sabato 31 ottobre 2020

RECENSIONE: ARMORED SAINT (Punching The Sky)

ARMORED SAINT   Punching The sky (Metal Blade, 2020)




cuore, maturità e nessuna nostalgia

Quasi quarant'anni di carriera, otto album incisi in studio. Una pausa, la ripartenza Mai un passo falso. Mai. Ecco se c'è un gruppo che meriterebbe più di quanto raccolto, gli Armored Saint sarebbero lì davanti a reclamare un posto tra i grandissimi. Punching The Sky è qui, ora, a ribadirlo con le sue canzoni stampate a fuoco, dove passato e presente si uniscono, hard rock e heavy metal si fondono, riff e melodia si abbracciano, si odono addirittura strumenti inusuali come la  cornamusa nella maestosa apertura 'Standing On The Shoulders Of Giants', già sulla via del classico e un flauto che apre la finale 'Never You Fret', thrash metal veloce, melodico e diretto alla Armored Saint, lo stesso di 'End Of The Attention Span'. C'è addirittura Dizzy Reed (Guns 'N Roses) con le sue tastiere in un paio di  canzoni. 

Il vecchio sound eighties degli esordi (l'epica 'Missile To Gun') senza essere troppo nostalgici, riff incisivi di matrice thrash metal, echi 90 di Alice in Chains (l'atmosferica e cupa 'Unfair') e Pantera (i riff pesanti e quadrati di 'Do Wrong To None'), la modernità di 'Bubble' e di 'Lone Wolf' dal l'irresistibile chorus, l'hard rock dei maestri Thin Lizzy ('Bark, No Bite') trovano la loro via in un sound che  ha il loro trade mark definitivi stampato sopra. Mai banali nella costruzione melodica, mai scontati i testi. Sì, sono loro. "A volte il mio approccio lirico è un po 'ambiguo e faccio in un modo che le persone pensino a quello che ho detto, leggano tra le righe" dice John Bush

Sono sempre loro: la voce unica, preziosa e inimitabile di John Bush, uno dei cantanti più ambiti della scena metal americana (chiedere ai Metallica. Perché se hai un Bush te lo tieni. Vero Anthrax? Ma cos'era Sound Of White Noise?), il basso, l'intelligenza e la regia- in tempi di pandemia-di Joe Vera (che sempre i Metallica hanno spesso corteggiato ma lui ha preferito i Fates Warning), le chitarre di Jeff Duncan e Phil Sandoval, la batteria di Gonzo Sandoval (ah, il flauto lo suona lui). Una famiglia che non si è mai divisa e che sarebbe ancora più numerosa se Dave Prichard non ci avesse lasciato così presto. Il loro Symbol Of Salvation uscito nel lontano 1991, poco dopo la morte di Prichard, rimane sempre uno dei miei dischi della vita. Questo è sicuramente la loro migliore uscita dopo la reunion. Sono passati quasi trent'anni da quel vecchio disco: era da tempo che non ascoltavo un disco di metal classico con le orecchie dei miei diciotto anni. Conferma che, nonostante tutto, in questo nefasto 2020  stanno uscendo dischi ancora interessanti.





mercoledì 28 ottobre 2020

RECENSIONE: BRENT COBB (Keep 'Em On They Toes)

 

BRENT COBB  Keep 'Em On They Toes (Ol' Buddy Records, 2020) 

 


ballate per l' autunno 

Il quarto disco di Brent Cobb è un po' quella foto presente nel retro copertina: un pick up che viaggia senza troppa fretta in una strada sterrata di campagna con due file di alberi ai lati e un uomo (Cobb naturalmente) con la chitarra seduto nel retro. Brent Cobb è tornato a vivere in Georgia dopo aver esplorato Nashville con l'aiuto del più famoso cugino Dave Cobb, ricercato e famoso produttore. Accelera solo un paio di volte per superare un paio di ostacoli (l'impetuosa armonica di 'Shut Up And Sing' segna i solchi, l'up tempo 'Dust Under My Rug' li ricopre), mantenendo sempre una bassa velocità su ballate country agro dolci, nel minimalismo di 'When You Go', nella lenta galoppata di 'This Side Of The River', giocate anche sul piano (Soapbox') in grado di emanare la serafica pace della quiete del mattino presto e il silenzio della notte fonda, la tranquillità di chi non ha troppa fretta di arrivare e non ha nessunissima voglia di mettere in mostra quello che non è. Come sedersi sulle rive di un fiume e parlare con un amico. 
 "I miei ultimi due album riguardavano persone e luoghi, e volevo che questo album parlasse di pensieri e sentimenti". Non alza mai la voce Cobb, coinvolge tutta la sua famiglia ( la moglie, il padre, i figli come ispiratori) in dieci canzoni che non rivoluzioneranno un bel nulla, pagano dazio alla scrittura di John Prine, Willie Nelson e in particolare a un vecchio album di Jerry Lee Lewis, Country Memories che Cobb non nasconde essere stato di forte ispirazione. 
Prodotto da Brad Cook che Cobb ha fortemente voluto in questo album. "Tutti i suoi dischi suonano così scarni, ma allo stesso tempo c'è molto spazio occupato". Proprio così, come questo disco dal tono autunnale, dal foliage ricco e dalla classica luce fioca e arancione che esce dalle finestre al primo imbrunire d'inverno.





domenica 18 ottobre 2020

RECENSIONE: BETTE SMITH (The Good The Bad & The Bette)

BETTE SMITH   The Good The Bad & The Bette (Ruf Records, 2020)



esuberanza soul

Produce Matt Patton dei Drive By- Truckers, vi suonano il compagno di band Patterson Hood, Jimbo Mathus e Luther Dickinson. E già solo da qui sembra una buona garanzia. Ma il meglio arriva durante l'ascolto di questo album registrato a Water Valley, Mississippi, luogo così lontano dalla sua New York: bello, compatto e scorrevole, dieci tracce dieci, senza riempitivi, noia e passaggi a vuoto. Proprio come i cari vecchi vinili di un tempo. Il secondo album di Bette Smith (il primo Jetlagger è del 2017), cantante soul d'assalto, nativa di Brooklyn è una vera bomba esplosiva di seducenti vibrazioni soul rock, tanto autobiografico nei testi da lei scritti quanto impreziosito da alcuni significativi aiuti esterni in alcune tracce. Parte dalla sua difficile infanzia a Brooklyn innaffiata di canti gospel e soul "Mio padre era il direttore del coro della chiesa. Cantavo da quando avevo cinque anni. Mia madre non ascoltava altro che gospel" arriva a un presente che si tuffa senza indugi nelle terre del southern e pure del garage rock, rinforzato da una buona fila di chitarre schierate, tanto che in certi passaggi vengono in mente i certo più abrasivi Bellrays di Lisa Kekaula.

Un sound che si è evoluto nel tempo come ha raccontato in una recente intervista: " si è evoluto perché era solo blues. Ho iniziato ad ascoltare Aretha Franklin e Billie Holiday. Quando ero molto piccola ascoltavo principalmente Mahalia Jackson perché mia madre era molto religiosa. E ha sempre ascoltato lei e Miriam Makeba, che era una cantante sudafricana. Quindi quelle sono le due persone con cui sono cresciuta."

Ascoltare l'assalto sonoro di 'I Felt It Too' che pare uscita da un live del miglior Southside Johnny è significativo per capire dove sta andando il suo suono. Voce graffiante, roca al momento giusto, presenza fisica da prima linea, Bette Smith si trova a proprio piacimento in ogni situazione: dal tirato funky 'I Will Feed You' che apre il disco nel migliore dei modi, passando dalla autobiografica ballata 'Whistle Stop' dedicata a sua madre morta nel 2005, canzone che avrebbe voluto cantare nel disco insieme al suo idolo Elton John, all'altro assalto rock chitarristico di 'I'm A Sinner', giungendo  all'accattivante 'Human', dedicata al suo cane che si merita pure la presenza in copertina, al sincopato blues elettrico di 'Pine Belt Blues' (cover dei Dexateens) carico di voci nere e gospel, l'altra cover è 'Everybody Needs Love' di Eddie Hinton, fino al finale acustico 'Don' t Stop Out On Me', splendido brano scritto da Willy Vlautin (Richmond Fontaine) con pedal steel e tromba (suonata da Henry Westmoreland e presente in tutto il disco) pronte a evocare spazi e sogni. 

Una Aretha Franklin con il chiodo liso e nero  da rocker, l'esuberanza fisica della giovane Tina Turner, la professionalità di Mavi Staples: posso solo immaginare cosa possa essere dal vivo sopra un palco con la sua essenziale band rock dietro e i fiati al fianco.






lunedì 12 ottobre 2020

RECENSIONE: THEE JONES BONES (Rock And Soul Music)


THEE JONES BONES
   Rock And Soul Music (autoproduzione, 2020) 



questo è amore
Esattamente un anno fa Luke Duke, voce, chitarra e compositore dei camuni THEE JONES BONES mi diceva "il disco nuovo è una bella cosa". Ho passato un anno ad ascoltare file mp3 ma dell'album fisico non vi era mai traccia. "Stai a vedere che ci hanno ripensato. Sarebbe un gran peccato" mi dicevo. È passato tanto tempo e molte cose sono successe in mezzo ma in questi giorni mentre finalmente esce il settimo disco della loro carriera, sembra che la band sia già entrata in studio di registrazione, pronta per far uscire un seguito che lo stesso artista bresciano mi dice "il migliore della serie". Se questa non è voglia di alzare sempre l'altezza dell'asticella e migliorarsi, cos'è? 
Ascoltando in fila i lavori della band lo si può capire benissimo: dal garage hard blues di inizio carriera la proposta è andata via via espandendosi, colorandosi di nuovi umori, fino ad aggiungere massicce dosi di R&B e soul come già avvenuto nel precedente This Is Love grazie all'aggiunta di coriste e fiati. In Rock And Soul Music i fiati non ci sono, ma l'album non tradisce il suo titolo. La band continua ad esplorare i sixties e i seventies con immutato coinvolgimento direttamente proporzionale all'aumento del numero di elementi in organico. La band ora è formata da ben nove musicisti che spesso fanno tornare alla memoria il carrozzone di Joe Cocker e i suoi Mad Dogs : il già citato Luca "Luke Duke" Ducoli (voce e chitarre), Paolo Gheza (basso), Matteo Crema (chitarre), Luca Cottarelli (chitarre), Marco Monopoli (piano), Sergio Alberti (batteria), Anna Pina, Monica Pagani e Tiziana Salvini ai cori. 
Un suono ricco e corposo che pur non perdendo la carica rock'n'roll ('Dance On Saturday Night' è uno spassoso honky tonk che rotola senza freni inibitori), 'Shine On You' è puro Stones sound che mi ha portato alla mente pure il primo pregevole album solista di Izzy Stradlin e i suoi Ju Ju Hounds, l'apertura strumentale 'Roll Up One' s Sleeves' sembra puntare a sud verso gli Allman Brothers. 
Ma a colpire sono episodi come 'This Is Love', sussurro notturno alla Tom Waits interrotto da scariche elettriche e cori, i dieci minuti psichedelici in crescendo di 'Our Song', il soul blues di 'Lady Duke', il breve intermezzo country cantato a cappella 'Once In A Lifetime', quasi una dichiarazione d'intenti, e le due tracce finali, il southern di 'The Streets Of Love' e le atmosfere cangianti, free e jammate di 'You Stoned Me', adatta a dipingere il quadro che potreste trovarvi davanti durante un loro live. 
 A questo punto, non ci resta altro che aspettare l'uscita del prossimo imminente album con queste canzoni a tutto volume, finalmente nello stereo alla vecchia maniera.





sabato 10 ottobre 2020

RECENSIONE: GODSPELL TWINS (Badtism)

 


GODSPELL TWINS  Badtism (Outbreak Records, 2020)



… nel nome delle chitarre

Ecco un disco che potrebbe piacere a tutti gli amanti del buon vecchio rock con profonde radici americane. Nessuno escluso. Dietro al progetto Godspell Twins ci celano vecchie conoscenze come il musicista Nick Baracchi (voce, chitarra) e Carlo Lancini (chitarre, già nel Mojo Filter e ora Stone Garden), aiutati dalla sezione ritmica formata da Daniele Togni (basso) e Jacopo Moriggi (batteria) e da un manipolo di ospiti tra cui Francesco Più, Luca Milani, Elisa Mariani (voci), Filippo Manini (tastiere) e Joe Barreca e Daniele Negro dei Mandolin Brothers.

La copertina svela e mantiene quello che promette: la direzione impostata sul navigatore  è quella che da Bergamo, dove le canzoni sono nate in pieno lockdown tra Marzo e Giugno, porta direttamente tra le strade americane che incrociano spesso e volentieri le chitarre british degli Stones (nell'apertura 'Callie Crane'), che serpeggiano in mezzo alle verdi vallate di prati incontaminati del country ('This Old Town Will Bring Me Down'), che si inerpicano tra le vie buie e profonde del blues (l'acustica 'Kansas City' arricchita dalla chitarra di Francesco Piu). E basterebbe il viaggio affrontato e raccontato in una traccia come 'Way Down Mississippi' per capirlo. Canzone in grado di catturare al primo ascolto. Ci sono chilometri di vita vissuta, strade, sogni, speranze e qualche stoccata politica che in tempi come questi non fa mai male (la tesa 'Children Of War' con la voce di Luca Milani). A far peso sopra al pick up lanciato sull'asfalto la scelta di due cover come 'Willin' dei Little Feat, un classico "on the road" riletto alla loro maniera e una non facile interpretazione di 'Mellow My Mind' di Neil Young che però sembra sintetizzare bene ciò di cui abbiamo bisogno in questi infiniti mesi senza prospettive certe: "qualcuno che ci addolcisca la mente".                                                                            

I Godspell Twins ci provano, almeno per una buona mezz'ora, durata di un disco, sì battezzato in tempi incerti ma anche da una buona stella d'ispirazione.




martedì 6 ottobre 2020

RECENSIONE: DRIVE-BY TRUCKERS (The New OK)

DRIVE - BY TRUCKERS
   The New OK (ATO Records, 2020) 





presenti e combattenti con le elezioni alle porte

Doveva essere un EP con gli scarti del precedente The Unraveling uscito a inizio anno, in Gennaio, quando il Covid era ancora un emerito sconosciuto e il 2020 solo l'anno in cui Donald Trump poteva essere mandato a casa. Il lockdown e l'impossibilità di viaggiare in tour (iniziato e mai finito) hanno invece trasformato The New OK in un vero e proprio album di nove canzoni e 36 minuti di durata uscito a sorpresa senza annunci e troppo clamore. Canzoni che per caratteristiche non si adattavano all'album precedente, invece di prendere la strada delle dimendicate B side, fanno gruppo e diventano protagoniste.
 I Drive - By Truckers non mollano la presa e se il precedente disco si prendeva sulle spalle gli ultimi tre anni di scellerate decisioni politiche americane, qui il tutto si aggiorna di nuovi inquietanti capitoli. "Questa infinita estate di proteste, rivolte , imbrogli politici e orrori pandemici " spiega Patterson Hood. La band di Athens guidata da Hood e Mike Cooley continua la propria corsa fatta di canzoni tese ('The Unraveling', canzone che porta il titolo dell'ultimo album e ospia la voce di Bobby Matt) e chitarre taglienti ('The New Ok' è un buon compromesso tra Tom Petty e Neil Young), percorrendo anche inedite e riuscite strade funky e soul come succede in 'The Perilous Night' e 'Sea Island Lonely' dai forti sapori southern soul con i fiati in bella evidenza, ballate come 'Sarah's Flame' e 'Watching The Orange Clouds' quest'ultima ispirata dalle proteste di piazza scaturite dopo l'omicidio di George Floyd a Minneapolis e dove cantano "non mi rendevo conto che questo fondale è così dannatamente profondo, sperando che un giorno ci alzeremo e andremo in un posto migliore". 
Il valzer elettrico con l'hammond in bella evidenza di 'Tough To Let Go' piace, così come la cover dei Ramones 'The KKK Took My Baby Away' cantata dal chitarrista Matt Patton cercando di non ribaltare troppo l'originale carica punk. 
La conferma, se mai ce ne fosse bisogno, che i Drive By Truckers sono tra i gruppi rock americani più presenti e calati nell'incerto futuro dei loro Stati Uniti. E questo disco, uscito a sorpresa, è certamente anche un'astuta mossa politica in vista delle imminenti elezioni presidenziali. Bene così.




sabato 3 ottobre 2020

RECENSIONE: BLUE ÖYSTER CULT (The Symbol Remains)

BLUE ÖYSTER CULT 
 The Symbol Remains (Frontiers Records, 2020)





simbolo indelebile
Il fatto che in Giappone l'album sia già uscito fa sì che lo si trovi in rete con una certa facilità. Quindi è circa una settimana che mi gira allegramente in macchina. La passione è debole. 
Prima che parta 'The Machine', canzone incastonata a metà di un un album fin troppo generoso di quattordici canzoni per sessanta minuti (naturalmente i giapponesi hanno anche la loro esclusiva bonus track), si sente la vibrazione e il suono di un cellulare: è un po' il segno dei tempi che ci annuncia il ritorno della band guidata dagli storici Eric Bloom (chitarre, tastiere, voce) e Donald "Buck Dharma" Roeser (chitarre, tastiere, voce) dopo diciannove anni di assenza discografica (Danny Miranda al basso, Jules Radino alla batteria e Richie Castellano alle tastiere, chitare e voce in un paio di pezzi a completare). Tanti ma l'importante è esserci e dimostrare vitalità e freschezza. 
In qualche modo qua dentro convivono l'una con l'altra. 
Ascoltando e riascoltando The Symbol Remains, uscito per la nostra Frontiers Records, del nuovo Blue Öyster Cult posso dire che non si sono fatti mancare proprio nulla in varietà: hard massicci e pesanti (la minacciosa apertura 'That Was Me' nasconde anche un intermezzo reggae al suo interno, la bella 'The Return Of St. Cecilia' a recuperare il passato), 'Box In My Head' avanza incalzante rastrellando melodia e chorus vincenti, heavy oscuri e veloci ('There' s A Crime'), rock'n'roll con pianoforte in primo piano ('Nightmare Epiphany'), boogie blues scalcianti e divertenti ad evocare una locomotiva in corsa con tanto di armonica ('Train True (Lennie's Song)'), Aor melodici e soft rock d'annata ('Tainted Blood'), accenti southern (la bizzarra 'Florida Man' scritta insieme al paroliere e romanziere John Shirley), incursioni prog nella saga quasi teatrale di 'Alchemist', la più lunga  nei suoi sei minuti e forse il vero capolavoro del disco. 
Certo non tutto è perfetto: il metal epico alla Manowar (!!!), suono, cori e titolo compreso, di' Stand And Fight' mi fa sorridere…anche se nelle loro corde da sempre. Manowar prima di voi, si potrebbe quasi osare. Ricordate 'Godzilla'? 
Le parole di Eric Bloom confermano: "quando sono emerse le demo delle canzoni, ci siamo resi conto che c'era tanta, se non maggiore, varietà nello stile e nei contenuti in questo disco che nella nostra storia". 
Sì: questo album vola sopra la loro intera carriera in modo disinvolto, spassoso e divertente. Manca quell'alone di mistero, esoterismo e paranormale in bianco e nero che permeava i loro migliori anni settanta ma la croce con il gancio riesce ancora a sollevare, agganciare e distruggere a seconda dei casi. Anche se a colori da moltissimi anni. 
Non male dai, per una band con tutti quei decenni sulle spalle.





domenica 27 settembre 2020

RECENSIONE: ZAKK SABBATH (Vertigo)

 

ZAKK SABBATH   Vertigo  (Magnetic Eye Records, 2020)


rileggere la storia

Sì ok: l'utilità di questo disco è pari a zero, un po' come l'utilità di tutte le cover band sparse nel pianeta d'altronde. È solo intrattenimento. Se fatto bene, piace pure. Eppure Zakk Wylde, il bassista Blasko (Ozzy Osbourne, Rob Zombie) e il batterista Joey Castillo (Danzig, Queens Of The Stone Age ) riescono in qualche modo ad omaggiare un disco con cinquanta nere candeline sul groppone a loro modo, lasciando intravedere la loro firma. Lo fanno ormai da qualche anno con spettacoli live ma l'occasione del mezzo secolo di vita di uno dei dischi seminali del rock era troppo ghiotta per non approfittarne. Zakk Wylde ci mette la sua strabordante chitarra (tanto amata quanto odiata dai chitarristi), i suoi assoli, la sua voce imbastita a whisky e Ozzy Osbourne e l'esperienza raccolta sul campo (anche con questo repertorio suonato migliaia di volte), in più la sezione ritmica non è esattamente l'ultima arrivata. In scaletta quaranta minuti con la scaletta originale USA e la licenza di uscire fuori dal seminato con due lunghe jam ('Wasp / Behind the Wall of Sleep / N.I.B'  e 'A Bit of Finger / Sleeping Village / Warning'). Il tutto registrato in analogico e suonato in presa diretta tanto per mantenere quella grezza attitudine che ben si addice all'originale registrazione, tanto da decidere di non farlo uscire in digitale ma solo in supporto fisico. Se accettiamo le centinaia di band che pur componendo brani propri pescano a piene mani dal campionario di riff seminati negli anni da Tony Iommi, non vedo perché non possa esistere questo dichiarato omaggio: potente, doom ('Black Sabbath') e  bluesy ('The Wizard'). È un venerdì 13 del 1970 che si ripete sempre volentieri.



venerdì 18 settembre 2020

RECENSIONE: NEIL YOUNG (The Times)



NEIL YOUNG 
 The Times (Reprise Records, 2020)


canti di protesta

Washington, 17 Giugno 2015, Donald Trump è candidato alla presidenza degli Stati Uniti. Durante un comizio della sua campagna elettorale decide di usare 'Rockin' In The Free World' di Neil Young, canzone uscita nel 1989 nell'album Freedom, ispirata dalla protesta cinese in piazza Tiennanmen e che nel testo punzecchiava pure l'allora presidente George HW Bush. La risposta di Neil Young non tarda ad arrivare. Il canadese attraverso il suo manager  Elliot Roberts interviene prontamente e lo cazzia: "non è stata autorizzata". È l'inizio di una disputa tra Young e Trump che nel frattempo alla faccia di tutti dentro alla Casa Bianca ha trovato dimora per almeno quattro anni. 

Estate 2020, con Donald Trump ai minimi storici di consensi, l'effetto gestione Covid pesa, tanto da indurlo a ipotizzare un rinvio delle prossime elezioni presidenziali (lui ci ha provato, inutilmente) , NEIL YOUNG non si lascia sfuggire l'occasione per cantargliene ancora altre quattro. Perché del canadese possiamo dire tante cose ma è rimasto l'unico della vecchia guardia a metterci ancora la faccia, vivere nel presente, a suo modo lottare per ciò in cui crede, spesso anche a scapito del risultato, facendo uscire instant album duri e spigolosi, raffazzonati, poco curati ma marchiati con il sangue. Spesso amaro. 

Questo EP di 27 minuti intitolato THE TIMES (in copertina riprende i caratteri del New York Times) contiene una versione riuscitissima, riveduta e corretta della sua vecchia 'Looking For A Leader' (uscita nel 2006 nell'album Living With War). Nei versi cambiati YOUNG canta:" non abbiamo bisogno di un leader  che costruisce muri intorno alle nostre case, che non conosce Black Lives Matter, è ora di mandarlo a casa". Trump go home in poche parole. 


Il resto è una piccola raccolta di sue canzoni di protesta estrapolate dalle Fireside Sessions (Porch Episode) con le quali Neil Young ha cercato di allietarci il lockdown. Tra le cose più rustiche, belle e riuscite  viste in quei mesi di reclusione forzata. Ci ha accompagnato nel suo ranch immerso nella natura, ripreso dalla telecamera della  compagna Daryl Hannah: una volta davanti a un falò in giardino o a un camino all'interno, sulle rive del lago della sua tenuta, dentro al pollaio, sotto alla neve o sotto il sole, in compagnia di una chitarra acustica, un'armonica o un pianoforte ha pescato vecchie e nuove canzoni dal suo passato. Per questo mini album ha scelto canzoni a tema:  le registrazioni pure e grezze, con sbagli e rumori di sottofondo, di 'Ohio' (scritta di getto dopo la morte di quattro giovani durante gli scontri tra manifestanti e polizia il 4 maggio 1970 a Kent, in Ohio), 'Alabama' e 'Southern Man' (atti d'accusa verso il razzismo degli stati del sud a cui i Lynyrd Skynyrd risposero con 'Sweet Home Alabama'), 'Campaigner' (uscita all'epoca su Decade e che molti lessero come parole di simpatia verso Nixon), la malinconica 'Little Wing' (sentita di recente in Homegrown) e di quella 'The Times They Are A-Changin' dell'amico Bob Dylan, che oltre a starci sempre bene sembra essere l'unico raggio di speranza sempre valido per il futuro. E per lui, cittadino americano da pochi mesi ma abbastanza per definire Trump "una disgrazia per il mio paese", e per milioni di americani il voto di Novembre potrebbe essere il vero preludio verso un altro avvenire.







sabato 12 settembre 2020

RECENSIONE: GRANT - LEE PHILLIPS (Lightning, Show Us Your Stuff)

 

GRANT - LEE PHILLIPS  Lightning, Show Us Your Stuff (Yep Roc Records, 2020)



"parlando con me stesso" 

Difficilmente Grant - Lee Phillips sbaglia un disco e questo, il decimo da solista, inizialmente potrebbe sembrare un primo passo falso. Ma è solo un grande abbaglio. Un po' come il fulmine che ha fatto pronunciare a sua figlia la frase diventata poi titolo del disco. Mostraci cosa sai fare. Forse tra le canzoni scorre meno impeto del solito ma no, è difficile poter dire che è un brutto disco, soprattutto dopo averlo ascoltato più volte. Assimilato. Grant -Lee Phillips sembra scegliere la ballata morbida, sfumata, tenue, come supporto alla sua ricerca tra le fragilità dell'esistenza. Un viaggio tra "le vite tranquille di persone che lottano per resistere, cercando di mantenere la dignità" dice. Lui è compreso lì dentro. Noi pure. Gran parte di noi. 

Canzoni riflessive che sembrano sbirciare più all'interno che all'esterno come invece faceva nel precedente Widdershins che si aggirava tra le brutture del mondo, quelle facili da indicare con il dito. Naturalmente è ancora pieno di gente che vede solo il dito. Confermano le sue parole: "se faccio un disco con un taglio più duro, la prossima volta voglio farne uno più morbido. Il disco che ho fatto prima di questo era davvero più un'espressione esteriore. Riguardava le cose che ci riguardano tutti nella piazza del paese. In questo album, sono andato dentro, ma sono disposto a portare tutti con me". Allora, solo due anni fa, sì chiedeva dove "stiamo andando?", qui sembra chiedersi "a che punto sono?".  Esclusa la battente 'Gather  Up', blues elettrico e trascinante con un crescendo nero e gospel venuta in dono pensando alla sua infanzia, tutte le canzoni viaggiano a mesta velocità seguendo i tasti di un pianoforte ('Mourning Dove', le immagini di 'Sometimes You Wake Up In Charleston' sono tra le più nitide, 'Coming To').  

Ci sono l'inconfondibile tocco di batteria di Jay Bellerose e il basso di Jennifer Condos ad accompagnare, lasciando ai fiati di Danny T. Levin il compito di soffiare ogni tanto sul fuoco (l'apertura 'Ain't Done Yet'  e l'altro up tempo ma nemmeno troppo), procedendo pigramente ('Straight To The Ground') e con la finale 'Walking In My Sleep' che si perde nell'infinità disegnata dalla pedal steel di Eric Heywood, e sembra un po'  riassumere il concetto base di un disco registrato in brevissimo tempo a Los Angeles, mantenendo tutto il calore della presa diretta con l'essenzialità della band: "parlando con me stesso, camminando nel mio sonno" canta in un'atmosfera riflessiva che si cala a perfezione in questi tempi incerti, costruiti su tante domande che attendono altrettante risposte.  

Intimo e rarefatto con il prezioso dono di creare immagini (scattate dalla sua mente) in cui identificarsi. Qui ci mette il cuore come sempre, lo si sente battere e camminare in ogni strofa, sicuro che dovunque ti porti la vita ci sarà sempre un'affetto ad accoglierti come canta in 'Leave A Light On', tra le migliori tracce del disco. La casa è un rifugio sicuro, un po' come lo sono diventati i dischi di Grant Lee Phillips.





martedì 8 settembre 2020

RECENSIONE: TENNESSEE JET (The Country)

TENNESSEE JET  
The Country (Thirty Tigers, 2020)
 



one man band in cerca di compagnia 

L'adolescenza di Tennessee Jet potrebbe essere uguale a quella di tanti altri ragazzini americani che grazie al lavoro dei genitori hanno potuto girare in lungo e in largo gli Stati Uniti. Sua madre e suo padre bazzicavano per rodei con un pick up Ford e i cavalli al seguito mentre ad accompagnare il susseguirsi dei paesaggi c'era sempre una radio accesa che passava Bob Dylan, Willie Nelson, Waylon Jennings e se si cambiava canale uscivano pure le chitarre '90 del grunge. Ecco che quegli ascolti hanno lasciato un segno indelebile venuto utile quando il giovane ha iniziato a imbracciare una chitarra seguendo le orme di quelli che nel frattempo erano diventati per lui importanti quanto e più dei cavalli dei rodei. 
"Una volta che ho iniziato a fare la mia musica, ho capito che anche se avessi imparato quei suoni, avrei comunque emulato qualcun altro. Ho dovuto fare musica tutta mia. Per sapere cosa puoi apportare a un genere, a volte è bene fare l'opposto di quel genere, così puoi provare quei vestiti e vedere come ti stanno. Le cose che sono autentiche per te, le conservi. Le cose che non vanno, le scarti. " racconta. 
THE COUNTRY è il suo terzo disco, il più completo musicalmente, il più country certamente. Se i primi due erano scarni e con frequenti puntate rock (TJ McFarland, ecco il suo vero nome, si esibisce come one man band dove Steve Earle sembra amoreggiare con i Black Keys), questa volta sembra guardare maggiormente al lato bucolico della sua arte, a quegli ascolti adolescenziali che lo hanno accompagnato per tanti chilometri, anche se non mancano alcune scosse elettriche: nel grunge alla Nirvana, pure un po' troppo, di 'Johnny', dedicata alla leggenda country degli anni 50 Johnny Horton, scomparso nel 1960 in un incidente stradale, investito da un ubriaco, e in 'Hands On You', tra Tom Petty e Bruce Springsteen, soprattutto. Tolte le due cover 'Pancho & Lefty', un classico di Townes Van Zandt che abbiamo sentito rifatto mille e una volta, qui con gli ospiti Elizabeth Cook, Cody Jinks e Paul Cauthen alle voci e la tromba di Brian Newman e una 'She Talks To Angels' dei Black Crowes in una versione totalmente bluegrass, altrove troviamo una buona gamma di tracce country rock. Rotolanti come l'autobiografico honky tonk d'apertura 'Stray Dogs', che sembra nascere là dove finiva 'I Want You" di Bob Dylan o ballate dall' umore nostalgico guidate da pedal steel ('Sparklin Burnin Fuse' 'The Raven & The Dove', 'Someone To You') e violini ('The Country', 'la sitaria' Off To War') accompagnate dalla stessa band che accompagna Dwight Yoakam in tour. 
Non sono sicuro che Tennessee Jet sia riuscito a dare nuova linfa al country rock come lui stesso sostiene, sicuramente il disco gira bene e senza cali di tensione. Fresco. Al giorno d'oggi sembra già una buona vittoria per non affogare dentro a cliché triti e ritriti.





venerdì 4 settembre 2020

RECENSIONE: ROSE CITY BAND (Summerlong)

ROSE CITY BAND
  Summerlong (Thrill Jockey, 2020) 





l'estate sta finendo
I Rose City Band nascono come puro divertimento, senza pretese, per riempire le pigre, a tratti noiose, serate infrasettimanali giù al locale sottocasa, ma con questa seconda uscita dal titolo Summerlong (ecco il disco colonna sonora per questa strana e folle estate) il progetto di Ripley Johnson, conosciuto per i suoi Moon Duo e i Wooden Shjips, rischia di diventare una cosa seria e compiuta, andando a tappare la fame di tutti gli orfani della scena country rock psichedelica che ha colorato la seconda metà degli anni sessanta. "Musica della mia giovinezza che è sempre stata con me e ha avuto un'enorme influenza su di me, su come penso alla musica" dice Johnson. 
Possiamo ascoltare gli originali, oppure mettere su questo sunto dei nostri giorni che sa di devoto omaggio ma che riesce a ritagliarsi anche un buon spazio di originalità, cosa rara quando si è di fronte a un periodo musicale irripetibile e non replicabile come quello. Echi di Grateful Dead (periodo American Beauty), Quicksilver Messenger, Byrds, Velvet Underground, CCR, The Band continuano a benedire queste otto canzoni per un viaggio della giusta durata di quaranta minuti che sa di gioiosa libertà creativa, dove il country imbastito di lap steel si espande nell'infinito cosmo di trame chitarristiche e linee melodiche tessute dalla fantasia compositiva di Johnson. Bastano pochi minuti per ritrovarsi a guidare nel paesaggio di copertina illuminati dalla 'Morning Light' e con una montagna davanti che ci pare la più dolce e sinuosa delle colline da accarezzare...Sveglia! Il lavoro vi aspetta!




lunedì 24 agosto 2020

RECENSIONE: ONDARA (Folk N'Roll Vol. 1: Tales Of Isolation)

ONDARA 
Folk N'Roll Vol. 1: Tales Of Isolation (Verve Forecast Records, 2020)  





racconti dal lockdown

Tre giorni per scriverle, tre giorni per registrarle, e un intero lockdown come sfogo ultimo di di ansie, paure e fonte di ispirazione. È nato così Folk N'Roll Vol. 1, Tales Of Isolation, il secondo album di JS Ondara. Già con l'esordio Tales Of America, uscito l'anno scorso aveva fatto parlare di sé, prenotando un posto tra i più interessanti giovani folk singer d'America, meritandosi una nomination al Grammy Award. Se fossimo negli anni settanta un bel "nuovo Dylan" non glielo avrebbe tolto nessuno.
Peccato che JS Ondara sia nato a Nairobi, Kenya, ventisette anni fa e la sua America sia letteralmente andato a conquistarsela con caparbietà d'altri tempi. Folgorato dall'ascolto di Freewheelin' di Bob Dylan e dalle canzoni di Jeff Buckley, Ondara iniziò a scrivere testi in inglese (non la sua lingua madre) in un foglio e disegnare melodie dentro alla sua testa, sognando di avere tra le mani quella chitarra che i suoi genitori non potevano permettersi. Nasce qui la voglia di lasciare l'Africa e coltivare il suo sogno. Vola in America per studiare musicoterapia, ma i suoi video amatoriali caricati su Youtube vengono notati. Lascia lo studio, sì trasferisce a Minneapolis, Minnesota (mica una città a caso), impara a strimpellare una chitarra e scrive testi, a centinaia, solo undici finiranno nel suo debutto, abbastanza per impressionare la critica. I risultati potete ascoltarli con facilità. 
Questo secondo disco è nato invece come forma di terapia "come sono sicuro che sia successo a tutti noi, ho scoperto che il periodo di isolamento stava logorando l'equilibrio della mia sanità mentale" racconta. A un primo periodo di blocco mentale hanno fatto seguito una valanga di parole. 
"Sono storie sulle ramificazioni di un'intera popolazione che si isola; sulle cicatrici personali, politiche ed economiche che permarranno per il resto della nostra vita per molto tempo, dopo che avremo trovato la nostra strada oltre questo"
Folk minimale: chitarra acustica, armonica ('in' Shower Song' canta a cappella con il solo battito di mani), la benedizione del primo Bob Dylan, dello Springsteen più folkie, del Paul Simon meno etnico e più urbano e di Jeff Buckley dietro e Ondara, che si lascia andare anche al falsetto, da sfogo alle sue paure cantando di disoccupati ('Pulled Out Of The Market') e lavoratori ('From Six Feet Away'), delle sempre maggiori difficoltà di tirare avanti, ampliate dalla pandemia ('Mr. Landlord'), di ingiustizie sociali ('Pyramid Justice'), finendo il disco con una serie di canzoni legate all'isolamento e a quella particolare onda emotiva che sembrava presentarsi quasi a scadenze regolari e che ci ha fatto passare dall'euforia all'esaurimento nel giro di un battito di grafici giornalieri. 
Questo disco è un piccolo documento da tramandare alle prossime generazioni: nel 2020 abbiamo vissuto il lockdown con il pesante carico di incertezze legate dietro, qualcuno è riuscito a mettere tutto in musica molto bene.





mercoledì 19 agosto 2020

RECENSIONE: MO PITNEY (Ain't Lookin' Back)

MO PITNEY
   Ain't Lookin' Back (Curb Records, 2020) 




sempre avanti

"Non guardare indietro" canta Mo Pitney, giovane cantautore dell'Illinois di casa a Nashville, classe 1993, nella title track del suo secondo disco in carriera. 
 "È una canzone sul lasciar andare il passato e trovare la capacità di guardare a un futuro luminoso attraverso la ricerca del perdono e della redenzione" dice in una intervista. 
E allora guardiamolo in faccia questo futuro. Pitney lo affronta con un disco motivazionale dove libertà, positività e redenzione ( la sua fede cristiana esce prepotente) incrociano sovente le loro strade. Il suo è un country folk, pulito e moderno ma che sa guardare al passato con rispetto e devozione, con alcuni buoni graffi elettrici. Gli ospiti presenti sono il sigillo sul suo futuro. Un disco che parte e si chiude in modo malinconico però: con 'A Music Man', riflessione folk autoconfessionale sulla musica (sembra che la sua chitarra sia una missione divina) dove spicca la presenza di Jamey Johnson e si chiude con il cupo folk con aperture gospel 'Jonas' che mette in mostra la sua visione cristiana sul mondo attraverso gli occhi di di chi affondò i chiodi sulla carne di Gesù. In mezzo ci sono belle sorprese come il bluegrass 'Old Home Place' che vede l'intervento di una fantomatica His All Star Band tra cui spiccano il mitico Marty Stuart e Ricky Skaggs, oppure il southern rock di 'Ain' t Bad For A Good Ol' Boy', il RnB di 'Local Honey', la più ammiccante e pop 'Boy Gets The Girl', la bella 'Old Stuff Better' country folk disteso su lap steel e armonica dove confessa di "essere nato vecchio". Gli si crede. Mo Pitney ha una bella penna che se lasciasse giù solo un poco di sbavatura in più sarebbe quasi perfetto. 
Certo: bisogna essere di larghe vedute e accettare la sua fede e la sua visione sul mondo.



venerdì 14 agosto 2020

RECENSIONE: DEEP PURPLE (Whoosh)

DEEP PURPLE   Whoosh (Ear Music, 2020)


liberi e felici

E quando arriva il momento  dell'acuto tu parti (anche solo con la mente per non ricevere una botta in testa dal vicino) ma quell'uomo là a centro palco non ti segue. È un po' quello che è successo qualche anno fa ad un concerto dei Deep Purple, Ian Gillan non mi veniva dietro, si fermava lì, come se la strada verso l'acuto fosse interrotta. Ma come? Questo per dire che i Deep Purple non sono più quelli di una volta ma da quando Bob Ezrin ha iniziato a prendersene cura (questa volta li ha portati a registrare a Nashville) stanno tirando fuori degli album freschi, rilassanti, a tratti scoppiettanti, ma in totale libertà musicale e stilistica, senza rincorrere il passato. 

"Semplicemente ci mettiamo a suonare, non abbiamo piani prestabiliti. Non scriviamo le canzoni dall’inizio alla fine: le suoniamo finché non si evolvono in qualcosa che sorprende noi stessi. Non ci interessa essere all’altezza delle aspettative di nessuno se non di noi stessi. Con una grande storia come la nostra, forse l’unica cosa che cerchiamo di far è non essere una parodia di noi stessi." così Roger Glover sulle pagine di Billboard Italia.

INFINITE, uscito nel 2018,con il suo tour The Long Goodbye doveva essere il canto del cigno e invece…eccoli di nuovo qua. Dopo 52 anni di carriera nessuno può permettersi di dire loro qualcosa. Questo Whoosh si presenta bene fin dalla copertina, finalmente! È tutto oliato alla perfezione nella formazione che ormai sta diventando la più longeva di sempre: Ian Gillan, Roger Glover, Ian Paice, Steve Morse e Don Airey. Le fughe barocche di Don Airey in 'Nothing At All', l'hard rock di 'No Need To Shout', 'The Long Way Round' e dell'apertura 'Throw My Bones', l'omaggio al rock'n'roll di 'What The What', la strumentale 'And The Address' piccola lezione di buon gusto pescata addirittura dall'esordio del 1968, le fughe progressive di 'Step By Step', la misteriosa 'The Power Of The Moon' sono tutte canzoni nate con gran spontaneità e con l'ancora ben lanciata nel presente. Certo, manca la hit trainante ma le tredici canzoni vanno prese tutte insieme, un calibrato mix di rock e sperimentazione che da un gruppo con più di cinquant'anni sulle spalle non ti aspetteresti più.


giovedì 6 agosto 2020

RECENSIONE: JOHN CRAIGIE (Asterisk The Universe)

JOHN CRAIGIE   Asterisk The Universe (Zabriskie Point Records & Thity Tigers, 2020)

folk senza tempo
"La mia ispirazione viene dall'interazione umana". Così John Craigie, 40 anni, cerca di spiegare la sua innata capacità di scrivere canzoni. Questo è il suo settimo disco anche se pochi lo sanno. Potrebbe essere il disco del grande salto ma penso che a Craigie interessi poco la fama quanto la libertà di espressione e movimento, lui nato a Los Angeles e cresciuto a Santa Cruz: salire sopra un palco e interagire con il pubblico, coinvolgere le persone con sarcasmo, arguzia e intelligenza. Per questo è spesso accostato al compianto John Prine. I grandi palchi li ha calpestati seguendo in tour Jack Johnson, quelli a lui più consoni aprendo per Todd Snider. Due che hanno creduto in lui prima di tutti. 
 Queste canzoni sono l'esempio del suo modo di scrivere dove umorismo, filosofia e vita di strada trovano un unico comune denominatore nel folk intriso di umori soul di marchio Motown, nei limpidi e leggeri lampi di psichedelia, sempre con l'accento sudista ben in evidenza. Asterisk The Universe, titolo che tradisce i suoi vecchi studi matematici impressi in una laurea e una copertina top - particolare da non trascurare - potrebbe essere datato 1966 come 1975, non ha importanza perché i suoi temi sono in qualche modo sempre di moda: il saper rimanere a galla tra le intemperie ('Hustle') scuotendo la voglia di rinascita ('Part Wolf'), rapporti d'amore complicati (la corale 'Don' t Ask'), stili di vita a lui consoni (la ballata dylaniana 'Nomads', semplice, pura come acqua di sorgente), la sempre carente giustizia (il soffuso funky di 'Climb Up') e storie perse nel secolo scorso come quella raccontata in una magistrale, cupa, lisergica, misteriosa e piena di riverberi 'Vallecito'. "Stavo leggendo alcune storie di sopravvivenza di esseri umani catturati in situazioni meteorologiche estreme. Una storia ebbe luogo in Colorado nei primi anni del 1900…" due viaggiatori colti da una bufera di neve si dividono i viveri di una cabina trovata per puro caso. Una convivenza che nessuno dei due aveva messo in preventivo. Riuscita. Poi fa sua la 'Crazy Mama' di J. J. Cale, avvolta in una atmosfera da piccolo pub fumoso senza la necessità di tagliare qualche parola da studio prima dell'esecuzione. Mentre in 'Don' t Deny' esce tutto il Bob Dylan che ha dentro, tanto da sembrare una buona outtake dei Basement Tapes con il fiato di tutta la Band dietro. Per portare a termine la sua opera si avvale di pochi ma fidati amici come le Rainbow Girls (il disco è stato registrato a casa loro in Nord California e in 'Used It All Up' si impossessato della scena per qualche minuto), Jamie Coffis dei Coffis Brothers con il suo presente Wurlitzer, Lorenzo Loera dei California Honeydrops e Ben Barry della Old Soul Orchestra. 
 Folk senza tempo, così come dev'essere. John Craigie ci vive immerso, comodamente a proprio agio.




domenica 2 agosto 2020

DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA # 84: NEIL YOUNG + CRAZY HORSE (Ragged Glory)

NEIL YOUNG + CRAZY HORSE  Ragged Glory (Reprise, 1990)





love and only love
"Attaccavo la Old Black, accendevo gli amplificatori e una canna, poi iniziavo a suonare e scrivere". Così Neil Young racconta la genesi di Ragged Glory tra le pagine della sua autobiografia e vi giuro io dentro a quella foto di copertina con effetto fish eye avrei voluto starci durante le poche settimane nelle quali prese forma questo ritorno elettrico con i Crazy Horse (Frank Sampedro, Ralph Molina, Billy Talbot). Mi sarei messo in un angolo, seduto con le gambe incrociate sopra a un tappeto, con tutta la consapevolezza di sottoporre le mie orecchie a un grande rischio. Sì proprio quel tappeto a destra che si vede in copertina. Non avrei disturbato nessuno. Giuro. 
Il fienile del ranch fu adibito da studio di registrazione con assi di compensato e attrezzature analogiche anche se David Briggs chiese e ottenne anche uno studio mobile da mettere in cortile. I Crazy Horse furono sottoposti a un tour de force tremendo. Non ci si fermava mai, le canzoni fluivano in continuazione e solo alla fine vennero ascoltate. Era lo spirito da vecchia garage band a prevalere e guidare le sedute e in quel campo i Crazy Horse avevano pochi rivali. Il paragone con Everybody Knows This Is Nowhere e sempre lì dietro l'angolo. 
"Ragged Glory è l'unico disco in cui suonammo tutta la scaletta due volte al giorno senza mai riascoltare le registrazioni, ma sempre prendendo nota di come ci sembrava la musica". 
Anche se Neil Young dice di aver scritto canzoni, come sempre alcune le pesca dal suo cassetto eternamente traboccante del passato: dall'annata 1975 tira fuori l'uno due iniziale formato da 'Country Home' e una superba 'White Line' che avanza come un carrarmato ( così diversa dalla prima versione uscita recentemente su Homegrown) dai canzonieri altrui ruba una cialtronesca 'Farmer John' scritta da Dewey Terry e Don Harris a metà anni sessanta per i Premiers, a conclusione del disco piazza una registrazione live di 'Mother Earth (Natural Anthem)' nata sulla melodia di un vecchio traditional britannico, eseguita al Farm Aid come "un trip", tanto per ricordare il suo impegno ecologista. 

Ma qui dentro non sono importanti tanto le parole quanto la musica e le chitarre elettriche ti imprigionano in un continuo e incessante assalto dominato da feedback e assoli. Tanto forti da confondere il tremolio dei feedback con un vero terremoto che si abbatté sulla California in quei giorni di registrazione, "stavamo facendo surf sul terremoto" dirà. 
I Crazy Horse non guardano l'orologio e tre canzoni vanno oltre gli otto minuti ('Love To Burn', 'Over And Over' e 'Love And Only Love') e 'Fuckin' Up' ( o 'F*! # in' Up' come venne stampata per non incorrere nella censura) rimane il migliore dei biglietti da visita per presentarsi al nuovo decennio alle porte. Tanto che Kurt Loder nella sua recensione per Rolling Stone del 20 Settembre 1990 scrisse:"Fuckin' Up farebbe strinare i ricci di una qualunque combriccola di metallari correntemente in classifica". Tutti avvertiti! 

"Finito l’album andammo in tour con i Sonic Youth e i Social Distortion. Era un gran cartellone, la gente vedeva un vero spettacolo. Era potente”, ecco la chiusura del cerchio. 
In 'Days That Used To Be' cita, ruba, omaggia (ma poi chi se ne frega) 'My Back Pages' di Dylan e una generazione tutta (irripetibile aggiungo io), in 'Mansion On The Hill' canta "una musica psichedelica riempie l'aria, pace e amore vivono ancora là", rendendo bene l'idea di come questo disco sia nato, un mix di aria agreste su tonnellate di ampli caldi e fumanti.
"Un giorno stavamo ascoltando i brani e arrivò ‘Mansion On The Hill’. Era un brano sporco, ma aveva tiro. Chiesi a David di farmelo ascoltare ancora. David disse a Hanlon: ascoltiamolo in tutta la sua Ragged Glory, la sua gloria stracciona". 
Così arrivò anche il titolo di un disco che anticipò la vera esplosione del grunge di pochi mesi. Non fu certamente un caso. 
Le session furono talmente  prolifiche che canzoni straordinarie come 'Don' t Spoke The Horse' (uscita come b side dell'unico singolo 'Mansion On The Hill'), una "versione condensata dell'album" dirà Neil, 
'Born To Run' e 'Interstate' furono lasciate fuori. Intanto stiamo aspettando la  più volte annunciata ristampa ampliata con inediti. Tra i miei dischi top di Neil Young, Ragged Glory c'è sempre. Ora ho le orecchie che sanguinano e il tappeto è tutto macchiato.




martedì 28 luglio 2020

RECENSIONE: SEASICK STEVE (Love&Peace)

SEASICK STEVE  Love & Peace (Countagious Records, 2020)





summer of love
Se fino a qualche anno fa la sua vita era ancora avvolta da un denso e affascinante fumo di mistero (date di nascita, vecchi lavori, amori e collaborazioni), ora di lui sappiamo vita e miracoli, la morte lasciamola ancora da parte per ora, altrimenti quelle dita in copertina potrebbe trasformarsi velocemente in un dito medio alzato al mio indirizzo. E avrebbe tutte le ragioni, altro che pace e amore. Con i suoi 69 anni, Seasick Steve questa volta sembra volgere lo sguardo indietro a un'epoca che lo vide protagonista per trovare la giusta e semplice soluzione a questo mondo che corre al rovescio: l'apertura 'Love & Peace' è subito lì anticipata da un discorso distorto del nostro, pace e amore per tutti, citando perfino 'Come Togheter' dei Beatles in un passaggio e cantando: "dobbiamo fermare l'odio adesso, restituire l'amore e la pace". Tutto molto chiaro e limpido come il personaggio. Poca filosofia e tanta strada di vita vissuta sotto gli stivali e sulle ruote di un sempre affidabile trattore John Deere.
 Un ritorno ai figli dei fiori e alla Summer Of Love. Che il buon Steve dopo dieci album non si sia ancora montato la testa lo dimostra un blues autobiografico che sbuffa, con tanto di armonica, alla vecchia maniera come 'Regular Man' e il modo con il quale sono state registrate queste dodici canzoni: su nastro analogico 2 pollici, grezze e pure con il solito aiuto del fidato batterista Dan Magnusson e un paio di ospiti come Luther Dickinson (chitarra dei North Mississippi Allstars) e dell'armonicista Malcolm Arison (BossHoss). Grezzo e ruvido sì ('Toes In The Mud') ma ormai conosciamo bene anche il suo cuore romantico (le lente e notturne 'I Will Do For You' e 'My Woman'), i dipinti country e rurali ancorati nel suo passato ricamati dalla slide che sembrano uscire da altre epoche in 'Carni Days', il forte e chiaro messaggio di indipendenza di ' Church Of Me' con la sua esplosione, il boogie polveroso di 'Ain' t Like The Boogie', la mappa on the road tracciata con 'Travelling Man', finendo con una 'Mercy', acustica e confidenziale.
 In 'Church Of Me' canta " devi essere solo te stesso, è tutto quello che devi fare". Un consiglio semplice semplice ma che spesso dimentichiamo inseguendo aspettative a volte fin troppo alte che ci distolgono dal vivere al meglio il presente. Lo sa bene Seasick Steve che arrivato al decimo album in carriera continua a fare la sua vecchia musica di sempre, che non stupirà più come qualche anno fa ma la sua attitudine e la sua generosità sopperiscono ancora molto bene a tutto quel poco che non troverete più.
Love & Peace a tutti.






RECENSIONE: SEASICK STEVE- Sonic Soul Surfer (2015)
RECENSIONE: SEASICK STEVE - Hubcap Music (2013)
RECENSIONE: SEASICK STEVE - You Can't Teach An Old Dog New Tricks (2011)



giovedì 23 luglio 2020

RECENSIONE: THE TEXAS GENTLEMEN (Floor It !!!)

 THE TEXAS GENTLEMEN  Floor It!!! (New West, 2020)







io scommetto su questi gentiluomini

"Non ci sono vincoli su ciò che facciamo".
E allora vi consiglio di prendervi un'oretta di svago con questi gentiluomini del Texas al loro secondo album: un elegante e ruspante miscuglio di american music, aperto, veramente senza vincoli, vintage e moderno allo stesso tempo. Canzoni che cambiano continuamente umore, un minuto prima sono da una parte, quello dopo dalla parte opposta pur tenendosi sempre sotto controllo con lo sguardo. A proposito di vista, occhio alla confezione che diventa gioco da tavolo.
Dal Dixieland con aperture jazzate che richiama gli anni trenta al cosmic country dei settanta, dal southern rock al gospel soul, dal country al pop beatlesiano di sponda McCartney, dal funky con tanto di fiati alle divagazioni di stampo progressive. Potrete incontrare i Little Feat che parlano con The Band, Sly Stone che discute con Elton John, i Meters che sussurrano qualcosa agli Steely Dan, a volte pure nella stessa canzone e nessuno sembra fare la voce grossa per prevalere. 
Sono invece due le voci che si alternano, quella di Nik Lee (chitarra) e quella di Daniel Creamer (tastiere), poi ci sono Ryan Ake (chitarra), Scott Edgar Lee (bassista) e il batterista Aaron Haynes. Tutta l'esperienza passata dei musicisti in altri e diversi progetti (qualcuno di loro ha suonato per Kris Kristofferson) è stata inglobata in mille direzioni imprevedibili in un album poco catalogabile ma in grado di farsi strada per originalità e pazzia compositiva.
"Siamo un gruppo di cinque persone e quando ci sentite suonare sentirete l'influenza di cinque diversi musicisti che lavorano insieme come un'unica unità".
Una colonna sonora (molte sono le parti strumentali) per un film musicale che solo delle inguaribili teste "malate di musica" riuscirebbero a produrre. I Texas Gentlemen sono dei campioni: si meriterebbero il ricovero immediato per questo. Qui butto la mia scommessa: potrebbero presto guadagnarsi un posto tra i migliori (e più folli) musicisti americani sulla piazza oggi. A meno che già non lo siano.






lunedì 20 luglio 2020

RECENSIONE: LUCA ROVINI (10 Canzoni Per Dipingere Il Cielo)


LUCA ROVINI 10 Canzoni Per Dipingere Il Cielo (2020)




lockdown blues

"Ho cercato di fare del mio meglio con i mezzi che avevo", così Luca Rovini ha risposto con somma umiltà ai miei complimenti in privato. Avevo scaricato il file che mi aveva spedito ma ho aspettato di avere in mano qualcosa come il più inguaribile e vecchio romantico degli ascoltatori di musica. Siamo o non siamo anziani aggrappati alle nostre vecchie e sane abitudini? Luca non ha stampato molte copie di questo album, forse ha fatto male, perché queste dieci canzoni, queste dieci ballate acustiche sono pure, genuine, sincere, romantiche, evocative, suonate bene e senza fronzoli con le sue chitarre acustiche e il solo aiuto di Paolo Ercoli al mandolino e dobro, e hanno la potentissima forza di arrivare. Al cuore soprattutto.
Folk minimale con buoni intrecci di chitarre, che si sposta tra le rose romantiche e la polvere della strada dell'iniziale 'Dove Il Cielo Bacia Il Mare', passa attraverso un sentito omaggio al padre in 'Dipingere Il Cielo', tocca Blackie Farrell con la sua 'Sonora' s Death Row' (l'unica cover del disco che però il cantautore pisano ha trasformato in italiano naturalmente) e poi arriva pure al suo amato Dylan con i tanti personaggi che popolano '176esimo Sogno Di Luca Rovini' e con 'La Strada Di Una Gangster' portata a casa con sola chitarra e armonica.
"10 Canzoni Per Dipingere Il Cielo" è un album nato un po' per caso in pieno lockdown, Luca era chiuso in casa come tutti noi, lontano dalla sua band elettrica (i Companeros), lontano dal suo amore. Ecco, ascoltandolo più volte, mi si sono arrossati gli occhi. E Luca sa il perché.



martedì 14 luglio 2020

RECENSIONE: STEVE RUDIVELLI (Metropolitan Chewingum)

STEVE RUDIVELLI  Metropolitan Chewingum (autoproduzione, 2020)





"Ma io sono un tipo strano voglio fare la rockstar tra Vimercate e Monza e un vecchio bar o a Conco Beach…" 
In queste parole estrapolate dalla canzone 'Conco Beach' c'è un po' tutto l'immaginario ruspante e nostrano di Steve Rudivelli, il rocker brianzolo che sfugge a qualunque definizione e come dice lui stesso non sarebbe quello che è se lo portaste a New York, anche se masticando una gomma "sogna Brooklyn".
Ho conosciuto Steve un po' in ritardo con il precedente disco Brianza Texas Radio uscito due anni fa che faceva il punto della sua carriera.
Questo nuovo disco in qualche modo l'ho visto nascere durante i tre mesi di lockdown con scambi di messaggi e file, per questo suo coinvolgermi gli sono grato. Rudivelli come tanti ha scritto molto materiale e questo sembra solo il primo di una serie. 'Milano China Town' nasce lì, dentro alla sua camera in pieno lockdown con le porte chiuse a tutto.
Steve è un operaio del rock'n'roll, che sgobba di notte per diventare un cowboy di provincia di giorno ma è proprio quando il sole tramonta che prendono vita le sue storie, sopra al bancone di un bar, davanti a qualche bicchiere dove anche il più apparente non sense prende forme concrete, dove le figure femminili si materializzano con tutte le loro curve e i loro giochetti (nell'apertura 'Metropolitan Chewingum' presente anche in una seconda versione come bonus insieme a 'Ieri Un Lupo').
Voce, chitarra acustica, armonica, nessun ampli, nessun microfono, tutto diretto, qualche chitarra elettrica aggiunta da Andy D, una viola suonata da Bryan Kazzaniga, queste dieci ballate  mettono in fila il suo micromondo dove il giovane Bob Dylan sembra materializzarsi aldilà del "Lambro river" ('Lilly Montomery') oppure ricomparire in mezza età nella notturna 'Hotel La Principessa' che ci catapulta tra Desire e Oh Mercy, dove anche il primo Vinicio Capossella  in 'Pappagallo Blu' sembra apparire come in un sogno caraibico, dove i perdenti e i falliti ('Jolly Man') cavalcano la periferia di provincia come fosse la prateria del vecchio West, dove nel non sense di  'Din Don Dan' gioca a fare Lou Reed e 'Pandcat' è una filastrocca da ripetere prima di addormentarsi.
Quando le luci si spengono e anche la luna va a dormire, la voce di Steve ci saluta con un  "buona notte rockers".




RECENSIONE: STEVE RUDIVELLI- Brianza Texas Radio (2018)


venerdì 10 luglio 2020

RECENSIONE: THERAPY? (Greatest Hits-The Abbey Road Session)

THERAPY?   Greatest Hits - The Abbey Road Session (2020)





 welcome to the church of noise 
A parte un paio di stagioni trascorse con tutti gli onori e gli oneri della cronaca (il biennio 1994-1995, con TROUBLEGUM e INFERNAL LOVE sul podio non solo della loro carriera ma tra i dischi più influenti del decennio dei novanta per il rock alternativo), i nord irlandesi THERAPY? non hanno mai raccolto tutto quello che avrebbero meritato in popolarità. E quando penso a quegli anni e a certi gruppi britannici in cima al mondo, senza trovare i Therapy?, un po' mi incazzo. Troppo scomodi e inclassificabili. Oggi, però, a differenza di tanti altri compagni di viaggio persi per le tortuose strade degli anni trascorsi o magari alle prese con improbabili reunion, sono ancora qui a girare per i palchi di tutto il mondo, grandi e piccoli, guidati dalla inseparabile coppia-unita saldamente da una vera e palpabile amicizia- formata da Andy Cairns e Michael McKeegan, a proporre la loro carriera in musica che non si è mai fermata di fronte a nulla: più forti dei cambi di formazione (batteristi che vanno e vengono, formazione a tre che diventa a quattro e poi di nuovo trio), mode musicali passeggere, attentati, crisi economiche mondiali e pandemie incluse e la vita. Andy Cairns ne sa qualcosa. Una certezza, tanto che il punto interrogativo alla fine del loro nome andrebbe trasformato in esclamativo e sottolineato in neretto. Uno di quei gruppi a cui ti affezioni in giovane età e che non molli più, seguendo fedelmente la loro bizzarra vena creativa che si contorce come una montagna russa senza mai fine. Una band che avrebbe potuto costruire una carriera su hits come ‘Nowhere’, ‘Screamager’ o ‘Stories’ e che invece ha proseguito a testa bassa, andando spesso incontro alla cieca critica che li dava per morti quando invece di continuare a sfornare singoli, si avventurarono in percorsi musicali più ostici e meno immediati, voltando lo sguardo a ritroso verso i loro esordi industrial/noise rumoristi, scatenando pure le ire delle loro case discografiche. Spigolosi e accomodanti quando serve: dai dischi più melodici e rock'n'roll (SHAMELESS-2001, HIGH Anxiety-2003) ai quelli ostici e poco penetrabili (SUICIDE PACT YOU FIRST-1999, CROOKED Timber-2009 fino al buon CLEAVE di due anni fa) il tutto senza farsi influenzare da mode musicali e lontano da qualsiasi catalogazione. E forse sta lì la loro disgrazia: quando alternative rock, noise, post punk, grunge, industrial, metal si ritrovano in un solo gruppo, il rischio è quello di spiazzare e confondere.. L'uscita di questa atipica raccolta in un momento così nefasto per l'umanità sembra solo confermare il trend della loro carriera. Andy Cairns, Michael McKeegan e Neil Cooper prendono dodici canzoni del loro repertorio (da 'Teethgrinder' a 'Opal Mantra' passando per 'Loose', 'Church Of Noise' 'Diane' (la cover dei mentori Husker Du) fino a una 'Die Laughing' insieme a James Dean Bradfield dei Manic Street Preachers e le risuonano nude e crude live agli Abbey Road Studios insieme al fido produttore Chris Sheldon. Nulla di nuovo, solo un altro segnale che i Therapy? ci sono sempre e lottano insieme a noi. Esiste anche una versione con un CD in più che raccoglie altre canzoni registrate live tra il 1990 e il 2020.