domenica 28 luglio 2024

THE CULT live@Carroponte, Sesto San Giovanni (Mi), 27 Luglio 2024


Se il sogno di Ian Astbury è suonare alla Scala di Milano come ci ha confessato a fine concerto direi che dopo la performance di stasera potrebbe anche meritarsela. Una prestazione vocale da tempi d'oro mentre con i tamburelli si è divertito fino alla fine, lanciandoli, riprendendoli al volo e colpendoli con il tacco del piede come il miglior fromboliere calcistico. Regalandoli. Da sempre camaleontico, sciamano che negli anni ha curato anima e corpo con la musica, a volte non riuscendoci, folgorato in giovane età sulla via dei nativi americani, ha sempre lottato sotto il continuo  attacco dei demoni ed in perenne viaggio verso la ricerca della pace interiore.

 Da lui non sai mai cosa aspettarti, oggi era in forma splendida (e carisma strabordante), esempio per giovani frontman in erba e coetanei che alla sua età sembrano arrancare già. Esempio: prima del bis è sceso dal palco e ha firmato autografi ai primi sotto la transenna. Non è così scontato.


Eh sì, a momenti non sembrava, ma c'erano quarant'anni di musica da festeggiare e mi ha fatto estremamente piacere che nella setlist non abbiano dimenticato album dignitosi ma spesso in secondo piano realizzati negli ultimi vent'anni: il pesante e moderno Beyond Good And Evil ('Rise') che aveva aperto gli anni duemila con il botto, lo sciamanico Choice Of Weapon ('Lucifer') e l'ultimo ammaliante e visionario Under The Midnight Sun ('Mirror') per me degno di stare tra i migliori dischi della loro carriera e credetemi pochi gruppi dopo quarant'anni di musica sono in grado  di far uscire dischi così intensi. C'è pure una 'Star' estrapolata dal disco controverso e grungy con la pecora  in copertina che fu preludio allo scioglimento in quegli anni novanta difficili per tutti. Quando hai due personalità così forti in formazione (naturalmente l'altra metà è  Billy Duffy) i rischi sono sempre in agguato. Loro ne pagarono le conseguenze

Che siano sempre stati difficili da inquadrare lo si capisce osservando il pubblico, diviso tra i nostalgici della prima ora (con look rigorosamente eighties) devoti al post/punk a tinte gotiche dei primi dischi che comunque tornano a casa soddisfatti con le immancabili canzoni di Love ('Brother Wolf, Sister Moon, Rain, She Sells Sanctuary, The Phoenix) e Dreamtime ('Resurection Joe' e 'Spiritwalker'), e i rocker devoti al brusco cambio in direzione hard rock portato da Electric ('Love Removal Machine', 'Wild Flower') e consolidato dal loro best seller Sonic Temple ('Fire Woman', 'Sweet Soul Sister' e il sipario acustico della sempre commovente 'Edie (Ciao Baby)') che ha garantito grandi palchi e pubblico più numeroso. Manca all'appello Ceremony completamente snobbato. Peccato.

Se a centro palco Ian Astbury  intrattiene, sparando fuori anche poco comprensibili parole in italiano, John Tempesta (con il suo passato "pesante" tra White Zombie, Exodus e Testament) e Charlie Jones (alla corte di Page e Plant negli anni novanta) sono garanzia di solidità ritmica, alla sinistra di Astbury, Billy Duffy con la sua  Gretsch White Falcon è instancabile e perennemente concentrato a tenere in pugno quarant'anni di riff legati alla melodia. Potrebbe prendersi la scena come il più vanesio dei chitarristi, non lo fa mai. Uno dei più grandi della sua generazione con l'umiltà che l'ha però sempre tenuto inchiodato alle assi del palco quasi dovesse tenere fede alla sua provenienza: la classe operaia di Manchester. Un lavoratore crudo, semplice e istintivo. Influente. Un chitarrista che ogni band pagherebbe oro per avere.

Sono arrivato al concerto spossato da una settimana faticosa, inoltre sigillata dal caldo della giornata, nonostante tutto appena è partito il concerto sulle note di 'In The Clouds' tutti i malanni sono sembrati sparire per un'ora e mezza veramente ad alti livelli, intensi e diretti, vissuti in ogni particolare che mi hanno fatto pensare a cosa potrebbe restare del rock'n'roll quando anche questi vecchi gruppi passeranno la mano. Dove andremo a trovare le cure giuste? Come si dice? "Concertone"? Sì!




sabato 27 luglio 2024

RECENSIONE: MDOU MOCTAR (Funeral For Justice)

 

MDOU MOCTAR  Funeral For Justice (Matador Records, 2024)



mondi lontani sempre più vicini

Da alcuni anni è ormai palese: chi ha voglia di trovare quell'urgenza limpida, genuina e viscerale che scorreva nel vecchio rock’n’roll occidentale e che ora chiamiamo vintage o solo revival per farcelo piacere ancora, chi vuole trovare dei veri testi di denuncia combattivi e incazzati con ragione, mica per finta per fare solo un po' di scena, deve guardare in basso e puntare occhi e tutto quanto verso l'Africa. Mdou Moctar, chitarrista del Tuareg di casa in Niger, con Funeral For Justice si conferma, insieme alla sua band,  un vero combattente del desert blues. E non è il solo. Missione: far conoscere all'Occidente la condizioni del popolo Tuareg. Quando non suona porta avanti la sua missione umanitaria, quando imbraccia la chitarra smuove le coscienze  con il suo blues che questa volta sembra farsi meno psichedelico per diventare più hendrixiano e incazzato. Un assalto sonoro  ipnotizzante e con poca tregua: ritmi magnetici e persuasivi tra gioia e consapevolezza, triste realtà e radiosa speranza. Ed è forse quest'ultima, che spesso manca dalle nostre parti a rendere tutto così fresco e dannatamente stimolante.

Basterebbe l'attacco al fulmicotone, punk e rabbioso, della title track per portare a casa tutto:"Dear African leadership, hear my burning question, Why does your ear only heed France and America?", cantato in inglese per arrivare a tutti, il resto del disco è quasi tutto cantato in Tamasheq.

La psichedelia, distorta e  velocizzata di 'Imouhar' o i ritmi desertici di 'Takoba' per capire quando la band sappia lavorare dentro al pianeta musica con straordinaria naturalezza. 'Oh France' per capire quanti dsnni abbiano procurato i vecchi "padroni". Produce l'americano Michael Coltun.

La gente qui non guadagna nemmeno 2 dollari al giorno, eppure viene bombardata da missili che costano milioni. A mio avviso, tutti i leader mondiali sono responsabili di ciò che sta accadendo in Niger” dice Mdou Moctar. Uno stile chitarristico  tutto suo:  costruì la sua prima chitarra a dodici anni con un pezzo di legno e dei freni di biciletta, è mancino, adora Hendrix ma ancor di più Van Halen dal quale rubò qualche segreto imparando dai video in rete ma soprattutto è in grado di riaccendere quella fiammella del rock un po' assopita alle nostre latitudini. Per vedere come brucia basterà presenziare al concerto di fine Agosto al Magnolia di Milano.





sabato 20 luglio 2024

RECENSIONE: DAVE ALVIN & JIMMIE DALE GILMORE (Texicali)

 

DAVE ALVIN & JIMMIE DALE GILMORE  Texicali (Yep Roc Records, 2024)



buon viaggio

È ancora il tema del viaggio ad unire Dave Alvin e Jimmie Dale Gilmore proprio come avvenne nel precedente disco Downey To Lubbock uscito nel 2018.

In mezzo tra Dave Alvin proveniente da Downey, California, e Jimmie Dale Gilmore da Lubbock, Texas, c’è la grande America “centinaia di miglia, deserti, montagne e fiumi” come dice Dave Alvin, in profondità, giù radicate, le radici musicali comuni, quelle che si sviluppano verso il vecchio blues, il folk, il R&B di New Orleans, la country music, le border songs, il rock’n’roll dei ‘50, persino il reggae come avviene nella rilettura di 'Roll Around' brano del vecchio amico Butch Hancock datato 1997.

"Veniamo da posti diversi, ma musicalmente veniamo dallo stesso posto" dicono.

Seppur con qualche anno di differenza, esattamente dieci, anni di stima reciproca e un'amicizia nata nei primi anni novanta hanno trovato sfogo in alcune date live suonate insieme nel 2017. Da lì a incidere il primo disco, il passo fu  veramente corto, veloce e senza sforzo alcuno. Due passati importanti da ricordare, uno nei Blasters, l’altro con i Flatlanders, entrambi vecchi frequentatori del folk club The Ash Grove a Los Angeles, entrambi con le stesse canzoni nel cuore. 

Questa volta rivisitano loro canzoni ('Borderland' è una vecchia canzone di Gilmore), omaggiano Alan Wilson dei Canned Heat con 'Blind Owl' canzone scritta da Dave Alvin, riprendono un vecchio blues di Blind Willie McTell ('Broke Down Engine'), viaggiano placidamente nel folk  'Trying To Be Free' e sopra ad un treno nell'ariosa ballata 'Southwest Chief'. 'Down the 285'  di Austin Josh White affronta la libertà del viaggio in solitaria, mentre il rock’n’roll di 'Why  I'm Walking' infiamna e alza polvere e sudore.

Celebrano la loro resistenza nella finale e autobiografica 'We're Still Here', sopravvissuti alla malattia (un cancro per Alvin), al Covid che ha fermato questo secondo progetto per un paio di anni, a tanti amici incontrati lungo la strada e passati a miglior vita.

Potrebbe essere il disco da viaggio di questa estate: che stiate percorrendo la Interstate 10 che unisce la California al Texas o la congestionata A4  sotto il sole rovente di un'estate italiana.




mercoledì 10 luglio 2024

RECENSIONE: LIFE IN THE WOODS (Looking For Gold)

 

LIFE IN THE WOODS  Looking For Gold (Moletto/Universal, 2024)




born in Italy

Ache l'Italia ha i suoi Rival Sons! Detta così potrebbe essere una boutade pretenziosa che sa di revival del revival. Fermi tutti: il trio romano composto da Logan Ross (chitarra e voce), Frank Lucchetti (basso) e Tomasch Tanzilli (batteria) è al momento la miglior band di classic rock italiana così come i californiani lo sono a livello mondiale ormai. La partita è per ora chiusa.

Esordirono nel 2019 con Blue prodotti da Gianni Maroccolo che col senno di poi si può dire abbia visto giusto e lungo. La pandemia non aiutò certo quel disco fatto di poche canzoni a raggiungere il grande pubblico anche se chi doveva accorgersi del loro talento l'ha fatto: critici e colleghi musicisti con più anni alle spalle avevano alzato le antenne di fronte al trio romano.

Ora è arrivato il momento che tutti si accorgano di loro. Eccoli qua con un disco d'esordio fresco, elettrico ma anche crepuscolare e poetico, appassionato e genuino che raccoglie tutto il meglio del passato per sputarlo fuori in forma alquanto attuale, moderna e internazionale. Quello che sorprende di più è proprio la capacità di rendere fresche e contemporanee canzoni con un DNA attaccato al collo che  pesca nel pozzo quasi ottuagenario del rock'n'roll tutto.

Il "One, two, three, four" che apre 'Caravan' e il disco sono i numeri che trascinano l'hard rock in questo 2024 con convinzione da veterani (e loro sono giovanissimi), 'Trick Man' abbassa i toni addentrandosi nel soul, 'Nothing Is' rende doveroso pegno al vecchio blues, 'Mad Driver' è una dinamitarda fast song che sembra esulare dal resto ma ha il compito di dividere il disco mostrando il lato più diretto e selvaggio, in netto contrasto con la epica coralità della title track che vede la partecipazione del soprano Olivia Calò e i momenti acustici come 'Without A Name', americana nel suono, e 'Hey Blue' dal sapore più british. 

E poi una canzone come 'Fistful Of Stones' non è da tutti: Logan Ross unisce in un solo colpo Jeff Buckley e Robert Plant, avvicinandosi in modo impressionante alla voce di Jay Buchanan dei Rival Sons e il suono hard rock dei seventies porge la mano al grunge degli anni novanta.

Non hanno il look stereotipato di chi cerca di emulare le grandi rockstar del passato, il disco è confezionato nei minimi dettagli e avvolto dentro all'evocativo disegno di copertina creato dall'artista Mark Kostabi (Guns N'Roses, Ramones). Insomma tutte le prerogative per fare il botto anche fuori dall'Italia anche se sarebbe molto bello se i Life In The Woods aprissero veramente le porte del vero rock nel nostro paese, cosa che si pensò potesse avvenire con il successo planetario dei Maneskin poi rivelatasi più  facciata che sostanza. Qui di sostanza c'è n'è da vendere: la finale 'Manifesto' basti per avvalorare questa tesi...pardon: verità.




domenica 7 luglio 2024

RECENSIONE: JOHNNY CASH (Songwriter)

JOHNNY CASH  Songwriter (Mercury, 2024)




canzoni ritrovate

Scaricato a metà anni ottanta da una  Columbia delusa dalle scarse vendite di un personaggio che i loro occhi con pupille a forma di dollaro consideravano ormai perso in un lento declino se non finito del tutto, anche lo stesso Johnny Cash non nascose delusione e stanchezza di fronte all'etichetta che da circa trent'anni pubblicava i suoi dischi, un odio reciproco: "ero stufo di sentirli parlare di statistiche, ricerche di mercato, di nuove evoluzioni del genere country e di tutta una serie di tendenze che remavano contro la mia musica…". Avevano ragione entrambi. 

Ma in quegli anni le cose che andavano storte erano maggiori di quelle positive nella vita di Cash: scosso dalla morte del padre Ray a ottantotto anni con il quale dopotutto aveva dei rapporti non troppo idilliaci, Johnny Cash trova un tetto apparentemente sicuro sotto la Mercury Records che inizialmente sembra lasciargli l'illusione della migliore carta bianca su cui scrivere il proprio futuro. Sei dischi incisi, tanto freschi e ispirati quanto ignorati dal grande pubblico e dimenticati troppo in fretta, complice la scarsa promozione dell'etichetta (allora è un vizio!). Se ci mettiamo alcuni problemi di salute tra cui un ricovero per aritmia cardiaca nel 1987 che lo porterà all'inserimento di un bypass due anni dopo (Roy Orbison morì per lo stesso motivo in quei mesi) e anche la morte della madre avvenuta nel 1991, ne esce un quadro generale non troppo esaltante per un personaggio in cerca di riscatto in un mondo musicale che stava viaggiando veloce lontano dalle sue rotte. 

Anche questa parentesi verrà archiviata velocemente e lo stesso Cash che nonostante tutto considerava questo periodo "il più felice della mia carriera discografica", sconfortato, dirà: "per un po' mi sentii sollevato ma i vertici della Mercury a New York cambiarono opinione  e scivolai lentamente nel dimenticatoio. I miei dischi non meritavano di essere promossi nel migliore dei modi. Jack (Clement) e io ci impegnammo a fondo in sala di registrazione  e abbiamo prodotto brani di cui sono molto orgoglioso ma era come se avessi cantato in un teatro vuoto. I miei singoli non passavano alla radio e non c'era nessun investimento pubblicitario per promuovere i miei album".

Un disco rotto che gira. 

Entra negli anni novanta con un tentativo di tornare ai suoni delle origini con Boom Chicka Boom (1990) e al suono dei Tennessee Two, prodotto da Bob Moore e che inizia con la classica intro live "Hello, I'm Johnny Cash" a introdurre la giocosa 'A Backstage Pass', scherzosa rappresentazione del backstage di un concerto di Willie Nelson, con 'Hidden Shame'  scritta per l'occasione da Elvis Costello e 'Cat' s In The Cradle' di Harry Chapin, con alcune B-side aggiunte e la forte identità che lo porta a essere il suo miglior disco targato Mercury, e poi The Mistery Of Life (1991) con in scaletta vecchi successi consolidati e alcune riletture tra cui 'The Hobo Dong' di John Prine, disco fresco e da rivalutare che chiude la parentesi Mercury e che include anche 'The Wanderer' insieme agli U2, "del mio ultimo album per la Mercury sono state realizzate solo cinquecento copie. Anche da parte loro mi sono sentito propinare le solite storie su statistiche e ricerche di mercato". La solita vecchia storia. 

Fortunatamente dietro l'angolo c'era già uno scalpitante Rick Rubin pronto a  dare inizio  all'ultima incredibile parte di carriera di Johnny Cash, questa volta sì baciata da successo e pubblico.



Ma immediatamente prima di Rubin Johnny Cash registrò alcune demo in solitaria negli studi LSI di Nashville, versioni grezze di canzoni scritte anche molti anni prima da proporre a qualche nuova etichetta discografica per raccimolare un contratto. Con l'arrivo di Rubin furono accantonate e dimenticate per essere riportate alla luce solo recentemente dal figlio John Carter che con l'aiuto di David Fergie Ferguson, vecchio ingegnere del suono di Cash, uno che conosce bene il man in black,  hanno costruito intorno alla voce di Cash undici nuove canzoni  complete e finite cercando di rimanere il più possibile fedeli alle originali o comunque cercando di immaginare come le avrebbe completate Cash in vita. Se due abbiamo avuto il tempo di conoscerle sotto la cura Rubin, trattasi di 'Driven On' e 'Like A Soldier' (ma qui in versioni diverse), le altre grazie all'intervento di navigati musicisti che con Cash avevano già lavorato come la chitarra del pupillo Marty Stuart già  con i Tennessee Three, il bassista Pete Abbot e il batterista Dave Roe hanno raggiunto una forma finale che veste sulla voce di Cash come un abito di alta sartoria vestirebbe uno sposo all'altare. Sembra fatto tutto con rispetto e delicatezza e si sa quanto queste operazioni siano sempre un'arma a doppio taglio non troppo amate dai puristi del rock.

Il titolo dell'album Songwriter vuole proprio sottolineare e portare s galla quanto Johnny Cash, oltre a essere un grande interprete, fu anche un paroliere dalla scrittura incisiva pungente e ironica, a volte anche molto semplice e popolare nei temi trattati come l'amore per la famiglia ('I Love You Tonite' è una lettera d'amore indirizzata a June), il rispetto della propria terra ('Have You Ever Been To Little Rock'), la redenzione, le perdite (di un amore in 'Spotlight' dove compare la chitarra di Dan Auerbach), le vittorie sui propri demoni che ne hanno segnato gran parte della vita  ('Like A Soldier' dove compare pure la voce di Waylon Jennings).

A partire da una 'Hello Out There',  canzone ispirata dall'astronave Voyager che pare volare direttamente nel futuro trainata da un effetto echo nella voce, straniante quanto suggestivo cosmic country che non ti aspetti ma che funziona, fino al rockabilly anni cinquanta di 'Well Allright',  un semplice quanto cinematografico quadretto d'amore dipinto dentro a una lavanderia a gettoni, i suoi testi scrivono un immaginario popolare in parte scomparso ma in grado di arrivare ancora oggi giocando sulla suggestione. 'Poor Valley Girl' è un country, atto d'amore verso June Carter e la mamma di lei Maybelle, in 'She Sang Sweet Baby' racconta di una madre che per addormentare il proprio piccolo si affida alla canzone di James Taylor.

Sentire nuovamente la straordinaria voce di Johnny Cash in canzoni nuove, mai sentite prima mi fa superare e dimenticare il modo in cui ci sono arrivate in questa estate del 2024, ventuno anni dopo la morte. Molti non la penseranno così  ma riesco a sentirci dentro tutto l'amore e il rispetto di chi ha voluto questo disco di un gigante della musica americana.




domenica 30 giugno 2024

RECENSIONE: STEVE CONTE (The Concrete Jangle)

 

STEVE CONTE  The Concrete Jangle (Wicked Cool Records, 2024)


rock'n'roll solo rock'n'roll


Sarebbe veramente un delitto lasciar passare questo 2024 senza nominare uno dei migliori dischi di schietto e spavaldo rock'n'roll usciti in questi mesi. Sappiate che Ian Hunter che partecipa ai cori in una canzone scrive nello sticker che accompagna la copertina:"grandi voci, armonie, arrangiamenti, produzione e chitarre", sembra tutto perfetto per il vecchio Ian! Steve Conte, con una mamma jazzista e battezzato in giovanissima età da un concerto di Chuck Berry, non ha bisogno di troppe presentazioni: chitarra nella seconda vita dei New York Dolls, dell'attuale band di Michael Monroe e di altre decine di artisti con i quali ha collaborato e suonato. In questo disco che esce per la Wicked Cool Records di Steve Van Zandt (anche questa è una garanzia visto i gusti "vintage" del piccolo Steven) che inizialmente fu anche il primo prescelto come produttore ma alla fine ha fatto tutto Conte. Ma le sorprese non finiscono visto che il disco si divide in due facciate abbastanza distinte. Un lato A che vede la partecipazione di Andy Partridge degli XTC come co-autore nelle cinque canzoni che battono la strada del rock'n'roll stradaiolo ('Fourth Of July', 'Hey, Hey, Hey (Aren't You The One)'), del glam dal chorus contagioso ('We Like It'), del power pop ('Shoot Out The Stars') e delle strade più ardite come in 'One Last Bell' con la tromba di Chris Anderson a disegnare traiettorie. La collaborazione con Partridge sembra un sogno che di avvera per Steve Conte, da sempre fan degli XTC: "Andy è il mio eroe del rock 'n' roll e del cantautorato".

Il lato B si apre con uno scatenato omaggio alla musica uscita dalla città di Detroit ('Motor City Love Machine'), una 'Girl With No Name' omaggio al r&b sixties, la melodica 'All Tied Up' sembra uscire dalla migliore stagione del Jersey Sound caro a Little Steven e al suo "capo", ma poi a prevalere sono due esercizi beatlesiani come 'I Dream Her' e 'Decomposing A Song For You' con i suoi fiati che soffiano vento british.

Peccato siano solo 34 minuti perché di sano e vecchio rock'n'roll così non ci si stufa mai. Ottimo disco.






sabato 22 giugno 2024

RECENSIONE: MIKE CAMPBELL & The DIRTY KNOBS (Vagabonds, Virgins & Misfits)

 

MIKE CAMPBELL & The DIRTY KNOBS   Vagabonds, Virgins & Misfits (BMG, 2024)




atto terzo

Il terzo disco di Mike Campbell si apre come se stesse finendo un concerto. Un concerto di Tom Petty naturalmente. 'The Greatest' è l'ultima jam prima di salutare un pubblico entusiasta e plaudente: "tu sei il più grande, guarda questo posto, guarda queste facce..." canta Campbell con quella sua voce nasale che racchiude un terzo di Bob Dylan, un terzo di Ozzy Osbourne e un terzo di Tom Petty. Io il "più grande" me lo persi in quel Giugno del 2012 a Lucca: davanti a una scelta, scoprii di aver  fatto quella sbagliata, non immaginando minimamente cosa potesse riservare il futuro. So solo che rimane uno dei più grandi rimpianti musicali della mia vita. Ok, andiamo avanti.

Oggi però non c'è nessuno al mondo che possa fare Tom Petty come sa fare Mike Campbell. "Tutto quello che ho fatto da quando Tom è morto, incluso nell'album con i The Dirty Knobs, è nello spirito di onorare ciò che abbiamo fatto insieme" raccontò Mike Campbell all'uscita del debutto della band che mise in piedi per divertimento quasi vent'anni fa, tra un tour degli Heartbreakers e l'altro.

Vagabonds, Virgins & Misfits si candida, a pochi giorni dall'uscita, a diventare il migliore dei tre album pubblicati da Campbell con i Dirty Knobs (Chris Holt alle chitarre e tastiere, Lance Morrison al basso, Matt Laug alla batteria).

Oltre al fantasma di Petty che si aggira indisturbato tra le note di 'Angel Of Mercy' e 'Hands Are Tied' ("se ci penso troppo, divento triste" ha lasciato detto recentemente Campbell), si percepisce tutta la voglia del chitarrista di lasciarsi andare, suonare e divertirsi, portando avanti si un' eredità pesante ma segnante e significativa negli ultimi cinquant'anni di american music: che sia l'hard rock veloce e guizzante di 'So Alive', il blues di 'Shake These Blues' con quel finale di chitarre veloci, tutto l'amore per i Byrds che permea 'Innocent Man' o il tanto alcol versato nel country 'My Old Friends' che contiene nel testo più nomi di bevande alcoliche del menù del peggior bar della città.

Piacciono poi gli interventi discreti ma di spessore di tre amici ospiti: con la presenza di Graham Nash in 'Dare To Dream', Campbell corona il sogno di fare una canzone nello  stile degli amati Hollies con Nash ai cori, affida a Lucinda Williams 'Hell Or High Water' una ballata folk arricchita da archi e fiati con un testo scritto con occhio femminile e si catapulta in uno scatenato honky tonk da fine serata ('Don't Wait Up') in compagnia di Chris Stapleton e con Benmont Tench a saltellare sul pianoforte. 

Ecco, la presenza di Tench e di Steve Ferrone in un paio di canzoni, alcune di queste recuperate dal passato e lasciate riposare fino ad oggi (decisivo l'invito della moglie Marcie che compare  pure ai cori in 'Hands Are Tied') sembrano ricompattare quei cuori spezzati ma non ancora smarriti che a questo punto potrebbero essere l'ultima mia salvezza per alleviare un rimpianto che esce ogni qual volta il nome di Tom Petty compare fuori. Tipo ora. A rincarare la dose è appena uscito un tributo della scena Country americana a Tom Petty a cui partecipano tra i tanti anche Steve Earle, Chris Stapleton, Margo Price, Dolly Parton, Willie & Lukas Nelson, Marty Stuart, Rhiannon Giddens e Mike Campbell e Benmont Tench appunto.






domenica 16 giugno 2024

RECENSIONE: THE DECEMBERISTS (As It Ever Was, So It Will Be Again)

 

THE DECEMBERISTS  As It Ever Was, So It Will Be Again (Thirty Tigers, 2024)



perdersi nel loro mondo

Bentornati ai Decemberists. Oggi piove, non è certo una novità di questi tempi, ma il nuovo As It Ever Was, So It Will Be Again sembra viaggiare proprio bene tra vetri schizzati di gocce d'acqua (da immaginare come una foto in bianco e nero), foglie ormai verdi, verdissime, che dondolano pigre sotto il cadere incessante dell'acqua e nubi color grigio che non lasciano intravedere troppo in lontananza. Si può giocare di fantasia. Il dipinto di copertina disegnato dalla illustratrice Carson Ellis, popolato da esseri viventi (animali e uomini, ci siamo anche se in lontananza, giustamente ce lo aggiungo io) sembrano vivere felicemente insieme, in posa per un ritratto che cerchi di dare un senso al titolo "com'è sempre stato, così sarà ancora". Si può continuare a giocare di fantasia.

Sono passati sei anni dall'azzardo modernista del precedente I'll Be Your Girl , ma qui la creatura di Colin Meloy riprende il discorso interrotto dallo splendido, americano e rurale The King Is Dead aggiungendo quell'onirica scia progressive che abitava l'ambizioso The Hazards Of Love.

Mai banali i Decemberists. I quasi venti minuti della finale 'Joan In The Garden' riassumono bene tutte le molteplici parentesi della loro carriera: una prima parte folk, la metà ambient indie-rumorista, la seconda metà liberatoria tra chitarre cavalcanti al limite dell'hard e fughe tastieristiche verso le stagioni del prog.

 I Decemberists hanno l'innato dono di rapirti dentro al loro mondo, a tratti surreale, popolato da santi, figure letterarie, oniriche, tra passato e attualità, tra racconti popolari e il presente che ti passa davanti, dove però incontri il caldo vecchio abbraccio delle chitarre byrdsiane ('Burial Ground'), il country americano sognante attaccato a una pedal steel, i colori del folk ('The Reapers') spesso occhieggiante al Regno Unito , lo sbuffare dei fiati che ti consegnano nelle mani del sergente beatlesiano ('America Made Me'), il gusto profondo e avvincente del pop sixties.

E visto che in questi giorni si parla tanto di REM, la presenza di Mike Mills fa più che piacere. C'è pure James Mercer degli Shins.

È un disco lungo (un doppio d'altri tempi se si pensa al vinile, diviso in quattro facciate) ma si sta prenotando senza difficoltà alcuna un posto tra i dischi dell'anno. Qui dentro la musica svolge degnamente il suo compito.





sabato 8 giugno 2024

RECENSIONE: KING HANNAH (Big Swimmer)

KING HANNAH - Big Swimmer (City Slang, 2024)




avanti tutta

Le prospettive su alcuni artisti cambiano radicalmente dopo averli visti sopra un palco. I King Hannah sono delle anti-rockstar per eccellenza. L'ho appurato l'anno scorso quando suonarono prima dei Wilco al Todays Festival di Torino. La loro musica che su disco arriva con poca immediatezza ma arriva, live mi prese prima la testa per arrivare solo dopo alle gambe, senza trucchi e nessun inganno.

Hannah Merrick, chitarra e voce e Craig Whittle, chitarra elettrica, accompagnati dalla loro sezione ritmica salirono sul palco timidamente senza lo straccio di un look e con toni quasi dimessi ma piano piano dopo la mente iniziarono a impossessarsi dei corpi grazie alla loro idea di rock: molto basica, lo fi, senza inutili sovrastrutture, diretti e genuini dove il mood ipnotico, melodico e intrigante dei testi dalla penna cinematografica cantati o quasi recitati con voce salmodiante dalla Merrick vengono accompagnati e poi squarciati dell'elettricità delle chitarre che irrompono e  allungano ('The Mattress' e 'Milk Boy' qui presenti sono buoni esempi) con fare grezzo, spesso imperfetto come farebbe la old black del caro vecchio Neil Young.

Un'onda che da calma si fa tempestosa per poi smorzarsi nuovamente e riprendere vigore con la base ritmica che fa da accompagnamento senza mai prevaricare.

Presentarono il debutto I'M Not Sorry , I Was Just Being Me (2022) a cui aggiunsero la cover di 'State Trooper' di Springsteen presa da quel Nebraska che sembra dettare la via della sottrazione. 

Questo Big Swimmer è il loro american dream che in qualche modo si è avverato e materializzato molto presto in undici canzoni che riescono a darne una cifra stilistica più concreta e personale rispetto al primo disco, certamente più vario. Anche se non mancano divagazioni come  la più spensierata 'Davey Says', la title track che apre il disco in acustico per poi virare nell'elettrico (pure manifesto del loro pensiero) e l'ambient di 'This Wasn't Intentiobal'.

 Pensato e scritto durante i mesi di tour negli States  è un vero e proprio diario di viaggio da nord a sud, da una giornata tipo a  New York trascorsa tra i locali ('New York, Let's Do Nothing') fino a raggiungere i pericolosi confini con il Messico ('Somewhere Near El Paso') di due musicisti di Liverpool che caricano di suggestioni le ore di quotidianità trascorse in viaggio, spiando fuori dai vetri  e vivendo in diretta il proprio sogno americano anche citando altri artisti viventi e non ('John Prine On The Radio') e invitando la cantautrice Sharon Van Etten a collaborare in un paio di pezzi.

Inquietudine ed esuberanza che si tengono per mano. Ci sento la strada battuta dal sole e ci vedo le luci al neon in piena notte.

In questi giorni stanno avendo grande hype tra le riviste di settore e nel web, tanti cori di  positivo entusiasmo  ma naturalmente anche parecchi detrattori che ritengono eccessiva questa sovraesposizione (ho letto pure tante sciocchezze gratuite). Come sempre la verità sta nel mezzo.

Io dico solo che se in un disco di oggi ci trovi tracce di Neil Young con i Crazy Horse, Lou Reed, i Velvet Underground, Kim Gordon, Sonic Youth, Patti Smith, Lucinda Williams e Slint un disco brutto non può esserlo. Poi mi è venuto in mente Daniel Lanois: qui ci sarebbe materiale per lui. Chissà cosa riserverà il futuro?





domenica 2 giugno 2024

RECENSIONE: GUN (Hombres)

 

GUN  Hombres (Cooking Vinyl, 2024)



ritorno al passato

Chi si ricorda degli scozzesi Gun? Nati nel 1987, tra il 1989 e il 1994 fecero uscire tre dischi di discreto successo (il debutto Talking  On The World che conteneva la loro prima hit 'Better Days', Gallus, forse il loro miglior disco e Swagged), avevano fan di un certo livello come Steve Harris degli Iron Maiden, aprirono tour importanti per Rolling Stones (periodo Steel Wheels), Def Leppard e Bon Jovi poi nel 1997 si sciolsero dopo il poco riuscito 0141 632 6326. Undici anni dopo si riformarono anche se i tempi sembravano decisamente cambiati per riprendere i discorsi interrotti a metà anni novanta. E ora rieccoli con il loro miglior disco da quegli anni gloriosi. 

Questo è uno degli album di cui siamo più orgogliosi, rappresenta davvero i Gun nella loro forma migliore” racconta il chitarrista Giuliano Gizzi.

A comando della band sono rimasti i due fratelli di chiare origini italiane Dante Gizzi alla voce e Giuliano Gizzi alla chitarra. Insieme a loro Pau McManus (batteria), Andy Carr (basso) e Dave Aitken (chitarra), un mix di esperienza e gioventù che hanno donato freschezza a queste nuove dieci canzoni che non stravolgono l'idea iniziale della band: un hard rock melodico dove America e terre britanniche trovano la giusta via d'unione tra  chitarre graffianti ('All Fired Up'), riff importanti ('Boys Don't Cry', Take Me Back Home') e blues ('Fake Life'). Tanti i cori in risalto in tutto il disco, a partire dalla semi ballad 'Falling' fino a una 'Lucky Guy' che farebbe comodo agli ultimi Def Leppard, a partecipare tante ospiti come Beverly Skeete (Elton John, Tom Jones, Johnny Cash), Mary Pearce (Primal Scream, Lionel Ritchie) e Sarah-Jane Skeete (Robbie Williams, Kylie Minogue). Se la ruffiana  'You Are What I Need' sembra trasportarci allo street metal americano a cavallo tra gli anni ottanta e i novanta con un piacevole retrogusto soul,  'Never Enough' ci rammenta quanto i Bad Company siano stati importanti per tutte le band venute dopo che hanno cercato di sposare chitarre e melodia. In conclusione una 'A Shift In Time' che inizia acustica per esplodere in un corale inno da glam rock seventies, assolo incluso.

"Somo Tus Hombres" hanno gridato loro dei fan spagnoli durante il loro ultimo tour a Madrid:" siamo i vostri uomini". Ecco trovato il titolo di un disco, divertente e stimolante, per nulla pretenzioso ma che vuole solamente essere suonato a tutto volume come ai bei vecchi tempi. Bentornati.





sabato 25 maggio 2024

RECENSIONE: SLASH (Orgy Of The Damned)

 

SLASH  Orgy Of The Damned (Gibson Records, 2024)




tra le belle sorprese dell'anno

Sapere che un inedito Iggy Pop è qui alle prese con 'Awful Dreams' di Lightnin' Hopkins potrebbe bastare per dare un ascolto curioso a questo disco. Voce da crooner e chitarra i soli ingredienti. Dischi di cover blues ne è pieno il mondo: spesso inutili e di maniera, a volte divertenti, raramente indispensabili. Orgy Of Damned non è certamente indispensabile ma divertente secondo me lo è. Il taglio rock della chitarra di Slash contribuisce a dare quel tocco di diversità indispensabile per creare delle cover quantomeno singolari e ben riuscite. I puristi del blues grideranno allo scandalo. Ma chi se ne frega. La produzione di Mike Clink, l'uomo dietro a Appetite For Destruction è anche una garanzia.

E poi tutti gli altri ospiti che in qualche modo lasciano il loro segno: Chris Robinson sembra a suo agio con 'The Pusher' degli Steppenwolf che non sfigurerebbe in qualsiasi setlist dei Black Crowes, la chitarra di Gary Clark Jr. incrocia quella di Slash in mezzo al crocicchio presidiato da Robert Johnson (Crossroads) ed è un bel sentire, Billy Gibbons si intrufola in 'Hoochie Coochie Man' con la facilità con la quale pettina la sua barba ogni mattina, Crhis Stapleton in 'Oh Well' dei Fleetwood Mac è meglio di qualunque cosa abbia registrato nel suo ultimo disco. Brian Jhonson ora sa cosa fare quando smetterà di torturarsi l'ugola con gli Ac Dc ('Killing Floor' con l'armonica di Steve Tyler funziona), le quote rose sono assicurate da Dorothy ('Key to the Highway') ma soprattutto da una sorprendente e pop Demi Lovato in un classico che più classico non si può come 'Papa Was a Rolling Stone' e da una sempre rassicurante e grintosa Beth Hart in 'Stormy Monday'. Quattordici minuti totali per loro due.

Completano Tash Neal (presente in tutto il disco con la sua chitarra) in una quasi commovente 'Living For The City' di Stevie Wonder presa da quel capolavoro che fu Innervisions del 1973 ("quella era la traccia che sapevo sarebbe stata quella più insidiosa per la persona media, ma era la mia canzone preferita quando Innervisions uscì quando avevo circa 9 anni. Ho adorato quella canzone" ha detto recentemente Slash) e un impeccabile e di mestiete Paul Rodgers con 'Born Under a Bad Sign' di Albert King.

Un disco inseguito da più di trent'anni quando dopo lo scioglimento dei Guns N'Roses mise in piedi la band Slash's Blues Ball, dalla quale recupera i vecchi compagni Johnny Griparic al basso e Teddy Andreadis alle tastiere.

Un disco simile Slash lo aveva già fatto nel 2010 (Ian Astbury, Ozzy Osbourne, Lemmy, Iggy Pop, Chris Cornell, Dave Grohl tra i tanti cantanti presenti allora) ma con tutte canzoni inedite. Qui l'unica traccia inedita la lascia nel finale, la strumentale, melodica ed espressiva 'Metal Chestnut'. Prendetevi un buon cocktail e rilassatevi con queste dodici canzoni registrate senza troppe menate in una atmosfera sicuramente rilassata. Si percepisce. Funziona tutto. Poi arriveranno anche gli odiatori seriali ma li mettiamo insieme ai puristi del blues. 





sabato 18 maggio 2024

RECENSIONE: KULA SHAKER (Natural Magick)

KULA SHAKER  Natural Magick (Strange Folk Records, 2024)



il bello del 2024

Natural Magick è uno dei dischi più spassosi, divertenti e colorati che ho ascoltato in questi primi mesi del 2024. Il concerto all'Alcatraz di Milano del 13 Maggio si candida a concerto del 2024.

"Beh, quando penso al rock 'n' roll, penso ai fratelli Marx tanto quanto penso ai Kinks o a Jerry Lee Lewis. Penso che il rock 'n' roll sia uno stato d'animo. È un tipo di anarchia spirituale, sana ed eterna"  così Crispian Mills (voce, chitarra e maggior autore dei testi), recentemente, ha detto la sua sul pianeta musica che lui e la sua band circumnavigano da quel lontano 1996 quando uscì l'esordio K , perfettamente in orario per l'esplosione del brit pop di cui furono brillanti esponenti, certamente tra i più fantasiosi e poco etichettabili nel loro intento di creare ponti con l'Oriente come insegnato dai Beatles, e da George Harrison in particolare. Per tanti che li premiarono furono anche massacrati.

Due uscite in poco più di un anno per una formazione che ci aveva abituato a tempi lunghissimi tra un disco e il successivo sembrano parlare chiaro: la band di Londra sta vivendo un periodo di fertile ispirazione. Il ritorno in formazione del primo tastierista Jay Darlington li catapulta addirittura indietro di venticinque anni per riprendere in mano tutte le influenze assorbite fin dagli esordi (è il primo album con la formazione originaria dal 1998: con Mills e Darlington, il bassista Alonza Bevan e il batterista Paul Winter Hart): ci sono i Kinks già dal riff iniziale del rock 'Gaslighting' e delle successive 'Waves' e 'Natural Magick' (venuta in ispirazione dopo aver ascoltato i Can!), rock pop, semplici, trascinanti e d'impatto assicurato. Da 'Indian Record Player' iniziano ad affiorare in superficie le care influenze indiane di Mills che si amalgamano con rock'n'roll e spezie tex mex fino a confluire nella cavalcata western 'Chura Liya' cantata da Laboni Barua. Difficile annoiarsi di fronte alla psichedelia pop sixties disegnata dall'armonica e dalle percussioni in 'Something Dangerous', vietato non sognare di fronte alle ballate 'Stay With Me Tonight' e 'Give Me Tomorrow' dal forte aroma anni cinquanta tutto brillantina e neon colorati sullo sfondo, viaggiare di fantasia sotto l'accecante solarità di 'Kalifornia Blues', vietato non meditare davanti al sitar che chiama in causa Krishma nella psichedelica 'Happy Birthday', o non protestare su una 'F- Bombs', che pare quasi fuori contesto, un canto anti guerra purtroppo sempre d'attualità che esplode in ripetuti "fuck war" che dal vivo, ne sono sicuro, faranno faville.  Non il massimo dell'originalità ma sempre utile. Io per non sbagliarmi qualche settimana fa ho preso il biglietto per il loro concerto all'Alcatraz di Milano che si terrà tra circa un mese. Voglio toccare con mano questo loro ispirato e colorato ritorno.

"Il mondo ha bisogno del rock 'n' roll in questo momento", firmato Crispian Mills. Fosse anche con un "è solo" davanti, va bene ugualmente.





domenica 12 maggio 2024

RECENSIONE: ANDERS OSBORNE (Picasso's Villa)

 

ANDERS OSBORNE  Picasso's Villa (Missing Piece Records, 2024)



lo svedese di New Orleans

Durante il lockdown ci fu un "uso" alquanto superficiale e scorretto degli artisti e dei musicisti. Il loro compito sembrava fosse solo uno: far divertire la gente. Fare passare qualche minuto, qualche ora, diventati giorni e poi mesi in totale spensieratezza a chi (noi) come loro era chiuso in casa. Naturalmente senza compenso, dimenticando che tanti erano professionisti messi al palo, a paga zero, dall'epidemia. Per qualche politico un atto dovuto: l'arte come lavoro era ed è ancora qualcosa di inconcepibile per alcuni. La domanda: "sì ma di lavoro cosa fai?" non è così rara da sentire.

Nella canzone musicalmente spensierata e puntellata dall'Hammond  'Picasso's Villa' che da anche il titolo all' album, il diciasettesimo, Anders Osborne sembra proprio rivolgersi a tutte quelle persone che gravitano intorno all'arte con sprovveduta superficialità (lui è pure un pittore):

"Picasso's Villa tenta di descrivere il business della musica e il ruolo da giullare che hanno i musicisti. Siamo una valuta utilizzata, giudicata, negoziata, scambiata, valutata e talvolta scartata".

Se due anni fa Anders Osbourne si presentò al Buscadero Day in solitaria, era appena uscito lo stupendo  Orpheus And The Mermaids (2021), un disco acustico trainato dai venti leggeri della West Coast Music che continuavano a sbuffare dal precedente Buddha And The Blues (2019), con questo nuovo Picasso's Villa, invece, ritorna ad abbracciare l'intera rosa dei venti musicali che hanno scompigliato i suoi capelli, ora bianchi, negli anni. Abbiamo imparato a amare i suoi primi dischi più conosciuti come  Which Way To Here (1995) e  Living Room (1999), quelli più marcatamente intrisi degli umori di New Orleans come Coming Down (2007), le canzoni più cupe e scure come quelle che uscivano da American Patchwork (2010) e Black Eye Galaxy (2012) e cose più bizzarre e giocose come le canzoni di Peace (2013), sfrontato fin dalla copertina e che iniziava a lasciarsi indietro problemi personali che lo stavano attanagliando.

Anders Osbourne non ha mai fatto dischi brutti (forse i primi più ruspanti si fanno preferire ma sono sottigliezze) e Picasso' s Villa va ad aggiungersi ad una lista da fare invidia a nomi più blasonati che continuano a vivere di rendita.

Straordinaria voce, chitarrista eccelso , autore sopraffino, dotato di limpida ironia e della rara dote di  saper colorare i suoi pezzi con sfumature sempre sgargianti ma anche buon conoscitore dei tempi su cui mette i piedi ogni giorno: 'Bewildered' prende in esame gli accadimenti degli ultimi quarant'anni nelle terre americane (tra cronaca, musica e politica) che lo hanno adottato quando dalla Svezia andò a cercarsi la sua America, con un suono di chitarre elettriche che chiama in causa i Crazy Horse di Neil Young e non è un caso che in produzione e nei suoni ci siano uomini che con il canadese hanno intrecciato spesso il percorso, ossia Nico Bolas e Chad Cromwell.

Splendide canzoni, dal piglio elettro acustico che spesso richiamano e omaggiano New Orleans nelle liriche, luogo che lo ha accolto e dove ha piantato  le sue radici europee, succhiandone l'anima: l'apertura 'Dark Decatur Love', un country in crescendo che mi ha ricordato Johnny Cash, e la finale 'Le Grande Zombie', dedicata a un ambasciatore importante come Dr. John e portata avanti in una babilonia di strumenti (archi e fiato) e suoni che chiudono il disco con colorato carattere malinconico.

Proprio nella ormai "sua" New Orleans ha registrato il disco insieme a una bella parata di ospiti tra cui spiccano la chitarra di Waddy Wachtel, il bassista Bob Glaub, l'armonica di Johnny Sansone e Ian Neville al B3. Otto canzoni che toccano con più insistenza il rock rispetto al recente passato: 'Reckless Heart' si pone a metà strada tra Springsteen e Petty, i sei minuti di 'Real Good Dirt' e 'Returning To My Bones' hanno l'inconfondibile passo elettrico dei Crazy Horse. Oggi sono veramente pochi gli artisti così completi come Anders Osborne. Con lui si va sempre sul sicuro.






venerdì 10 maggio 2024

PFM canta Fabrizio De André Anniversary live@Teatro Alfieri, Torino, 6 Maggio 2024

 


PFM canta Fabrizio De André Anniversary live@Teatro Alfieri, Torino, 6 Maggio 2024

1980, il mio primo ingenuo approccio con Fabrizio De André fu la cassetta di “Fabrizio De André In Concerto con arrangiamenti PFM-registrato dal vivo a Firenze e Bologna, 13-14-15-16/1/1979”. Un disco che diventerà uno dei grandi live della musica italiana, per come fu suonato, per gli arrangiamenti, per quello che ha rappresentato e rappresenta ancora oggi: quell'incontro/scontro tra rock e poetica cantautorale. Anche in Italia si poteva fare seguendo l'esempio di "Bob Dylan con The Band" dirà Franz Di Cioccio.

"La nostra tournée è stata il primo esempio di collaborazione tra due modi completamente diversi di concepire e eseguire le canzoni. Un’esperienza irripetibile perché PFM non era un’accolita di ottimi musicisti riuniti per l’occasione, ma un gruppo con una storia importante, che ha modificato il corso della musica italiana. Ecco, un giorno hanno preso tutto questo e l’hanno messo al mio servizio…" raccontò De André.

Avevo sette anni e un’ attrazione per quel pezzo di plastica arancione con il timbro Siae blu di una volta in bella evidenza. Cassetta conservata ancora oggi con maniacale cura, che quando girava nell'impianto stereo nuovo di pacca e costato sacrifici a mio padre, arrivati quasi alla fine del lato B, faceva uscire una frase che qualcuno in famiglia sottolineava sempre con velata ironia, soffermandosi sull’ultima parola della seconda strofa, e io ridevo a crepapelle senza sapere bene il perché. Qualche anno dopo, tutto sarebbe stato più chiaro: “passano gli anni i mesi, e se li conti anche i minuti. È triste trovarsi adulti senza essere cresciuti, la maldicenza insiste, batte la lingua sul tamburo, fino a dire che un nano è una carogna di sicuro, perché ha il cuore troppo, troppo vicino al buco del culo”.


 


Erano le parole di ‘Un Giudice’. Quella cassetta arrivò improvvisa a svegliarmi, forse perfino troppo presto, questo concerto "PFM canta Fabrizio De André, Anniversary" (e  sono ormai 45 anni) è arrivato altrettanto improvviso. Regalo di un'amica all'ultimo momento. "Ho un biglietto in più. Vieni?". Grazie! Perché no? Mi son detto. Sarei andato a chiudere un cerchio della mia vita iniziato in diretta nel 79, anche se mancano alcuni protagonisti, il principale sicuramente. A Torino piove e la città è quindi libera di riempire l'aria con il meglio di sé stessa: sprigionare tutta la sua arcana bellezza da vecchia capitale. Quegli specchi d'acqua dove a tarda notte  i palazzi e i monumenti si specchiano donano antica magia che ogni volta rapiscono. Almeno me. Arrivo presto per un aperitivo, ma mentre aspetto la mia amica sbircio davanti al teatro proprio mentre Franz Di Cioccio e Patrick Djivas escono per andare a cena, piove forte, sono incappucciati e viaggiano veloci, non oso fermarli. Ma lo ammetto, una foto con loro avrei voluto farla. Il resto della band segue dietro decisamente più rilassata e gioviale.



Entrati, gli arredi di stoffa rossa del Teatro Alfieri, il secondo più antico della città, le luci calde e soffuse fanno proseguire la magia delle vie, dei portici e delle piazze, creando un' atmosfera antica, tanto che quel protagonista che manca pare possa uscire da un momento all'altro da dietto un drappo rosso con il fumo della sigaretta ad anticiparlo. Ad uscire, in perfetto orario è invece la Premiata Forneria Marconi in una formazione a nove elementi. In prima fila i quattro reduci di quel tour del 79 passato alla storia: un Franz Di Cioccio che dall'alto dei suoi 78 anni, con le bacchette della batteria perennemente infilate nella cintola dei jeans, si prodiga durante tutto il concerto a cantare, suonare la batteria e ballare con passi di danza da menestrello rock,   Patrick Djivas incollato al suo sgabello fa uscire note di basso che fanno tremare il teatro e sembrano dialogare, Lucio Fabbri è il violinista che tutti conosciamo, e stasera c'è pure Flavio Premoli alle tastiere, fisarmonica ('Il Giudice')  e il mitico Moog. Poco più dietro i giovani: il talentuoso Luca Zabbini alle chitarre e tastiere e pure voce in 'Zirichiltaggia', Marco Sfogli alle chitarre con il sempre difficile compito di sostituire il maestro Franco Mussida e poi ancora Roberto Gualdi alla batteria quando non deve lasciarla a Di Ciccio e Alessandro Scaglione alle tastiere. Questa sera poi c'è Michele Ascolese l'instancabile chitarrista che con Fabrizio De André ci suonò negli ultimi dieci anni della sua vita.


Delle canzoni di Deandré non dico nulla, oltre ai classici che resero immortale quel tour c'è spazio anche per una lunga parentesi dedicata all'album Buona Novella del 1970 musicato da una PFM che ancora si chiamava I Quelli. 

"Molti di quegli arrangiamenti li ho mantenuti nel tour successivi perché hanno dato alla mia musica un volto nuovo e vivace" raccontò De André. Così nuovo che ancora oggi, così ricchi, funzionano alla grande.

Quando Franz Di Cioccio lancia quel "Branca, Branca, Branca..." prima di  'Volta La Carta' mi pare esca dalla mia vecchia cassetta e il pubblico che risponde "leon leon leon" sia quello presente nel 1979. Invece questa volta ci sono anch' io.


Il  bis è lasciato a 'Celebration' ed a un breve accenno di 'Impressioni di Settembre'. 

Ma la catarsi si era già compiuta quando un leggio è stato posizionato a centro palco, una luce lo ha illuminato e la voce di De André ha cantato 'La Canzone Di Marinella'. In quel momento sì, c'eravamo tutti. (O quasi).




domenica 5 maggio 2024

RECENSIONE: IAN HUNTER (Defiance Part 2 Fiction)

 IAN HUNTER  Defiance Part 2 Fiction (Sun Records, 2024)



secondo e non ultimo capitolo

In una recentissima intervista Ian Hunter ha detto di "avere le orecchie di un ottantaquatrenne" (giustamente), di soffrire di acufene e che molto probabilmente sarà difficile vederlo su un palco per uno spettacolo elettrico e  rock, più probabilmente per qualcosa di acustico. Staremo a vedere. Ascoltando il nuovo Defiance Part 2 Fiction  che fa seguito al primo capitolo uscito lo scorso anno, viene però difficile credere che dietro a quei soliti ricci sotto cui ci sono i soliti occhiali ci  sia un uomo classe 1940, l'età di mia madre che non ha l'acufene ma fatica a fare le scale. Come difficile credere a un Ian Hunter lontano dalla musica: durante il lockdown, l'ex Mott The Hopple si è dato molto da fare, chiudendosi nel suo studio di registrazione nel Connecticut  insieme al fido Andy York, buttando giù una serie impressionante di canzoni che con questo capitolo però non scrivono la parola fine al progetto, visto che sembra già al lavoro per il terzo capitolo con canzoni nuove.

"Eravamo noi che facevamo demo nel mio seminterrato, e le demo nel mio seminterrato si sono trasformate in quello che avete" raccontò in occasione dell'uscita della prima parte.

Ciò che si nota dopo l'ascolto è il carattere in parte più gioioso di queste dieci canzoni rispetto alle precedenti. Come nel precedente però anche questa volta gli ospiti sono tanti: dai due Def Leppard Joe Elliott e Phil Collen (Def Leppard che certi suoni glam rock li amano da sempre, cercate il loro Yeah!, album di cover uscito nel 2006), i Cheap Trick quasi al completo nelle persone di Rick Nielsen, Robin Zander e Tom Petersson, Brian May ( i Queen che supportarono i Mott the Hoople nel loro tour del 1974 nel Regno Unito e nel Nord America), Waddy Wachtel, Johnny Deep (anche autore del dipinto in copertina), Lucinda Williams ("Lucinda e suo marito sono venuti a uno dei miei spettacoli a Nashville. Adoro la sua voce, c'è qualcosa di molto infantile. Capisci subito che è lei. Una voce che non si dimentica" ha raccontato Hunter), i tre Stone Temple Pilots Eric Kretz, Robert De Leo e Dean De Leo,  Benmont Tench, David Mansfield  (Bob Dylan, T Bone Burnett),  Tony Shanahan  (Patti Smith),  Steve Holley  (Wings),  Morgan Fisher, vecchio compagno nei Mott the Hoople e poi Jeff Beck e Taylor Hawkins qui nelle loro ultime registrazioni prima di morire. Forse inferiore qualitativamente al precedente, le dieci canzoni si alternano tra un inno dal chorus facile, cantabile e fin troppo sbarazzino dell'apertura 'People', alla voce invecchiata ma comunque sempre fascinosa che esce da 'Fiction' trainata dall' arrangiamento d'archi di David Mansfield e dal piano di Morgan Fisher, dalla ballata folkie 'The 3rd Rail' dedicata a Jeff Beck che lascia la sua chitarra e dal rock’n’roll a dispetto del titolo di 'This Ain't Rock And Roll'. 

Piacciono la tesa e rock 'Precoius' con la chitarra di May al comando, la ciondolante ballata bluesy a ritmo di valzer 'Weed', inno alla legalizzazione, la pesante, hard e scura 'Kettle Of Fish' che avanza minacciosa, l'immancabile ballata in stile dylaniano 'What Would I Do Without You' con la voce di Lucinda Williams. A chiudere il rock di Everybody' s Crazy But Me' e la ballata 'Hope' con la Williams e Billy Bob Thornton ai cori.

Gli ospiti, tanti, ci sono ma non stravolgono mai il trade mark ormai consolidato di Hunter. Pur mancando dell'intensità di alcune canzoni uscite lo scorso anno, Defiance Part 2 si fa comunque apprezzare: il livello di scrittura di Hunter è sempre superiore alla media e nonostante tutto gli si deve dare il merito di continuare a guardare avanti nonostante l'età. Insomma: una canzone a caso qui contenuta potrebbe fare comodo a qualunque songwriter in erba. Classe e mestiere se li hai li hai, a qualunque età e Ian Hunter ne ha pure d'avanzo.







domenica 28 aprile 2024

RECENSIONE: NEIL YOUNG & CRAZY HORSE (Fu ## in' Up)

NEIL YOUNG & CRAZY HORSE  Fu ## in' Up (Reprise Records, 2024)




cavallo vecchio non muta ambiatura

Mentre sta uscendo questo ennesimo disco live, Neil Young e i Crazy Horse hanno iniziato in America un nuovo tour e dai video che circolano sembrano tutti in buona forma, anche il vecchio Neil sembra essersi ripreso da una forma di artrite che lo ha perseguitato ultimamente. Micah Nelson (Promise of the Real) ha preso il posto di Nils Lofgren, impegnato con la E Street Band di Springsteen ma qui in questo concerto registrato al Rivoli club di Toronto, davanti a 200 persone in una serata privata per pochi, ci sono tutti e due (si scambiano il ruolo tra chitarre e pianoforte) che uniti alla Old Black di Young, al basso di  Billy Talbot e la batteria di Ralph Molina portano a sublimazione il lato elettrico della sua carriera.

Viene celebrato Ragged Glory (già osannato live con Weld e pure recentemente con l' uscita di Way Down In The Rust Bucket , registrazione live risalente al 1990 ), uno dei tanti vertici elettrici dei Crazy Horse, disco che nel 1990 sembrò aprire un nuovo inaspettato decennio per il rock, ma visto che Neil Young non sarebbe lui senza qualche bizzarria di mezzo, le nove canzoni, a parte Farmer John che è una cover (e Mother Earth presente su Ragged Glory ma qui assente), sono state ribattezzate con titoli diversi, estrapolando una frase dal testo di ognuna di esse. Così Country Home diventa City Life e Over And Over è Broken Circle.

Un modo, secondo l'autore, per far continuare a vivere in eterno queste canzoni (eterne come l'amore) che ancora una volta esplodono in tutta la loro veemenza di feedback e spirito garage con qualche divertissement honky tonk portato dal pianoforte (in Feels Like A Railroad (River Of Pride) ossia White Line).

Certo, un disco per conpletisti incalliti, come gran parte delle ultime uscite legate agli archivi, e poco digeribile per chi apprezza maggiormente il lato bucolico di Young ma cosa si può dire davanti a un settantottenne e due ottantenni che  spingono come ragazzini sopra ai dodici minuti di Valley Of Hearts (Love To Burn) e  ai quindici della finale A Chance On Love (Love And Only Love)? Insomma nulla di nuovo sotto il sole del canadese ma buono per provare lo stato di salute dal vivo dopo gli anni di stop dovuti al lockdown. E le parole di Micah Nelson confermano: "c'è qualcosa di così primordiale e primitivo in Neil, specialmente quando è con Crazy Horse".





domenica 21 aprile 2024

RECENSIONE: MARK KNOPFLER (One Deep River)

 

MARK KNOPFLER  One Deep River (EMI, 2024)




luci gentili

Diciamo la verità: Mark Knopfler con il canzoniere messo in piedi con i Dire Straits potrebbe vivere di rendita all'infinito. Potrebbe fare tour nostalgici e accontentare quei fan distratti con un piede ancora negli anni ottanta che dopo i suoi concerti odierni si domandano "ma come? Solo due canzoni dei Dire Straits?". Li ho sentiti con le mie orecchie. Che poi, a fare queste cose ci pensano le cover band. E Mark Knopfler da più di trent'anni ha scelto di non essere la cover band di se stesso. Vi sento: "ma come? I suoi dischi sono tutti uguali. Fanno dormire". Troppo facile liquidare un disco così. Ha scelto una strada, la sta percorrendo e probabilmente la seguirà fino alla fine dei suoi giorni. Alcune recenti dichiarazioni non lasciano dubbi "con i Dire Straits non tornerò mai". Ma nemmeno dal vivo da solista a quanto pare. Una strada onesta che serpeggia elegantemente in mezzo al folk, al country, al blues, ai toni jazzati, dove i guizzi veramente elettrici sono pochi (in questo disco quasi assenti), dove i tempi sono lenti, contemplativi, da lungo viaggio, dove comunque a prevalere sono sempre le belle canzoni. E qui calo il mio asso che sa di sentenza: Privateering rimane il suo album migliore e per ora inavvicinabile.

Perché le canzoni di Mark Knopfler sono tutte belle: basterebbe sceglierne una a caso anche da questo disco, e ascoltarla senza pregiudizio. Prendetevi quattro minuti. Fatto? Non è bella? Ecco, questo mio scritto potrebbe finire qui, senza che vi racconti di quanta malinconia e contemplazione serpeggi tra le dodici canzoni che compongono questo suo decimo disco in studio, popolate da continui rimandi al Tulsa Sound del suo mentore JJ Cale, fin dall'apertura 'Two Pairs Of Hands' , canzone che si sofferma sulla sempre dura vita del musicista on the road insieme a una band, mentre in 'Ahead Of The Game' ricorda con velata nostalgia i primi passi musicali.

Serve ricordare quanto la sua scrittura sia sempre magnificamente descrittiva come nel bel blues 'Scavenger's Day' (uno dei pochi up tempo con la chitarra elettrica in evidenza) dove racconta di un poco di buono o in 'Tunnel 13' dove racconta la storia di tre banditi, i fratelli D'Autremont, con l'aiuto delle coriste? Potrei raccontarvi di quanto gli archi di ' Black Tie Jobs' diano una solenne grevità a una delle tante ballate del disco che indugia alla riflessione, al sogno, come in 'Watch Me Gone' con la lap steel di Greig Leisz riesca a citare due vecchi amici. A voi scoprire chi. Potrei dirvi come in 'Sweeter Than The Rain' che si apre con un canto a cappella riesca ad evocare antiche lande britanniche, o come non possa mancare un treno in arrivo ('Before My Train Comes'), che potrebbe essere anche 'slow' come quello del 1979 ('that's my train coming' canta) mentre il batterista Ian Thomas spazzola sui tamburi unendo America e Inghilterra.

"Se ascolti il suono del treno interpreti meglio il suono della vita" ha detto recentemente.

Potrei raccontarvi di come in 'This One's Not Going To End Well' giochi di classe aiutato dal violino di John McCusker con una storia di schiavitù inclusa nel.testo o come in 'Smart Money' le tastiere del sempre fedele Guy Fletcher portino verso lande caraibiche.

Ascoltando la finale, autobiografica (il fiume è il Tyne della sua Newcastle) e dylaniana 'One Deep River' (che già da sola varrebbe l'acquisto) mi assale quella strana voglia di pensare a cosa uscirebbe oggi da una collaborazione tra Mark Knopfler e Bob Dylan, ora che la saggezza ha preso il sopravvento, il tour quasi "pacco" insieme lo hanno già fatto e sembra un vecchio ricordo e il rosicato tempo davanti non è più quello che c'era ai tempi di Infidels.





lunedì 15 aprile 2024

RECENSIONE: THE BLACK KEYS (Ohio Players)

THE BLACK KEYS  Ohio Players (Nonesuch Records, Easy Eye Sound, 2024)




buona partita!

Chissà, forse mi sto rincoglionendo io (è la cosa più probabile) vista l'accoglienza tiepida che ha ricevuto nella sua prima settimana d'uscita il dodicesimo album dei Black Keys: ma secondo me è il loro miglior disco dai tempi di El Camino. Se nei due precedenti dischi, che comunque mi erano piaciuti (i Black  Keys mi piacciono anche nella loro onesta paraculaggine) la coppia formata da Dan Auerbach e Patrick Carney aveva tirato il freno per stazionare su lidi sicuri (sto parlando degli album  Let's Rock e Dropout Boogie), con Ohio Players (notare l'omaggio alle loro radici - Akron - e alla band funky loro concittadina) si ributtano nella mischia degli sperimentatori, rischiano e escono dalla comfort zone che li recintava ultimamente. Si può rischiare anche pacioccando e divertendosi con il pop, i generi e coinvolgendo alla festa altre persone.

Per farlo cedono alle collaborazioni e  radunano alcuni amici.  Primo: Beck che collabora come co-autore, voce e strumentista in quasi metà disco, un incontro, il loro, avvenuto più di vent'anni fa in tour e che ora da i suoi primi frutti anche in studio di registrazione, poi Noel Gallagher presente pure lui in modo massiccio,  più alcuni featuring dei rapper Lil Noid e Juicy J. e infine il produttore Dan the Automator

"Volevamo potesse stare al passo con Brothers ed El Camino . Alla fine abbiamo lavorato molto duramente su questo album e abbiamo trascorso più tempo in studio rispetto a Brothers , El Camino e Turn Blue messi insieme. Penso che siamo stati in studio circa 150 giorni" dice Patrick Carney. 

Cosa ne è uscito? Un disco che al primo ascolto dici "boh?", al secondo ti prende voglia di riascoltarlo, al terzo ti ci infili dentro fino alle scarpe. Così è successo a me, naturalmente. "Una collezione di 45 giri" come dicono loro: 14 canzoni dal basso minutaggio, uno strike di motivi pop sixties, freschi e ballabili ('This Is Nowhere', 'Don't Let Me Go', 'Only Love Matters'), di funky e soul ('Beautiful People (Stay High)), di onde surf (You'll Pay), glassa pop aroma Beatles in primo piano (On The Game), poi certe cose che sembrano riportare le lancette agli albori del crossover ('Candy Y And Her Friends' con Lil Noid e 'Paper Crown' con Beck e Juicy J. e quella chitarra "alla Santana") quando mischiare i generi era ancora un azzardo visto con occhi storti da certi puristi. Il rap che va a braccetto con il rock.

A tenere i ganci con il passato ci pensano la cover di William Bell e Booker T. Jones

('I Forgot To Be Your Lover') e certe reminiscenze garage blues che escono da 'Please Me (Till I'm Satisfied)' e 'Everytime You Leave', una 'Live Till I Die' che inizia là dove finiva 'Cinnamon Girl' di Neil Young e le atmosfere Western di 'Read Em And Weep' che piacerebbe tanto a Quentin Tarantino.

Si percepisce voglia di divertirsi. Dategli un po' di tempo...il tempo di una serata al bowling aspettando il primo strike. Con me è arrivato quasi subito.