lunedì 29 giugno 2020

RECENSIONE: RAY LAMONTAGNE (Monovision)

RAY LAMONTAGNE  Monovision (RCA Records, 2020)




nudo, puro, libero e solitario
Ultimamente ci aveva abituato ad album sempre più coraggiosi con produttori dal nome importante, ricchi e sfaccettati che si spingevano in territori psichedelici e sperimentali (prima Supernova poi il culmine in Ouroboros del 2016), quasi pinkfloydiani e con la voce spesso sacrificata, ma questa volta Ray Lamontagne per il suo ottavo album sembra veramente essersi stancato di tutti i contorni che girano intorno alla musica. Si sveste completamente, ritorna in terra e in qualche modo riparte da Trouble (forse irraggiungibile per l'intensità delle canzoni), il suo primo album uscito nel 2004 quando l'età bussava già ai trenta e lavorare in una fabbrica di scarpe prima e da carpentiere poi erano stati i suo maggior impegni fino a quel momento.
È un ritorno all'essenzialità primordiale della folk music bagnata dal soul e per farlo sembra fidarsi solo di una persona che conosce meglio di tante altre: sé stesso. Qualcosa lo aveva già anticipato nel precedente Part Of Light uscito nel 2018 ma qui estremizza ancor di più la sua voglia di libertà compositiva. Scrive, canta - con quella voce inconfondibile tanto profonda quanto inarrivabile - suona tutti gli strumenti e si produce. Un dialogo con sé stesso senza interferenze esterne.
"È stato un processo di apprendimento, ma è stato stimolante, divertente, tutto allo stesso tempo. Essere colui che sceglie il microfono e lo posiziona nel punto desiderato per ottenere quel suono. Mi piace lavorare sulle cose" ha raccontato al sito americansongwriter.
Inizia con l'arpeggio di 'Roll Me Mama, Roll Me' che sembra addirittura chiamare in causa i fantasmi dei Led Zeppelin più bucolici mentre la sua voce si inerpica su tonalità black. Non ci sono trucchi e inganni da studio di registrazione (a parte che fa tutto lui, naturalmente), tutto esce limpido e puro come il trascorrere dei giorni della sua vita nella fattoria nel Massachusetts insieme alla compagna di sempre. Come in 'I Was Born To Love You', ballata acustica in puro stile west coast con una elettrica a ricamare dietro e richiamare il suo primo idolo Stephen Stills e quel disco Still Alone che lo fece correre al primo negozio di strumenti musicali per acquistare la prima chitarra, come nella delicata 'Summer Clouds' che dietro alle nubi pare di intravedere gli illuminati sixties di Tim Buckley, mentre in 'Weeping Willow' con la voce doppiata con un multitraccia gli anni sessanta sono quelli dei grandi gruppi vocali come Everly Brothers e Simon And Garfunkel, mentre l'armonica potrebbe fare di 'We'll Make It Through' una delle tante canzoni perdute di Neil Young degli anni giusti. 'Rocky Mountain Healin' è un omaggio a John Denver già dal titolo, country arioso e malinconico che fa pace con la natura del Colorado.
Il ritmo, ereditato da John Fogerty, aumenta in 'Strong Enough' quasi autobiografica nel raccontare la forza di una madre single che cresce da sola i propri figli (sua madre lo era dopo che il padre alcolizzato li abbandonò, cambia solo il luogo: il Maine), in 'Misty Morning Rain' invece c'è tutto il Van Morrison, tanto, che si nasconde dentro di lui. Il disco si chiude nel dolce amaro e malinconico viaggio di 'Highway To The Sun' dove canta "voglio solo provare qualcosa di reale prima di morire".
Intanto lo fa provare a noi: qui tutto è reale, nessun trucco, nessun inganno. Lunga vita a lui e a noi tutti. Ben tornato sulla terra.









giovedì 25 giugno 2020

RECENSIONE: COUNTRY WESTERNS (Country Westerns)

COUNTRY WESTERNS 
 Country Westerns (Fat Possum Records, 2020)





l'ultima scommessa di David Berman

Non fatevi ingannare troppo dal nome, nel suono dei Country Westerns si nascondono le chitarre, i germi e l'influenza di gruppi come Replacements, Green On Red, Dream Syndicate o meglio ancora dei Drive By Truckers, the Bottle Rockets, dei Son Volt, o i Lucero più recenti, piuttosto che paglia, violini, banjo, mandolini e sterco da ranch di campagna.
Un suono minimale ereditato dal punk rock ma caldo e completo come sapeva essere certo indie rock americano degli anni ottanta. Come spiega bene il loro produttore Matt Sweeney "l'idea era di catturare l'urgenza del loro spettacolo dal vivo". La missione sembra riuscita molto bene.
Anche se nati proprio a Nashville nel 2016, dall' incontro tra il chitarrista Joseph Plunket dei The Weight (che nella città del country ci era andato per aprire un bar) e il batterista ma anche attore Brian Kotzur con un passato nei Silver Jews. Dopo mesi di prove dentro al garage di Kotzur, la vera svolta arrivò proprio grazie al l'intuizione del compianto David Berman che si innamorò di loro li spedì a New York dove incontrarono il produttore Matt Sweeney. Le canzoni iniziano a prendere forma fino a diventare realtà quando entra in formazione Sabrina Rush al basso, musicista che fino ad allora aveva sempre suonato il violino nei State Champion.
Il risultato sono queste dodici brevi canzoni, dirette e ruvide ma anche evocative nei testi dove lo spirito dell'indie rock americano, il paisley sound e l'americana trovano una via comune tra l'asperità di chitarre tarate in stile Crazy Horse (riff e assoli), il calore delle radici americane strappate come i Old 97's sapevano fare e la voce ruvida ma calda di Plunket che spesso mi ricorda il miglior Ben Nichols dei Lucero. L'iniziale 'Anytime' è un buon lasciapassare che detta l'anima di questo debutto, passando per 'Times To Tunnels' e una 'I' m Not Ready' che il cantante presenta così "nessuno ci accuserà mai di essere una band Kraut rock, ma i dischi dei Can, Neu, Harmonia e Amon Duul II ecc. Sono sempre vicini al mio giradischi. Il nostro batterista Brian Kotzur è in grado di fare un perfetto motorik tutto il giorno. Volevamo solo un po' di quella sensazione per questa traccia", anche se poi il tutto si conclude quasi ironicamente con 'Two Characters In Search Of A Country Song'.
Una band da tenere d'occhio e certamente uno dei debutti dell'anno a certe latitudini rock.





martedì 23 giugno 2020

RECENSIONE: ANDREA VAN CLEEF (Q Sessions Vol.2, Johhny Cash Tribute)

ANDREA VAN CLEEF   Q Sessions Vol. 2, Johnny Cash Tribute (2020)



Durante il lockdown dai nostri bollenti schermi abbiamo visto e assistito di tutto da parte di cantanti solitari, imbonitori, band, rockstar e cantanti improvvisati.
Alcune cose sono capitate davanti ai nostri occhi a sorpresa (le scenette di Robert Fripp e consorte), altre stavano avvenendo di nascosto (registrazione di nuovi interi album). Abbiamo visto i Rolling Stones suonare separatamente ognuno dalla propria casa (anche un nuovo singolo per loro), Bob Dylan regalarci alcune canzoni inedite piovute dal nulla dopo otto anni di silenzio (ecco un nuovo disco nelle nostre mani!), Neil Young suonare antiche canzoni alla vecchia maniera in mezzo al fienile del suo ranch con cani e galline come unici spettatori, artisti di tutti i generi improvvisare concerti in diretta streaming. Quelli di Jesse Malin li ho apprezzati più di altri. Nel frattempo c'era anche modo da parte loro di raccimolare qualche soldo donato dai fan. Il loro settore è stato, e lo è ancora-lo sappiamo tutti o quasi, il più colpito.
Il bresciano Andrea Van Cleef ha vinto una iniziale riluttanza e si è prestato alle dirette streaming con molta parsimonia e la consueta dedizione, proponendo set a tema e assecondando anche richieste. Il set dedicato a Johnny Cash è stato certamente uno dei più riusciti. Da qui, credo, l'idea di farne un vero e proprio disco  di ben dodici canzoni pescate dallo sterminato repertorio di Johnny Cash. Si va da 'I`m An Old Cowhand' alle American Recordings di 'Rusty Cage', 'Hurt', '13' e 'Personal Jesus' passando per le immancabili 'Ring Of Fire', 'I Walk The Line', 'Cry Cry Cry' e 'Folsom Prison Blues'.
Chi già conosce Andrea, sa quanto il suo timbro vocale ben si adatti al 'man in black' così come si adattava alla vocalità di Mark Sandman dei Morphine, gruppo che qualche anno fa "coverizzava" in modo sublime. Ecco proprio quel timbro lì, senza sforzarsi o cadere in ridicole parodie.
Ma c'è di più, perché allentato il lockdown, Andrea ha pensato di personalizzare e  colorare la sua performance registrata il 21 Maggio da casa sua nel bel pieno di un trasloco con alcuni overdub aggiunti da lui successivamente (percussioni, synth e chitarra elettrica) e gentilmente altri offerti da amici musicisti: Pietro Ettore Gozzini  ci ha messo il suo double bass, Marcello Milanese e Diego Potron  le loro chitarre elettriche, Ottavia Brown (voce) e Matteo Rossetti (piano) intervengono in una riuscitissima versione di 'Jackson'.
Per chi volesse ascoltare queste dodici tracce presentate da una copertina che più vintage non si può (vi ricordate la serie Linea tre?), potrà farlo acquistandole all'indirizzo PayPal qui sotto. Attenzione c'è tempo fino a fine mese di Giugno.  PayPal.me/andreavancleef
Naturalmente siete tutti invitati a scoprire Andrea Van Cleef attraverso i suoi dischi solisti (l'ultimo disco pre Covid che acquistai fu proprio il suo cofanetto con il nuovo progetto Fuzz Resistance) e a quelli con la band Humulus se amate anche sonorità più dure e stoner. La loro ultima fatica discografica  The Deep è una delle tante vittime del lockdown ma i ragazzi avranno modo di presentarla ugualmente come si deve nei prossimi mesi.



RECENSIONE: ANDREA VAN CLEEF- Tropic Of Nowhere (2018)
RECENSIONE: HUMULUS-The Deep (2020)


sabato 20 giugno 2020

RECENSIONE: SUPERDOWNHOME (Blues Case Scenario)

SUPERDOWNHOME
   Blues Case Scenario (Warner, 2020)



un salto in major
Di loro ho ampiamente parlato in occasione dell'uscita dei precedenti tre dischi. (Sotto vi lascio i link). 
Si potrebbe liquidare tutto con: questa è una semplice raccolta, esercizio di routine per tracciare un primo bilancio di carriera (ancora breve ma concentrata e intensa) o buona esca per attirare nuovi adepti dentro alle maglie della loro rete blues intrecciata sapientemente con suoni grezzi e viscerali, entusiasmo da eterni debuttanti e esperienza da carta di identità che canta e che conta e ancora tanta voglia di shakerare il blues con il rock a loro somiglianza. 
Invece no, perché, ancora una volta nell'arco di brevissimo tempo il duo bresciano composto da Beppe Facchetti e Enrico Sauda ha fatto passi da gigante, coadiuvato da Slang Music e Giancarlo Trenti che li hanno condotti verso uno step inizialmente inaspettato. 
Dall'uscita del precedente Get My Demons Straight, hanno infilato uno dietro l'altro due colpi da gran giocolieri che potrebbero portarli  verso risultati ancor più sorprendenti in futuro: in Gennaio anche se sembra già un secolo fa, in tempo massimo pre Covid, sono riusciti a partecipare all'International Blues Challenge a Memphis in rappresentanza del blues made in Italy, riuscendo anche a girare gli States per sondare il terreno, allacciando nuove amicizie e prenotando nuove future collaborazioni che certamente segneranno il prossimo disco. 
Lì è uscita anche la bella copertina, opera del fido Ronnie Amighetti
Il lockdown ha invece portato la notizia del contratto con la major Warner e il risultato è questo vinile (un regalo, un premio meritato, un oggetto da collezione, chiamatelo come volete ma è una cosa figa e ben fatta), uscito per questo Record Store Day estivo, nipote di quello primaverile vittima pure lui del lockdown come se i dischi non avessero già troppi problemi loro: dieci canzoni prodotte da Marco Franzoni e scelte dal loro repertorio, rimasterizzate per l'occasione e ben rappresentative del loro approccio alla musica dove la tradizione e il presente giocano a carte allo stesso tavolo. Nessuno ha la meglio sull'altro ma tutti giocano per vincere. 
Naturalmente i nomi di Charlie Musselwhite e Poppa Chubby incastrati dentro alle parentesi come featuring sono un sigillo di qualità che non tutti possono permettersi ma l'esplosione che avviene posando la puntina dello stereo sul nero vinile è il vero valore aggiunto del duo che non vede l'ora di tornare sopra a un palco. E chi li ha già visti all'opera sa cosa aspettarsi.

curelli enzo




mercoledì 17 giugno 2020

RECENSIONE: NEIL YOUNG (Homegrown)

NEIL YOUNG     Homegrown  (Reprise Records, 1975/2020)




affetti personali

Chissà se quella notte al Chateau Marmont Hotel di Hollywood, al bungalow Belushi, come lo chiama Neil Young e come è conosciuto dopo la scomparsa di John Belushi avvenuta il 5 Marzo del 1982 proprio tra quelle mura per overdose, girava la stessa "roba" presente durante le registrazioni di Tonight's The Night avvenute circa un anno prima sotto l'effetto di tequila Jose Cuevo e chissà quali altre corroboranti sostanze? In quel hotel star, rockstar e presunte tali andavano per sballarsi. Luogo di incontri tra simili: tutto era lecito, tutto era consentito.
Tonight's The Night, un album (che album!) registrato e messo da parte per tempi migliori che non tarderanno troppo ad arrivare. In quei mesi a cavallo tra il 1974 e il 1975 Neil Young è un fiume in piena di ispirazione, difficile stare dietro alla sua vena creativa, ingrossata a dismisura di umori, di alti e bassi in continua e rapida successione. La vita lo mette continuamente  di fronte a prove da superare. E lui scrive, collabora, registra.

"Sembrava che ogni giorno avessi una nuova canzone. Con tutti i cambiamenti che stavano avvenendo nella mia vita, scrivevo canzoni quotidianamente trasformandoli in qualcosa. Considero sempre le vicende della vita come fonte di ispirazione".




Dentro alle bobine di Tonight's The Night già registrato riposavano i fantasmi di Danny Whitten (scomparso il 18 Novembre del 1972) e Bruce Berry (il roadie scomparso il 4 Giugno del 1973), gli amici volati via troppo presto. Aveva appena pubblicato On The Beach ma quella notte al bungalow Belushi voleva far ascoltare ai suoi amici, quelli ancora in vita, altre nuove canzoni che aveva appena registrato. Canzoni dall'impronta acustica, country, "molto personali" come dirà, più vicine ad Harvest piuttosto che al blues tinto di nero che inquina  la spiaggia di On The Beach, l'ultimo album inciso, uscito nel 1974. Con lui nella stanza ci sono Ben Keith e tanti musicisti tra cui Rick Danko della Band. Ascoltano tutte le nuove canzoni che Young aveva catalogato sotto il titolo Homegrown, poi i nastri continuano la loro corsa e in rapida successione partono le canzoni di Tonight's The Night, quell'album messo da parte. La storia è tutta nella sentenza di Rick Danko: "dovresti farlo uscire! Che diavolo è?" riferendosi all'ultimo blocco di canzoni ascoltate. In quel periodo Neil Young aveva preso in affitto una casa a Broad Beach Road vicino a Zuma Beach ed era entrato in contatto con Danko e Levon Helm che con tutta la Band (con la maiuscola davanti) trascorrevano molto tempo nello studio di registrazione che si erano costruiti poco lontano.
Ecco: dopo la sentenza di Danko, le canzoni di Homegrown che erano già state impacchettate dentro una copertina pronte per invadere il mercato, iniziano una loro seconda vita fatta di scatole, polvere e scaffali.

"Così l`ho tenuto per me, nascosto nel caveau, sullo scaffale, in fondo alla mia mente.... ma avrei dovuto condividerlo. In realtà è bellissimo" sono le recenti parole di Neil Young.

Tonight's The Night uscirà il 20 Giugno del 1975.


Le canzoni che componevano Homegrown erano invece tante, visto che in origine doveva essere un doppio album. Tante di loro finiranno su album seguenti, alcune faranno capolino solo in concerto, altre vedono la luce solo ora. Finalmente! Altre ancora chissà quando?
Registrate tra il Broken Arrow Ranch, al Quadrafonic Sound Studios di Nashville e al Village Recorders di Los Angeles, sotto la produzione di Elliot Mazer e Ben Keith con l'accompagnamento di musicisti come lo stesso Ben Keith (steel guitar), Tim Drummond (basso), Levon Helm e Karl Himmel alla batteria.
Le canzoni già pubblicate ufficialmente in precedenza le conosciamo tutti, anche se alcune differiscono dalle versioni già pubblicate: 'Love Is A Rose', suonata dal solo Young insieme al basso di Drummond vedrà la luce su Decade, il prezioso greatest hits uscito nell'Ottobre del 1977, la lap slide di Ben Keith che guida una versione più grezza ed elettrica della già conosciuta 'Homegrown', un non troppo velato invito alla coltivazione casalinga di "erbe miracolose" finirà insieme alla ballata acustica 'Star Of Bethlehem', impreziosita dall'intervento di Emmylou Harris, su American Stars 'N Bars (1977), il delicato quadretto acustico, chitarra e armonica, di 'Little Wing' l'abbiamo già ascoltata su Hawks And Doves (1980), mentre 'White Line' rimpolperà Ragged Glory ma qui possiamo ascoltarla in una inedita versione registrata ai Ramport Studios di Londra insieme ai ricami chitarristici di  Robbie Robertson, certamente tra le migliori tracce del disco.

Il disco inizia con una classica ballata sbilenca 'Separate Ways', la prima delle canzoni inedite, che indugia sul rapporto che stava andando a rotoli con Carrie Snodgress, attrice americana e madre di loro figlio Zeke, e quel "era un po' troppo personale ... mi ha spaventato" riferito al disco trova subito riscontro in una canzone. Sarà così fino alla fine. Dentro a Homegrown c'è un po' il sunto del Neil Young pensiero anni settanta: quello country di 'Try', perfettamente in linea con Harvest, che continua a rimuginare sul rapporto amoroso arrivato al capolinea rimane uno dei più affascinanti: "abbiamo avuto molto tempo per riuscire a stare insieme, se avessimo provato" canta Young.
C'è quello solitario, voce e pianoforte della brevissima 'Mexico', in cui si chiede "perché è così difficile tener stretto il tuo amore?", quello solitario, chitarra e armonica di 'Kansas', quasi un sussurro appeso tra sogno e realtà, canzone che lui stesso definirà "allucinogena", quello blues di 'We Don' t Smoke It No More' la canzone più lunga del disco nei suoi quasi cinque minuti, pigra, sbilenca, elettrica, quasi interamente strumentale tolto il chorus.
Quello sballato dei tre minuti di 'Florida', uno spoken portato avanti insieme a Ben Keith, due bicchieri di vino, un pianoforte, rumori stridenti, vecchi ricordi d'infanzia, mistero e chissà cos'altro che forse piazzato lì in mezzo al disco non fa una grande figura, spezzando l'atmosfera fin troppo presto.
Quello elettrico di 'Vacancy' con Stan Szelest all'organo Wurlitzer che ha il passo deciso di 'Ohio' e un riff di chitarra accattivante che ci ribadisce ancora una volta perché il movimento grunge degli anni novanta gli abbia voluto così tanto bene.
Ci sono voluti quarant'anni per fare pace con sé stesso e ricucire vecchie ferite, Homegrown potrebbe essere il Blood On The Tracks di Neil Young che non è mai arrivato al mittente (intanto Carrie Snodgress si è spenta il primo Aprile del 2004) anche se solo pochi anni dopo con Comes A Time il sole sembrava risplendere nuovamente, tanto da indurre Young ad accennare un sorriso in copertina.
Intanto godiamoci Homegrown, uno dei dischi "perduti del rock" più suggestivi e tristi di sempre, perché dentro ai cassetti degli archivi altre canzoni stanno già scalpitando per uscire.
Rimane il solo rammarico di avere tra le mani poco più di mezz'ora (37 minuti) di un progetto che aveva ben altri confini.

★★★★ (5)






RECENSIONE: NEIL YOUNG With CRAZY HORSE-Colorado (2019)
RECENSIONE: NEIL YOUNG-Hitchhiker (1976/2017)
RECENSIONE: NEIL YOUNG and STRAY GATORS-Tuscaloosa (2019)



venerdì 12 giugno 2020

RECENSIONE: DATURA4 (West Coast Highway Cosmic)

DATURA4   West Coast Highway Cosmic (Alive Naturalsound Records, 2020)






…evitando le buche più dure. Sulle strade australiane con Dom Mariani

Il messaggio sembra chiaro: alzate le chiappe da quel divano ormai sfondato, chiudete la porta di casa avendo l'accortezza di lasciarvela dietro e mettete in moto l'auto arrugginita ferma in garage o almeno la vostra migliore fantasia che forse arrugginita non è ancora. Alla colonna sonora ci pensa il quarto album degli australiani DATURA4 guidati dalla vecchia volpe Dom Mariani (chitarra e voce), leggenda del garage rock australiano con i suoi Stems, i suoi Someloves e le altre sue creature.
Ad accompagnarlo Warren Hall alla batteria e Stu Loasby al basso.
L'ultima creatura sono i Datura4, attivi da una decina di anni. Alcuni cambiamenti ne hanno segnato la formazione come l'entrata del tastierista Bob Patient che con il suo Moog inaugura la prima traccia 'West Coast Highway Cosmic' rinfrenscando la 'Highway Star' di purpleiana memoria, indicando però il sentiero da seguire lungo le dieci tracce del disco, costruito su ciottoli di pesante porfido hard stoner rock, umida terra blues e alte nubi psichedeliche. Non c'è tempo di annoiarsi lungo i tornanti hendrixiani di 'Wolfman Woogle' arricchita dall'armonica di Howie Smallman, nei cadenzati e più pesanti blues di 'A Darker Shade Of Brown' e 'You Be The Fool', e nel boogie alla ZZ Top di 'Rule My World' che instancabili solcano la terra dalle prime luci dell'alba fino alle ore del crepuscolo, là nei campi che fiancheggiano la highway.
Anche la siesta come la più pigra delle lucertole sotto il sole durante la pausa lisergica di 'You're The, Only One', e nel gioioso pop sixties di 'Give' assume la sua giusta importanza.
Almeno fino alla ripartenza lungo il rettilineo dove vecchi sassi di garage rock'n'roll colpiscono a mitragliate i cerchioni delle ruote in 'Mother Medusa' che ha pure in dote la pesantezza dello stoner e in 'Get Out' con quel pianoforte alla Jerry Lee Lewis che tiene il tempo meglio di un qualunque orologio: non lo fa passare. La sospensione su cui vive la finale 'Evil People, Pt. 1' conferma il tutto.








martedì 9 giugno 2020

RECENSIONI: BLACK RAINBOWS (Cosmic Ritual Supertrip) BRANT BJORK (Brant Bjork)


BLACK RAINBOWS  Cosmic Ritual Supertrip (Heavy Psych Sounds Records, 2020)




Mentre il pop italiano si riunisce per omaggiare Rino Gaetano con la scusa del Covid (o viceversa) con un risultato alquanto imbarazzante ma raggiungendo con un clic le prime pagine, ricordiamoci che in Italia ci sono realtà, nascoste ai più ma ben note alla piccola e ristretta schiera dei seguaci, che girano l'Europa, e pure gli States in questo caso, facendo tour, festival e anche buoni numeri con fatica e sudore d'altri tempi. Oggi parlo di loro perché è appena uscito il nuovo disco, ma sono tante le band che in qualche modo tengono a galla il rock (italiano) in giro per il mondo con concerti e una cura dei particolari che sa di antico, vedere grafiche e merchandising. Si intitola Cosmic Ritual Supertrip, il ritorno dei BLACK RAINBOWS, band guidata da Gabriele Fiori, anche a capo dell'etichetta Heavy Psych Sounds Records che vanta nel proprio rooster pezzi da novanta come Brant Bjork, Geezer, prossimamente anche Mondo Generator e tantissime altre band. Più di dieci anni di carriera concentrati dentro al loro album più centrato, meglio registrato e completo fino a qui. Nel titolo c'è pure la miglior recensione al disco. Non sbagliano praticamente nulla in queste dodici canzoni. Chitarre fuzz, riff pesanti ereditati da Tony Iommi ('Universal Phase'), stoner rock anni novanta ('Snowball'), psichedelia e space rock alla Hawkwind ('Hypnotized By The Solenoid') come se piovessero pianeti, non manca il pezzo acustico ('Searching For Satellites'), riff selvaggi che richiamano il proto punk dei seventies ('At Midnight You Cry') e l'attitudine hard rock'n'roll presa in prestito dai Monster Magnet di Dave Wyndorf sono sempre i riferimenti ben amalgamati e stampati nel loro colorato biglietto da visita. Basta solo allungare una mano e ritirarlo.









BRANT BJORK   Brant Bjork (Heavy Psych Sounds Records, 2020)

La cosa migliore sarebbe indossare gli occhiali da sole che riposano lì sul mobile da circa tre mesi, mettere in moto la macchina con il pieno di benzina fatto ancora a inizio Marzo (quanto risparmio però!) e partire per un lungo viaggio senza meta, passando pure da regione in regione. Così, tanto per infrangere anche le regole. Regole?!? O anche solo per il gusto di abbassare il finestrino, mettere un braccio fuori, alzare l'autoradio e sentirsi un po' liberi. Là fuori non ci saranno il sole e i deserti di Joshua Tree, ma BRANT BJORK è un buon padrone di casa. Uno che fa tutto da solo, ci racconta un po' di sé e si inventa un po' di storielle bizzarre. Sa sempre come farti sentire a casa sua. Accomodatevi. Ci riesce bene anche questo nuovo album che cattura, grazie al suo ipnotico groove dove desert rock, stoner, chitarre fuzz e psichedelia amano più del solito bagnarsi tra le acque calde del soul e del funky. Caldo, sudato, sexy, avvolgente. E allora per un attimo ci si sente un po' come quel Gesù eretico ed errante protagonista di 'Jesus Was A Bluesman' .








giovedì 4 giugno 2020

RECENSIONE in pillole: THE COFFIS BROTHERS (In The Cuts)

THE COFFIS  BROTHERS In The Cuts (Blue Rose Music, 2020)




leggera brezza
IN THE CUTS è quarto disco dei californiani THE COFFIS BROTHERS, gruppo nato dieci anni fa, creatura dei fratelli Jamie e Kellen Coffis e del bravo chitarrista Kyle Poppen.
Come si potrebbe intuire dalla copertina siamo in territori soleggiati, pieni di luce: la west coast morbida, quella più gentile, pop e musicalmente educata di America ('In My Imagination') e Jackson Browne, ci sono i sixties dei Byrds e il country rock dei nineties alla Jayhawks ('Real Thing') ma non mancano anche buone rock song con chitarre elettriche in primo piano che chiamano in causa Tom Petty, i suoi cuori spezzati e le strade del sud ('Too Goog To Let Go').
Già Petty, insieme a Neil Young, Beatles, Buddy Holly, ELO sono i loro punti fermi, orgogliosamente dichiarati.
Da quelle parti, sulle montagne di Santa Cruz (fino al precedente disco il nome era The Coffis Brothers And The Mountain Men) e giù fino al mare, paradiso per i surfisti, sanno come scrivere buone canzoni, ariose e accattivanti, guardando, omaggiando e rispettando i padri.
Le loro influenze musicali le spiegano così : "siamo cresciuti nella valle di San Lorenzo sulle montagne di Santa Cruz, e c'è sicuramente qualcosa di vecchio nella zona… alcuni hippy si trasferirono qui negli anni '70, avendo figli da metà alla fine degli anni '80 e quindi influenzarono pesantemente i nostri gusti musicali".
Non a caso il tutto si conclude con la citazione più in vista degli Everly Brothers nella finale 'Bye Bye Susie'.
Un disco dai sapori antichi, di buone armonie vocali e vibrazioni positive, di juke box sulla spiaggia e barbecue nei prati, di van sull'asfalto che attraversano pini e sequoie su strade in discesa per raggiungere il mare che si scorge dall'alto.
Leggera brezza per i prossimi mesi estivi.




domenica 31 maggio 2020

RECENSIONE in pillole: JOE ELY (Love In The Midst Of Mayhem)

JOE ELY  Love In The Midst Of Mayhem  (2020)




Molti artisti nei mesi di quarantena ci hanno regalato nuove canzoni. Bob Dylan ci ha dato la sveglia per ben due volte con  nuove canzone, che finiranno nel prossimo disco di imminente uscita.
JOE ELY, venerdì 17 Aprile 2020, ci  ha regalato addirittura un disco intero di dieci canzoni: LOVE IN THE MIDST OF MAYHEM.
"Volevo che queste canzoni fossero ascoltate ora piuttosto che tra sei mesi" dice Joe Ely di questa atipico album costruito in casa con canzoni inedite e chiuse nei cassetti privati della sua vita. Li ha aperti insieme a sua moglie Sharon.
"Dormivo più del dovuto. Alla fine, mia moglie Sharon e io abbiamo deciso di concentrare la nostra energia su ciò che facciamo meglio. " Sono saltati fuori fogli, appunti, files, canzoni scritte nell'arco di tutta la sua carriera, da quelle più vecchie, datate 1973/74 come 'There' s Ever Been' e 'Soon All Your Sorrows Be Gone' a una 'Garden Of Manhattan' (2015), l'unico scatto elettrico del disco, alle recentissime 'A Man And His Dog' (2018) e il valzer 'You Can Rely On Me' (2019), passando per gli anni ottanta dell'ombrosa 'Cry' (1987), la ballata al pianoforte 'Your Eyes' (2012), l'andatura quasi clownesca di 'Glare Of Glory'.
Tutte hanno un denominatore comune: gravitano intorno all'amore. E tutte, inutile dirvelo hanno l'inconfondibile marchio del rocker senza padroni di Amarillo, Texas, fatto di ballate, border songs, fisarmoniche, spazi desertici, polvere, lentezza e dolcezza, romanticismo, libertà e tanto amore.





martedì 26 maggio 2020

RECENSIONE: STEVE FORBERT (Early Morning Rain)

STEVE FORBERT    Early Morning Rain (Blue Rose Music, 2020)





early in the morning

Questa raccolta di canzoni potrebbero essere i 45 giri (questi oggetti scomparsi!) che il giovane Steve Forbert si portò con sé dentro la valigia quando a metà anni settanta si spostò dal natio Mississippi verso New York in cerca della famosa buona stella. Che trovò con caparbietà tra i locali del Greenwich Village e le strade che portavano al CBGB.
"Undici delle mie canzoni preferite. Una sola scritta dopo il 1973". Ci tiene a precisarlo Forbert.
La valigia è pesante di storia e preziosa di ricordi. Dopo Magic Tree, uscito due anni fa raccogliendo vecchie canzoni dimenticate nel cassetto, dopo l'autobiografia che faceva il punto della situazione, passato un periodo poco felice per la sua salute, questo disco di cover sembra essere una nuova ripartenza. Ripartire dai propri punti fermi. Queste sono le canzoni che ama di più, suonate con il suo inconfondibile tocco dove melodia, folk e blues si incontrano con l'immancabile freschezza che lo ha accompagnato da sempre e una voce che non sembra aver subito troppo il trascorrere del tempo. Chiudendo gli occhi quell'uomo di 65 anni in copertina sembra sempre lo stesso ragazzo di quel debutto arrivato nel 1978. Ci mette nuovamente la faccia.
"Nel corso dei decenni ho sempre mantenuto un elenco di canzoni per le quali provavo forti sentimenti o una certa affinità. Per questo album, ho iniziato con un elenco di 130 brani e, a partire dallo scorso maggio, insieme al mio produttore Steve Greenwell, abbiamo iniziato a fare demo delle canzoni e a sfoltire la lista" ha raccontato Forbert in una recente intervista
Certo, confrontarsi con 'Suzanne' di Leonard Cohen, 'Your Song' di Elton John, 'Dignity' di Bob Dylan non è certamente facile per nessuno. Ma non è una sfida ma un atto di amore. E si sente. La sua spontaneità è l'arma vincente.
In scaletta anche: Kinks ('Supersonic Rocket Ship'), Grateful Dead ('Box Of Rain'), Richard e Linda Thompson ('Withered And Died'), Judy Collins ('Someday Soon'), Charlie Walker ('Pick Me Up On Your Way Down'), Danny O'Keefe ('Good Time Charlie's Got The Blues') e Gordon Lightfoot con 'Early Morning Rain' a regalare il titolo alla raccolta.
Che Forbert non abbia dimenticato di essere prima di tutto un grande fan della musica lo si capisce anche durante i suoi live quando pur con quarant'anni di carriera alle spalle non è raro sentirlo rendere omaggio ai suoi idoli, quelli che ancora oggi si porta dietro nella valigia della vita.
 

venerdì 22 maggio 2020

RECENSIONE: STEVE EARLE & THE DUKES (Ghosts Of West Virginia)

STEVE EARLE & The DUKES   Ghosts Of West Virginia (New West Records, 2020)






l'ultimo dei working class hero

Le loro storie vengono sempre a galla quando è troppo tardi. I giornali dedicano pagine intere e titoli, i loro volti, i nomi vengono sbattuti in prima pagina. I  sindacati, quando ci sono, fanno la voce grossa. Ma solo pochi giorni dopo il  ricordo si stinge, le foto sbiadiscono, i nomi vengono dimenticati, tutto vive sempre e solo nella memoria dei cari rimasti in piedi in questa superficie alla luce del sole, poco sicura anch'essa, oppure scolpito sopra a un monumento in granito che li ricorda, posizionato lungo la statale. Visibile solo quando passa la mano di un tosaerba e se freni, parcheggi  e scendi dall'auto.
Era il pomeriggio del 5 Aprile del 2010 quando un'esplosione improvvisa non lasciò scampo a 25 minatori che stavano lavorando nella miniera di Upper Big Branch nella comunità di Montcoal nel West Virginia, 1000 piedi sotto la terra. Altri quattro dispersi verranno trovati successivamente portando il conto a 29 operai deceduti. Le scarse condizioni di sicurezza della miniera furono spesso denunciate ma rimasero un grido inascoltato, pronto da tirare fuori a tragedia avvenuta. Buono e utile solo per eventuali processi. Per la cronaca: la miniera è stata chiusa, il presidente ha passato un solo anno di reclusione e ha continuato la sua vita riciclandosi in politica. Sembra un copione già scritto troppe volte: giustizia non fu fatta, naturalmente. Rimane solo il granito scolpito con i loro nomi e l'erba alta intorno.
Steve Earle quei 29 minatori li nomina tutti, quasi con rabbia, nel testo della tesa ed elettrica 'It' s About Blood' una delle dieci canzoni che compongono questo nuovo Ghosts Of West Virginia, figlio di uno spettacolo teatrale. Un progetto nel quale venne coinvolto, pensato da Jessica Blank e Eric Jensen per mantenere intatta la memoria e che sarebbe stato messo in scena nel marzo di quest'anno se il lockdown non fosse intervenuto a mettere i sigilli.
Earle nel disco riprende quella triste storia di cronaca e alcune canzoni scritte appositamente per la commedia e ce le racconta insieme ai suoi Dukes (la "rossa e indispensabile Eleanor Whitmore al violino, il marito Chris Masterson alla chitarra, Ricky Ray Jackson alla pedal steel, Brad Pemberton alla batteria e Jeff Hill-Chris Robinson Brotherhood-al basso in sostituzione di Kelley Looney, scomparso poco prima di entrare in studio), più Eleanor Masterson voce nell'arioso ma straziante folk  'If I Could See Your Face Again', interpretata con la vista spostata dalla parte di chi sta a casa ad aspettare, magari con dei figli e un mutuo da pagare.
Un disco breve (29 sono i minuti proprio come i morti), registrato in mono (per via dei problemi all'udito di Earle), diretto, accusatorio, che ha i suoi eroi e i suoi bersagli politici.
Si apre con il canto a cappella che sa di traditional 'Heaven Ain' t Goin'Nowhere', si prosegue sulle strade ben battute del bluegrass in 'Union, God And Country' (una vita già segnata da rotaie sempre uguali ma da affrontare con orgoglio) e la nera 'Black Lung' (se sopravvivi ai disastri dovrai comunque fare i conti con altre malattie), dell' honky tonk in 'John Henry Was A Steel Drivin' Man', dove la figura di John Henry viene rivista, del folk ('Time Is Never Our Side', 'The Mine'), del rockabilly in una 'Fastest Man Alive' quasi springsteeniana.
L'orgoglio e la consapevolezza degli operai già svegli di prima mattina con una preghiera stretta tra i denti a scongiurare un rischio calcolato, nell'incalzante ritmo con violino e banjo che guida 'Devil Put The Coal In The Ground', un blues primitivo, straziante, che si spezza con l'entrata della chitarra elettrica, sono forse l'apice di un disco che non fa nulla per compiacere l'ascoltatore. Qui conta solo l'empatia e con Steve Earle di mezzo si va sempre sul sicuro. Insomma: sappiamo sempre da che parte sta.
Ora, a ricordarci di quella giornata di dieci anni fa, oltre a un monumento in granito fermo su un lato di una strada trafficata, all'opera teatrale ferma invece al palo ancora prima di iniziare c'è questo disco che conferma Steve Earle come uno dei pochi veri songwriter in grado di portare in superficie storie dimenticate alla maniera dei vecchi folk singer.
Un disco che solo uno come Steve Earle può permettersi.
Corto, ruvido, sincero, poco accomodante. Di denuncia e speranza. Anche se non aggiungerà nulla alla sua carriera musicale, è un'altra tacca da scolpire sopra al monumento Earle alla voce rispetto. Adesso tagliate quell'erba!










lunedì 18 maggio 2020

RECENSIONE: THE STEEPWATER BAND (Turn Of The Wheel)

THE STEEPWATER BAND   Turn Of The Wheel (Diamond Day Records, 2020)




the song remains the same...but I like it 

Con quasi vent'anni di carriera alle spalle, torna la band di Chicago con il settimo disco, a quattro anni dall'ultima registrazione in studio. Persa solo per strada l'attitudine più free, aperta alle jam, che caratterizzava i primi lavori, rimane il suono tosto di una band ancora solida, verace e sincera come ai primi tempi dove le chitarre hanno ancora la loro fottuta importanza ('Trance'), la sezione ritmica è basilare e il groove è sempre di casa e dietro l'angolo ('The Peace You' re Looking For' che chiude il disco). Chiaro, ancora una volta, che le lancette dei loro orologi siano sempre puntate indietro ai seventies.
"La nuova musica mostra la qualità grezza dei primi sforzi della band, combinata con una fiducia che proviene solo da molti anni di registrazioni e tournée" racconta Jeff Massey, chitarra e voce della band.
Registrato ai Vigo Street Studios a Miller Beach in Indiana, nei pressi del lago Michigan con in produzione Jim Winters, fratello del batterista e già produttore del loro vecchio album Revelation Sunday uscito nel 2006, TURN OF THE WHEEL è un disco che potrà piacere agli orfani di nuove uscite da parte dei Black Crowes e figli vari, tra cui i Magpie Salute che hanno avuto la vita più breve del previsto. Certo, qui mancano i fuoriclasse da prima pagina ma si sopperisce al tutto con dedizione e  il duro lavoro come una buona squadra di provincia di metà classifica che però aspira al podio.
I punti di riferimento sono gli stessi di sempre: southern rock, l'hard blues tosto dei grandi power trio dei seventies, i Black Crowes periodo Amorica che sembrano materializzarsi in 'Turn Of The Wheel'. Non per nulla Marc Ford produsse il loro Grace And Melody del 2008, lasciando pure un buon ricordo. Grande disco fu quello (cercatelo).
La tosta 'Big Pictures' sembra invece avanzare poderosa come solo i Crazy Horse di Neil Young saprebbero fare, ed è l'unica vera concessione alle lunghe jam chitarristiche che ricordano il passato. Ci sono pure gli echi lontani di John Fogerty e i  suoi CCWR nel bel viaggio on the road di 'In The Dust Behind' e nel country di 'Abandon Ship' e poi come potrebbero mancare i vecchi zii Stones, quelli di Exile che sembrano dettare i tempi in 'Please The Believer' e 'Running From The Storm'.
La Steepwater band è formata da Jeff Massey (chitarra e voce), Joe Winters (batteria), il nuovo bassista Joe Bishop e il chitarrista Eric Saylors.
Non sono gli ultimi arrivati, non passeranno mai alla storia ma hanno imparato come suonare del buon rock'n'roll.






venerdì 15 maggio 2020

RECENSIONE: WILLIE NILE (New York At Night)


WILLIE NILE   New York At Night (River House Records, 2020)




New York  State Of Mind

Mi suona il cellulare, parte 'Old Men Sleeping On The Bowery' di Willie Nile. Prima che cambiassi suoneria, Willie Nile era il mio personale squillo di tromba sul mondo: belle e cattive notizie, amori e lavoro erano anticipati da quell'inconfondibile suono di chitarra. 
Quella canzone era contenuta nel suo debutto uscito nel 1980, un disco di canzoni straordinarie, perfettamente in bilico tra il vecchio folk, sporco di polvere preziosa, tramandato dal Greenwich Village, i sixties marchiati da una Rickenbacker dei Byrds e l'assalto urbano del punk rock che visse sulla propria pelle in anni irripetibili che oggi sembrano veramente preistoria del rock. Quella da studiare a scuola.
Sono passati quarant'anni esatti, nel mezzo Nile, dopo anni di esilio forzato dalla musica, è tornato prepotentemente ad agitare le mille chitarre, scrivere canzoni, incidere dischi, girare il mondo, e camminare per le vie della sua amata  New York con lo stesso impeto e lo sguardo sempre curioso di allora, occhi penetranti che si posano su loser e marciapiedi poco frequentati. Forse non è più disincantato come allora, c'è più consapevolezza, ma la sincerità è sempre la stessa. Come l'attitudine da rocker, ribelle e romantico insieme. Di quelli che non si trovano più con tanta facilità. 
"Ho ancora molto da imparare, ma ho acquisito molte conoscenze di strada. È l'università della strada. C'è tutto lì: il ricco, il povero, e tutto quello che ci sta nel mezzo" ha raccontato in una recente intervista a Popmatters.
E proprio la città di adozione è nuovamente al centro dei suoi sguardi: lui ci arrivò da Buffalo nel 1972, 600 km percorsi in orario per vedere la fiorente scena musicale dei tempi cresciuta tra il CBGB e il Max's Kansas City, stringere amicizie, rubare consigli a Patti Smith, Ramones e Television. E con un radio sempre sintonizzata dall'altra parte dell'oceano, in UK.
E mai come oggi, la grande mela ha bisogno di nuovi inni per rialzarsi dal lockdown imposto da questa pandemia. Inutile fare l'elenco dei grandi musicisti che hanno cantato New York, Nile ci entra dentro di diritto. 
Ecco così che l'iniziale rock'n'roll di 'New York Is Rockin' fa da apripista catapultandoci  tra palazzi, strade, metropolitane e monumenti. Una corsa scandita da un pianoforte, caotica, veloce come solo quella città sa esserlo. 
Le canzoni sono state scritte prima di tutto ciò che è successo, naturalmente, ma sembrano incastrarsi perfettamente in questi due mesi e la ballata acustica 'Under The Roof' è un'ode alla famiglia, rifugio e abbraccio sempre sicuro nei momenti più disperati. 
" New York mi ha sempre ispirato. Vivo nel Greenwich Village da molti anni, e amo ancora stare lì. L'energia, la grinta e il mistero di tutto ciò riempie il mio cuore di meraviglia. La maggior parte di queste canzoni sono state scritte a New York o ne sono state ispirate in un modo o nell'altro" ha raccontato recentemente. 
Un disco costruito all'antica insieme al produttore Stewart Lerman agli Hobo Sounds di Weehawken nel New Jersey, costruito intorno a tosto rock'n'roll e ispirate ballate. 
Da una parte le chitarre infuocate del rock blues carico di speranza  'The Backstreet Slide' ("facciamo del nostro meglio per trovare la nostra strada, in tutto il mondo, ci sono canzoni da cantare"), quelle alla Rolling Stones di 'The Fool Who Drank The Ocean', scritta con l'amico Frank Lee che sanno  disegnare immagini poetiche di vita vissuta ("ho perso mille cose solo per fare un centesimo, sono il pazzo che ha bevuto l'oceano, pensando che fosse vino"). 
Se si lanciano gli occhi verso il cielo però, c'è  la stessa luna vagabonda di sempre ('Surrender The Moon'), le atmosfere tardo 50 di una 'New York At Night' che chiama per essere vissuta e spremuta fino al primo minuto del mattno ("c'è una festa in corso, puoi sentire il battito del cuore") e una 'Downtown Girl' che sarebbe piaciuta tanto ai suoi amici Ramones: tutte mantengono intatta la linea sul marciapiede su cui Nile ha camminato in questi anni. 
Willie Nile ha iniziato a suonare il pianoforte in giovanissima età e a casa di suo padre, un uomo di 103 anni che vive ancora a Buffalo, c'è il vecchio Steinway su cui imparò le prime nozioni musicali. Proprio seduto davanti a quei tasti è nato il crescendo dell'accorata 'Little Bit Of Love' e l'ispirazione per la ballata al pianoforte 'The Last Time We Made Love' che richiama il suo album uscito qualche anno fa If I Was A River, che fu pure un piccolo sogno inseguito e realizzato. Pure bello e dimenticato con troppa fretta.
C'è il battito pop e metropolitano di 'Doors Of Paradise', non così diversa dalla 'Streets Of Philadelphia' dell'amico Bruce Springsteen, c'è la coralità meticcia di 'Lost And Lonely World', c'è l'epicità con il crescendo soul della finale 'Run Free', simbolo della sua indipendenza artistica.
C'è Willie Nile fermo alla stazione metropolitana West Fourth Street a Washington Square, ha con sé la custodia della inseparabile chitarra, sta cercando la  prossima fermata: c'è ancora tanta musica da suonare in giro. 








RECENSIONE: WILLIE NILE-Children Of Paradise (2018)

mercoledì 13 maggio 2020

RECENSIONE: JASON ISBELL And The 400 UNIT (Reunions)

JASON ISBELL And The 400 UNIT  Reunions (Southeastern records, 2020)




"se avessi vissuto negli anni Settanta...sarei già morto" 

Quando sette anni fa uscì Southeastern, il primo disco a suo nome senza i 400 Unit, ascoltandolo veniva spontaneo inserirlo nella categoria dei dischi di autoanalisi. Mi venne in mente una sorta di nudità dell'anima esposta senza vergogna nello stendino, a guarire sotto il caldo sole del sud ma ben in mostra, finalmente visibile a tutti. Dentro al cestello della lavatrice deve aver dimenticato dei pezzi perché con questo Reunions tira fuori ancora qualcosa di quel suo passato di cicatrici, sbagli, debolezze, arrivando a dichiarare che queste dieci canzoni le avrebbe volute scrivere quindici anni fa. Ecco cos'è quel Reunions del titolo: "una reunion con il mio io di allora".
E quel complimento di David Crosby che campeggia su tutti i siti e che recita più o meno come " Isbell è tra i migliori songwriter di questi tempi" aggiungendo "e la mia idea di songwriter davvero bravi è Paul Simon, Joni Mitchell, Bob Dylan. Il suo canto è emotivo. È onesto sta davvero cercando di raccontarti la storia" sa di importante sottolineatura di qualcosa che però abbiamo potuto toccare tutti con mano in questi anni. I suoi sono sempre buoni dischi. 
Se le liriche sono tanto profonde, intimiste, a tratti pure incisive, ironiche e ammonitrici, la musica sembra sempre volare leggera sopra al miglior canzoniere di Americana depositato nel tempo. 
I toni quasi soul di 'What' Ve I Done To Help' che apre il disco proprio con David Crosby ospite ai cori, le grandi distese verdi di vecchi ricordi estivi messi in fila come birilli in 'Dreamsicle', il folk di 'St. Peter' s Autograph', le chitarre ariose che circondano 'Overseas' (quando un amore è diviso da un oceano), la west coast gentile e soffusa che pare appartenere proprio alla penna del miglior Crosby targato seventies che affiora a galla in 'Running With Our Eyes Closed', la ballata pianoforte e violino di 'River', i tocchi più elettrici ma decisamente melodici e pop di 'Be Afraid' (j'accuse sull'apatia politica dei suoi coetanei amici musicisti) e 'It Get Easier' (canzone sulle passate e risolte dipendenze) che non nascondono un pezzo importante del suo passato con i Drive-By Truckers.
Un disco suonato e registrato bene insieme alla sua band: Sadler Vaden ex Drivin' N Cryin alle chitarre, Jim Hart al basso, Derry Deborja, ex Son Volt alle tastiere, Chad Gamble alla batteria, la moglie Amanda Shires al violino, gli interventi dell'altro ospite Jay Buchanan, talentuoso cantante dei Rival Sons e la produzione dell'ormai inseparabile Dave Cobb di casa ai RCA Studios di Nashville. Sono state delle sedute di registrazione difficili, minuziose: le cronache dallo studio raccontano anche di litigi tra Isbell e la moglie. Ma i risultati alla fine sono questi.
"Se avessi vissuto negli anni settanta, probabilmente sarei stata una stella molto più grande e avrei avuto molti più soldi. E sarei morto" ha raccontato recentemente a Rolling Stone.
Chissà quanto bucato c'è ancora dentro a quella lavatrice?










domenica 10 maggio 2020

RECENSIONE: MARK LANEGAN (Straight Songs Of Sorrow)

MARK LANEGAN  Straight Songs Of Sorrow (Heavenly Records, 2020)




 come to me 

"Tutto quel che mi ha lasciato in mano era un vaso di Pandora pieno di dolore e di miseria. Ma subito dopo ho cominciato a scrivere queste canzoni ed è stato un sollievo: mi sono reso conto che quello era il vero dono che avevo ricevuto dalla mia autobiografia". Sono le parole di Mark Lanegan che spiegano come sia passato dall'autobiografia Sing Backwards And Weep a questo disco senza posare mai la penna, un modo antico per trovare nuova pace dentro se stesso. Ci prova da una vita, è l'unico modo che conosce. Fin troppo bene.
Straight Songs Of Sorrow è una raccolta di canzoni che viaggia a braccetto con l'autobiografia appena uscita in America che già ha sollevato un vespaio di polemiche. Perché in mezzo alla sua difficile vita di ragazzo cresciuto a Ellensburg, Washington, in compagnia di droghe, amici sbagliati, morte e la musica dei novanta, salvifica e tentatrice allo stesso tempo, non tralascia piccanti particolari sulle sue relazioni d'amicizia con i vecchi compagni di band Screaming Trees e anche qualche altro personaggio a cui dedica capitoli interi. Pure con molta fierezza. Ad esempio la lite a distanza tra Lanegan e Liam Gallagher sembra si sia riaccesa come un tizzone ardente lasciato riposare per anni tra le pagine dei ricordi. A noi capire quanto possa essere interessante o meno sapere questi fatti. Ho letto solo alcuni spezzoni dell'autobiografia, quindi mi fermo qui e passo alla musica.
Non ci sono più pause nella carriera di Lanegan, nonostante gli siano state consigliate più volte, non esistono periodi sabbatici ma solo un lungo tempo di bulimica voglia di comporre musica, un infinito tuffo nella sua ispirazione che, diciamolo, non sempre è volata alta negli ultimi anni, anche se sempre accattivante e soprattutto sincera. Quello sì. Vi piace? Bene. Non vi piace? Meglio ancora, borbottò qualche tempo fa.
Purtroppo il problema è ancora tutto qui. La fortuna vuole però che dentro alla quantità salti fuori spesso qualcosa di buono. Ecco così che questa raccolta di quindici canzoni diventa un viaggio tra peccato e redenzione, tra i più profondi e dolenti della sua carriera. Fosse uscito vent'anni fa sarebbe un capolavoro. Rimane invece un diario tanto sincero quanto a tratti zoppicante ma sicuramente qui dentro ci sono le sue migliori cose degli ultimi anni. Certamente ci sono tutti gli ingredienti su cui ha basato il cocktail maledetto della sua carriera: amicizie, sangue, cenere, whiskey, blues, peccati, sesso, droga, amore.
E io partirei dal raggio di speranza della finale 'Eden Lost And Found' cantata insieme a Simon Bonney (Crime & The City Solution), che Lanegan indica come il suo cantante preferito, e che dipinge l'uomo Lanegan di oggi, lucido, pulito, per molti tratti perfino nella voce. Ritratto di un uomo che ha cercato di raccogliere le tappe della sua travagliata vita stendendola su un tappeto imbastito di trame acustiche (chitarre e pianoforte) e qualche ordito d'elettronica, esperimenti di new wave comunque notevolmente inferiori rispetto alle ultime uscite Gargoyle (2017) e Somebody's Knocking (2019), e rintracciabili però fin dall'iniziale 'Wouldn't Want To Say' ("quella canzone incapsula l'intera esperienza, libro e disco: per quello ho voluto metterla all'inizio" racconta), 'Internal Hourglass Discussion' e in 'Bleed All Over', il pezzo musicalmente più leggero e con più dosi di new wave iniettato nelle vene.
Già, le vene. Autostrade sempre troppo trafficate in quegli anni "ho pagato per questo dolore che ho messo nel mio sangue" canta in 'Stockholm City Blues' che viaggiando in coppia con la natura morta da pellicola cinematografica di 'Daylight In Nocturnal House' si aggiudicano la palma di canzoni più profonde, malinconiche e toccanti, anche se la compagnia è davvero agguerrita. Il dolente arpeggio di 'Apples From A Tree' (con la chitarra fingerpicking di Mark Morton dei Lamb Of God), la leggera nenia al synth di 'This Game Of Love' cantata con la moglie Shelley Brien, l'oscurità al pianoforte di 'Churchbells, Ghosts', la droga di 'Ketamine'.
Si circonda pure di tanti amici, passati e presenti, vivi e morti. Al caro Dylan Carlson (Earth), vecchio compagno di risate e sventure, dedica l'acustica 'Hanging On (For DRC)', altri partecipano attivamente al disco come Jack Bates (Smashing Pumpkins, figlio di Peter Hook), Adrian Utley (Portishead).
E poi ancora John Paul Jones al mellotron nella più rumorosa 'Ballad Of A Dying Rover', un blues per il 2020 e il "gemello" Greg Dulli voce in 'At Zero Below' insieme al violino di Warren Ellis in una delle migliori canzoni del disco.
Il picco autoconfessionale lo tocca nei sette minuti di 'Skeleton Key' quando ripercorrendo la strada al contrario ritrova troppi cadaveri di amici che non ce l'hanno fatta e quel "è il mio destino essere l'ultimo in piedi" non si sa se è una domanda o un'affermazione. Ma cambierebbe poco dentro al tendone di questo triste circo messo in piedi tra dolore, peccato, miseria e redenzione da un sopravvissuto a cui vogliamo sempre un gran bene.







mercoledì 6 maggio 2020

RECENSIONE: RUBEN LEVI RHODES (Abbeville)

RUBEN LEVI RHODES   Abbeville (2020)





non è mai troppo tardi

Ruben Rivera si presenta al suo debutto discografico sotto il nome Ruben Levi Rhodes e se pensate che nel 2020 sia impossibile fare musica senza avere in rete un sito, una pagina Facebook, uno straccio di biografia eccovi accontentati. C'è solo il canale Spotify dove potrete ascoltare il disco. Per ora ho scoperto solo che è originario della California del sud. E allora si naviga a vista, nel vero senso della parola. Per esempio, guardandolo in foto non sembra più giovanissimo. Un buon indizio. Ascoltando le sue canzoni però si percepisce che storie da raccontare, raccolte nell'America del suo quotidiano, ne ha e ce le racconta alla vecchia maniera, seguendo canovacci ormai lisi ma sempre affascinanti come fa nell'apertura 'Sunday Song' un country rock alla John Prine che in questi giorni sanno quasi di omaggio o nella seguente 'White Line Flyin', un honky tonk country in stile Waylon Jennings.
Un inizio in cui non cerca certo di stupirci con i trend musicali del momento. Quali sono poi? Da 'Lonesome Is Never Alone' e 'Me And Maria' con la sua fisarmonica, affiorano sapori Tex mex cari a personaggi come Joe Ely e Tom Russell, 'Avery' è country alla Willie Nelson, 'California' è pura brezza da viaggio on the road con tanto di lap steel così come 'Ford Truck' ma dal piglio più malinconico, sembra più adatta a un viaggio di ritorno. Mentre con 'Jack Of Diamonds', chitarra e armonica e il passo lento da border song, con una 'Talkin Cannonball Blues' che richiama Bob Dylan, con la ballata al pianoforte e hammond 'Waiting On A Train' e con una 'Iron Wings' che sa dello Springsteen acustico scopre il suo lato più nascosto e intimista.
Pura americana che sa di tradizione e antico. Canzoni che non cambieranno di certo il mondo con l'unica pretesa di mantenere in piedi la tradizione dell'American Music. Naturalmente il primo consiglio per il buon Ruben è quello di essere più presente nei social. Anche se poi a pensarci bene, forse ha ragione lui.
Bravo Ruben.









domenica 3 maggio 2020

RECENSIONE: DANZIG ( Danzig Sings Elvis)


DANZIG  Danzig Sings Elvis (Cleopatra Records, 2020)



con il calar delle tenebre arriva Danzig The Pelvis
Era lì pronto nel cassetto da tempo, vicino a t- shirt nere e olio scalda muscoli . Danzig lo aveva promesso dopo il disco di cover Skeletons uscito nel 2015, quello che riproduceva Pin Ups di David Bowie in copertina, e già conteneva 'Let Yourself Go' del re insieme a una variegata cesta di canzoni che passavano a fare un giro nel garage rock, nelle colonne sonore di road movie e poi ancora ZZ Top, Black Sabbath e Everly Brothers.
Che Danzig sia un amante della prima scena rock'n'roll legata alla Sun records lo si era già capito da tempo. Dopo la cover di 'Trouble' di Elvis presente su Thrall: Demonsweatlive uscito nel 1993 e dopo aver regalato canzoni a Johnny Cash ('Thirteen') e Roy Orbison ('Life Fades Away') arriva a coronare il suo sogno: un disco intero di canzoni che pescano nel repertorio di Elvis Presley, colpevole di averlo fulminato in giovane età dopo la visione di Jailhouse Rock.
"Ogni volta che qualcuno menziona il mio nome e il nome di Elvis nella stessa frase, è fantastico. Non c'è di meglio" ha recentemente dichiarato a Rolling Stone.
Aiutato dall'ormai fido Tommy Victor (Prong) alle chitarre e Joey Castillo (batteria) Danzig si perde in quattordici canzoni non così usuali del repertorio di Elvis ('One Night', 'Fever', Pocket Full Of Rainbows', 'Like A Baby', Loving Arms'), scansando i grandi successi (l'unico è 'Always On My Mind') per immergersi completamente nel ruolo con devozione, senza stravolgere gli originali e aiutato da una voce adatta, a volte fin troppo enfatizzata, tenendo quasi fede a quel vecchio soprannome "Evil Elvis" che gli fu affibbiato in tempi non sospetti.
Dal rockabilly di 'Baby Let' s Play House' alla scura profondità di 'Love Me' passando dal blues di 'When It Rains It Really Pours' Danzig convince nella parte del fan devoto, muovendosi in versioni grezze, minimali (a volte con il solo pianoforte) e ridotte il più possibile all'osso.
"Non ho quella voce stridula e high metal, quindi ho gravitato di più su quel tipo di stile vocale, come le cose più bluesy come Elvis o Howlin 'Wolf, Muddy Waters, Willie Dixon, cose del genere. Sì, la voce più profonda ha sempre funzionato meglio per me".
Inutile come tanti altri dischi di cover ma d'atmosfera, un po' più nera del solito ma alla fine anche divertente. Perché no? Nulla di più.










giovedì 30 aprile 2020

RECENSIONE: WITCHCRAFT (Black Metal)


WITCHCRAFT  Black Metal (Nuclear Blast, 2020)






soundtrack del periodo.handle with care

Con un titolo che potrebbe far scappare chi potrebbe apprezzare veramente il disco e avvicinare chi forse alla fine non gradirà, tornano gli svedesi Witchcraft, la creatura vintage di Magnus Pelander, che mai come in questo Black Metal è la sua creatura, visto che c'è solo lui dietro alle sette canzoni. Una provocazione quel titolo (no niente Venom qui dentro) meglio concentrarsi sul candore della copertina per trovare la chiave di lettura di queste sette composizioni minimaliste, ripulite di ogni traccia elettrica, ogni fuzz, che abbandonano doom, hard rock, stoner e psichedelia per abbracciare in toto il folk con litanie acustiche che sprofondano con garbo nella tristezza più assoluta, nei rimpianti, nella solitudine pur suonando grezze e poco lavorate in studio quasi per dare più autenticità al messaggio di disperazione. Dimentichiamo tutto ciò che era il suono della band nei dischi precedenti (l'ultimo uscito quattro anni fa), perché questa volta Pelander posiziona la sua emotività tarata in basso nelle corde di una chitarra acustica, nei tasti di un pianoforte appena accennati ('Sad Dog') e della sua comunque incredibile voce, profonda, pura, cristallina, a tratti soffusa per poi richiamare in memoria Jim Morrison ('Sad People'), Robert Plant (il manifesto del disco 'Elegantly Expressed Depression'), Nick Drake ('Grow'). Allungare una mano all'America nella brevissima 'A Boy And Girl'.

 "Giuro di aver visto la morte in piedi nella mia stanza/gettare la sua ombra nera sul mio muro bianco/puzzavo di morte all'interno della mia anima/non avrei mai pensato di perderti per un capriccio" su questi toni inizia il disco con 'Elegantly Expressed Depression' e così finisce con 'Take Him Away' dopo poco più di mezz'ora.

È sicuramente un diversivo, certo straniante e inaspettato, a tratti pure monocorde nella sua lenta e costante velocità di crociera da requiem senza fine ('Free Country'). Certamente più vicino alle sue prove soliste (e qui la domanda: perché non è uscito a suo nome?), che spiazzerà ma che sembra adagiarsi perfettamente come neve fresca alle pieghe monotone di questi strani giorni segnati anche da tristezza e da una scalciante depressione. Certo, se state vivendo male questi giorni di lockdown non è il disco migliore per risollevare il morale. Avvertiti.