‘HAIR DOWN TO MY GRASS’
(Hayseed Dixie Records)
Veniam giù dai monti...
Usciti di scena i due
fratelli Reno, da sempre pilastri musicali della band, sostituiti dai nuovi
entrati Johnny Butten (banjo) e Hippy Joe Hymas (mandolino), la strana e vivace
creatura di John Wheeler, nata tra i monti Appalachi, continua imperterrita a
portare avanti la formula che li ha visti nascere: reinterpretare la storia del
(hard) rock sotto la veste country/ bluegrass. Se in principio c’era il
repertorio degli AC/DC, dei Kiss, e poi arrivarono le prime canzoni autografe e
persino dischi cantati in lingua scandinava, questa volta a farne le spese sono
canzoni più leggere legate al glam e all’hard rock melodico anni ottanta:
Twisted Sister, Def Leppard, Survivor, Europe, Bryan Adams, Scorpions, Bon Jovi
e Journey entrano nel calderone. Una formula che pur sembrando ripetitiva
rimane accattivante e divertente, in particolar modo quando tutto si
trasferisce sopra ad un palco. Lì potreste essere catturati definitivamente.
(Enzo Curelli) da CLASSIX! # 43 (Marzo/Aprile 2015)
live @ Spazio 211, Torino, 13 Febbraio 2015
Appalachian rockgrass
Appalachian rockgrass
La
serata è di quelle rigide e grigie. Dentro al piccolo club di Torino però, la
visione di due enormi figure vestite di bermuda mimetiche e grossi anfibi sembra
dare un caloroso benvenuto: l’irsuto bassista Jake Bakesnake Byers e il cantante
e leader John Wheeler, i due veterani della formazione americana scesa dai
monti Appalachi alla conquista del mondo
a suon di brani hard rock rivisitati in salsa country/bluegrass (rockgrass è il
loro trademark), si aggirano indisturbati e sorridenti tra il pubblico. I due integratissimi
nuovi elementi della formazione, invece, si intravedono dalla porta socchiusa
del camerino: Johnny Butten, di diritto nei Guinness dei Primati come le dita
più veloci al mondo se si tratta di suonare le corde di un banjo e Hippy Joe
Hymas al mandolino, personaggio eccentrico, vero spasso per gli occhi, una
babilonia di smorfie che cattura gli sguardi
e accende sorrisi durante tutto il concerto. Ad aprire, il contagioso
country and roll dei padroni di casa FJM, un trio dal tiro punk che il pubblico
amico apprezza e gradisce. Serata portata a casa tra gli applausi. Gli Hayseed
Dixie, invece, hanno un nuovo album da presentare HAIR DOWN TO MY GRASS, il
loro tributo al glam/street rock degli anni ottanta (We’re Gonna Take It, Pour
Some Sugar On Me e Eye Of The Tiger
sono uno spasso così stravolte), ma in apertura di concerto vogliono giocare sul sicuro con due brani della band australiana
da cui hanno preso il nome. Hells Bells
e You Shook Me All Night Long sono un
biglietto da visita vincente che li traghetterà senza cedimenti fino alla fine,
quando si aggiungerà l’immancabile e spianata “autostrada per l’inferno”.
I loro concerti sono una sarabanda ben assortita di traditional bluegrass suonato con piglio da veri metallari tanto che su Ace Of Spades si scatena l’inevitabile pogo nelle prime file, musica classica (Eine Keine Trinkemusic di un certo Mozart), tecnica strumentale invidiabile (Bohemian Rhapsody è sempre un piacere, una”killing song” come dicono loro) e gag divertenti. A centro palco a fare da scenografia, dove tutte le band normali terrebbero una batteria, campeggia un frigorifero stipato di birre. Gli Hayseed Dixie, infatti, di normale hanno ben poco e John Weeler è un cerimoniere che tra un elogio ai vini italiani, snocciolati uno dopo l’altro da vero ed esperto sommelier, giochi di parole che legano insieme il compianto R.J. Dio con alcune bestemmie italiane imparate con nonchalance dal defunto Germano Mosconi, quando imbraccia il violino incanta e la pinkfloydiana Comfortably Numb si candida a miglior brano della serata. Il meglio arriva nel finale quando la lunga esecuzione di Hotel California diventa un contenitore pieno di sorprese e citazioni tra cui emergono un inaspettato e bizzarro omaggio a Tiziano Ferro e una coinvolgente Clandestino di Manu Chao. Finito il concerto, come la loro ironica canzone Merchandise Table invita a fare: tutti al banco merchandise per lo shopping, foto di rito...e l’ultimo brindisi. (Enzo Curelli) da CLASSIC ROCK # 29 (Aprile 2015)
I loro concerti sono una sarabanda ben assortita di traditional bluegrass suonato con piglio da veri metallari tanto che su Ace Of Spades si scatena l’inevitabile pogo nelle prime file, musica classica (Eine Keine Trinkemusic di un certo Mozart), tecnica strumentale invidiabile (Bohemian Rhapsody è sempre un piacere, una”killing song” come dicono loro) e gag divertenti. A centro palco a fare da scenografia, dove tutte le band normali terrebbero una batteria, campeggia un frigorifero stipato di birre. Gli Hayseed Dixie, infatti, di normale hanno ben poco e John Weeler è un cerimoniere che tra un elogio ai vini italiani, snocciolati uno dopo l’altro da vero ed esperto sommelier, giochi di parole che legano insieme il compianto R.J. Dio con alcune bestemmie italiane imparate con nonchalance dal defunto Germano Mosconi, quando imbraccia il violino incanta e la pinkfloydiana Comfortably Numb si candida a miglior brano della serata. Il meglio arriva nel finale quando la lunga esecuzione di Hotel California diventa un contenitore pieno di sorprese e citazioni tra cui emergono un inaspettato e bizzarro omaggio a Tiziano Ferro e una coinvolgente Clandestino di Manu Chao. Finito il concerto, come la loro ironica canzone Merchandise Table invita a fare: tutti al banco merchandise per lo shopping, foto di rito...e l’ultimo brindisi. (Enzo Curelli) da CLASSIC ROCK # 29 (Aprile 2015)
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