironia, il sarcasmo e l'impegno rimangono quelli di sempre. Non fa eccezione Dentures Out, anzi qui alzano notevolmente l'asticella, registrato nei mitici Rockfield Studios in Galles nella primavera del 2022 ma uscito , invece, in un momento di profondi cambiamenti per il Regno Unito: la morte della Regina, il recentissimo avvicendamento al governo.

"Il tema dell'album sono le persone che sognano un'Inghilterra che se n'è andata o forse non è mai esistita". Così spiegano il tema portante che lega nel bene e nel male tutte le canzoni.

Nella title track che apre il disco e che vede la partecipazione di James Dean Bradfield dei Manic Street Preachers alla chitarra sembra tutto molto chiaro:"la Gran Bretagna è vecchia e piuttosto magra, l'ho vista con la dentiera fuori, se l'è messa, poi ha borbottato qualcosa di indistinto che potrebbe essere stato, 'Nostalgia ti amo'.” 

Ancora di più nel rock spigoloso di 'The World That Was', esplicita fin dal titolo: non cerchiamo i fasti del passato, guardiamo avanti sembra il monito.

Tra scatti di rock’n’roll ('Praise'), ballate con pianoforte e  arrangiamenti d'archi ('Feast Your Eyes', 'Things As They Are' che si scaglia contro la stampa corrotta), country a ritmo di valzer ('Play The Man'), il paragone tra le domeniche proibizioniste del puritanesimo calvinista e il lockdown imposto dalla pandemia ('Sundays By John Calvin') e qualche quadretto di positiva speranza ('Signs Of Love') i soli 35 minuti di durata, nonostante il peso dei temi trattati, scorrono via come un fresco bicchiere d'acqua. Naturalmente non quello in copertina, lì riposa la vecchia, malconcia e nostalgica Inghilterra.




mercoledì 2 novembre 2022

PM WARSON live@Blah Blah, Torino, 1 Novembre 2022

Ne ero certo: solo la musica poteva raddrizzare una giornata di festa grigia, oziosa, fredda il giusto e sostanzialmente inutile. Le strade d'asfalto questa sera sono deserte, la nebbia ha coperto tutto quello che poteva avvolgere ai lati per cercare di far apparire i contorni il più possibile uguali a quelli britannici. Mentre la Mole illuminata si staglia tra la nebbia e i portici di via Po quasi deserti, quando entro al Blah Blah, piccolo e intimo, percepisco già dall'atmosfera, dai 45 giri old school messi dal dj, che sarà una serata calda, avvolgente, intima, per me e per tutti quelli che hanno volutamente barattato ciabatte e divano per un paio di comode scarpe che li ha portati fino a qui. Manca solo il fumo delle sigarette come una volta ma di quello se ne fa volentieri a meno. 
PM Warson è un giovane londinese armato di Fender, aspetto da universitario che ne sa, la gavetta dietro e le idee ben chiare su quello che vuole fare: il suo è un r&b, soul che affonda le radici negli anni 50 e 60, che guarda ai grandi classici ma con la testa ben salda nel presente suonando con piglio, raffinatezza e pulizia. Non disdegnando trame blues, rock'n'roll, swing, jazz e surf. Un esordio, True Story (2021) che oltremanica ha fatto gridare al miracolo tutti gli appassionati di northern soul e poi Dig Deep Repeat un seguito che non ha atteso troppo per uscire in questi mesi. La fama poi è accresciuta quando un noto brand d'abbigliamento ha scelto '(Don't) Hold Me Down' per uno spot pubblicitario. Niente di cui montarsi la testa ma si sa le voci girano veloci e tutto fa brodo per far girare il nome. 

La band che lo segue in questa ultima data italiana delle sei fissate, è composta da basso (Pete Thomas), batteria, tastiere (Jack McGaughey), il sax di Meridyth Dickson e la seconda, spesso prima voce femminile della brava Denver Cuss. Viaggiano spediti, precisi, puliti, senza disdegnare del sano divertimento quando si lasciano andare in accelerazioni, in brevi botta e risposta strumentali e accenni free. È in questi momenti che si percepisce il vero divertimento dalle loro espressioni. Tutti bravi, tutti giovanissimi. In mezzo ai pezzi dei due album tra cui spiccano 'Leaving Here', 'Matter Of Time' e 'Nowhere To Go', 'Dig Deep', 'Out Of Mind', ecco anche le cover 'To Be Alone With You' di Bob Dylan, da Nashville Skyline, e 'I Don't Need No Doctor', un classico del R&B portato al successo da Ray Charles, ma io ricordo pure la versione heavy degli WASP. 
Si balla volentieri, si applaude e si vorrebbe che il concerto, delizioso, andasse avanti ancora un po', notte e giorno proprio come 'Every Day (Every Night)', l' ultimo singolo, e canzone che conclude il set e ci congeda nelle mani della nebbia che nel frattempo, là fuori, si è fatta ancora più fitta.






lunedì 31 ottobre 2022

RECENSIONE: JOHN NORUM (Gone To Stay)

JOHN NORUM  Gone To Stay (Gain, 2022)


c'è vita fuori dalla band

Un talento mai troppo lodato. I dischi solisti di JOHN NORUM sono un riassunto della musica con la quale è cresciuto da ragazzo: in testa certamente i Thin Lizzy (spesso si cimenta in cover del gruppo irlandese), gli UFO targati Michael Schenker, Gary Moore, Frank Marino, i Deep Purple con Glenn Hughes in formazione e non è un caso che proprio "the voice" sia il cantante su tutto l'album Face The Truth (1990), infine i Black Sabbath. Una chitarra ispirata ma sempre al servizio della canzone. Se i primi dischi viaggiavano su un hard rock/metal cromato figlio degli anni ottanta, ricordiamoci che lasciò gli Europe all'apice del successo perché quella strada non era più la sua ("dopo il successo di "The Final Countdown" mi sono sentito come se fossi con i New Kids On The Block. Ma volevo essere un musicista" raccontò in una intervista) con il passare del tempo la sua chitarra si è fatta via via più pesante (l'ottimo Optimus del 2005) e blues (Play Yard Blues del 2010) tanto efficace da ridare nuovi stimoli e aprire nuove strade agli Europe mai così prolifici, duri e puri come dopo la reunion del 2004. Peccato che pochi lo sappiano.

Ora, anticipato da tre nuove canzoni uscite nel corso dell'anno, è uscito il nuovo album Gone To Stay a dodici anni dall'ultimo.

Ancora una volta Norum si conferma autore di vecchia scuola,  basti l'uno-due iniziale per capirlo: quando il suono di un carrilion lascia spazio a 'Voices Of Silence', hard blues in stile Whitesnaske mentre la successiva 'Sail On' (con il compagno di band Mic Michaeli alle tadtiere)  mette in mostra tutte le influenze Black Sabbath nei suoni e Soundgarden nel cantato, confermate anche dalle parole dello stesso Norum.

"Ero sdraiato sul divano in studio e non avevo idea di cosa fare con la voce. Avevo già registrato la musica e all'improvviso mi ha colpito: ho un'idea. Fammi entrare.' Non ho testi o altro, quindi ho appena borbottato qualcosa, ed è quello che è venuto fuori, e poi dopo, ho detto: mi ricorda davvero Cris Cornell. Ma non era intenzionale".

Un disco intenso e solido (suonato insieme a Peer Stappe alla batteria e Frederick Bergensstrahle al basso) che si fa veloce nei riff che dominano 'What Do You Want', funky nell'andamento che accompagna il rock blues della title track e misterioso nelle chitarre che costruiscono la melodia di  'Calling'.

Anche in questo album non manca un'ospite alla voce: in tre brani c'è Age Stein Nilsen cantante dei norvegesi Wig Wam. Nilsen canta nella ballata 'One By One', il brano più accessibile e radiofonico, nel quadrato hard rock molto Ac/Dc 'Terror Over Me' (a cui si aggiungono anche lo stesso Norum e Kelly Keeling) e nella aggressiva e heavy  'Norma' arricchita dalla Stockholm Philharmonic Orchestra. 

Infine due chicche del disco: la cover di 'Lady Grinning Soul' di David Bowie, in origine su Alladin Sane del 1973, e la finale  'Face The Truth', rilettura di un suo vecchio brano che da hard (c'era la voce di Hughes) si fa jazzato.

Ancora una volta John Norum non  delude le aspettative di chi da lui si aspetta del buon hard rock heavy alla vecchia maniera. "Quello che oggi chiamano Classic Rock o Classic Hardrock è ed è sempre stato il mio genere".