WOLF PEOPLE Fain (Jagjaguwar, 2013)
I londinesi Wolf People hanno un rifugio sicuro, lontano dai vizi, rumori e tentazioni cittadine che amano abitare quando l'ispirazione chiama: è un vecchio casolare del diciassettesimo secolo sepolto tra le ragnatele di rami del bosco e il verde delle campagne che lo circondano, situato nel profondo Yorkshire in Galles. Come avvenuto per il buon debutto Steeple del 2010, anche il nuovo album Fain ha preso forma lì, dove i fantasmi dei grandi gruppi albionici del passato giacciono e ispirano mentre il tipico tempo piovoso britannico ti costringe a coabitare con l'umidità che penetra tra le vecchie mura di pietra, combattuta al tepore di un caminetto sempre acceso. Vista così è inevitabile che tornino alla mente dejà vu seventies animati da un folto gruppo di band come Jethro Tull, Traffic, Fairport Convention, Amazing Blondel, Pentangle, Trees, Wishbone Ash, ma non solo.
Tutto il buono del debutto e della positiva impressione che mi fecero in concerto quando passarono per Torino-due anni fa-a bordo del loro piccolo furgone bianco "da tour", sono confermati in canzoni a ventaglio, stratificate, che sanno aprirsi di volta in volta verso territori musicali sempre differenti senza seguire strade impostate e lasciando l'estro compositivo libero di spaziare tra i generi, creando delle piccole e cangianti suite: il folk-prog di All Returns, dove le foglie secche di un autunno inoltrato vengono innalzate dal vorticoso vento generato da squassanti inserti di chitarre fuzz, l'inizio acustico di Hesperus che si sviluppa in un lento progressive psichedelico per poi chiudersi tra i fuochi d'artificio delle chitarre che si scontrano come già insegnato a suo tempo dai Whishbone Ash e con gli assoli del bravo Joe Hollick ( completano la formazione il bassista Dan Davies e il batterista Tom Watt).
When The Fire Is Dead In The Grate prende forma invece dalla umida terra del blues bianco di Groundhogs, Cream e Peter Green ed è recitata dalla voce, che sembra arrivare da secoli lontani, del cantante e chitarrista Jack Sharp, amplificata da inserti di cori femminili, per progredire in una lunga coda psichedelica nel finale, fino ai momenti più hard e psichedelici (Athol, Thief) con le chitarre che si inspessiscono nella conclusiva NRR, toccando la pesantezza sabbathiana e guadagnandosi la palma del brano più pesante e diretto del disco, pur mantenendo l'imprevedibilità delle sei corde, libere di spaziare e viaggiare tra rallentamenti e ripartenze.
Su tutto il disco aleggia sempre e comunque una misteriosa (Answer) sospensione atemporale tra sogno ( Empty Vessels) e malinconica realtà, chiaro-scuri costruiti con meticolosa perizia strumentale atti a raggiungere sempre e comunque la crescente tensione e creare phatos.
Chi, a inizio anno, è impazzito per Coming Out The Fog degli Arbouretum potrà trovare piacere dalla proposta non convenzionale dei Wolf People, i loro continui cambi di atmosfera-anche se in rari punti sembrano parossistici e forzati, rischiando di avvolgersi su se stessi-tradiscono tutto il loro amore per un periodo musicale seguito senza mai cadere in banalizzazioni o ostentazione scenica ma con la giusta dose di umiltà che traspare in tutta la genuinità che potreste scoprire se avrete l'occasione di vederli anche dal vivo. Dei ragazzi disponibili, professionali e a modo. Certamente non delle rockstar, nemmeno indispensabili ma interessantissimi.
vedi anche RECENSIONE REPORT : WOLF PEOPLE Live Spazio 211, Torino 14 Maggio 2011
vedi anche RECENSIONE: ARBOURETUM-Coming Out The Fog (2013)
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