mercoledì 24 marzo 2021

RECENSIONE: ISRAEL NASH (Topaz)

ISRAEL NASH  Topaz ( Loose Records, 2021)


il grande volo

Qualche mese fa in pieno primo lockdown fui catturato per l'ennesima volta dalle splendide foto di Henry Diltz, scattate tra la fine degli anni sessanta e i pieni settanta tra Laurel Canyon e la California tutta. Non nascondo che se proprio volete buttarmi dentro a un periodo storico legato alla musica vorrei finire lì dentro, affacciato alla finestra della casa di Joni Mitchell, scavalcare il recinto del Broken Arrow Ranch di Neil Young come fosse la staccionata dell'olio Cuore, farmi crescere i baffoni a manubrio alla David Crosby possibilmente con quel carisma annesso. Questo per dirvi che ascoltando questo sesto album di ISRAEL NASH ho avuto lo strano stesso desiderio: voglio finire qui dentro, anche se i suoi testi, a parte alcuni pungenti riferimenti alla non felice vita politica della sua America, sembrano troppo personali e introspettivi per far posto a qualcun altro. Mi metterò in un angolo ad osservare. Ad ascoltare prima di tutto. Voglio finire qua dentro perché TOPAZ (titolo rubato al nome di un motel) è un gran bel disco, fin dalla copertina. Ecco: finalmente c'è ancora qualcuno che ci crede a queste cose, alle belle copertine dico. Un disco, inciso quasi in presa diretta nella sua casa a Austin in Texas con la produzione di Adrian Quesada (uno dei due Black Pumas), che sa  viaggiare lontano da qualunque lato si inizi l'ascolto. Siamo sullo stesso campo di gioco del primo Jonathan Wilson, di Ryley Walker. Country folk (la ballata 'Canyonheart' tra Neil Young e Dylan) imbevuto di morbidezza acida ('Dividing Lines'), squarci psichedelici sognanti e cosmici ('Southern Coasts') e scaldato a forti dosi di fuoco soul ('Stay', 'Down In The Country', 'Pressure'), cori gospel ('Closer') e fiati. Certamente un posto affascinante dove poter stare ed è bello che qualcuno continui ancora a crearli posti così, anche se solo con la mente. Io ci sarò.




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