lunedì 26 settembre 2016

RECENSIONE:IAN HUNTER & THE RANT BAND (Fingers Crossed)

IAN HUNTER  & THE RANT BAND    Fingers Crossed  (2016)
☆☆☆☆




La mia marcia di avvicinamento verso il fine settimana dedicato a David Bowie (sabato ero a Bologna per una  mostra che ha messo a dura prova occhi e udito), inizia da questi versi:
“Something is happening Mr. Jones
My brother says you're better than The Beatles or The Stones
 Saturday night, Sunday morning
 You turned us into heroes
 Can you hear the heroes sing?”
che aprono ‘Dandy’, la canzone che Ian Hunter dedica a Bowie, cantata e arrangiata proprio come avrebbe fatto Bowie nel 72 insieme all’altro compianto amico Mick Ronson, la chiusura di un cerchio, il sentito ringraziamento per quella ‘All The Young Dudes’ che il Duca Bianco regalò ai Mott The Hoople nel 1972, rilanciandone di fatto la carriera.
Anche se questa volta nasconde i famosi ricci sotto un cappello (sullo sfondo, in copertina, c’è un’altra foto a ricordarli) a settantasette anni, Hunter conferma lo stato di grazia che lo ha accompagnato negli ultimi dischi usciti dal 2001 a oggi (ricordo Rant, Shrunken Heads, Man Overboard, When I’m President). Dieci canzoni piacevolissime, registrater e prodotte nel New Jersey insieme a Andy York (presente anche con la sua chitarra), sempre in bilico tra lo sfrenato rock’n’roll glitterato british (‘That’s when The Trouble Starts’) e le profonde ballate: ‘Fingers Crossed’ si spinge indietro fino al 1700 per raccontare storie di mare e marinai, l’antica Grecia viene riesumata in ‘Morpheus’. Un continuo alternarsi di vecchie storie e presente.
L’America è dietro l’angolo come sempre, tra gli spiriti dell’amato Dylan (‘White House’,’Bow Street Runners’ che narra la storia dei fratelli Fielding in una Londra del’700), e i Sun Studios a Memphis che hanno ispirato ‘Ghosts’. C’è l’honkytonk di ‘Long Time’, perfino un accenno reggae in ‘You Can’t Live In The Past’. Metà capo banda e metà cantautore, Ian Hunter non delude, dando ancora una lezione di classe rock’n’roll, songwriting lucido e mai banale. Una lezione per i giovani e per qualche vecchietto, più giovane di lui, che vive sugli allori del passato. Nel precedente disco chiudeva con una canzone intitolata ‘Life’ che recitava così: “Easy come-easy go-just another rock'n'roll show,hope you had a great night/when you get home and climb into bed-just remember what I said/laugh because it's only life".
Rimane ancora il migliore augurio per se stesso e per chi ha ancora voglia di ascoltarlo. Se poi volete esagerare: è uscito anche un cofanetto (Stranded In Reality) con 30 cd che ripercorre l’intera carriera. Ma oltre alla voglia di esagerare bisogna avere anche tanti soldi da parte.



RECENSIONE: LUCINDA WILLIAMS-The Ghosts Of Highway 20 (2016)
RECENSIONE: PARKER MILLSAP-The Very Last Day (2016)
THE WHITE BUFFALO. Per la prima volta in Italia. Due date: 28 Luglio a Ravenna, 30 Luglio a Brescia
RECENSIONE: WILLIE NILE-World War Willie (2016)
RECENSIONE: ZAKK WYLDE-Book Of Shadows II (2016)
RECENSIONE: HAYES CARLL-Lovers And leavers (2016)
RECENSIONE: STURGILL SIMPSON-A Sailor’s Guide To Earth (2016)
RECENSIONE: MALCOLM HOLCOMBE-Another Black Hole (2016)
RECENSIONE: JOHN DOE-The Westerner (2016)
RECENSIONE: TOM GILLAM &THE KOZMIC MESSENGERS-Beautiful  Dream (2016)
RECENSIONE: MATT ANDERSEN-Honest Man (2016)
RECENSIONE: TONY JOE WHITE-Rain Crow (2016)
REPORT LIVE: GRAHAM NASH live@Teatro Sociale COMO, 3 Giugno 2016

lunedì 19 settembre 2016

RECENSIONE: GERRY BECKLEY (Carousel)

GERRY BECKLEY   Carousel    (Blue Elan Records, 2016)
☆☆☆1/2






Gli America non sono mai andati troppo di moda tra quelli che si professavano rocker veri e puri. Peccato. Figuriamoci se può far notizia nel 2016 il disco solista di uno di loro. Se poi il protagonista è il gentile e melodico tocco musicale di Gerry Beckley (voce sempre giovanile e polistrumentista in parecchie canzoni), che da sempre assomiglia al tranquillo impiegato di banca con occhialini a cui affideresti tutti i tuoi risparmi senza porre troppe domande…Io gli ho sempre affidato tanta fiducia ripagata con alcuni dei miei migliori ricordi musicali in adolescenza (il primo e sempre dimenticato disco degli America con indiani in copertina, Holiday, Homecoming, Alibi). Qui, poi, di America (quella musicale) c'è meno del solito.
Beckley recupera la metà delle sue origini british, lui nato in Texas da un papà militare dell'aereonautica e madre inglese, cresciuto poi a Londra ma con il successo che lo aspettava nuovamente negli States; e il disco è più nebbiosamente beatlesiano (dalla parte di Paul McCartney) che lucentemente californiano, anche se l’ombra al sole dei più malinconici Beach Boys si materializza spesso, e pure le passate produzioni di George Martin per gli America hanno lasciato qualche segno indelebile e ben rintracciabile. "Ogni progetto è un'istantanea del tempo. Il materiale su CAROUSEL è venuto da un ampio ambito di ispirazione". Racconta Beckley. Trainato dall'ottimo singolo 'Tokyo', anche le tre cover scelte profumano di antico: ‘'To Each And Everyone' di Gerry Rafferty, 'Don't Let the Sun Catch You Crying' di Gerry And The Pacemakers e ‘Nature’s Way’ degli Spirit.
Tutto onesto, niente di clamoroso, anzi. Mi piace. L’ho sempre saputo di non essere alla moda. Fin da ragazzino.






vedi anche
AMERICA-Back Pages (2011)
COVER ART # 5: AMERICA-Homecoming (1972)



lunedì 12 settembre 2016

DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA # 18: BOB DYLAN (Street Legal)

BOB DYLAN      Street Legal (1978)




BOB DYLAN è appena sceso dalle scale dei suoi personali Rundown Studios a Santa Monica in California. Sembra aver finito le sedute di registrazione programmate in quella giornata. È Aprile, fa caldo e tiene il giubbotto di pelle nero in mano, le maniche della camicia sono arrotolate, ma una sciarpa pende dal collo. Con la testa scruta alla sua sinistra, sembra aspettare qualcuno che lo riporti a  casa. Oppure è terribilmente indeciso sul da farsi: da una parte c’è il recente passato (il fiasco del suo film Ronaldo e Clara, il divorzio da Sara), dall’altra c’è l’invisibile soffio del vento musicale che in quel momento sembra tirare da tutt’altra parte. Furono sedute di registrazione velocissime che durarono pochi giorni nel bel mezzo di un tour mondiale, tanto che lo stesso Dylan affermò: “ non riuscivamo a trovare il produttore adatto, così utilizzammo lo studio mobile, e scegliemmo sonorità live”. “Per realizzare STREET LEGAL ci ho impiegato una settimana. L’abbiamo missato nella settimana successiva, e dopo un’altra ancora è stato pubblicato. Se non avessimo fatto tutto così in fretta, non avremmo realizzato proprio un bel niente, poiché eravamo già pieni di impegni on the road”.Quando STREET LEGAL uscì, il 15 Giugno 1978 non fu accolto benissimo dalla stampa: Greil Marcus di Rolling Stone lo definì un album “terribilmente falso”. Lo stesso Dylan non fu soddisfatto dei suoni e del mix che vennero migliorati solamente dopo l’uscita del disco in CD, molti anni dopo. Eppure a quasi quarant’anni dalla sua uscita, si conferma, oltre che uno degli album più sottovalutati della sua discografia, anche uno dei più affascinanti. Almeno per me che lo adoro. Nove canzoni in bilico tra la ballata rock e la black music, con strumenti a fiato, percussioni, cori femminili e la sua voce che cambia, ancora una volta; canzoni cariche di metafore ma che non dimenticano neppure il recente divorzio “misi su il nuovo disco di Bob e ‘Changing Of The Guards’ era la prima canzone…mi commossi fino alle lacrime. Non capirò mai di cosa parlino le sue canzoni, ma sono una mescolanza di tarocchi e simbolismo alla Giovanna D’Arco” dirà Patti Smith, con almeno quattro capolavori come ‘Baby Stop Cryin’, ‘Is Your Love In Vain’, ‘Where Are You Tonight’ e la meravigliosa ‘Senor’ , sporcata dalla polvere di frontiera, che con le sue visioni apocalittiche segnava il primo vero passo verso l’imminente conversione religiosa. 

 Dirà Dylan: “La critica ha trattato STREET LEGAL in maniera infame. Ho letto una recensione nella quale si affermava che io stavo marciando verso Las Vegas e che stavo copiando Bruce Springsteen perché avevo utilizzato il sassofonista Steve Douglas. Per quanto mi riguarda il paragone con Vegas, beh, credo che quel tizio non sia mai neppure andato a Las Vegas, e la questione del sassofono era proprio tirata per i capelli, anche perché io non copio mai dai tizi che stanno al di sotto dei cinquant’anni. Non avevo nessuna famigliarità con i lavori di Bruce, e il suo sassofonista di certo non parlava la stessa lingua di Steve Douglas: Douglas ha suonato con Duane Eddy, e in tutti i dischi di Phil Spector…”Nella mia Top 5 di Dylan un posto per STREET LEGAL c’è sempre.
 
 
 

venerdì 9 settembre 2016

DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA # 17 :JOHNNY WINTER (Nothin' But The Blues)

JOHNNY WINTER  Nothin' But The Blues  (1977)



"I'd like to dedicate this album to all the people who enjoy my kind of blues and especially to Muddy Waters for giving me the inspiration to do it and for giving the world a lifetime of great blues", scrive Winter nelle note di retrocopertina, mettendoci la firma. Disco importante che segna il ritorno al blues dei primissimi anni, dopo un paio di muscolosi episodi rock insieme a Rick Derringer, che porteranno Winter a dire: “ho suonato più rock di quanto avessi voluto fare veramente”. Mettiamoci dentro un giretto tra le droghe e il gioco (vizioso) è completo. Gran merito di questo ritorno al blues va al lavoro di produzione fatto su HARD AGAIN del suo maestro Muddy Waters, qui presente nella traccia finale 'Walking Thru The Park', l’unica non scritta dal chitarrista albino più nero di tutti. Muddy Waters: “Johnny mi ama, perché ha imparato un sacco di cose ascoltando la mia musica. Gli piaccio personalmente, come amico. Così quando ha sentito che volevamo fargli produrre il mio nuovo disco, beh era tutto quello che lui voleva. Abbiamo formato una piccola famiglia”.

La fiamma si riaccende e brucerà perpetua. Winter arriverà a considerare, a ragione, NOTHIN’ BUT THE BLUES uno dei suoi migliori dischi di sempre, quello perfetto, senza fronzoli. Altro merito va alla band, la stessa che accompagna Waters, presente al gran completo: James Cotton (armonica), Bob Margolin (chitarre), Charles Calmese (basso), Willie "Big Eyes" Smith (batteria), "Pine Top" Perkins (piano).
Tutto da ricordare. Tra elettrica, Slide e Resonator, Winter non si risparmia: dai momenti acustici (‘TV Mama’) a quelli più elettrici ( 'Everybody’s Blues’, ‘Mad Blues’). E poi chi non avrebbe voluto, ai tempi, passare una serata in sua compagnia : “sono stato fuori ieri notte, baby, stasera vado a farmi una birra” canta in ‘Drinkin’ Blues’. Buona divertimento!
"I know what a guitarist should be. He should be just like Johnny Winter. His Slide playing is like a Picasso painting! You know it is Johnny, The Picasso of Blues Guitar!"dice bene Leslie West (Mountain).


DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA # 1: FRANCESCO DE GREGORI- Titanic (1982)
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #2: THE HOUSEMARTINS-London 0 Hull 4
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #3: THE NOTTING HILLBILLIES-Missing...Presumed Having A Good Time
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #4: EDDIE HINTON-Very Extremely Dangerous (1978)
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #5: BIG COUNTRY-Steeltown, 1984
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #6: TESLA-Five Man Acoustical Jam, 1990
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA # 7: PRIDE & GLORY-Pride & Glory (1994)
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #10: IZZY STRADLIN & THE JU JU HOUNDS (1992)
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #11: WARRIOR SOUL-Drugs, God And The New Republic (1991)
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #12: IAN HUNTER-Short Black N' Sides (1981)
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA # 13: THE DICTATORS-Go Girl Crazy! (1975)
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA # 14: POINT BLANK-Second Season (1977)
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #15: TEMPLE OF THE DOG (1991)
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #16: NEIL YOUNG-Time Fades Away (1973)

lunedì 5 settembre 2016

RECENSIONE: WHISKEY MYERS (Mud)

WHISKEY MYERS  Mud   (2016)
☆☆☆☆





Dopo aver ascoltato l’ultimo, buono, dei Blackberry Smoke (in uscita a Ottobre), in mezzo il meno buono dei Cadillac Three (delusione), arriva anche MUD, quarto disco per la band di Palestine, Texas. Mi viene inevitabile il confronto tra le due band che in questi ultimi anni stanno tenendo in alto la bandiera del southern rock americano. A grande sorpresa devo constatare che i WHISKEY MYERS fanno un grande passo in avanti in virtù di un gran cantante con i controcoglioni come Cody Cannon (quello che manca ai Blackberry Smoke, secondo me) che consente loro maggior versatilità nel songwriting e varietà nelle soluzioni musicali. Prodotto in modo perfetto da Dave Cobb, un’altra sicurezza già dietro a Chris Stapleton e Jason Isbell, a colpire oltre ad un immancabile inno sudista (‘Deep Down In The South’) e alle tracce più marcatamente rock ed elettriche come l’epica avanzata della title track e di ‘Frogman’ scritta insieme a Rich Robinson (Black Crowes), sono l’uso di un violino nell’infuocata apertura ‘On The River’, dei fiati che spuntano in ‘Lightning Bugs And Rain’, dei cori femminili presenti in abbondanza (nel soul ‘Some Of Your Love’) , del rispetto verso il passato nell’omaggio ‘Hank’ (sì, Hank Williams), del pianoforte che conduce la bella ballata con finale elettrico ‘Stone’, delle atmosfere folk (‘Trailer We Call Home’) e bluegrass della finale, corale e alticcia ‘Good Ole Days’. Dal fango emergono buone cose. Un piccolo manuale di southern rock, senza virgole fuori posto, che potrà dare molte soddisfazioni alla band e ideale conferma dopo il precedente EARLY MORNING SHAKES (2014) che già diede parecchie soddisfazioni.



RECENSIONE: WHISKEY MYERS-Early Morning Shakes (2014)
RECENSIONE: BLACKBERRY SMOKE-Like An Arrow (2016)
RECENSIONE: CHRIS ROBINSON BROTHERHOOD- Anyway You Love, We Know You Feel (2016)



giovedì 1 settembre 2016

RECENSIONE:BLACKBERRY SMOKE (Like An Arrow)

BLACKBERRY SMOKE  Like An Arrow (2016)
☆☆☆☆




“Riporteranno il il southern rock sulla retta via”. Così l’illustre Gregg Allman lanciava il gruppo di Atlanta in tempi non sospetti. Il minimo che la band guidata dal cantante e chitarrista Charlie Starr potesse fare era invitare il vecchio Gregg (che fortunatamente sembra essersi ripreso anche da alcuni malanni) a duettare in una loro traccia. Avviene in ‘Free On The Wing’ che chiude LIKE AN ARROW, quinto album che esce (il 14 Ottobre) a solo un anno dal precedente HOLDING ALL THE ROSES, un disco che non mi aveva convinto, complice la pessima, o anche troppo perfetta, produzione di Brendan O’Brien che pompava e addomesticava il suono allo stesso tempo, riuscendo però nell’intento di portare il nome sulla bocca di più rocker possibili sparsi in giro per il mondo, Italia compresa. Notevole successo anche per le loro due date milanesi e quella romana.
Questo volta i Blackberry Smoke fanno tutto da soli al Quarry Recording Studio a Kennesaw in Georgia, registrando dodici tracce che ritornano ad essere coperte di vecchia e sporca polvere, la stessa che si adagiava sull'album THE WHIPPOORWILL (2012): dai momenti più ariosamente country di ‘The Good Life’, ‘Running Through Time’ e ‘Sunrise In Texas’, alle grintose chitarre in prima linea di ‘Waiting For The Thunder’ ‘Workin’ For A Workin Man’ e ’Like An Arrow’, dal blues di ‘What Comes Naturally’, al trascinante boogie di ‘Let It Burn’ fino a chiudere con il funk di ‘Believe You Me’ che ricorda gli ancora innavicinabili Black Crowes. Sotto il sole del sud le barbe continuano a crescere, piano piano imbiancano pure e i Blackberry Smoke sono ormai un punto fermo del nuovo southern rock. "Questo album autoprodotto è il nostro culmine, dopo 15 anni in cui proviamo a piantare la nostra bandiera nel panorama musicale. Non potremmo essere più orgogliosi di esso" parole di Charlie Starr.

RECENSIONE: BLACKBERRY SMOKE-Leave A Scar (2014)
RECENSIONE: BLACKBERRY SMOKE-The Wippoorwill (2012)

lunedì 29 agosto 2016

RECENSIONE:JAKE BUGG (On My One)

JAKE BUGG   On My One (Mercury, 2016)




Ottobre 2012, mi trovo a Dublino davanti alla vetrina di un grande Record Store: è tappezzata da tanti cd tutti uguali, in copertina campeggia il viso sbarbato e imbronciato di un ragazzo che pare appena uscito dall’ età adolescenziale. Assomiglia a Justin Bieber, ma lo conosco di nome e so che la sua musica è molto lontana dall’idolo pop delle teenager. Torno in Italia con il suo debutto in valigia che presto passa nell’impianto stereo: voce giovane ma nasale e musica elettro acustica che costruisce i ponti ideali tra il folk americano orbitante nei Coffee House di Minneapolis frequentati dal giovane Bob Dylan e il folk britannico di Donovan con gli antichi guizzi r’n’r di Buddy Holly e le melodie brit pop degli Oasis. Sarà proprio Noel Gallagher a tesserne pubblicamente le lodi e portarselo in tour. L’idilio tra i due finì quando Gallagher scoprì che Bugg collaborò con due co-autori per la stesura di alcuni pezzi. Stranezze del Rock. Il debutto arriva a vendere 450.000 copie solo in UK, e non passa un anno che l’etichetta discografica decide di investire tutto sul giovane proveniente dall’operaia Nottingham: lo spedisce a Malibu, in California, sotto le mani esperte di Rick Rubin che mette a disposizione musicisti amici tra cui Chad Smith (Red Hot Chili Peppers). “Mi sembrò la cosa giusta da fare. Meglio battere il ferro finché è caldo, no? In quel periodo che ho passato in tour e a viaggiare per il mondo ho avuto nuove esperienze e opportunità. Perché non scriverne?”. In ‘Shangri La’ l’aria si fa meno nebbiosamente brit ma più polverosamente yankee, con alcune possenti puntate punk rock. Rubin smussa l'ingenua urgenza esecutiva dell'esordio, arricchendo le canzoni di sfumature ma complicando ulteriormente la vita a chi cerca di inquadrarlo. Devono però passare tre anni per ritrovare nuovamente Jake Bugg in studio con il nuovo ‘On My One’. Il ragazzo in questo 2016 ha solo ventidue anni ma ha deciso che è il momento di camminare da solo: "Questo titolo riassume per molti versi l’essenza del disco, soprattutto perché l’ho fatto per conto mio. L’ho visto come il passo logico successivo nel mio sviluppo come compositore”.
E’ più il personale e autobiografico dei tre dischi incisi, per le liriche (nella title track canta dei tre anni passati in tour e dei 400 concerti) e perché si cimenta per la prima volta anche come produttore, aggiungendo degli spiazzanti retaggi elettro Hip Hop al già ricco recente passato. Succede così che dalla west coast in stile America di ‘The Love We’re Hoping For’ alle rime rappate alla Beastie Boys di ‘Ain’t No Rhyme’ il passo è breve. "Che si tratti di soul o di hip hop, tutto deriva dal blues. Per me il blues significa solo cantare le proprie emozioni o esprimere il proprio dolore in modo che gli altri possano sentire ciò che provi. Questa è la bellezza della musica. È un esercizio di equilibrio difficile, fare cose nuove senza spaventare quelli a cui piacevano le cose vecchie”. Il ragazzo ha personalità e faccia tosta da vendere (Enzo Curelli). da CLASSIX! #48 (Agosto/Settembre 2016)





RECENSIONE: JAKE BUGG-Jake Bugg (2012)
RECENSIONE: JAKE BUGG-Shangri La (2013)

lunedì 8 agosto 2016

RECENSIONE: DAVID CORLEY (Lights Out)

DAVID CORLEY  Lights Out (Continental Record Services/IRD, 2016)





Che strana la vita! Quel cuore che vedete in questa copertina, con relativo elettrocardiogramma, ha rischiato di fermarsi per sempre e voleva farlo (malandrino) mentre stava facendo una delle cose più belle imparate in vita: cantare. Anche i cuori cantano, sapete? Abbiamo visto DAVID CORLEY al Buscadero Day nel Luglio 2015, il suo debutto discografico AVAILABLE LIGHT è stato, a ragione, uno dei più osannati dell’anno scorso. Un disco arrivato tardi, a 53 anni, ma proprio per questo: carico di storie e speranze, vero e sincero, un sogno che si era avverato. Mai perdere la speranza. CORLEY e il suo cuore non l’hanno persa nemmeno quando quest’ultimo, due mesi dopo quel debutto in terra italiana, ha deciso di salutarci momentaneamente per otto interminabili minuti mentre il cantautore dell'indiana presentava l’ultima canzone in scaletta durante un concerto a Groningen in Olanda. Un attacco cardiaco che l’ha tenuto fermo per molti mesi, proprio quando si stava godendo i meritati riconoscimenti. Ma il tutto è stato solo rimandato. Garantito.
 LIGHTS OUT è un disco, chiamatelo anche EP, ma le canzoni sono 7 e la durata supera la mezz’ora, perfino superiore al debutto. Qui la personalità esce prepotente. Più di prima. Sette canzoni urgenti che la sua voce cruda e scura (figlia bastarda di Lou Reed e…io ci vedo Alejandro Escovedo) conduce in sentieri polverosi cari al folk blues parlato tra Dylan e Calvin Russell (la stupenda ‘Blind Man’), alle ballate sporcate di soul (‘Watchin’ The Sun Go’, ‘Under A Midwestern Sky’) e gospel (‘Pullin’ Off The Wool’, 'Down With The Universe’), e al garage rock urbano quando la band che lo accompagna, i BJ’S WILD VERBAND , alza il volume delle chitarre (‘Lightning Downtown’,’The Dividing Line’). Quanta intensità in questa nuova vita. L’elettrocardiogramma ha ripreso a galoppare…chi lo ferma più?

RECENSIONE: LUCINDA WILLIAMS-The Ghosts Of Highway 20 (2016)
RECENSIONE: PARKER MILLSAP-The Very Last Day (2016)
THE WHITE BUFFALO. Per la prima volta in Italia. Due date: 28 Luglio a Ravenna, 30 Luglio a Brescia
RECENSIONE: WILLIE NILE-World War Willie (2016)
RECENSIONE: ZAKK WYLDE-Book Of Shadows II (2016)
RECENSIONE: HAYES CARLL-Lovers And leavers (2016)
RECENSIONE: STURGILL SIMPSON-A Sailor’s Guide To Earth (2016)
RECENSIONE: MALCOLM HOLCOMBE-Another Black Hole (2016)
RECENSIONE: JOHN DOE-The Westerner (2016)
RECENSIONE: TOM GILLAM &THE KOZMIC MESSENGERS-Beautiful  Dream (2016)
RECENSIONE: MATT ANDERSEN-Honest Man (2016)
RECENSIONE: TONY JOE WHITE-Rain Crow (2016)
REPORT LIVE: GRAHAM NASH live@Teatro Sociale COMO, 3 Giugno 2016


mercoledì 3 agosto 2016

RECENSIONE: CHRIS ROBINSON BROTHERHOOD (Anyway You Love, We Know You Feel)

THE CHRIS ROBINSON BROTHERHOOD   Anyway You Love, We Know You Feel (Silver Arrow Records, 2016)



Tempo di nuovi inizi per la confraternita. Ma non temete, l'approccio alla musica rimane lo stesso con cui fecero nascere il progetto e i cambiamenti mantengono, in qualche modo, fede al nome scelto. Chris Robinson al centro a fare da gran cerimoniere, la chitarra di Neal Casal al fianco e tutto il resto intorno a girare, in gran libertà, come sempre: si perdono per strada il bassista Mark Dutton e il batterista George Sluppick, sostituiti da Tony Leone, già batterista di Levon Helm e dall'ospite Ted Pecchio su disco, ma sembra che il bassista ufficiale diventerà Jeff Hill. Musicalmente questo quarto capitolo, il primo autoprodotto dal gruppo, segue la leggera fluidità del precedente PHOSPHORESCENT HARVEST, pochi veri affondi rock, ad esclusione di 'Leave My Guitar Alone', un trascinante boogie che girava nella testa di Robinson da una quindicina d'anni e con un Neal Casal scatenato, e sempre maggior spazio alle tastiere di Adam McDougall quindi ('Oak Apple Day') e il recente tour italiano l'ha fatto capire chiaramente, ma con qualche accento più marcato posto sulla black music come testimoniano due episodi come l'apertura 'Narcissus Soaking Wet' un perfetto e riuscitissimo amalgama tra Stevie Wonder, R&B e il funk di casa Parliament con la presenza dell'armonica e i cori gospel (opera di Meg Baird) nella ipnotica e miglior canzone del disco 'Forever As The Moon', e la finale 'California Hymn' carica di soul come testimoniano i suoi versi: "Glory glory hallelujah, It’s time to spread the news. Though my good words may sound profane to some.".
Le registrazioni del disco avvenute in uno studio posizionato sulle colline californiane con le ampie finestre rivolte verso l'Oceano Pacifico hanno dato la giusta ispirazione per queste otto canzoni nate sul momento, tanto che Chris Robinson l'ha definita la migliore esperienza di registrazione della sua vita. Gli crediamo?
"E ' stato molto stimolante. Abbiamo registrato il disco in una casa con una grande finestra con vista sulla collina e nel Pacifico. Un ambiente molto confortevole e tranquillo, senza distrazioni. C'era qualcosa di energico su quella collina che stimolava la creatività. E una volta arrivati all'interno, il taccuino di Chris si è aperto, hanno iniziato a fluire le parole e le canzoni si sono scritte da sole" Così racconta Neal Casal a Guitarworld.com 
Nessun calcolo, tanto che nessuno sapeva la direzione che avrebbero preso le canzoni: come sempre cariche di magnetismo, di viaggi interspaziali (la strumentale ' Give Us Back Our Eleven Days'), di devozione verso i '60 e '70 di The Band e Grateful Dead ('Ain't It Hard But Fair'), di placide camminate bucoliche ('Some gardens Green') vicine all'ultimissima produzione roots targata Black Crowes .
Come ben rappresenta un disegno del libretto, opera di Alan Forbes, la confraternita viaggia lassù in alto, tra le stelle, sopra ad una navicella spaziale, lontana da ogni tentazione terrena. Acciuffatela voi, ancora una volta. Ne vale la pena.




CHRIS ROBINSON BROTHERHOOD-Phosphorescent Harvest (2014)
CHRIS ROBINSON BROTHERHOOD-The Magic Door (2012)
CHRIS ROBINSON BROTHERHOOD-Big Moon Ritual (2012)

domenica 31 luglio 2016

THE WHITE BUFFALO live @ Arena Sonica, Brescia, 30 Luglio 2016












Jake Smith e i suoi due compari, il simpaticissimo Christopher Hoffee e il martellatore Matt Lynott (insieme: un trio basso, batteria, chitarra/voce con pochi fronzoli e diretto come un treno senza ostacoli sulle rotaie del vecchio west, a volte fin troppo pestone quando non necessario, quasi a voler nascondere con la forza bruta un repertorio non troppo vario, ma comunque su disco più ricercato e sfaccettato, che con questa formula viene penalizzato ulteriormente) dopo aver seminato polvere come veri bufali da prateria tra le strade blu che da Modigliana portano a Trieste, entrano in Arena (Sonica) e domano anche il numerosissimo pubblico di Brescia. Un pubblico eterogeneo come giusto sia in una manifestazione gratuita: c’erano i vecchi fan di Americana, i curiosi e i biker di Sons Of Anarchy. Alla fine tutti contenti e catturati. Dopo averci scalciato gli stinchi a destra e sinistra con i piedi rigorosissimamente scalzi, accarezzato l’anima e percosso la chitarra acustica con le grosse mani durante la prima parte di concerto, nella seconda metà il bufalo bianco si è trasformato in lupo, ha iniziato ad ululare, piazzando le migliori unghiate della serata, compresa una ‘Highwayman' rubata ai padri putativi e cantata in solitaria. Una prima italiana che lascia dietro di sé tante cose positive e pure qualche falla facilmente rimediabile vista la bravura indiscutibile del personaggio.





SETLIST
  1. Dark Days
  2. When I'm Gone 
  3. One Lone Night 
  4. Every Night Every Day
  5. I Got You
  6. Chico
  7. Oh Darlin' What Have I Done
  8. Love Song #1 
  9. Come Join the Murder 
  10. Don't You Want It
  11. BB Guns and Dirtbikes 
  12. Into the Sun
  13. Home Is in Your Arms
  14. Joey White
  15. This Year
  16. Joe and Jolene
  17. Go the Distance
  18. The Whistler
  19. Damned
  20. The Pilot
  21. Highwayman (Jake solo) 
  22. Modern Times
  23. How the West Was Won
RECENSIONI:
THE WHITE BUFFALO-Love And The Death Of Damnation (2015)
THE WHITE BUFFALO-Once Upon The Time In The West (2012)
THE WHITE BUFFALO-Shadows, Greys & Evil Ways (2013)
THE WHITE BUFFALO: tre date in Italia


venerdì 29 luglio 2016

RECENSIONE: SHAWN JAMES (On The Shoulders Of Giants)

SHAWN JAMES  On The Shoulders of Giants (autoproduzione, 2016)




Quando SHAWN JAMES, classe 1986, non ruggisce in compagnia della sua band, i SHAPE SHIFTERS (un concentrato di heavy blues, gotica Americana e campestre bluegrass ben impresso nel loro THE GOSPEL ACCORDING TO SHAWN JAMES AND THE SHAPESHIFTER uscito l’anno scorso), ulula in solitaria inseguendo i suoi miti musicali che si chiamano Howlin’ Wolf, Robert Johnson e Otis Redding, mica tre nomi da poco, e ripetendo le lezioni imparate nei cori gospel delle chiese frequentate in giovane età nella periferia Sud di Chicago dove abitava prima del trasferimento in Arkansas. Registrato nei mitici Sun Studio di Memphis, un sogno per chiunque, con la supervisione di due pezzi da novanta come gli ingegneri del suono Curry Weber (North Mississippi Allstars, Gin Blossoms, Huey Lewis & The News) e Kevin Nix (Stevie Ray Vaughan, Bobby Rush), questo suo primo disco solista colpisce nel segno facendo uso di veramente poco. Quel poco (in verità tanto e tratto vincente) è la sua voce profonda, baritonale, al limite del growl in certi punti, che guida oscuri, lenti e grezzi folk blues costruiti con chitarra (Resonator), tamburello, battiti di piedi e poco altro, proprio come quando si esibisce come one man band. Un disco di blues tenebroso che mi ha ricordato, in alcune canzoni delle nove presenti, il primo Danzig solista spogliato dei vestiti hard. Un disco che suona bene più a notte fonda, immerso nella buia quiete, che di giorno illuminato dalla luce. Ne sentiremo parlare.



RECENSIONE: ZAKK WYLDE-Book Of Shadows II (2016)
RECENSIONE: HAYES CARLL-Lovers And leavers (2016)
RECENSIONE: STURGILL SIMPSON-A Sailor’s Guide To Earth (2016)
RECENSIONE: MALCOLM HOLCOMBE-Another Black Hole (2016)
RECENSIONE: JOHN DOE-The Westerner (2016)

martedì 26 luglio 2016

DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA # 16: NEIL YOUNG (Time Fades Away)

NEIL YOUNG   Time Fades Away (1973)


TIME FADES AWAY fu il primo vinile di Neil Young che acquistai. Il negozio aveva solo quello, la scelta fu obbligata. Lo ascoltai tantissimo subito, tanto dopo, spesso oggi, e l’affetto che provo per questa copertina (foto scattata a Philadelphia nel 1973 da Joel Bernstein) è immenso: per quella rosa rossa depositata a bordo palco, per il retro con quel gigantesco truck lanciato a fari accesi nella notte. Ma poi ci sono le canzoni: il galoppante e sgangherato honky tonk boogie di ‘Time Fades Away’, il pianoforte solitario, malato e notturno di ‘Journey Through The Past’, ‘The Bridge’, ‘Love In Mind’, ‘Yonder Stands The Sinner’,’ L.A.’, l’autobiografica forza di ‘Don’t Be Denied’, l’infinito finale elettrico di ‘Last Dance’. Strano inizio per approcciarsi al mondo di Young. Questo disco arrivò dopo l’incredibile successo di HARVEST, ma fece crollare tutti i castelli di carte di chi aveva apprezzato ‘Heart Of Gold’ e figlie, dando il benvenuto all’interno del baratro “oscuro” dentro cui sprofondò Neil Young per almeno un paio di anni ma che ispirò altri due capolavori incredibili come TONIGHT’S THE NIGHT e ON THE BEACH. Registrato durante diverse date di un tour del 1973 insieme agli Stray Gators (Tim Drummond, Johnny Barbata, Jack Nitzsche, Ben Keith) con la partecipazione di David Crosby e Graham Nash come sporadici special guest, inaugurò un nuovo modo di fare dischi per il canadese: presentare e registrare inediti, anche in modo approssimativo, durante i tour e farli uscire come “nuove uscite” con la disapprovazione dei fan che si aspettavano altro nelle setlist, lo stesso procedimento che generò-toccando il culmine-RUST NEVER SLEEPS.
La rivista Rolling Stone nella persona di Bud Scoppa, però, concluse la recensione con queste parole: “se anche non sarà un successo, l’album rimane un illuminante autoritratto di un uomo comunque affascinante”. “Nel 1973 feci un tour intitolato Time Fades Away. Era il mio primo tour negli stadi coperti e nei palasport e fui costretto a cantare molto forte (senza gli odierni monitor da palco) per riuscire a sentirmi sul palco. Danneggiai la mia gola e si svilupparono dei noduli sulle corde vocali che mi resero un po’ doloroso cantare, e quasi impossibile farlo piano e controllando la voce.” Scrive Young nell’autobiogafia ‘Special Deluxe’.
Ma, soprattutto, fu la prima testimonianza di un periodo di malessere e nervosismo generato dai tristi eventi della vita: la nascita del figlio Zeke con forti handicap e la morte per overdose dell’amico e musicista (nei Crazy Horse) Danny Whitten, immediatamente dopo che lo stesso Young lo cacciò in malo modo dalla band per le sue continue e reiterate cadute in alcol e droghe. Un rimorso che Neil Young si porterà dietro per tutta la vita e che ha sintetizzato così nell’ autobiografia ‘Il Sogno Di Un Hippie': “All’epoca pensavo che Danny fosse un grande chitarrista e cantante. Ma non avevo idea di quanto fosse grande. Ero troppo pieno di me per capirlo. Oggi lo capisco chiaramente. Vorrei tanto poter fare tutto di nuovo, così ci sarebbero più cose di Danny”. Intanto "l’ultima danza"continua a girare...



DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA # 1: FRANCESCO DE GREGORI- Titanic (1982)
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #2: THE HOUSEMARTINS-London 0 Hull 4
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #3: THE NOTTING HILLBILLIES-Missing...Presumed Having A Good Time
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #4: EDDIE HINTON-Very Extremely Dangerous (1978)
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #5: BIG COUNTRY-Steeltown, 1984
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #6: TESLA-Five Man Acoustical Jam, 1990
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA # 7: PRIDE & GLORY-Pride & Glory (1994)
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #10: IZZY STRADLIN & THE JU JU HOUNDS (1992)
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #11: WARRIOR SOUL-Drugs, God And The New Republic (1991)
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #12: IAN HUNTER-Short Black N' Sides (1981)
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA # 13: THE DICTATORS-Go Girl Crazy! (1975)
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA # 14: POINT BLANK-Second Season (1977)
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #15: TEMPLE OF THE DOG (1991)


venerdì 22 luglio 2016

DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA # 15 : TEMPLE OF THE DOG

TEMPLE OF THE DOG (1991)

La notizia musicale della settimana? Il primo tour in assoluto dei Temple Of The Dog, il prossimo autunno in America, a venticinque anni dall'uscita di questo disco che ha segnato una generazione. Mi sento chiamato in causa. La notizia musicale dell'anno? Ha un punto interrogativo alla fine: passeranno in Italia? Una cosa è sicura: almeno due volte all’anno devo ascoltarlo. Un disco che prese piede in modo spontaneo dalle due canzoni che Chris Cornell scrisse dopo la scomparsa-eroina assassina- di Andrew Wood, cantante dei Mother Love Bone. Due canzoni lontanissime dallo stile dei Soundgarden: ‘Reach Down’ e ‘Say Hello To Heaven’ (“dicendo Heaven mi riferisco semplicemente a ciò che c’è dopo la morte terrena; non ho nessuna concezione particolare, nessuna idea precisa di cosa possa esserci di là. Solo Andy può sapere dove si trova ora” disse Cornell). “Presi contatto con Chris e lui mi dette un nastro, che mi mandò fuori di cervello. All’inizio pensai che avrebbe potuto farle uscire anche così com’erano, e sarebbero state comunque eccezionali; le due versioni di ‘Reach Down’ e ‘Say Hello To Heaven’ , in effetti, non sono poi molto diverse da quelle che finirono su disco. Insomma, Chris aveva pronte queste canzoni, e Stone Gossard ne aveva un paio delle proprie, le mettemmo giù in cinque o sei giorni: eravamo a terra, e quei ragazzi ci tirarono su per un minuto e ci aiutarono. Era pura musica, nient’altro che pura musica” Jeff Ament Il disco venne registrato in soli quindici giorni ai London Bridge Studios di Seattle con il produttore Rick Parasher nel 1990.
A Chris Cornell (soundgarden), Jeff Ament e Stone Gossard che finita la parentesi con i Mother Love Bone stavano mettendo in piedi un nuovo progetto che sboccerà nei futuri Pearl Jam, si unirono anche il batterista dei Soundgarden, Matt Cameron, ma anche Mike McReady e l’ancora poco conosciuto Eddie Vedder che lascia il segno in 'Hunger Strike' ("era la prima volta che mi ascoltavo in un vero disco. Potrebbe essere una delle canzoni preferite o più significative tra quelle che ho registrato nella mia vita"). Questi ultimi entreranno nella nuova band Pearl Jam. Un disco completamente fuori dal tempo (anche se i seventies sono i padri naturali) e una recensione che tirava in ballo Crosby, Stills & Nash fu fatale, e che a venticinque anni dalla sua uscita rimane uno dei manifesti più puri e spontanei di quella generazione. Tra i miei dischi dei 90 occupa un posto speciale.



DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA # 1: FRANCESCO DE GREGORI- Titanic (1982)
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #2: THE HOUSEMARTINS-London 0 Hull 4
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #3: THE NOTTING HILLBILLIES-Missing...Presumed Having A Good Time
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DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA # 14: POINT BLANK-Second Season (1977)

lunedì 18 luglio 2016

DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA # 14 : POINT BLANK (Second Season)

POINT BLANK  Second Season (1977)




Sono uno di quelli che: spesso arriva prima la copertina della musica. Centro! Cappelli, barbe, jeans e stivali a riposo con tanto di amaca, prato e alberi verdi. I Point Blank sono texani e quando escono con SECOND SEASON, il southern rock sembra aver già dato il meglio di sé, e quel titolo sembra annunciare veramente una seconda stagione a venire. Lontana? Vicina? Il 1977 è un anno a lutto per il genere e la musica tutta (no, non sto parlando dell’avvento del punk, naturalmente), ma la band capitanata dal gigante Jack O’Daniel alla voce, dai chitarristi Rusty Burns e Kim Davis, dal piccolo bassista Philip Petty e il batterista Peter Gruen, sa quello che vuole. Il primo album, uscito un anno prima, prendeva la mira ma non centrava ancora il bersaglio, confuso dentro un boogie blues troppo alla ZZ Top (buoni compagni di tour tra l’altro). Su SECOND SEASON lasciano a casa il tastierista e la loro personale rilettura del blues inizia fin dalle prime battute di ‘Part Time Lover’ e ‘Back In The Alley’, dove l’armonica di O’ Daniel la fa da padrona. Nella lunga (otto minuti) e arpeggiata ballata ‘Stars And Scars' sono le due chitarre elettriche a prendersi la scena nell’infinito finale jammato. ‘Rock And Roll Hideway’ è la perfetta canzone per la strada: due, quattro ruote o autosop non fa differenza. ’ Beautiful Loser’ è una cover rubata al repertorio di quel Bob Seger che proprio in quegli anni sta vivendo la sua stagione d’oro. Il finale sembra un altro disco. I toni si alzano e le chitarre elettriche iniziano a fumare più di quel fucile che spesso li rappresenta. ‘Uncle Ned’ alza i toni, il blues si fa hard e la distanza da Free e Led Zeppelin si assottiglia.
Il rutilante finale è quasi cosa da NWOBHM. ‘Tattooed Lady’ anticipa l’intera carriera dei Molly Hatchet, ‘Nasty Notions’ va giù ancora duro. Alla sognante ballata ‘Waiting For A Change’ il compito di chiudere con un forte soffio sulle canne fumanti del fucile. Poi arriveranno gli anni ’80, il suono che vira verso l’AOR di maniera e le tastiere ricompaiono, la polvere sudista scompare e lo scioglimento è alle porte. La reunion negli anni 2000. Intanto anche la falce, come in mano ad un contadino troppo frettoloso, si porta via il minuto Philip Petty e il chitarrista Kim Davis. Ai soli O’Daniel e Rusty Burns il compito di portare ancora avanti il nome. L’ultimo disco uscito è VOLUME 9 del 2014 e tenta di ripercorre musicalmente i primi tempi. Riuscindoci pure discretamente.



DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA # 1: FRANCESCO DE GREGORI- Titanic (1982)
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #2: THE HOUSEMARTINS-London 0 Hull 4
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #3: THE NOTTING HILLBILLIES-Missing...Presumed Having A Good Time
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #4: EDDIE HINTON-Very Extremely Dangerous (1978)
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #5: BIG COUNTRY-Steeltown, 1984
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #6: TESLA-Five Man Acoustical Jam, 1990
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA # 7: PRIDE & GLORY-Pride & Glory (1994)
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #10: IZZY STRADLIN & THE JU JU HOUNDS (1992)
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #11: WARRIOR SOUL-Drugs, God And The New Republic (1991)
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #12: IAN HUNTER-Short Black N' Sides (1981)
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA # 13: THE DICTATORS-Go Girl Crazy! (1975)




venerdì 15 luglio 2016

DANIELE TENCA : INTERVISTA e nuovo album Love Is The Only Law

Uno dei più grandi pregi del cantautore milanese è riuscire ad unire l’America musicale del blues, del blue collar e dei folksinger con il suo vissuto personale, la quotidianità. Dopo un disco di denuncia dedicato al mondo del lavoro (‘Blues For The Working Class’), dopo l’impegno civile del precedente ‘Wake Up Nation’, cerca di esplorare maggiormente dentro se stesso e a un sentimento sempre difficile da inquadrare. Alla title track ‘Love Is The Only Law’ il compito di iniziare e chiudere questo nuovo percorso: “è una canzone (e un disco) sull'inevitabilità dell'Amore nelle nostre vite, che non sempre è un sentimento positivo. Le due anime della canzone rappresentano l'innocenza (acustica) e la consapevolezza (elettrica) con cui si affronta l'Amore nelle varie fasi della vita, tra fallimenti e rinascite”. La musica segue di pari passo: i volumi vengono abbassati e le ballate dai toni ombrosi e rarefatti dominano, interrotte da improvvise pennate elettriche “è nato dall'esigenza di raccontare forse prima a me stesso e poi agli altri che cosa ho imparato da alcune vicende personali, guardandomi quasi da fuori con la sincerità e la lucidità massima possibile. A livello sonoro, l'idea è stata quella di far incontrare il blues con un certo tipo di "americana", dato che di rumore coi dischi precedenti ne avevamo fatto già un pochino”. Anche il minutaggio è quello dei vecchi dischi di una volta “è un caso, anche se la voglia di farne un vinile fa capolino. Il minutaggio è figlio del fatto che ho voluto privilegiare l'essenzialità per dare evidenza massima a quello che volevo dire nelle canzoni, senza preoccuparmi della lunghezza. In generale, la musica "un tanto al chilo", con dischi che devono essere per forza lunghi un tot, non mi ha mai interessato più di tanto. Se qualcuno sentisse la mancanza di qualche assolo in più o coda strumentale in più, il mio consiglio è di venirci a sentire dal vivo!”.
Un grande aiuto in produzione, ma non solo, è arrivato dal bluesmam americano Guy Davis, produttore del disco insieme allo stesso Tenca e a Antonio Cupertino. Una collaborazione che ha lasciato buoni segni, sia umani che artistici “a livello umano, la grande passione e sensibilità con cui si è messo a disposizione del progetto dimostrandomi una stima che mi rende fiero, a livello artistico la capacità di usare la voce come strumento ritmico oltre che melodico, cosa che dà ancora maggiore potenza espressiva e che terrò bene a mente da qui in avanti, nel cantare e nello scrivere canzoni.” Da segnalare, infine, l’uscita per l’etichetta Route 61 di Ermanno Labianca, un progetto che sta andando avanti brillantemente con quell’antica passione artigianale che pare fuori dal tempo e che Tenca descrive bene in due sole parole: “passione e competenza. Ecco le due parole. Il fatto di avere al mio fianco Ermanno Labianca e tutta la Route 61 dà ulteriore credibilità al progetto e la sicurezza di poter lavorare con persone che credono nella musica e in me con una sensibilità che va oltre il fare bene il proprio lavoro”. (Enzo Curelli) da CLASSIX! #47 (Maggio/Giugno 2016)



  vedi anche
RECENSIONE: DANIELE TENCA-Blues For The Working Class/Live For The Working Class (2010/2012)
RECENSIONE: DANIELE TENCA-Wake Up Nation (2013)
 
 

martedì 5 luglio 2016

EUGENIO FINARDI live@ReLoad Festival, Biella, 3 Luglio 2016 e SUGO (1976)


EUGENIO FINARDI  Sugo (Cramps Records,1976)

Quale migliore occasione per riascoltare SUGO. Eugenio Finardi è in giro per l’Italia con un tour chiamato “40 anni di Musica Ribelle: 1976-2016”. Ieri sera sono stato colpito e affondato dalla classica nostalgia degli anni mai vissuti (anche se c’ero già), esattamente quando ha introdotto l’esecuzione per intero (“tranquilli, una volta i dischi duravano poco” ci avverte) del suo secondo album esattamente come fu registrato, grazie al ritrovamento di vecchi nastri dell’epoca che ha permesso ai suoi musicisti di approfondire lo studio sugli arrangiamenti originali. Finardi ha parlato dell’etichetta Cramps di Gianni Sassi, degli straordinari musicisti coinvolti nella registrazione di quel disco (Lucio Fabbri, Walter Calloni, Ares Tavolazzi, Lucio Bardi, Claudio Pascoli, Patrizio Fariselli, Alberto Camerini, Luca Francescani), della particolare atmosfera che si respirava in quegli anni, di come fu registrato: in due settimane, senza un piano stabilito, in assoluta libertà e con tanta voglia di jammare in studio.
Dal vivo l’ha eseguito al contrario, perché diversamente da un vinile, come ha spiegato, sopra ad un palco si deve iniziare piano (‘La Paura Del Domani’) e concludere con il botto (‘Musica Ribelle’). E così è stato. Anche se il bis dedicato al blues con l’esecuzione di ‘Hoochie Coochie Man’ ci dimostra quante carte potrebbe giocarsi in altri campi da gioco. “ Ora vi faccio un regalo io, perchè prima di essere un cantautore, sono un bluesman”. Pensare che ANIMA BLUES del 2005 è rimasto un progetto isolato non mi va giù. Vorrei una replica.
Se l'esordio NON GETTATE ALCUN OGGETTO DAL FINESTRINO destabilizzò il mondo musicale italiano, la seconda prova uscita solo un anno dopo, rafforza e consolida Finardi come una delle migliori promesse del rock italiano in grado di coniugare alla perfezione il cantautorato tradizionale con il rock anglosassone (per un italo americano è la perfezione!), e quel titolo, Sugo, fu proprio scelto per questa ragione: canzoni che abbracciavano più stili musicali, dal rock al country, il reggae, il rock progressivo, il jazz e pure qualcos’altro. “Il mio album Sugo e soprattutto Diesel su etichetta Cramps sono album di assoluta Fusion in cui lavoro con il mio gruppo e con parte degli Area” scrive nell’autobiografia Spostare L’Orrizonte. Ma è uno sguardo senza barriere davanti sulla forte confusione politica di quegli anni, sul terrore che serpeggiava nelle strade, sui cambiamenti sociali, sulla ribellione e le utopie che finirono per sfociare anche durante i concerti musicali. Il concerto al Parco Lambro fu uno spartiacque e si svolse proprio nel 1976. Forte dell'esperienza live del 1975, aprendo i concerti di Fabrizio De Andrè che appariva per la prima volta in pubblico-l’anarchico e il comunista si diceva-, iniziano ad affiorare le prime canzoni che diverranno dei classici da portarsi dietro per tutta la carriera . Gli amici Area aiutano in fase di composizione e si sente: ascoltare ‘Quasar’ per capire. ‘La Musica Ribelle’, con un mandolino elettrico al posto della chitarra, apre il disco con un messaggio teso e pesante, che sfiora l’immaginario punk, ma che si nasconde dietro alla spensierata ricerca del proprio futuro in età adolescenziale: un invito ad usare la musica come un fucile e un successo che piomba del tutto inaspettato diventando un inno di contestazione giovanile : “anna ha 18 anni e si sente tanto sola, ha la faccia triste e non dice una parola, tanto è sicura che nessuno la capirebbe e anche se capisse di certo la tradirebbe “. “Subito dopo aver fatto ‘Musica Ribelle’ io divento Eugenio Finardi” dirà. Ancora musica protagonista: quella che usciva dalle radio libere di quegli anni. Nei primissimi anni settanta, Finardi fu tra i primi dj a trasmettere certe canzoni (il reggae di Bob Marley, ad esempio, che sarà la base su cui poggerà la stesura di ‘C.I.A. cantata con il suo perfetto inglese). Fu invitato a scrivere un piccolo jingle per Radio Popolare: scrisse ‘La Radio’. Una divertente western song che in breve tempo diventò la sigla ufficiale di tutte le radio libere e...un altro successo. E poi ancora il consumismo trattato in ‘Soldi’ e la vita "on the road" del musicista raccontata in ‘Sulla Strada’. L’invito a inseguire i valori più semplici della vita che traspare da ‘Oggi Ho Imparato A Volare’ (...sembra strano ma è vero, c'ho pensato e mi son sentito sollevare come da uno strano capogiro il cuore mi si è quasi fermato e ho avuto paura e sono caduto ma per fortuna mi sono rialzato e ho riprovato...). C’è la sognante ‘Voglio’ (“probabilmente la canzone più bella, quella che preferisco”). Il disco si chiude con ‘La paura Del Domani’, un invito ad unire le forze per cambiare il futuro. Fondamentale.