JOHN GARCIA AND THE BAND OF GOLD (Napalm Records/Audioglobe, 2019)
bentornato
Potremmo liquidare tutto con un “niente di nuovo sotto il sole di Palm Springs” ma visto che i due album solisti precedenti non avevano fatto gridare al miracolo, con questo album John Garcia qualche allucinazione in più tra la sabbia del deserto e il cielo stellato ce la fa venire. Tra i due minuti e quarantacinque secondi dell’ iniziale strumentale a due velocità ‘Space Vato’ e i quattro minuti del soffuso e liquido finale, in stile Planet Caravan' di ‘Softer Side’ ci regala qualche buon motivo per seguire ancora le sue orme prima che il vento le cancelli. Eh sì, pare che in alcune interviste abbia lasciato trapelare l'intenzione di mollare tutto dopo questo disco. Ci credete?
Questo ritorno con l'ennesimo progetto chiamato JOHN GARCIA AND THE BAND OF GOLD, dopo aver messo in piedi e poi abbandonato mille altri progetti (Hermano, Unida , Slo Burn, Vista Chino e i due dischi solisti tra cui The Coyote Who Spoke in Tongues che rivisito vecchie canzoni della sua storica band) l’ex iconico cantante dei Kyuss mette in piedi l'ennesima band, questa volta formata dal fedele chitarrista Ehren Groban, il bassista Mike Pygmie (ex Mondo Generator) e il batterista Greg Saenz (ex Dwarves, Excel, Suicidal Tendencies). La produzione è affidata allo storico Chris Goss che recentemente lo stesso Garcia ha definito “chirurgo” per aver avuto il merito di tirarlo fuori da un periodo non troppo felice e portare a termine la lavorazione del disco che cerca di ritrovare qualche vecchio cimelio targato Kyuss. In alcuni punti ci riesce pure ma è puro revisionismo.
Garcia mantiene inalterata la sua voce inconfondibile e ipnotica sia quando batte le strade che portano al crossover funky ‘Chicken Delight’ che sa tanto di anni novanta, sia quando sembra impossessarsi dello spirito di Jimi Hendrix nel blues ‘Kentucky II’. Foxy Lady? Dietro di lui una band che cerca di suonare sporca ma che spesso Garcia porta all'ordine con la melodia del cantato. Piace il singolo ‘Jim’s Whiskers’, la pesante circolarità del riff che traina ‘My Eveything’, il groove ‘90 di ‘Lillianna’, i rimandi ai QOTSA del vecchio amico Josh Homme in ‘Apache Juncion’, le distorsioni e i rallentamenti di ‘Cheyletiella’. Come tanti altri vecchi rocker di razza, Garcia la storia l’ha già modificata quasi trent'anni fa, vivere e essere ricordato su quello che ha messo in piedi nel suo passato è un diritto che nessuno può negargli. Piacevole.
JOHN GARCIA- The Coyote Who Spoke In Tongues (2017)
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Potremmo liquidare tutto con un “niente di nuovo sotto il sole di Palm Springs” ma visto che i due album solisti precedenti non avevano fatto gridare al miracolo, con questo album John Garcia qualche allucinazione in più tra la sabbia del deserto e il cielo stellato ce la fa venire. Tra i due minuti e quarantacinque secondi dell’ iniziale strumentale a due velocità ‘Space Vato’ e i quattro minuti del soffuso e liquido finale, in stile Planet Caravan' di ‘Softer Side’ ci regala qualche buon motivo per seguire ancora le sue orme prima che il vento le cancelli. Eh sì, pare che in alcune interviste abbia lasciato trapelare l'intenzione di mollare tutto dopo questo disco. Ci credete?
Questo ritorno con l'ennesimo progetto chiamato JOHN GARCIA AND THE BAND OF GOLD, dopo aver messo in piedi e poi abbandonato mille altri progetti (Hermano, Unida , Slo Burn, Vista Chino e i due dischi solisti tra cui The Coyote Who Spoke in Tongues che rivisito vecchie canzoni della sua storica band) l’ex iconico cantante dei Kyuss mette in piedi l'ennesima band, questa volta formata dal fedele chitarrista Ehren Groban, il bassista Mike Pygmie (ex Mondo Generator) e il batterista Greg Saenz (ex Dwarves, Excel, Suicidal Tendencies). La produzione è affidata allo storico Chris Goss che recentemente lo stesso Garcia ha definito “chirurgo” per aver avuto il merito di tirarlo fuori da un periodo non troppo felice e portare a termine la lavorazione del disco che cerca di ritrovare qualche vecchio cimelio targato Kyuss. In alcuni punti ci riesce pure ma è puro revisionismo.
Garcia mantiene inalterata la sua voce inconfondibile e ipnotica sia quando batte le strade che portano al crossover funky ‘Chicken Delight’ che sa tanto di anni novanta, sia quando sembra impossessarsi dello spirito di Jimi Hendrix nel blues ‘Kentucky II’. Foxy Lady? Dietro di lui una band che cerca di suonare sporca ma che spesso Garcia porta all'ordine con la melodia del cantato. Piace il singolo ‘Jim’s Whiskers’, la pesante circolarità del riff che traina ‘My Eveything’, il groove ‘90 di ‘Lillianna’, i rimandi ai QOTSA del vecchio amico Josh Homme in ‘Apache Juncion’, le distorsioni e i rallentamenti di ‘Cheyletiella’. Come tanti altri vecchi rocker di razza, Garcia la storia l’ha già modificata quasi trent'anni fa, vivere e essere ricordato su quello che ha messo in piedi nel suo passato è un diritto che nessuno può negargli. Piacevole.
JOHN GARCIA- The Coyote Who Spoke In Tongues (2017)
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