lunedì 30 giugno 2014

RECENSIONE: NAZARETH (Rock'N'Roll Telephone)



NAZARETH  Rock'N'Roll Telephone (Union Square Music, 2014)


Il classico tormentone che preoccupa e incuriosisce. Ho due notizie da darvi, una buona e una cattiva. Se volete, dopo, ne aggiungo una terza. La prima è che i Nazareth hanno inciso un nuovo disco e al microfono c'è ancora il grande Dan McCafferty; la seconda è che sarà l'ultimo con la sua voce protagonista. La terza è che i Nazareth continueranno l'attività nonostante tutto.
Con il futuro destino già segnato, i Nazareth rilasciano l'ultimo disco con il mitico scozzese dall'ugola foderata da simil cartavetrata al microfono, il ventitreesimo in carriera. Il giovane sostituto (si fa per dire, ha 41 anni), Linton Osborne, è già stato assoldato, ha ricevuto la benedizione che conta, ed è già entrato in azione, portando il verbo della band scozzese in giro per il mondo. Ora, però, c'è da promuovere l'ultimo atto di una delle voci più graffianti e riconoscibili dell'hard britannico. McCafferty abbandona la scena da protagonista dopo più di quarant'anni di onorata militanza, le pessime condizioni fisiche questa volta hanno prevalso (una terribile ulcera allo stomaco lo mise ko sopra ad un palco, prima in Canada, poi in Svizzera). Impossibilitato a salire in scena per i concerti, con una scelta dolorosa ma onesta, il cantante ha gettato la spugna. "La musica che abbiamo fatto è più importante di qualsiasi componente della band. Spero davvero che trovino qualcun altro". Detto, fatto.
Rock'n'Roll Telephone non sembra risentirne, continuando il processo di ringiovanimento iniziato a fine anni novanta quando entrarono a dar man forte ai due veterani McCafferty e Pete Agnew (basso), il figlio di quest'ultimo Lee Agnew alla batteria e il chitarrista Jimmy Murrison; e concretizzatosi con l'uscita dell'ottimo Newz (2008), e proseguito con il seguente Big Dogz (2011). Al confronto tra le ultime uscite, Rock'n'roll Telephone ne esce addirittura vincente nella sua sterzata verso suoni freschi, più duri e metallici che mai. Un misto letale tra passato e presente, anche se continua a mancare quella componente più squisitamente roots e blues che  negli anni settanta consentiva di rileggere successi altrui in modo eccellente. Mancano quelle riletture come Vigilante Man (Woody Guthrie), Alcatraz (Leon Russell), The Ballad Of Hollis Brown (Bob Dylan), The Flight Tonight (Joni Mitchell), Love Hurts (Everly Brothers) che tanto funzionavano, e piacevano. Tutte le altre caratteristiche che hanno segnato la carriera ci sono. La voce ghiaiosa di McCafferty a spadroneggiare sopra a pesanti e arcigni hard rock tenuti in piedi da chitarre pesanti e moderne, graffianti sul tappeto funky nell'apertura scollacciata di Boom Bang Bang, metalliche in One Set Of Bones e Not Today, veloci e in odor di NWOBHM in Punch A Hole In The Sky, dedicata al pilota d'aerei Chuck Yeager, primo ad aver superato la barriera del suono nel lontano 1947, e la finale God Of The Mountain scritta per la nazionale austriaca di sci alpino; chitarre bluesy dal passo lento, pesante e cadenzato come in Just A RideRock'n'Roll Telephone che si prende gioco di uno spiacevole episodio capitato al chitarrista Jimmy Murrison in Russia; scalcianti boogie (Speakeasy, Wanna Feel Good?), fino alle concessioni melodiche e ruffiane delle più deboli ma pur sempre divertenti Long Long Time e Black2b4 con il suo testo carico di speranza.
Ancora il triste e melanconico blues The Right Time e la romantica ballata Winter Sunlight.
Nell'edizione deluxe c'è posto per un secondo CD che ci presenta altre due canzoni inedite (le già citate Just A Ride e Wanna Feel Good?) e cinque estratti live da concerti del 2000 in Canada, del 2006 a Milton Keynes in Inghilterra e 2008 a Somerset sempre in Inghilterra. Nel cuore degli aficionados c'è invece posto per un sentito arrivederci a Dan, a cui mi unisco. La salute prima di tutto.



RECENSIONE: NAZARETH-Big Dogz (2011)



lunedì 23 giugno 2014

RECENSIONE: BILLY JOEL (A Matter Of Trust-The Bridge To Russia)

BILLY JOEL   A Matter Of Trust-The Bridge To Russia (Deluxe edition: 2 CD, 1 DVD, Sony Music, 2014)


Le cronache raccontano-le immagini immortalano- di un pubblico letteralmente scatenato, capace di far saltare le seggiole delle prime file dopo poche canzoni e di conseguenza far scappare le grandi rappresentanze diplomatiche sedute in sala, quelli che stavano guardando il concerto con le orecchie tappate dalle mani e un chiodo fisso stampato in testa: il rock è cosa cattiva e rumorosa, Billy Joel, non gli Slayer, è l'incarnazione del male occidentale venuto a traviarci. C'è un fotogramma stupendo che sembra racchiudere bene questa "invasione pacifica" occidentale : la carovana di tir-pieni di attrezzature per la costruzione del palco-proveniente dall'Inghilterra che staziona davanti alla Piazza Rossa del Cremlino, quasi l'aereo di Mathias Rust atterrato solo pochi mesi prima su quella piazza, avesse trovato già dei giganteschi eredi su ruote. Cose impensabili in quegli anni ma che successero veramente a pochi mesi di distanza, un segnale premonitore, un anticipo di Glasnost' . Billy Joel non si fece intimorire, non si auto censurò lo spettacolo, non rinunciò a nulla, portando in Russia lo stesso identico e mastodontico show con cui girava l'America e il resto del mondo. L'impatto che il tour di sei tappe, tre concerti a Mosca e tre a Leningrado, ebbe sui giovani sovietici fu devastante. La fame di musica occidentale da parte dei giovani era tanta ed in quel momento della storia, con la guerra fredda che si stava intiepidendo, con l'aria di cambiamento e ricostruzione che soffiava proprio in quei giorni sospinta dalla Perestrojka messa in atto da Michail Gorbačëv, e con il muro di Berlino ancora in piedi ma non per molto, qualunque rockstar avesse fatto quel passo sarebbe entrata nella storia. Anche se quel "qualunque" mi lascia molti dubbi, soprattutto vedendo come il piano man newyorchese riuscì a dare libero sfogo alla sua umanità prima ancora che all' aspetto prettamente artistico.
Quanti artisti lo avrebbero fatto? Toccò a Billy Joel costruire quel ponte verso la Russia, nonostante in passato altri grandi nomi (Elton John, Santana, James Taylor) avessero già oltrepassato la cortina, ma mai per un intero tour ma soprattutto mai con un obiettivo ben preciso in testa, quello di cercare di aprire una breccia culturale che potesse distendere i rapporti tra le due più grandi super potenze mondiali. "Per quanto mi ricordo, il clima politico prevalente era di guerra fredda. L'unione Sovietica era il nemico e faceva paura. Avevo paura dei russi, li vedevo come dei monoliti, delle persone bellicose, desiderose di distruggere gli Stati Uniti. A scuola facevamo delle esercitazioni in caso di bombardamenti. Ci mettevano sotto il banco in attesa della sirena...ma ci fu un momento, quando ero ragazzino negli anni '50, in cui diventammo consapevoli dei russi in quanto persone. Un famoso pianista classico di nome Van Cliburn andò in Unione Sovietica per una gara di pianoforte e la vinse. All'improvviso uno dei nostri piacque loro..., quindi nel pensiero di molti, non potevano poi essere così male...capii che la musica era molto potente. Quando ci proposero di andare a suonare in Unione Sovietica fu la prima cosa che mi venne in testa" racconta Billy Joel all'inizio del film documentario che accompagna l'uscita di questo A Matter Of Trust-The Bridge To Russia. Un ricco cofanetto (anche in versione normale con i soli 2 CD) che amplia e approfondisce un piccolo capitolo di storia che merita d'essere conosciuto e ricordato molto più di quanto sia accaduto fino ad oggi, a distanza di 27 anni dall'uscita del doppio vinile Kohuept (1987) dall'inconfondibile copertina rossa, testimonianza musicale di quel tour che risollevò la carriera e il morale dopo un disco difficile, terminato a fatica, e riuscito a metà come The Bridge (1986).
Ci pensano due CD che aggiungono undici canzoni non presenti nell'originale  Kohuept (tra cui The Ballad Of Billy The Kid, She's Always A Woman, The Longest Time, She Loves You dei Beatles, Pressure, It's Still Rock And Roll To me, Piano Man, New York State Of Mind), un ricco e approfondito libretto di 80 pagine con i testi, foto inedite, i credits e ricordi scritti di Michael Jensen, dei giornalisti Wayne Robins, Gary Graff, del fotografo al seguito Neal Preston; un DVD che contiene il concerto e un documentario che come un diario di appunti ripercorre quei giorni attraverso immagini e interviste dell'epoca ma soprattutto nuovi interventi dei protagonisti: oltre a Joel, sfilano con i propri ricordi, la ex moglie Christie Brinkley, i musicicisti della band Liberty De Vitto, Kevin Dukes, Dave LeboltRussell Javors Mark Rivera che ricorda "è come se Billy Joel avesse portato la prima tv a colori, difficile ritornare al bianco e nero dopo", tour manager, il traduttore Oleg Smirnoff che seguì Joel come gli era stato ordinato "stagli appiccicato come una gomma da masticare", tecnici del palco, musicisti rock russi come Stas Namin che ricorda "fu il primo passo ufficiale del rock americano in Unione Sovietica", i tanti e nuovi fan conquistati.
Per Joel furono giorni pieni, intensi, sempre con la famiglia al seguito, la stupenda moglie e la piccola figlia Alexa nata solo un anno prima. Giornate di visite, nuovi incontri, interviste ma anche giorni massacranti sotto l'aspetto fisico e mentale che lo portarono verso una galoppante crisi di nervi che culminò una sera sopra al palco: d'improvviso rovesciò le tastiere, massacrò un microfono contro il pianoforte davanti agli sguardi stupefatti della band e all'esaltazione ancora più marcata del pubblico che credeva di trovarsi di fronte all'ennesima rappresentazione spettacolare del rock occidentale. Nulla di ciò, la colpa fu del tecnico delle luci. Joel si accorse dell'anomalo comportamento dei fan sovietici: quando l'impianto luci li illuminava, questi acquietavano immediatamente la loro esaltazione che riprendeva appena le luci si allontanavano, puntando altrove. Non volevano essere visibili, quasi stessero facendo qualcosa di proibito. Ma Joel, oltre a incazzarsi, durante quei spettacoli non si risparmiò, tirando fuori prestazioni da performer indiscusso, incluso un crowd surfing sulla folla che sul momento impensierì un po' tutti.
Tra le immagini da ricordare: la toccante Honesty dedicata a Vladimir Vysotsky, attore, poeta e cantautore russo che "parlava di verità" remando spesso contro le direttive imposte dall'impero, e che Billy Joel imparò a conoscere in quei giorni, visitando la tomba (morì giovanissimo nel 1980 per arresto cardiaco) e facendo visita all'anziana madre per un brindisi collettivo alla... verità. Le passeggiate per le strade di Leningrado (ora San Pietroburgo) in mezzo ai ragazzi, in prevalenza metallari, vogliosi di ribellione e libertà, per conoscerli e per far capire loro che da giovane era esattamente così anche per lui, nella lontana e "nemica" America."Un ragazzo" racconta Joel " venne da me dopo il primo concerto e mi disse: una cosa simile non era accaduta dal 1917, anno della Rivoluzione Russa".
La partecipazione ad un programma televisivo alla cui richiesta di cantare una canzone, rispose proponendoThe Times They Are A-Changin' di Bob Dylan, era il momento giusto per quella canzone, il momento giusto nel posto giusto; la conoscenza e la profonda amicizia instaurata con il giovane Viktor, un fan dolce e appassionato, che per sopravvivere interpretava il clown in un circo e a sorpresa fu presente in tutte le sei date del tour. Due anni dopo, nel disco Storm Front (1989) Billy Joel tradusse in musica questa esperienza: scrisse Leningrad. "Era la storia di Viktor e di me, e di come riusciva a far ridere mia figlia , e sul riconoscimento di aver trovato degli amici...quella canzone riflette il modo in cui quel viaggio mi cambiò...il viaggio in Russia è stato probabilmente la mia vetta come performer".

"Ci fu una tale effusione di amore, affetto, e calore che dal mio punto di vista la guerra fredda era finita" Billy Joel.




vedi anche COVER ART#: BILLY JOEL (Glass Houses, 1980)



vedi anche RECENSIONE: DAVID CROSBY-Croz (2014)



vedi anche RECENSIONE: JOHNNY CASH-Out Among The Stars (2014) 



giovedì 19 giugno 2014

RECENSIONE: GO GO DIABLOS (Incidents)

GO GO DIABLOS Accidents (New LM Records/Crotalo Ed.Musicali, 2013)



Se il vostro navigatore musicale vi porta nell'estremo nord est della penisola, assecondatelo ancora una volta, non si sta sbagliando. Ultimamente sta fallendo poche volte e quella zona alta dello stivale è una delle più battute: scena ricca, scena rock, scena blues, quella che vi si presenterà appena entrati in Friuli (W.I.N.D., Rusted Pearls & The Fancy Free, Tex Mex, in ordine di apparizione nel mio stereo negli ultimi due anni) e vi accompagnerà fino ai confini stranieri, anche oltre, dove è stato registrato questo debutto, agli Jork Studios di Dekani in Slovenia. Da Gorizia arrivano i Go Go Diablos, quartetto di quelli tosti e onesti, nato nel 2011 dall'unione di navigati ed esperti musicisti, tutti con un curriculum vitae- costruito su collaborazioni eccellenti-vario, lungo e perfino impressionante se leggete i nomi tutto d'un fiato: Mick Taylor, Guido Toffoletti, Bob Margolin, Tolo Marton,Mike Sponza, Alberto Fortis, Stefano Zabeo & Tv Mama, Ian Siegal, Dana Gillespie, Aldo Tagliapietra, Prozac +, Sick Tamburo, Maurizio Solieri, Alan Sorrenti, Elisa, Rudy Rotta. Quattro musicisti che da datore di lavoro assumeresti subito per esperienza, sulla fiducia, senza fare troppe domande. Promossi all'istante. Quella fiducia che si conquistano sin dall'apertura Motorpsycho, viziosa, ululante e saltellante canzone che al pari del video-una divertente e riuscita parodia- si stampa in testa seduta stante: perverso, selvaggio e veloce viaggio nel mondo del regista "cult" Russ Meyer, tra procaci e temerarie valchirie, polvere, copertoni fischianti e motori sparati a mille. Nello spiritoso video è un po' diverso, ma c'è tutto ugualmente. Fidatevi. Amanti del classic rock avvolto dalle comuni radici blues (bello il solo, tra la slide imperante, dell'ospite Federico Zabeo nel tenebroso e riuscito blues Elusive), dove la stagione californiana dei '60, british blues, glam '70, sleaze (Baby I Don't Care), hard e cantautorato americano stringono un patto d'acciaio che ha come comune denominatore la grande passione per la musica dei quattro musicisti: la duttile e vissuta voce di Simone Bertogna che spesso fa l'occhiolino all'amato Jim Morrison, la chitarra fulcro del suono di Federico Spanghero, la sezione ritmica essenziale ed esplosiva-si dice sempre così, ma qui è vero- (Mauro Tolot al basso, Carlo Bonazza alla batteria).
I Go Go Diablos sono una macchina oliata ed esperta, capace di passare dagli umori "doorsiani" di I Am A Man (Who Loves You) e Black Kiss che parte alla Danzig per poi muoversi sui lenti  territori psichedelici guidati dall'ospite Christian Rigano alle tastiere, al puro e incontaminato rock'n'roll, quello stradaiolo di Champagne On Ice, il rockabilly scalciante boogie di Call My Shot, la "bastarda" The Harder Side, figlia di un amplesso tra Stones e Iggy Pop, e la elegiaca e notturna Hollywood Heartbreaker che pare riesumare anche il fantasma del vecchio e compianto Lou Reed.
"Siate pronti è l'ora del rock'n'roll".
La loro It's Time To Rock And Roll non è altro che un manifesto da appendere su tutti i muri che costeggiano i lati delle strade trafficate da chi è in cerca del sano e puro divertimento rock. Nulla di più, nulla di meno. Ad essere pignoli: in più c'è la tanta esperienza che fa la differenza. Si sente. Uscito un anno fa, Incidents vedrà presto un successore, intanto non è mai troppo tardi per scoprirli.




vedi anche RECENSIONE: TEX MEX-The Best Has Yet To Come (2013)
vedi anche RECENSIONE: GENERAL STRATOCUSTER AND THE MARSHALS-Double Trouble (2013)
vedi anche RECENSIONE & INTERVISTA: GUY LITTELL-Whipping The Devil Back (2014)




martedì 17 giugno 2014

FIGURINE (con quella faccia...un po' Rock): #3.ALEXI LALAS & #4.ANGIOLINO GASPARINI


#3. “Fondamentalmente, agli americani non interessano i mondiali di calcio… americani”. Così cantavano Elio e le Storie Tese in quel 1994. Eppure oltre al ricordo dei rigori sbagliati da Baggio, Massaro e Baresi, quei mondiali di calcio…americani, per noi italiani rimarranno anche quelli di una nuova piacevole conoscenza “yankee” che il Padova calcio, neo promosso in serie A, non si lasciò sfuggire. La nazionale statunitense, padrona di casa, fece di tutto per lasciare un segno nel soccer, riuscendo a passare con fatica il primo turno, salvo poi trovarsi di fronte i futuri campioni del Brasile e salutare la competizione già agli ottavi di finale. ALEXI LALAS, stopper (1,91 d’altezza) come tanti ma dal look come pochi (i tifosi patavini canteranno per lui, bonariamente, l’inno “vecchio scarpone”) porta a Padova la musica americana e la sua semplice simpatia da americano in vacanza. Cifre in mano, la discografia musicale sembra infatti più sostanziosa dei tabellini che raccontano i suoi due anni negli stadi d’ Italia: 2 dischi incisi con il gruppo Gypsies e 4 da solista, più la partecipazione ad un tributo tutto italiano a Springsteen, “For you” del 1995 (in compagnia di Luca Barbarossa, Rossana Casale, Circo Fantasma, Marco Conidi, Flor De Mal ecc… ) contro un totale di 44 presenze e 3 reti nei campionati 1994/95 e 1995/96 . Del Buffalo Bill con la chitarra a tracolla rimarranno impressi: l’esordio disastroso contro la Sampdoria (5 gol presi), il suo gol di piattone a porta vuota contro il Milan, ma soprattutto una straordinaria partecipazione alla domenica sportiva in cui sfoggiò il look grunge (tanto di moda allora) tutto camicia di flanella e jeans sdruciti, la sei corde in spalla ed il suo colorito italiano, presentandosi con un “ciao bella come stai?” rivolto alla conduttrice ed un “gimme five” dato al giornalista Gianfranco De Laurentiis. Si autodefinì “un piccolo giocatore nel mondo del calcio”…di quelli che servirebbero ancora oggi, aggiungo io.(EC)


#4. Faccia, ma non solo-come vedremo-da terzo fratello Allman in quel di Jacksonville, quasi un rocker prestato al calcio. ANGIOLINO GASPARINI, bresciano, era uno stopper, colto, bello, e…corteggiatissimo dalle donne ma suo malgrado divenne anche “dannato“ con un triste primato nel palmarares. Classe 1951, giocò a Brescia e Verona in serie B fino all’approdo nella Milano nerazzurra, stagione 1975/76. Purtroppo per lui, le cronache calcistiche saranno povere di grosse soddisfazioni (una coppa Italia vinta con l‘Inter) a scapito delle cronache scandalistiche che lo vedranno protagonista da “prima pagina” per ben due anni: 1981 e 1986. Dopo tre stagioni all’Inter passò all’Ascoli di Costantino Rozzi, neo promosso in serie A. Il 29 Luglio 1981, la squadra agli ordini di mister Carletto Mazzone è in ritiro per l’inizio del campionato quando le forze dell’ordine irrupperò nelle stanze dei giocatori. A Gasparini furono trovati 55 grammi di cocaina. Il roccioso stopper ne faceva uso personale ormai da parecchi anni, dai tempi di Verona, ma riuscì sempre a scamparla. Fu il primo caso in Italia di un calciatore trovato con le mani in pasta. Si fece sette giorni di carcere per poi essere assolto, in quanto riuscì a dimostrare la sua totale estraneità allo spaccio. Un errore di vita che pagò, trovando però grande solidarietà nella squadra ascolana che lo ospitò per altre due stagioni, per un totale di 134 partite (un gol) fino al 1983, anno del suo passaggio al Monza dove finì la carriera nel 1986 dopo essere stato coinvolto nel calcio scommesse e condannato a 4 mesi di stop forzato. Tante, troppe debolezze in una carriera che Gasparini riuscì a riscattare dopo la fine della sua avventura calcistica. Ora, ha aperto una cooperativa sociale ed è impegnatissimo in un centro di recupero per tossicodipendenti. Non tutti i mali arrivano per nuocere. La vita offre sempre il modo per riscattarsi ed i palmares si arricchiscono ugualmente. (EC)

vedi anche: FIGURINE (con quella faccia...un po' Rock): #1.DINO PAGLIARI & #2. LEONARDO CUELLAR


giovedì 12 giugno 2014

RECENSIONE: GUY LITTELL (Whipping The Devil Back) & INTERVISTA a GUY LITTELL

GUY LITTELL Whipping The Devil Back (autoproduzione, 2014)



Tre anni fa, avevo lasciato Guy Littell dietro alla rete che sembrava fuoriuscire dalla copertina e avvolgere il precedente Later, fuori un sole cercava inutilmente di penetrare le pur larghe maglie metalliche. Quel sole non è ancora riuscito a far breccia sulla sua arte, rimanendo un ospite indesiderato. Almeno apparentemente, visto che l'apertura Lonely And Happy Night è un raggio che splende di luce propria. Non è un male. A fine disco lo direte anche voi: "non è un male!". Whipping the Devil Back è un disco essenziale, scarno, ancor più del debutto (prima ancora uscì con l'EP The Low Light And The Kitchen nel 2009), fatto di chitarre acustiche, di chitarre elettriche che intrecciano e allungano il giusto (Lovely People, Cedar Forest), un pianoforte (Deep Enough) e poco altro, registrato e prodotto nuovamente a casa di Ferdinando Farro, con la cura di preservare tutta la primordiale autenticità.
Un diario sofferto ma ottimista, intimista ma aggregante, nato, pensato e scritto durante le ore trascorse durante il lavoro in un albergo che ha tenuto impegnate le notti di Gaetano Di Sarno (questo il suo vero nome, Torre Del Greco la sua città) per un buon periodo di tempo. Lì il sole non batteva mai, e la solitudine dell'attesa, a volte travestita da noia aspettando l'arrivo dell'alba, cercava compagnia frugando tra le ombre e le luci, trovando la propria interiorità (Waiting For My Shift To Start), e mettendo in moto una sopraffina sensibilità di scrittura in grado di scavare in profondità. Molte di queste canzoni nascono lì, da un osservatorio privilegiato in grado di scrutare tra il calare del buio e la solitudine delle persone, a tarda notte, di prima mattina. Scompaiono in parte gli scatti elettrici e più arditi che animavano il precedente Later, viene lasciata alla porte quella poca elettronica di matrice wave che disturbava-pure bene-, sostituiti dai non meno incisivi scatti dell'anima. Rimangono la forza espressiva e sofferta di canzoni nate per riscattare e dare un senso ad episodi di vita che altrimenti passerebbero in secondo piano, addirittura persi, senza una dovuta ribalta. Uniche concessioni in aggiunta al "poco": i campionamenti d'archi che fanno capolino in Every Tiny Drop Of Light, la battente Need You Have You che si stacca dal mood del disco, ripercorrendo alcune vie più audaci del precedente album  e l'armonica dell'ospite Steve Wynn (Dream Syndicate, The Baseball Project) che regala a Whipping The Devil Back il passo della perfetta folk song e un punto in più in fase di promozione. "Il fatto che lui suoni l'armonica proprio su questa canzone mi fa particolarmente piacere in quanto è stata tra le prime a nascere per il nuovo album, la prima a regalarmi quel guizzo speciale che non sentivo da un po'". Sono però sicuro che Gaetano, dall'alto della sua coerenza, non userà una presenza così prestigiosa per far girare il proprio nome-questo lo faremo noi scribacchini-, perché l'omogeneità del disco, tarata verso l'alto, parla da sola ed è più forte di tutto.
In conclusione ad una intervista che accompagnò l'uscita del precedente Later, mi disse che tra i suoi sogni c'era il desiderio di poter lavorare ad una colonna sonora: ebbene, Whipping The Devil Back è la soundtrack dell'anima di Guy Littell. Una parte di anima. Credo che abbia ancora tanto da mostrarci.


7 DOMANDE a GUY LITTELL...

-La prima cosa che ho notato è un'essenzialità ed una omogeneità musicale (quasi da instant record) ancora più marcate rispetto al precedente 'Later'. Forse la sola 'Need You, Have You' sembra riprendere alcuni spunti più arditi presenti in 'Later'. Una scelta studiata?
Hai notato benissimo. Volevo fare un disco più essenziale rispetto a Later, un disco che sentissi "mio" ancora di più. Tutto ciò si è tramutato negli arrangiamenti scarni e nella scelta di suonare gran parte degli strumenti. Volevo che il mio songwriting venisse fuori in maniera nitida. Need You, Have You capisco che richiami alcuni spunti arditi di Later ma è comunque molto più essenziale di qualsiasi brano di quell'album.  Per quanto riguarda l'"instant record", direi che ci siamo ancora una volta, in parte: l'istinto è qualcosa che caratterizza da sempre il mio songwriting, cerco di lavorare ai brani il meno possibile una volta che sono nati, è sempre stato così , e ovviamente gli arrangiamenti scarni di questo nuovo album rendono la cosa ancora più palese, proprio come volevo. Una specie di "instant record" che adoro è Stereo di Paul Westerberg, che contiene anche  canzoni nate ed eseguite col partire del nastro, grandi canzoni.

-In una intervista rilasciata a radio Cometa Rossa dopo/prima il concerto che hai aperto per Dan Stuart/Antonio Gramentieri hai detto che molte canzoni sono nate per rompere la routine del tuo lavoro come portiere notturno in un albergo. Curioso. Cosa succede di notte? Cosa hai trovato oltre la tua interiorità?
Era un po' diverso: ho detto che gran parte delle canzoni sono nate in seguito alla rottura della routine che vivevo prima di iniziare il lavoro. (Ho sbagliato routine). Il cambio di ritmo delle giornate, incontrare gente nuova mi ha donato linfa vitale per scrivere nuovi brani. Prima di iniziare questo lavoro avevo già cominciato delle sessioni di registrazione ma non mi convincevano troppo, mancava qualcosa, mancava quel guizzo che ti anima. Giusto un paio di settimane dopo spunta questo lavoro e mi fa un regalo di inestimabile valore: farmi scrivere canzoni nuove di zecca.
E' un lavoro che ancora faccio di tanto in tanto. Cosa succede di notte? Beh, non molto, all'inizio mi annoiavo abbastanza poi pian piano ho riscoperto i film in streaming e ho imparato a gestirmi un po' meglio il tempo. Non è mai successo nulla di particolare, si sta tranquilli, spesso si può anche dormire. Alcuni brani ne parlano chiaramente, ma non tutto il disco...

-Come si è svolto, in senso pratico, il lavoro con Steve Wynn. Avete lavorato a distanza? Immagino sia stato un piccolo sogno avveratosi avere il suo nome nel disco?
Steve l'ho conosciuto aprendo un suo concerto a Napoli 3 anni fa. Da allora siamo diventati amici e ci scriviamo via email con una certa regolarità. Un giorno gli ho chiesto se gli andasse di suonare qualcosa su un mio brano, lui mi ha risposto di si ed io gli ho inviato via email la title track Whipping The Devil Back. Il fatto che lui suoni l'armonica proprio su questa canzone mi fa particolarmente piacere in quanto è stata tra le prime a nascere per il nuovo album, la prima a regalarmi quel guizzo speciale che non sentivo da un po'. E' stato senza dubbio un piccolo sogno avveratosi essendo un fan della sua opera, del suo songwriting  e spero di poter collaborare con lui ancora, in futuro. Intanto, proprio in questi giorni, ci siamo ripromessi di ripetere l'esperienza napoletana la prossima volta che ci viene.
-Nella recensione, ho volutamente omesso qualsiasi paragone, riferimento o collegamento a altri artisti. Vuoi dirmeli tu i tuoi punti di riferimento musicali?
Beh direi Neil Young senza dubbio, Elliott Smith, Lanegan...ma anche i primi Oasis, il primo Elton John, Nirvana, Alice In Chains (periodo Layne Staley), Lucio Battisti, Big Star...tutta musica che in modi diversi mi ha scosso emotivamente ed ha messo un punto, un nuovo punto dal quale partire nel mio approccio alla musica, in tutti i sensi.

-La scelta dell'autoproduzione è sempre più spesso una scelta consapevole e sinonimo di libertà artistica. Anche per te o sotto sotto c'è qualche desiderio...
La libertà è un bisogno che viene da se, io ne ho bisogno, chi è più flessibile in merito sceglie altre strade, spesso fatte di forti compromessi. Sotto sotto c'è sempre un desiderio molto terreno che in parte sto già realizzando: avere persone che mi sostengono con vera passione, interessate a stabilire un contatto vero, uno scambio di opinioni, perchè davvero a me interessa solo la musica e nient'altro...se le basi sono come dico io allora posso pure iniziare ad affrontare altri aspetti della faccenda con rinnovato interesse, perchè ovviamente capisco che occorre servirsi di persone con una sensibilità diversa per curare certi aspetti. Se dall'altra parte però non vedo esseri umani con delle emozioni ma dei robots interessati solo ai soldi, senza opinioni, non se ne fa nulla. Non capisco proprio questo odierno omologarsi senza personalità a cosa porti, cosa ci sia di tanto eccitante nel sentirsi e vedersi tutti uguali. Gente disposta a spendere soldi per comprarsi l'entusiasmo altrui per il proprio lavoro...emotivamente omologata...senza capire che molto spesso si vede da 100 km di distanza che stanno recitando una parte, che non sono loro stessi e questo è profondamente triste e scoraggiante. Questo non vuol dire che non ascolti giovani gruppi venuti alla ribalta, di certo non mi ammazzo per ascoltarli tutti. Un paio di anni fa ti dissi che mi era piaciuto  Bloom dei Beach House.

-Come proseguirai la promozione del disco?
Con Stefano Grimaldi di Revolver Lab, con me sin dai tempi di Later, stiamo pianificando un tour, poi dovrebbe uscire anche un video...l'attività live è la cosa più importante e ci teniamo a fare un buon lavoro.

-Siamo a metà anno, hai qualche disco da consigliare...
Di quelli ascoltati fin'ora direi Do to the beast degli Afghan Whigs , Me And The Devil di Chris Cacavas e Edward Abbiati , Morning Phase di Beck , 3rd dei The Baseball Project, altro progetto del mio amico Steve Wynn e Lost In The Dream dei The War On Drugs.

vedi anche:
RECENSIONE: GUY LITTELL-Later (2011)
INTERVISTA a GUY LITTELL 2011
RECENSIONE & INTERVISTA: MATT WALDON-Learn To Love (2014)
RECENSIONE: MARC FORD-Holy Ghost (2014)


lunedì 9 giugno 2014

FIGURINE (con quella faccia...un po' Rock) : #1. DINO PAGLIARI & #2. LEONARDO CUELLAR

#1. DINO PAGLIARI, a vederlo nella famosissima figurina dell’anno 1979/80 con fluente chioma riccia e lunga barba, sembra più un sopravvissuto delle migliori stagioni dei southern rockers Lynyrd Skynyrd. Invece lui, classe 1957, calcò veramente i campi di calcio di serie A, anche se per sole 44 volte, segnando 6 reti, ma in fondo era un’ala sinistra, di quelle che amavano sacrificarsi per il centrocampo. Un attaccante operaio e generoso, bizzarro, anticonformista ma generoso. A Firenze lo ricordano per un gol all’eterna rivale Juve e per la leggenda che lo voleva in giro per Firenze in compagnia di una gallina tenuta al guinzaglio, proprio come faceva anni prima il torinista Gigi Meroni per le vie di Como. Dopo l’abbandono al calcio giocato nel 1987, intraprende una carriera da zingaro della panchina. Nella stagione 2012/13 è entrato in corsa alla guida del Pisa: con 6 vittorie in 6 partite lo ha portato ai Playoff per la serie B, poi persi ai supplementari con il Latina. Per rivedere un’altra figurina dalla stessa fisionomia, bisogna correre al 1994, a Padova, con l’arrivo dello "yankee” Alexi Lalas, lui sì vero rocker per hobby. (ec)


#2. La figurina della vita. La testata di capelli del messicano LEONARDO CUELLAR, un mix da laboratorio estetico tra Sly Stone e qualche componente della Santana Band sul palco di Woodstock, me la sogno di notte dalla calda estate 1978, da quando qualcuno iniziò a far girare per casa l’album Panini dei mondiali argentini. Da allora diventò uno dei miei miti calcistici, il tutto senza averlo mai visto nemmeno palleggiare per un secondo. Solo recentemente, preso da nostalgica curiosità, ho provato a cercare alcune immagini su Youtube. Leonardo Cuellar è esistito! Senza bisogno di un telecronista, si può seguire il riconoscibile casco aggrovigliato di capelli mentre vaga sulla fascia sinistra ed esultare per un gol dopo un tiro/cross abbastanza fortunoso. Non puoi sbagliare, lo riconosci immediatamente: gambe sottili sottili, che oggi non ti farebbero nemmeno entrare in un campo dilettantistico, a far risaltare ancora di più il testone, numero dieci sulla schiena ed esultanza bella e genuina come quelle di una volta, mani al cielo e... basta. Una carriera divisa tra il campionato messicano e quello statunitense dove concluse la carriera nel 1984.
Certo, rivederlo oggi a 60 anni, con taglio corto e brizzolato, rovina i miei ricordi adolescenziali quando sfogliando l’album lo sguardo cadeva sempre sulla squadra messicana e quella figurina accanto al busto di Hugo Sanchez, un altro che non scherzava in fatto di capelli. Wikipedia mi dice che attualmente allena la squadra femminile del Messico, forse ancora attratto dalle chiome fluenti che negli uomini non troverebbe più tanto facilmente. (ec)


vedi anche FIGURINE (con quella faccia un po' Rock): #3.ALEXI LALAS #4.ANGIOLINO GASPARINI



 

martedì 3 giugno 2014

RECENSIONE: LEE BAINS III & THE GLORY FIRES (Dereconstructed)

LEE BAINS III & THE GLORY FIRES Dereconstructed (Sub Pop, 2014)



Sarebbe bastato ripetere la formula del debutto There Is A Bomb In Gilead uscito due anni fa per ottenere buoni consensi. Uno dei migliori dischi di quell'annata. Ma evidentemente Lee Bains con i suoi Glory Fires non si accontenta, avendo altre buone qualità-travestite da rabbia- da mostrare. Là dove il debutto era un concentrato di southern/swamp rock caricato a salve da magniloquenti, accecanti, limpide e calde striature soul distribuite anche lungo tranquille camminate nel country, in questo seguito vengono lucidate a dovere le canne dei fucili, pronte per sparare una raffica di tosto e spavaldo garage rock, sporco proto punk-i fumi da polvere da sparo di Stooges e MC5 appaiono ad intossicare in continuazione-con chitarre sature di fuzz e feedback (il nuovo chitarrista Eric Wallace ci mette il suo), talmente carico d'elettricità da mettere in ombra persino la bella voce di Lee Bains che così bene si era messa in mostra nel debutto: qui si fa più graffiante nel cercare di emergere tra amplificatori tarati al massimo delle loro possibilità. Quasi difficile riconoscere la stessa band del debutto dietro a canzoni tirate come l'iniziale denuncia sociale che esce da The Company Man con i suoi riferimenti espliciti ai movimenti d'occupazione che misero sottosopra gli USA solo due anni fa, l'urgenza stordente della title track, lo stomp blues iper vitaminizzato di Burnpiles Swimming Holes, la deflagranza punk di Flags. I cambi in formazione avranno avuto il loro peso, la voglia di non ripetersi anche. La voglia di divertirsi con il rock'n'roll pure. Lo si riconosce allora, quel cordone ombelicale che li lega a certi suoni, in episodi comunque ben camuffati come What's Good And Gone, il fiume melmoso e southern di Mississippi Bottom Land, in We Dare Defend Our Rights!, e la finale, programmatica e summa dell'intero disco Dirt Track, tutti classic rock ancora tosti dove emerge però il cantato e il retro bagaglio soul, black e rurale della loro Alabama. Tutti buoni esempi di come si deve vivere e raccontare il sud degli States negli anni duemila.
Nessuna ripetizione, quasi un nuovo debutto. I primi due ascolti sono stati accompagnati da un momentaneo smarrimento, poi fila via tutto liscio, confermando Lee Bains III & The Glory Fires come una delle più vere, adrenaliniche e fulgide rappresentanze del rock odierno a stelle e strisce, mistura bilanciatissima (se si affiancano i due dischi prodotti fino ad ora) tra southern roots, quello '70-senza mai cadere nel mero revival-e citazioni più moderne e taglienti a gruppi di riferimento come Drive-By Truckers (nuovi eredi?), con in più il furore indomito del punk rock, tutto unito ad una dose di coraggio non indifferente nell'affrontare temi scottanti con occhio attento e critico, conservatore ma progressista e moderno allo stesso tempo (religione, razzismo, politica, amore per la propria terra) in liriche rilevanti e per nulla scontate. La classica band da cui non si saprà cosa aspettarsi quando arriverà l'ora del terzo disco. La speranza più ovvia e scontata sarebbe l'unione più coesa tra le due anime che ci hanno fatto conoscere fino ad ora. A questo punto, io, di mister Bains, non mi fido più.



RECENSIONE: LEE BAINS III & THE GLORY FIRES-There Is A Bomb In Gilead (2012)
RECENSIONE: DRIVE-BY TRUCKERS-English Oceans (2014)
RECENSIONI: CHRIS ROBINSON BROTHERHOOD-Phosphorescent Harvest (2014) THE CADILLAC THREE-Tenneessee Mojo (2014) WHISKEY MYERS-Early Money Shakes (2014)

lunedì 26 maggio 2014

RECENSIONI: CHRIS ROBINSON BROTHERHOOD(Phosphorescent Harvest) THE CADILLAC THREE(Tennessee Mojo) WHISKEY MYERS (Early Morning Shakes)


CHRIS ROBINSON BROTHERHOOD Phosphorescent Harvest (Silver Arrow Records, 2014)


Dovessi dividere la loro produzione in una ipotetica trilogia, non avrei dubbi nell'assegnare al primo disco Big Moon Ritual  il compito di rappresentare l'universo incontaminato, l'ignoto, al secondo The Magic Door la terra e le radici, a questo terzo l'acqua, la fluidità. Indispensabile, più limpido e leggero ma sempre sfuggente in qualche modo. Con i Black Crowes nuovamente in pausa (sembrano sempre arrivati in dirittura finale ma rinasceranno sempre come una fenice "non so nulla dei Crowes in questo momento" dice Robinson) dopo averne saggiato la buona forma nel tour dello scorso anno, passato anche in Italia, Chris Robinson e l' altra sua congrega arrivano al terzo disco dimostrando di essere una squadra compatta a tutti gli effetti e non più un progetto estemporaneo o uno sfogo liberatorio come potevano esserlo solo un paio di anni fa, quando tutto prese il via. Se i primi due furono quasi un parto gemellare, figli dello stesso mood live e immediato sui cui posavano le radici della loro nascita, con il cantante assurto a ruolo di padre solitario e capo banda, questo nuovo "raccolto" è un lavoro di squadra a tutti gli effetti, costruito negli studi di registrazione Sunset Sound di Los Angeles, ancora con il produttore Thom Monahan, e lavorato in modo estremamente spensierato (la contagiosa e divertente opener Shore Power sembra lì a dimostrarlo) ma ancora una volta con le lancette del tempo ferme e immobili tra '60 e '70 (About A Stranger continua a strizzare l'occhio a Gerry Garcia dei settanta) . Neal Casal, sempre libera e fantasiosa la sua chitarra, è diventato il  nuovo imprescindibile partner ideale (anche nella stesura dei pezzi) e il tastierista Adam Macdougall si sta ritagliando sempre maggior spazio, le sue fantasiose macchinazioni aprono, chiudono e diventano protagoniste nel mezzo. Voli pindarici (lo space strumentale Humboldt Windchimes presente come bonus track), psichedelia, inflessioni prog (Burn Slow), lunghe camminate rurali (Wanderer's Lament, Tornado), tempi ed umori cangianti (Jump The Turnstiles) in un disco a tratti più leggero e immediato rispetto ai due precedenti con Robinson che aggredisce e incide meno, preferendo l'arte dell'addolcire la portata, dell'accompagnare senza ferire.
Per qualcuno è già diventato l'anello debole dei tre dischi usciti, per me è solamente una delle tante vie che questa band è in grado di percorrere: assecondando l'assoluta libertà, la versatilità, la spontaneità, l'alchimia perfetta tra i componenti, totalizzante amore per la musica come poche altre band sono in grado di regalarci al giorno d'oggi. Meno classificabile e forse sì, più pasticciato, ma averne. Nessun calcolo e tanto cuore, cementato e tenuto insieme da chilometri e chilometri di strada suonando in lungo e in largo attraverso la California-vero habitat naturale della band-, ogni sera come fosse l'ultima. Noi aspettiamo l'arrivo del loro tour bus in Italia.






THE CADILLAC THREE Tennessee Mojo (Big Machine Records/Spinefarm Records)


Puzzo di gasolio dalla stazione di servizio, aroma di whiskey che impregna il consumato bancone del bar e odor d'erba verde appena falciata proveniente dai campi limitrofi alla highway. In mezzo ci sono i The Cadillac Three, perfettamente a loro agio tra le vibrazioni elettriche del southern, le sciabolate hard e le passeggiate rurali e stonate nel country (Whiskey Soaked Redemption, White Lightning). Un gruppo che starebbe bene anche tra l'ispirata ondata di southern revival che ha inondato il periodo a cavallo tra gli anni ottanta e i primi anni novanta ( Georgia Satelittes, Mother Station, Black Crowes e Raging Slab ) e i grandi pionieri del genere che hanno segnalato la strada nei seventies. Insomma, latente originalità salvata da una spiccata attitudine, tanto genuina e ruspante (l' honky tonk Turn It On) da salvare un disco con poche idee originali ma tenuto in piedi dalla forte passione e dalla molta grinta (I'm Rockin').
Si fanno ascoltare e vanno giù che è piacere fin dalla tosta apertura I'm Southern, un titolo programmatico ed un chorus che rimane in testa. Una sigla d'apertura perfetta. Pochi fronzoli e tanta sostanza. Un trio formato dal cantante e chitarrista Jaren Johnston, il bassista Kelby Ray e il batterista Neil Mason, vengono da Nashville e si conoscono fin dai tempi del liceo, anche se per venire fuori hanno faticato le proverbiali sette camicie. Orgogliosamente fieri e con tutto il futuro davanti.





WHISKEY MYERS Early Morning Shakes (Wiggy Thump Records, 2014)

Le terre del sud vanno innaffiate a scadenza regolare: per preservare gli antichi tronchi capostipiti ma anche per far crescere nuovi germogli. Almeno ogni decade ha il suo buono. Ultimamente, buoni rami si sono espansi e dopo i sublimi e bucolici Blackberry Smoke (cercate il loro The Whippoorwill) e i più tosti e ruspanti Hogjaw, dalle parti di Palestine nel Texas sono cresciuti questi nuovi figli della bandiera confederata, protetti dagli spiriti dei primi Lynyrd Skynyrd, sporchi quanto basta per preferirli ai giovani e talentuosi Black Stone Cherry, gruppo partito benissimo ma successivamente condannato dai mass media a quel ruolo da "nuovi eroi" che sembra portare più danni che benefici alla loro musica sempre più compiacente verso il grande pubblico.
Al terzo disco, i Whiskey Myers, invece, mantengono intatta la freschezza compositiva e riescono a focalizzare al meglio tutte le loro potenzialità: con la sontuosa voce del cantante Cody Cannon a fare la differenza, con episodi potenti ed enfatici dominati dalle classiche tre chitarre tre (Dogwood, Home, Hard Row To Hoe), con viziosi honky tonk (Wild Baby Shake Me), epiche ballate (Reckoning, Lightning), ma anche con qualche concessione melodica più marcata come Shelter From The The Rain, roba buona per farsi conoscere anche a chi non calpesta le loro terre. Classici, ma il genere non richiede altro.




vedi anche
RECENSIONE: CHRIS ROBINSON BROTHERHOOD-Big Moon Ritual (2012)
RECENSIONE: CHRIS ROBINSON BROTHERHOOD-The Magic Door (2012)
RECENSIONE: BLACKBERRY SMOKE-The Wippoorwill (2012)
RECENSIONE: MARC FORD-Holy Ghost (2014)
RECENSIONE: TOM PETTY & THE HEARTBREAKERS-Hypnotic Eye (2014)





domenica 18 maggio 2014

RECENSIONE: MICHELE ANELLI & CHEMAKO (Michele Anelli & Chemako)

MICHELE ANELLI  & CHEMAKO Michele Anelli & Chemako (UltraSoundRecords/IRD, 2014)



La storia musicale di Michele Anelli è indissolubilmente legata ai Groovers (prima ancora con gli Stolen Cars), pioneristico -benché tutto iniziò solo nel 1989- combo piemontese, tra i prime movers nel tracciare una strada tutta italiana al rock'n'roll "proletario" a stelle e strisce di Bruce Springsteen, John Mellencamp, Steve Earle ma anche di gruppi come Del Fuegos, Del Lords, Green On Red e perché no, continuare su quella via indicata dai connazionali Rocking Chairs, The Gang solo qualche anno prima, fino a svilupparsi, con il tempo, verso territori cari alla nuova scena alt-country (Uncle Tupelo, Wilco) distaccandosi da paragoni che iniziavano ad essere anche pesanti e limitanti. I Groovers non ci sono più da quattro anni, ma Anelli non ha abbandonato quella strada, l'ha semplicemente indirizzata verso altre mete -la scrittura, l'impegno sociale-dimostrando coraggio e rischiando senza paura di sorta: l'italiano con tutte le sue complicazioni linguistiche (da adattare al rock) ha preso il posto dell'inglese, la band pavese Chemako (nome preso dall'amato fumetto Ken Parker) lo accompagna e garantisce la continuità con i suoni rock del passato, senza intaccare la strada cantautorale come dimostrano il blues da strada e territorio di Lettera Dal Finestrino (Ticino) e il folk della finale Sparare Cantando. Le storie da raccontare non mancano, apparentemente intime e personali (La Strada Di Mio Padre) ma che riescono a coinvolgere seguendo l'esempio dell'amico di lunga data Evasio Muraro, cantautore entrato anche nell'ultima incarnazione dei vecchi Groovers, nel breve progetto Flamingo che li vedeva gemellati e presenza gradita ai cori in alcune tracce di questo "nuovo" esordio.
foto: Rodolfo Sassano
Se oggi il rock in italiano è spesso legato a quei soliti nomi noti e certi nauseanti cliché hipster dell'indie-rock, Michele Anelli cerca una via personale, tortuosa ma avvincente. Un matrimonio riuscito quello con i Chemako: mai invadenti ma con la capacità di lasciare il segno al momento giusto come avviene con il poderoso basso di Roberto Re che fa partire la funkeggiante Vorrei Vederti Libera  e le presenti chitarre di Gianfranco Scala e dello stesso Anelli che sanno o allungare nei grandi spazi come succede nella coda finale di Io Lavoro Per I Tuoi Sogni, dai tratti younghiani, ricamare come nel lento incedere alla Massimo Volume di Ballata Contro Il Tempo, ma anche affondare nel rock, nel blue collar tinto di bianco, rosso e verde di Uomini e Polvere, nella intensa e rockata Andare Oltre. Completano la formazione: Stefano Bertolotti alla batteria, Mario Spampinato al basso e la cantante Lakeetra Knowles, seconda voce in La Scelta di Bianca.
Manca forse la canzone traino in grado di far uscire il disco dal popolato e meraviglioso "underground italiano che insegue l' America" in cui questo album è nato per viaggiare, anche se le "battistiane" Sono Sempre Nei Guai e Vorrei Vederti Libera potrebbe assumersi l'incarico ed uscirne vincenti. Non è poi un male per chi sa ancora armarsi di curiosità, ma la conferma dell'omogeneità artistica di un disco coraggioso-nel cassetto di Anelli da tempo- che supera la prova del (nuovo) debutto, aspettando di conoscere il suo destino all'interno della sua carriera.



vedi anche RECENSIONE: MASSIMO PRIVIERO-Ali Di Libertà (2013)
vedi anche RECENSIONE: LUCA MILANI- Lost For Rock'N'Roll (2013)
vedi anche RECENSIONE: EVASIO MURARO- Scontro Tempo (2013)



sabato 10 maggio 2014

RECENSIONI: EILEEN ROSE (Be Many Gone) CARRIE NEWCOMER (A Permeable Life) ELIZA GILKYSON (The Nocturne Diaries)

EILEEN ROSE Be Many Gone (Holy Wreckords/IRD, 2014)

Eileen Rose è una splendida pendolare del rock. Cantautrice americana dal sangue europeo, nativa di Boston nel Massachusetts, giovanissima si traferì a Londra, e proprio in Europa rilascia i suoi primi dischi solisti attraverso la Rough Trade. Dopo la spartiacque annata del 2001, nel 2003 decide di far ritorno a casa, stare vicina agli anziani genitori ma proseguire la sua via artistica già ben segnata con ancora più passione e dedizione. Be Many Gone è l'ottavo disco solista che raccoglie tutta l'esperienza accumulata in carriera e riversata in un affascinante, morbido e molto introspettivo viaggio d'autore condotto sia con la preponderante eleganza, quella della jazzata e soul She's Yours e dei sussurri di classico country di Prove Me Wrong, There Will Be Many Gone, Comfort Me e Wake Up Silly Girl con la pedal steel di Legendary Rich Gilbert (anche produttore) protagonista a tradire la sua nuova e tranquilla vita in quel di Nashville dove ha deciso di trasferirsi da qualche anno; sia con rari sprazzi di apparente divertimento, caliente e meticcio nei suoni mariachi di Each Passing Hour, una contagiosa girandola di violini e trombe con l'immenso Frank Black (Pixies) a duettare, frizzante nel rockabilly Just Ain't So che pare uscito da un vecchio disco di Wanda Jackson, ma anche nella vivace Queen Of The Fake Smile e nella  ritmata Space You Needed, inizio e fine di un disco che fa da fedele specchio alla sua inquieta e affascinante personalità.


CARRIE NEWCOMER  A Permeable Life (Available Light records/IRD, 2014)

Raffinata e intelligente cantautrice dell'Indiana che coniuga l'impegno sociale, la beneficenza e l'arte in modo perfetto, forse fin troppo verrebbe da dire ascoltando le sue canzoni prive di qualsivoglia sbavatura. Una viaggiatrice che raccoglie le esperienze in canzoni (ma anche libri) dove spiritualità, natura (la splendida copertina del disco parla chiaro) e amore universale si scindono in uno sguardo sempre curioso che accende nuove luci come canta in A Light In The Window. Carrie Newcomer ha vent'anni di carriera alle spalle, una dozzina di dischi e tanti riconoscimenti per la sua attività di ambasciatrice di cultura in giro per il mondo e un occhio sempre attento, vigile e critico verso l'umanità e la latente incomunicabilità che la divide. Quasi un dono, il suo. Voce calda, profonda e comunicativa che ricama su un folk raffinato e costruito su arrangiamenti ricchi di strumenti (viola, percussioni, organo e wurlitzer) ma non over prodotti,  melodie affascinanti anche a presa diretta (Writing You A Letter) e contaminate da un pizzico di world music (l'universale Room At The Table), qualche numero più up-tempo e umoristico (Please Don't Put Me On Hold) che disegnano perfettamente uno stile di scrittura che il tempo ha saputo rendere riconoscibile. Prodotto da Paul Mahem (John Mellencamp, Lily &Madaleine, queste ultime anche ospiti in The Ten O'Clock LineA Permeable Life è diventato anche un libro di poemi e saggi uscito in contemporanea al disco. Quando dice "le voci su questo album sono state cantate come se fossi seduta al tavolo di una cucina con l'ascoltatore" non si fatica a crederle visto che il suo messaggio universale sembra arrivare allo scopo e invitare tutti a scavare un po' più a fondo sotto la superficie delle cose e le corazze delle persone.

ELIZA GILKYSON  The Nocturne Diaries (Red House Records/IRD, 2014)

Lo sbaglio più grande sarebbe confondere Eliza Gilkyson con le tante cantautrici che hanno seguito le tracce lasciate dalle ruote della macchina di Lucinda Williams lungo i campi arati americani. Eliza, nata a Los Angeles ma da tempo trasferitasi in Texas, ha dalla sua una carriera lunghissima, nata molto prima e tramandata da una famiglia immersa totalmente nella musica: il padre Terry fu un apprezzato musicista negli anni '50, anche autore di colonne sonore per la Walt Dysney, il fratello Tony militò con i Lone Justice e gli X, il figlio Cisco Ryder è qui presente, suona, produce e garantisce il futuro. Con un primo disco registrato addirittura nel 1969, solamente da metà anni ottanta in avanti la sua carriera ha preso quota, tanto da diventare lei stessa un punto di riferimento e autrice ricercata dai colleghi: cercatela nel tributo a Jackson Browne di fresca uscita, Looking Into You, dove rilegge Before The Deluge e sull'ultimo disco di John Gorka, Bright Side Of Down, duettare nella title track. Queste dodici canzoni, come la stessa autrice racconta, le sono arrivate in dono nel pieno della notte quando l'oscurità, paradossalmente, dona maggior risalto a storie, persone, visioni che la luce del giorno sembra volutamente nascondere. Un concept di canzoni immerse nel suono acustico e rilassato-con qualche sprazzo elettrico- tra country e folk, che raccontano storie d'inquietudine (la ballata An American Boy), disperazione (Not My Home), difficoltà (World Without End), di guerra (Where The Monument Stands scritta da William Stafford e John Gorka), di viaggi (la desertica Fast Freight) ma anche speranza e riscatto (The Red Rose And The Thorn, Midnight Oil, il bel country Eliza Jane), sogni (in Ark riscrive il racconto biblico di Noè come una bella fiaba), di vita vissuta come se dopo la notte non ci fosse un domani (No Tomorrow).
Qualche prestigioso ospite come Ray Boneville e Ian McLagan e la bellezza di un disco che scorre piacevole come una di quelle nottate trascorse al chiaro di luna a parlare, parlare e ancora parlare con la migliore delle compagnie possibili. Ed è già mattina...



vedi anche RECENSIONE: JOHNNY CASH-Out Among The Stars (2014)




vedi anche RECENSIONE: JOHN GORKA-Bright Side Of Down (2014)




vedi anche RECENSIONE: MARC FORD-Holy Ghost (2014)




vedi anche RECENSIONE: MICHAEL McDERMOTT & THE WESTIES-West Side Stories (2014)


lunedì 5 maggio 2014

RECENSIONE: BLACK LABEL SOCIETY (Catacombs Of The Black Vatican)

BLACK LABEL SOCIETY  Catacombs Of The Black Vatican  ( eOne, 2014)



Riportati i livelli degli esami medici alla pari, età e vizi iniziano a farsi sentire anche per il verace Zakk Wylde, il "vichingo yankee" per eccellenza è pronto per una nuova sfida con la consueta baldanza che lo contraddistingue fin dal suo alto esordio in "società" avvenuto con No Rest For the Wicked di Ozzy Osbourne nel 1987, quando da imberbe ragazzetto del New Jersey accettò la sfida di coprire il posto appartenuto prima a Randy Rhoads poi a Jake E. Lee, portandosi a casa il rispetto degli scettici e ponendo la sua Les Paul sul piedistallo di quelli che contano, fino ad arrivare alla summa del loro sodalizio, mai più eguagliato in verità, con No More Tears (1991). Uno che non le manda mai a dire. Un puro, un genuino, sanguigno, uno che in barba (e che barba) ad ogni finto protocollo commerciale non ha mancato occasione per ribadire che questo suo ultimo disco è uguale a tutti quelli che ha fatto fino ad ora. Confermo è così (non sempre è un male, anzi). Prendere o lasciare. Io prendo volentieri, perché personaggi così nascono raramente, perché di fondo nei suoi dischi esiste già abbastanza varietà musicale che moltissimi altri musicisti si sognerebbero.
Con una copertina brutta assai e un titolo che parrebbe suonare blasfemo, in verità i "black vatican" non sono altro che i suoi studi di registrazione di Los Angeles tutti pittati di nero, e lui è pure cattolicissimo, queste dodici canzoni hanno l'arduo compito di seguire il precedente e ottimo Order Of The Black (2010) con la penalizzazione di non avere più il fraterno chitarrista Nick Catanese in squadra (sostituito da Dario Lorina) ma con i soli John DeServio al basso e Chad Szeliga alla batteria, e ci riescono, mettendo sul piatto molta più salsa piccante (non solo quella commestibile prodotta dallo stesso Wylde) intorno alle canzoni. La presenza di numerose e malinconiche ballads in bilico tra cantautorato e roots sono la conferma della sua poliedricità artistica che già lo strepitoso disco a suo nome (Book Of Shadows) ed il recente live acustico Blackened (2013) ci avevano fatto conoscere: Angel Of Mercy si bagna di lacrime tra un assolo e arrangiamenti d'archi, Scars cuce le cicatrici dell'anima con insospettata dolcezza, Shades Of Gray è forse di troppo ma chiude l'album in discesa e tutta tranquillità.
Non mancano i consueti macigni mid-tempo (il trittico iniziale Fields Of Unforgiveness, My Dying Time, Believe), I ve Gone Away, la forte pigiata del piede sull'acceleratore in Damned The Flood, tutto l'amore dichiarato per gli Alice In Chains dell'amico Jerry Cantrell in Beyond The Down, per il southern rock come già dimostrato in passato con il mai dimenticato progetto Pride & Glory ( Zakk nel 1993 suonò anche con gli Allman Brothers Band per una sola sera, in sostituzione dell'assente Dicky Betts), gli assoli disseminati lungo tutte le canzoni senza mai sbrodolare, e tutto l'amore per i Black Sabbath in  Empty Promises che potrebbe benissimo essere la quattordicesima traccia che manca a 13. Nella deluxe edition: la killer Dark Side Of The Sun e la semi-ballad The Nomad in più.
Insomma, è vero, non manca nulla per rendere questo disco uguale a tutti gli altri.
Amen.



vedi anche RECENSIONE: BLACK LABEL SOCIETY-Order Of The Black (2010)
vedi anche RECENSIONE: BLACK LABEL SOCIETY-The Songs Remains Not The Same (2011)
vedi anche RECENSIONE: THE NASHVILLE PUSSY-Up The Dosage (2014)
vedi anche RECENSIONE: BIGELF-Into The Maelstrom (2014)

martedì 29 aprile 2014

RECENSIONE: MICHAEL McDERMOTT & THE WESTIES (West Side Stories)

MICHAEL McDERMOTT & THE WESTIES  West Side Stories (Appaloosa/IRD, 2014)



Altro bel colpo della rinata etichetta italiana Appaloosa, un' attestato di fedeltà verso Michael McDermott che sancisce in modo definitivo il matrimonio tra il cantautore di Chicago e l'amata Italia. Lui ci aveva già pensato sposando nel nostro paese, circondato da tanti amici, la moglie Heather Horton, e incidendo la canzone Italy due anni fa. Questa volta McDermott non si presenta da solo ma con un gruppo: The Westies. Nome della band preso in prestito dalla gang irlandese che da fine anni 60 fino a metà anni 80 seminò panico e terrore nella West Side di Manhattan e nata in modo del tutto casuale durante una jam a Nashville. Amore a prima vista tra i musicisti (la moglie Heather Horton alla voce e violino, Lex Price al basso e produttore, Joe Pisapia alle chitarre elettriche, Ian Fitchuk alla batteria, e John Deaderick al piano) e ispirazione nuovamente in moto per scrivere come ai vecchi tempi, a partire dall' iniziale Hell's Kitchen che trae ispirazione proprio dalle malefatte dei Westies per poi allargarsi e fare luce nel buio che investe la mente umana, un' intricata ragnatela di conflitti interni. "Tutto quello che volevo fare era scrivere canzoni e raccontare storie come i miei nonni e i miei genitori hanno fatto con me come nella migliore tradizione irlandese" spiega McDermott nel sito del gruppo.
Venticinque anni di carriera condotti nel retrobottega della musica, scrivendo e raccontando storie come solo i migliori sanno fare ma con il sipario principale sempre ed inspiegabilmente precluso e sbirciato solo di rado, certamente non per demeriti ma per colpa di una generazione monstre che lo ha preceduto e che non molla la presa, come amo spesso pensare difronte all'ondata dei tanti cantautori americani della sua generazione. La compagnia è numerosa: da John Kilzer a Michael Morales, Will T. Massey e tantissimi altri. Insomma, si corre dietro ad una cover degli Havalinas e ci si dimentica per strada una  The Silent Will Soon Be Singing (canzone stupenda del suo ultimo solista Hit Me Back e qui ripresa-intitolata Silent-e messa in conclusione come bonus track). Così va il mondo. Gli anni tormentati e difficili passati a menar pugni ai demoni sono ormai alle spalle e ben esorcizzati dal precedente disco, che dimostrava che il carattere era ancora quello del combattente, di chi ancora deve sgomitare per uscire allo scoperto e trovare una propria identità, lontana da continui paragoni, ma con la saggezza e la tranquillità della maturità e della pace ritrovata. McDermott ha sempre indossato sia il giubbotto di pelle del rocker urbano sia le scarpe consumate del folksinger e lo ha dimostrato fin dall'accoppiata d'esordio 620 W.Surf (1991) e Gethsemane (1993), due tra i migliori dischi di cantautorato americano usciti nei primissimi anni 90. Anche se mai più eguagliati. McDermott, tra alti e bassi, ha ripreso quella buona strada polverosa animata da racconti e anima, quella del working class folk percorsa da Springsteen, Elliott Murphy, Steve Forbert e John Mellencamp, quella dove capita di incrociare piccole storie di vita e raccontarle, dove i meno fortunati diventano protagonisti e gli affetti, gli amori, i sentimenti hanno ancora un valore determinante: anche quando tratteggiano incomunicabilità (Rosie), perdita (Fallen), diventano complicati come canta nella tenue Say It insieme alla moglie Heather, si dipingono anche di nero tra morte e ghigliottina in Death. Tutti si reggono però su una vitale filosofia: " a volte si ha bisogno dell'oscurità per vedere la luce", quella che esce dal filmico viaggio di Bars.
West Side Story-ampliamento dell' EP già edito in America l'autunno scorso-con le sue undici canzoni in scaletta e l'inclusione delle traduzioni in italiano dei pezzi, è un disco che prende forma dal basso, che si priva di ogni orpello strumentale superfluo: tutto è ridotto allo scheletro del folk acustico con i bei ricami di pianoforte e violino che lasciano il giusto spazio alle voci di tutti quelli che credono ci sia ancora qualcosa di positivo a cui aggrapparsi in un mondo impazzito (la bella e già menzionata canzone di redenzione Silent), dei
tanti che vagabondano disperati con una pistola in tasca nella dolente Gun, di quelli che vedono nei treni una metafora di vita appiccicata a stento tra sogno e realtà nella già edita Trains (presente in Hit Me Back con il titolo Dreams About Trains). Tutto va, tutto ritorna. Come i treni. Michael McDermott è tornato con un disco semplice ma di una profondità disarmante.






vedi anche RECENSIONE: MICHAEL McDERMOTT- Hit Me Back (2012)



vedi anche RECENSIONE: DAVID CROSBY-Croz (2014) 




vedi anche RECENSIONE: JOHNNY CASH- Out Among The Stars (2014)




vedi anche RECENSIONE: MARC FORD-Holy Ghost (2014)



mercoledì 23 aprile 2014

RECENSIONE: MARC FORD (Holy Ghost)

MARC FORD   Holy Ghost (Naim Edge/V2, 2014)



Un vecchio venditore di dischi, anni fa da dietro il bancone, mi disse: "vedrai, quando arriverai in prossimità dei miei anni inizierai ad ascoltare questa musica" indicando vecchi e polverosi dischi di country, folk e americana impilati nello scaffale del suo piccolo ma ricco negozio. "Fidati. Entrerai in questa dimensione". Io ero un ragazzetto con le sue fisse musicali, aperto a tutti i suoni ma limitato, limitatissimo verso i dischi "impolverati" che mi indicava.  Eppure, non si era sbagliato di troppo. La chiamai "la mia terza dimensione", quella intima e acustica, quella preponderante in Holy Ghost, quinto disco solista di Marc Ford, uno che a 48 anni si avvicina maggiormente all'età che quel negoziante aveva all'epoca. Di poco, ma più di me sicuramente. Appoggiata e archiviata la chitarra elettrica tra i solchi di alcuni dei migliori dischi rock degli anni novanta a firma Black Crowes (The Southern Harmony And Musical Companion-1992, Amorica-1994) poi collaborando con nomi illustri come Gov't Mule e Ben Harper, e mettendo in piedi svariati e un po' dispersivi progetti solisti, abbandonata momentaneamente la sala di registrazione (tra le sue produzioni importanti, il primissimo Ryan Bingham e gli Steepwater Band del prezioso Grace & Melody), la dimensione acustica si impossessa della scrittura e del suo tempo. Un disco di cuore. Già questo basterebbe per farselo piacere, perché dentro alle dodici tracce di purissima "americana" non ci troverete nulla di miracoloso, nulla che vada sopra le righe, che rotoli fuori dai vecchi binari arrugginiti che uniscono i bordi sdruciti degli anni dell'esistenza, se non la fluidità e il carezzevole trasporto di canzoni dal carattere speranzoso, riflessivo e confessionale (cita la dura pioggia dylaniana che sta ancora cadendo, ma con i cieli blu che già si intravedono in lontananza nella solarità country di Blue Sky) nate nell'intimo percorso di vita dell'autore, tra la sicurezza famigliare-la moglie Kirsten e il figlio Elijah sono coinvolti rispettivamente ai cori e chitarra, un'altra figlia è appena nata-e i lenti ritmi di vita nella sua nuova abitazione a San Clemente. La ricerca del semplice dopo una vita di scalate e sogni raggiunti. "Ho raggiunto la cima della montagna e le risposte non erano lì, non è stata l'illuminazione che stavo cercando. Droga e alcol sono stati solo una grande copertura per alcune mancanze", racconta tra le pagine del suo sito.
Luci e ombre accompagnate lentamente al tramonto da chitarre leggere, incastrate dentro al suono della band britannica Phantom Limb che lo accompagna (gruppo prodotto due anni fa dallo stesso Ford) e registrato tra l'Europa (in Galles) e gli States. Una scrittura lieve, pigra e malinconica (Dancing Shoes, Dream #26), delicata (In You), amara, costruita su pedal steel che fanno immaginare quadri campestri (Just A Girl) e il pianoforte (You Know What I Mean) che mi ha riportato al primo Jackson Browne e alla luminosa scena west coast dell'epoca d'oro, ma che non manca di graffiare con la chitarra elettrica quando necessario come avviene nell' avanzare sudista di I'm Free, nell'assolo di Turquoise Blue, e nel southern blues elettrico di Sometimes, anche se solo brevissimi e rari lampi tra la scura deserticità di  Badge Of Descension che avanza pigra tra i tasti di un Fender Rhodes, e l'epica e crescente conclusione affidata alla più strutturata Call Me Faithfull.
Vero e onesto fino alla fine, Holy Ghost rimane però un taccuino intimo ancora tutto da decifrare, con le annotazioni sul tempo trascorso scritte con calligrafia leggera: potrebbe essere solo una breve parentesi, oppure il nuovo punto d'inizio di un uomo che ha fatto pace con se stesso e il mondo circostante. Una pensione d'oro anticipata (di troppi anni). Il vecchio negoziante di dischi sorride compiaciuto.




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