mercoledì 27 maggio 2015

RECENSIONE: HAYSEED DIXIE (Hair Down To My Grass & live@Spazio 211, Torino, 13 Febbraio 2015)



HAYSEED DIXIE
‘HAIR DOWN TO MY GRASS’
(Hayseed Dixie Records)
 
Veniam giù dai monti...
Usciti di scena i due fratelli Reno, da sempre pilastri musicali della band, sostituiti dai nuovi entrati Johnny Butten (banjo) e Hippy Joe Hymas (mandolino), la strana e vivace creatura di John Wheeler, nata tra i monti Appalachi, continua imperterrita a portare avanti la formula che li ha visti nascere: reinterpretare la storia del (hard) rock sotto la veste country/ bluegrass. Se in principio c’era il repertorio degli AC/DC, dei Kiss, e poi arrivarono le prime canzoni autografe e persino dischi cantati in lingua scandinava, questa volta a farne le spese sono canzoni più leggere legate al glam e all’hard rock melodico anni ottanta: Twisted Sister, Def Leppard, Survivor, Europe, Bryan Adams, Scorpions, Bon Jovi e Journey entrano nel calderone. Una formula che pur sembrando ripetitiva rimane accattivante e divertente, in particolar modo quando tutto si trasferisce sopra ad un palco. Lì potreste essere catturati definitivamente. (Enzo Curelli) da CLASSIX! # 43 (Marzo/Aprile 2015)
 

 
live @ Spazio 211, Torino, 13 Febbraio 2015
Appalachian rockgrass
La serata è di quelle rigide e grigie. Dentro al piccolo club di Torino però, la visione di due enormi figure vestite di bermuda mimetiche e grossi anfibi sembra dare un caloroso benvenuto: l’irsuto bassista Jake Bakesnake Byers e il cantante e leader John Wheeler, i due veterani della formazione americana scesa dai monti Appalachi  alla conquista del mondo a suon di brani hard rock rivisitati in salsa country/bluegrass (rockgrass è il loro trademark), si aggirano indisturbati e sorridenti tra il pubblico. I due integratissimi nuovi elementi della formazione, invece, si intravedono dalla porta socchiusa del camerino: Johnny Butten, di diritto nei Guinness dei Primati come le dita più veloci al mondo se si tratta di suonare le corde di un banjo e Hippy Joe Hymas al mandolino, personaggio eccentrico, vero spasso per gli occhi, una babilonia di smorfie che cattura gli sguardi  e accende sorrisi durante tutto il concerto. Ad aprire, il contagioso country and roll dei padroni di casa FJM, un trio dal tiro punk che il pubblico amico apprezza e gradisce. Serata portata a casa tra gli applausi. Gli Hayseed Dixie, invece, hanno un nuovo album da presentare HAIR DOWN TO MY GRASS, il loro tributo al glam/street rock degli anni ottanta (We’re Gonna Take It, Pour Some Sugar On Me e Eye Of The Tiger sono uno spasso così stravolte), ma in apertura di concerto vogliono giocare  sul sicuro con due brani della band australiana da cui hanno preso il nome. Hells Bells e You Shook Me All Night Long sono un biglietto da visita vincente che li traghetterà senza cedimenti fino alla fine, quando si aggiungerà l’immancabile e spianata “autostrada per l’inferno”.
I loro concerti sono una sarabanda ben assortita di traditional bluegrass suonato con piglio da veri metallari tanto che su Ace Of Spades si scatena l’inevitabile pogo nelle prime file, musica classica (Eine Keine Trinkemusic di un certo Mozart),  tecnica strumentale invidiabile (Bohemian Rhapsody è sempre un piacere, una”killing song” come dicono loro) e gag divertenti. A centro palco a fare da scenografia, dove tutte le band normali terrebbero una batteria, campeggia un frigorifero stipato di birre. Gli Hayseed Dixie, infatti, di normale hanno ben poco e John Weeler è un cerimoniere che tra un elogio ai vini italiani, snocciolati uno dopo l’altro da vero ed esperto sommelier, giochi di parole che legano insieme il compianto R.J. Dio  con alcune bestemmie italiane imparate con nonchalance dal defunto Germano Mosconi, quando imbraccia il violino incanta e la pinkfloydiana Comfortably Numb si candida a miglior brano della serata. Il meglio arriva nel finale quando la lunga esecuzione di Hotel California diventa un contenitore pieno di sorprese e citazioni tra cui emergono un inaspettato e bizzarro omaggio a Tiziano Ferro e una coinvolgente Clandestino di Manu Chao. Finito il concerto, come la loro ironica canzone Merchandise Table invita a fare: tutti al banco merchandise per lo shopping, foto di rito...e l’ultimo brindisi. (Enzo Curelli) da CLASSIC ROCK # 29 (Aprile 2015)
altre foto e scaletta QUI


 

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