domenica 26 giugno 2022

NASHVILLE PUSSY live@Blah Blah, Torino, 24 Giugno 2022


In una Torino affollatissima e blindatissima intenta a festeggiare il proprio patrono San Giovanni a suon di fuochi d'artificio in Piazza Vittorio, nel piccolo locale di via Po, a pochi passi dall'inferno di un caldo sabato sera, i Nashville Pussy  hanno celebrato l'ennesimo rito rock'n'roll alla loro consueta maniera. Nessun effetto speciale in aria ma solo strumenti, carne e sudore. Persa per strada la componente visiva più sporca e "sessuale" degli esordi (la copertina del debutto Let Them Eat Pussy, 1998, rimarrà negli annali) all'epoca ben rappresentata dalla ex bassista Corey Banks, alla band di Atlanta è rimasto il rock’n’roll che dal vivo, rispetto ai dischi, è ancora una faccenda ruvida, grezza e molto punk. Guidati dalla coppia di fatto formata da Blane Cartwright e Ruyter Suys, i Nashville Pussy continuano a non avere peli sulla lingua, sì insomma per dirla alla loro maniera: Pussy's Not A Dirty Word.

Blane è il solito "zio d'America", poco raccomandabile compagno di bevute e di sbronze, pancia da trucker alcolizzato, voce passata sotto un foglio di carta vetrata, cappellaccio in testa a coprire la pelata che comunque mostra con "orgoglio" e disinvoltura ogni tanto e numeri da monello di terza media in gita: quando toglie le sue sudicie Converse per rimanere scalzo, quando gioca con l'asta del microfono, quando rovescia due bottiglie di Beck's nel cappellaccio da cowboy per poi tracannare il contenuto tutto d'un fiato. Il seno di Ruyter Suys, invece, rimane sempre ben in vista ma schiacciato sotto alla fiammeggiante chitarra, incontrollabile manico della perversione che tanto la trasforma in un indemoniato Angus Young in reggiseno. A completare la formazione la base ritmica formata dalla bassista Bonnie Buitrago, solida e piazzata, un continuo headbanging il suo e dal batterista Dusty Watson, nuovo entrato in formazione, simpatico e metronomo indispensabile per gli altri tre e con un lungo curriculum alle spalle (Dick Dale, Agent Orange, Sonics, Supersuckers, Lita Ford, Rhino Bucket, Concrete Blonde, The Bellrays).


Il concerto è un treno in corsa, tirato e scalciante dove hard rock, punk e una certa attitudine southern si mischiano a sudore, birra di quart'ordine, doppi sensi, allusioni e riff di chitarra. I loro inni perversi li impari in pochi secondi come quando da piccoli si viene attratti dalla parolacce ('Come On, Come On', 'Struttin Cock', 'Gone Home And Die') e dal cadenzato blues "da barbecue" in stile Ac Dc di 'Til the Meat Falls Off the Bone' al veloce punk 'Go Motherfucker Go', il loro inno storico che chiude la serata, il passo è brevissimo. La Suys strappa tutte le corde della sua chitarra e le dona al pubblico. Due piccole bimbe sono davanti al palco, il loro papà ha pensato che stasera un concerto rock'n'roll fosse per loro più interessante dei fuochi d'artificio in onore del patrono che stanno scoppiando nei cieli sopra Torino. E chi li ha solo sentiti? La band apprezza. Le due bimbe torneranno a casa cariche di doni: plettri, bacchette, corde. Per vedere i fuochi d'artificio hanno tutta la vita davanti.





martedì 21 giugno 2022

BLACK LABEL SOCIETY live@Alcatraz, Milano, 19 Giugno 2022




Tanti segni della croce come fosse una lunga processione, dito puntato al cielo quando parte l'immancabile 'In This River' al pianoforte dedicata agli sfortunati fratelli Abbott (che si materializzano sul palco con due gigantografie), barba che non taglia da quel di, kilt d'ordinanza, muscoli in evidenza , pose e rituali da vichingo del New Jersey che fanno contenti i telefonini di tutti (ho visto tanti genitori con figli al seguito. Bene!), cambio di chitarra ad ogni canzone, generosità infinita a fine concerto con doni di ogni sorta lanciati al pubblico. Ecco: forse gli asciugamani neri con i quali  Zakk Wylde si asciuga la fronte per poi darli in pasto ai fan potevano essere evitati in periodi ancora così incerti e con il covid ancora lì alla porta. 



Insomma, un rito che i BLS (John "JD" DeServio al basso, Dario Lorina alla chitarra e Jeff Fabb alla  batteria) officiano senza indugi e senza soste dall'inizio alla fine. Come sempre. L'ultimo album Doom Crew Inc., il più Sabbathiano della carriera e tra le loro migliori cose di sempre, viene presentato con tre brani tra cui quella 'Set You Free', attesa da molti, che pare già un classico fin dall'introduzione alla pari di 'Suicide Messiah' e 'Stillborn' che chiudono la serata. E poi quella 'Whole Lotta Sabbath' che invece introduce il concerto, in grado di dare sempre bene e in modo chiaro le coordinate dell'infinito amore che Zakk Wylde nutre per la musica, anche da inguaribile fan romantico.

E nell'estate dei miei concerti "ignoranti" questo raggiunge il podio un po' come fa Zakk quando sale in piedi sul pianoforte e inizia a suonare la chitarra tenendola dietro al collo, a centro palco Lorina gli tiene testa allo stesso modo. Il duello: il clou della tamarraggine rock.



E poi, fatemelo dire: ma quanto sono belli e più vivibili i concerti estivi con 40 gradi esterni quando si svolgono all'interno di un locale perfetto per la musica live come l'Alcatraz di Milano (il suono, il suono è importante, la vista del palco pure). Condizionatori accesi e la guerra tenuta ben fuori, alla faccia delle prediche di Mario Draghi. 






Setlist

Intro: Whole Lotta Sabbath                                        


Bleed for Me

Demise of Sanity

Destroy & Conquer

Heart of Darkness

A Love Unreal

You Made Me Want to Live

The Blessed Hellride

Spoke in the Wheel

In This River

Trampled Down Below

Set You Free

Fire It Up

Suicide Messiah

Stillborn





sabato 18 giugno 2022

RECENSIONE: MICHAEL MONROE (I Live Too Fast To Die Young!)

MICHAEL MONROE
   I Live Too Fast To Die Young! (Silver Lining Music, 2022) 



mai troppo vecchio 

Ormai i veri rocker rimasti si contano nelle dita di una mano. E non sto parlando di rocker miliardari, benestanti, ma di gente che continua a lottare con i gomiti ben larghi su palchi di qualsiasi dimensione per portare avanti il verbo, quelli a cui l'aggettivo "loser" (nel mio vocabolario quelli che avrebbero meritato di più) è ancora prima di un complimento, un marchio impresso a fuoco. 
Michael Monroe, sessant'anni appena compiuti e più di quaranta di carriera è uno di questi, tanto da permettersi di intitolare il suo dodicesimo disco in carriera I Live Too Fast To Die Young. Una carriera in corsia di sorpasso. Salutista e ripulito da alcuni anni, continua a macinare quel rock'n'roll che partendo dagli Stooges, passa dai New York Dolls, non è un caso che nella sua band ci suonino Steve Conte alla chitarra e Sammy Yaffa al basso, due componenti dell'ultima incarnazione delle bambole, tocca gli Hanoi Rocks la sua band mai troppo lodata ma tanto influente e arriva ai giorni nostri con intatta freschezza ed energia. Lo si capisce immediatamente appena parte 'Murder The Summer Of Love', un hard rock'n'roll che prende spunto dai noti fatti successi ad Altamont durante il concerto dei Rolling Stones nel 1969 per marcare quanto le belle utopie vadano vissute al massimo coniugate al presente, perché non possono durare in eterno. Quel giorno fu la fine di un sogno. 
 "Vuoi una rivoluzione, devi alzare quel culo, la controcultura sta svanendo velocemente” canta Monroe. Undici canzoni varie che passano con disinvoltura dal punk veloce e cattivo di 'All Fighter' e 'Pagan Prayer', alle ombre dark wave di 'Derelict Palace' (certamente tra le più particolari, a riportare in mente gruppi come i Lords Of New Church), l'incrocio tra Stones e Social Distortion di 'Can't Stop Falling Apart', al rock anthem 'Everybody's Nobody' con tanto di armonica e la title track che vede ospite la chitarra di Slash, ballate al pianoforte ('Antisocialite') e strani esperimenti come la malinconica 'Dearly Departed' che chiude il disco in modo algido e velatamente elettronico, in netto contrasto con il calore umano fatto di sudore, lacrime e sangue che esce da ogni nota suonata qua dentro e registrata nella fredda Helsinki tra il Novembre e Dicembre del 2021. 
Michael Monroe sa scrivere canzoni, testi, ha ancora una buona voce, tiene il palco come pochi, imbracciando il suo fedele sax, e tra poche settimane aprirà il concerto di Alice Cooper a Milano. Serve altro? Per ora I Live Too Fast To Die Young! se la gioca con il ritorno degli Hellacopters per il disco rock'n'roll dell'anno.








domenica 5 giugno 2022

RECENSIONE: THE BLACK KEYS (Dropout Boogie)

THE BLACK KEYS   Dropout Boogie (Easy Eye Sound, 2022)



estate a tutto boogie

La storia musicale dei Black Keys non è poi diversa da quella di tanti altri gruppi blasonati con ormai tanti anni e dischi alle spalle: una prima parte di carriera fresca ed elettrizzante dettata dall'entusiasmo della gioventù (Rubber Factory del 2004 e Attack & Release del 2008 i miei preferiti), una seconda parte con una importante virata verso territori più accessibili a portarli sulle vette del mondo (Brothers del 2010, El Camino del 2011), una terza parte, quella in corso, di consolidamento e con tutta la consapevolezza di aver già dato il meglio e di poter pescare a proprio piacimento tra i dischi passati, mescolare vecchie idee e farle uscire ancora come nuove. Sappiamo che non è cosi ma chiudiamo un occhio. A tenere incollato tutto la maturità del tempo e dell'esperienza: Dan Auerbach e Patrick Carney hanno una vita super impegnata fuori dalla band, producono, scoprono, rilanciano, dissotterrano personaggi e artisti dimenticati dal tempo, creano etichette discografiche e costruiscono studi di registrazione. Un'amore per la musica che va ben oltre la band madre.

E di amore per la musica ce n'è tanto anche dentro a Dropout Boogie, sebbene ad un ascolto distratto non parrebbe, figlio bastardo del precedente omaggio al blues Delta Kream del quale riprende qualche buon seme di tradizione (la finale 'Didn't Love You', una 'Burn The Damn Thing Down' che scalpita che è una meraviglia, 'Happiness' è più slow e strisciante) ma dove  la c'erano vecchie cover da riportare in vita, qui ci sono nuove canzoni da mandare a memoria. E poco importa se 'Wild Child', un po' Doobie Brothers un po' I Love Rock'n'roll' di Joan Jett & The Blackhearts è ruffiana e svolge bene il compito di riempi pista, 'For The Love Of Money' è un funky boogie già masticato mille volte, 'Your Team Is Looking Good' un boogie rock che pare uscito da The Slider dei T.Rex di Marc Bolan, 'Good Love' uno slow blues con la presenza della  infuocata chitarra di  Billy Gibbons (anche autore) che si interrompe improvvisamente, 'How Long' un soul che prende sembianze rock e 'Baby I'm Coming Home' è ruffiana come da titolo. 

Poco importa se Dropout Boogie è suonato e registrato meravigliosamente, senza pecche, perché ancora una volta diverte, si fa ascoltare con piacere mentre guidi una vecchia Pontiac tra le campagne fuori dalla tentacolare città, mentre cucini svogliatamente burritos al lunedì sera o mentre scambi effusioni con l'amata al sabato mattina,  finita l'ultima traccia hai voglia di rimetterlo ancora una volta su perché nella vita bisogna pur divertirsi e lasciarsi andare senza pescare l'ennesimo pelo nell'uovo. Ormai la raccolta (di peli) si fa noiosa e la vita a ben guardare non è così lunga come ci è stata dipinta da chi crede di saperne sempre di più.





domenica 29 maggio 2022

RECENSIONE: STEVE FORBERT (Moving Through America)

STEVE FORBERT  Moving Through America (BlueRose Music, 2022)



on the road (again)

Steve Forbert non si è mai fermato. Ha sempre amato viaggiare fin da quando giovanissimo lasciò il natio Mississippi per cercare fortuna a New York, incidendo il suo bel debutto nel 1978. Quattro anni fa lo trovai a suonare nella sala consiliare di un comune del bresciano, sinonimo che durante la sua carriera non ha mai veramente conosciuto la fortuna dei grandi numeri ma una buona dose di caparbietà, onestà e coerenza gli hanno permesso di poter continuare il suo viaggio, magari non percorrendo l'autostrada del successo in corsia di sorpasso ma comunque su vie sempre dignitose dove il suo folk rock contornato da liriche sempre intelligenti e ironiche non è mai sceso a facili compromessi. Oggi a 67 anni eccolo nuovamente con la valigia in mano a raccontarci un viaggio lungo il Midwest dell'America compiuto poco prima che la pandemia chiudesse tutti i caselli. Un viaggio importante perché avvenuto dopo un periodo difficile per la sua salute e dopo aver tirato una riga sulla carriera con l'uscita di un'autobiografia, e di due dischi di vecchi ricordi: uno raccoglieva vecchie canzoni dimenticate nel cassetto (The Magic Tree del 2018), l'altro cover di canzoni che lo accompagnarono in gioventù (Early Morning Rain del 2020). 

In Moving Through America invece ritorna alla scrittura con undici canzoni che contengono tutta la freschezza, l' ironia e la leggerezza di sempre spalmate su un impianto folk rock,  collaudato e rilassato,  con qualche escursione soul, aiutato anche da musicisti come Gary Tallent, Hugh McDonald e Gurf Morlix.

Istantanee e quadretti legati all'America e ai suoi comuni abitanti, spiati dal finestrino o incontrati lungo i marciapiedi o i diner lungo la strada. Canzoni dove passato e presente si incrociano ('Buffalo Nickel'), dove c'è ancora chi cerca fortuna al gioco per svoltare la vita, rischiando tutto quello che ha ('It's Too Bad (You Super Freak')), dove chi non ha avuto fortuna  diventa uno senzatetto ('Times Likes These'), dove c'è ancora spazio per l'amore di coppia ('Fried Oysters') e per il riscatto dopo aver passato gran parte della vita in gabbia per spaccio ('Living The Dream'),  dove i cambiamenti climatici non possono essere ignorati ('Please Don't Eat The Daisies') e dove un pensiero all'amico Tom Petty  è d'obbligo passando attraverso i luoghi che lo videro crescere ('Say Hello To Gainesville').

Buon viaggio con Steve Forbert nell'autoradio.






venerdì 20 maggio 2022

RECENSIONE: DON MICHAEL SAMPSON (The Fall Of The Western Sun)

 

DON MICHAEL SAMPSON  The Fall Of The Western Sun (Appaloosa Records, 2022)


non è mai troppo tardi

La giostra del tempo concede un altro giro a Don Michael Sampson, settantacinquenne cantautore americano, di casa tra il New Mexico e Nashville. Lo sa bene e lo canta nella canzone 'Rolling Time Train' che apre questo suo quindicesimo disco in carriera. Una carriera iniziata a fine anni settanta sulla scia dei grandi cantautori country "fuorilegge" che popolavano gli States. Pur dotato di una penna felice e ispirata, il suo nome non ha mai preso copertine e prime pagine, nonostante la stima incondizionata di colleghi più blasonati. Quindi non è un caso che leggendo i crediti dei musicisti che hanno lasciato le loro tracce qua dentro si possano incontrare grandi nomi come Ben Keith, Warren Haynes, Paulinho Da Costa, Chad Cromwell e Michael Rhodes. Cantautorato americano di prima grandezza con il passo dylaniano ('Wedding Song' cammina dalle parti di Knockin On Heaven's Door), dove a volte i numerosi cori femminili virano il tutto verso il soul, ma l'alternanza tra canzoni scarne, folk ('Cast Off The Lines' mette in fila i giorni di una vita) e country (l'evocativa steel guitar di 'Everybody's Leaving This Old Town') e momenti più rock e movimentati come 'New Book', un un honky tonk con il testo ben radicato nel presente, rendono il disco estremamente piacevole.

Sampson sa scrivere alla grande, infila parole in modo poetico ('Crimson Sparkle Of High Wind Wheels') e tagliente, a tratti ricorda John Prine, 'Bad Water' è un incalzante rock desertico con chitarre ficcanti e un testo che ben combacia, impresso a fuoco, su queste settimane di conflitti. E la finale 'Sweet Tennesse Nights' un country che oltre ad essere un'ode al Tennesse, alla bellezza della solitudine di campagna, sembra anche dipingere la carriera di Sampson, vissuta ai margini della musica che conta, osservatore da lontano di quello che capita giù in città ("scommetto che il centro di Nashville sta saltando, suonano alla Ole Opry House, e riesco a sentire le canzoni di tanto tempo fa, nate nel cuore del Sud, un cane randagio risale la mia via camminando" canta).

Ma a lui sembra importare poco, perché nella vita ha sempre inseguito il suo sogno e registrato la sua musica, proprio come qui, in modo quasi impulsivo, lasciando che anche asprezze e difetti raccontino qualcosa di lui. 



martedì 17 maggio 2022

RECENSIONE: THE ROLLING STONES (Live At El Mocambo 1977)

THE ROLLING STONES  Live At El Mocambo 1977 (Polydor, 2022)


tesori nascosti

Ascoltando Love You Live sembra palese: il vero divertimento  arriva sempre quando si posa la puntina sul lato C. "La Mocambo side" , registrata a Toronto, faceva portare a casa la partita e fare del doppio Love You Live un disco imperdibile. Anche se molti non sono mai stati d'accordo.

Quando venne pianificato il disco dal vivo che doveva contenere canzoni registrate nel corso del tour 1975/76 nelle grandi arene, quello a supporto di Black And Blue -in verità quasi del tutto ignorato per essere giustamente rivalutato in seguito - un po' tutti si accorsero che mancava qualcosa in mezzo a una scaletta comunque di qualità (Honky Tonk Women, Happy, Star Star, Tumbling Dice, It's Only Rock’n’roll, Jumping Jack Flash, Simpathy For The Devil...). 

Sicuramente mancava Keith Richards, impegnato a vivere tra arresti per droga e lutti che lasciarono il segno (la morte del piccolo figlio a causa di un virus). 

Quel qualcosa venne quindi deciso a tavolino: perché non programmare due serate segrete sotto il nome "The Cockroaches" in un piccolo locale con il pubblico alle calcagne  e vedere cosa ne esce fuori? I The Cockroaches avrebbero dovuto aprire per gli April Wine, invece-sorpresa!- successe il contrario.



Si parte tutti per il Canada e nonostante Keith Richards e Anita Pallenberg ce la misero tutta per far saltare la festa (i due vennero arrestati per spaccio appena misero piede sulla terra ferma "mi feci una pera in aereo e in qualche modo il cucchiaino finì nella tasca di Anita" raccontò Richards), la missione venne portata a termine: serviva un ritorno forte e deciso alle radici, al blues di Muddy Waters ('Mannish Boy'), Willie Dixon ('Little Red Rooster'), Big Maceo Mereiweather ('Worried Life Blues') e Bo Diddley ('Crackin'Up').

Una mossa alquanto controcorrente per combattere l'esplosione della scena punk. 

"Il 4 Marzo 1977, facemmo il primo dei due concerti a El Mocambo Club a Toronto. Il locale teneva solo qualche centinaio di persone, quindi era strapieno per entrambe le date. Suonammo alcuni pezzi che di solito non facciamo, Route 66, Little Red Rooster, Crackin'Up, Dance Little Sister e Worried About You, e finimmo per divertirci un sacco. Il pubblico ballava sui tavoli e stava in piedi sulle sedie, versandosi addosso vino e birra. Tutti si facevano le canne, anche se l'edificio era circondato di polizia, che manteneva l'ordine all'esterno. A Keith sembrava di essere tornato ai bei vecchi tempi, quando gli Stones avevano suonato per la prima volta al Crawdaddy", questo il racconto entusiasta di Ron Wood. Parole capaci di  immergere l'ascoltatore nell'atmosfera che si respirava nel club dal soffitto basso e palme sullo sfondo e che ora trova finalmente anche il lato più importante: la musica.

Si sale sopra al palco, si suona blues come ai vecchi tempi, qualche immancabile canzone del repertorio ('Let's Spend the Night Together', 'Jumpin' Jack Flash', 'Brown Sugar') e si registra. Ora, a distanza di quarantacinque anni l'intera serata del 5 Marzo e qualche estratto (tre) da quella del 4 vedono la luce ufficialmente.

Ecco così che anche Black And Blue ha il suo meritato spazio ('Hot Stuff', 'Hand of Fate', 'Melody', una straordinaria 'Fool To Cry') insieme a una 'Worried About You' che vedrà la luce solo anni dopo su Tattoo You.



E Ronnie Wood ha dannatamente ragione: la batteria di Charlie Watts ti entra nelle tempie, le tastiere di Billy Preston e Ian Stewart sono vive e pulsanti, le percussioni di Ollie Brown danno il ritmo, Bill Wyman fa la sua parte con diligente professionalità, le chitarre di Ronnie e Keith sferragliano che è un piacere, Mick è in forma smagliante, come sempre. All'uscita del Mocambo c'è confusione: qualcuno si dirige al parcheggio e non crede a quel che ha visto, altri si fermano fuori dal locale a farsi un'ultima birra, qualcuno si chiede se la serata è stata registrata. Il 23 Settembre del 1977 esce Love You Live ma di quelle serate contiene solamente quattro canzoni.

Chissà se qualcuno presente ai tempi, selezionato con una specie di concorso radiofonico, oggi ascolterà queste registrazioni vantandosi con un "io c'ero". E vederli in un ambiente così piccolo e raccolto non era cosa da tutti i giorni: osservare da vicino le smorfie di Watts, ammirare i passi di Mick di bianco vestito, scrutare gli accordi di Keith, muoversi con la zazzera di Ron, contemplare la serafica calma di Bill, seguire le dita sui tasti di Billy e Ian, scoprirel'imponente stazza di Ollie lì dietro a tutti.

Per tutti gli altri basta chiudere gli occhi e aprire le orecchie ed è un po' "come esserci stati".





sabato 7 maggio 2022

RECENSIONE: NEIL YOUNG (Citizen Kane Jr.Blues)

NEIL YOUNG  Citizen Kane Jr.Blues (The Bottom Line, New York City, May 16, 1974)  (Shakey Pictures Records, 1974/2022)



che sorpresa!

Visto che Neil Young ci marcia su e non ha intenzione di smettere, dovendo scegliere una sola delle tre uscite simultanee di bootleg ufficiali in commercio in questi giorni (ma sono anni che circolano in maniera non ufficiale) non ho avuto dubbi nel buttarmi su questo concerto "a sorpresa" del 16 Maggio 1974, visto che gli altri due battono ancora l'anno 1971.

Una foto sfocata e sgranata, Neil Young e la sua chitarra sono davanti alle poche centinaia di persone che popolano il Bottom Line, locale del Greenwich Village a Manhattan, New York, aperto solo due mesi primi. Quella sera prima di lui ha già suonato Ry Cooder, Neil era lì per il concerto dell'amico ma quando gli si presenta l'occasione di salire sopra al palco al termine di Cooder non si tira indietro. Erano le due di notte. Ha un sacco di nuove canzoni da far ascoltare, arrivano da un disco che aveva appena finito di registrare, pochi  le conoscono, alcune le aveva già suonate in pubblico ma evidentemente quell'atmosfera intima a tarda notte era propizia per suonarne quattro.

'Ambulance Blues', 'Revolution Blues', e le ancora inedite in pubblico 'On The Beach' e 'Motion Pictures' (che rimarrà l'unica esibizione live) andranno a comporre On The Beach che uscirà da lì a poco. Canzoni intimiste, quasi strazianti tanto da indurre Young a scusarsi con il pubblico, presumibilmente alticcio, per quanto erano tristi. 

"Nella mia mente è un ricordo confuso ma questo momento cattura davvero l'essenza di dove mi trovavo nel 1974. Due mesi dopo, è stato pubblicato l'album On the Beach…" ha detto recentemente.

Nel suo set, voce, chitarra e armonica, non concede nulla di Harvest, l'album che lo sdoganò al grande pubblico solo due anni prima. In una vecchia intervista dopo Harvest e il grande successo di 'Heart Of Gold' arriverà a dire:"spero non ci sia nessun singolo di successo nel mio prossimo disco". E così sarà.

Ma Neil Young fa di più: anticipa altre sue future mosse: oltre a On The Beach, ecco una 'Roll Another Number (For The Road)' che uscirà in Tonight's The Night con il pubblico partecipe e rumoroso, lo stesso pubblico che invece sghignazza e sorride ascoltando 'Long May You Run', saluto alla sua vecchia Pontiac del ’53 che intitolerà il disco in coppia con Stephen Stills.

Poi ecco 'Pushed It Over The End', ispirata al rapimento di Patti Hearst (figlia del magnate americano W. Randolph Hearst) che ai tempi era intitolata 'Citizen Kane Jr.Blues' e 'Pardon My Heart' che salterà fuori su Zuma. Uniche concessioni al passato sono 'Greenslevees', l'autobiografica 'Helpless' da Deja Vu, e la finale 'Dance Dance Dance' con il pubblico coinvolto e partecipe, riportando alla mente il fresco tour da cui verrà tratto Time Fades Away.

Tra colpi di tosse del pubblico, rumori di sottofondo, vociare indistinto, il concerto preso e ripulito da Young e Niko Bolas dalla cassetta registrata all'epoca da Simon Montgomery che già girava nel sottobosco è una delle testimonianze più sentite e veraci di quel periodo "scuro", tanto che a tratti sembra di stare lì davanti a lui, non certo a sghignazzare durante l'esecuzione di 'Long May You Run' come quelli intorno, ma ascoltando con la devozione di chi conosce già il radioso futuro.






mercoledì 27 aprile 2022

RECENSIONE: OLD CROW MEDICINE SHOW (Paint This Town)

 

OLD CROW MEDICINE SHOW   Paint This Town (ATO Records, 2022)


coloriamoci la vita

Sono passati quattro anni dall'ultimo album Volunteer, in mezzo e tuttora in corso una pandemia e una una guerra (una delle tante). Gli Old Crow Medicine Show ritornano con un batterista in più, Jerry Pentecost che si prende pure la scena lasciando la voce solista nel bluegrass 'DeFord Rides Again' dedicata a DeFord Bailey,  pioniere di colore della musica country Americana, armonicista e musicista il primo ad essere trasmesso dalla trasmissione radiofonica Grande Ole Opry negli anni venti. 

Ma non è la sola novità della band nata nel 1998, partita proprio dallo spirito dei vecchi Medicine Show, rubandone il nome (gli spettacoli itineranti che fin dall '800 portavono in giro per le città americane i prodotti medicinali-apparentemente più miracolosi- reclamizzati grazie all'ausilio di spettacoli teatrali e musicali-un carosello televisivo ante litteram-), suonando vecchi traditional senza tempo utilizzando solo strumenti a corda. La band è cresciuta, maturata e oggi sono tra i migliori rappresentanti dell'american music tutta. Lo si capisce dall'iniziale 'Paint This Town' elogio alla giovinezza e alle tante piccole e sperdute città egli States, condotta alla John Mellencamp, da una 'Gloryland con il passo  di Bob Dylan (la band in passato si era pure cimentata in brani del nostro musicando perfino una mai completata ' Wagon Wheel', contenuta in Remedy), o nello scatenato honky tonk rock'n'roll ' Lord Willing And The Creek Don't Rise'.

È certamente uno dei dischi più vari della loro carriera. 

Per temi affrontati: dal degrado ambientale che anima la dura 'Used To Be A Mountain', un country rock che piacerebbe a Steve Earle, al sociale affrontato nella ballata soul guidata dal pianoforte 'New Mississippi Flag', un incrocio tra l' Elton John "americano" e Billy Joel periodo Piano Man che attraversa la travagliata storia dello schiavismo degli stati del sud. 

E pure musicalmente: passando dal folk di 'Reasons To Believe' all'assalto punk bluegrass di 'Painkiller', un affondo sulle "dipendenze" pericolose fino allo scuro blues 'John Brown's Dream. 

Anche se antiche schegge country bluegrass rimangono a ricordare i primi tempi: 'Bombs Away' e 'Hillbilly Boy'. 

Non ci si annoia certamente, ascoltando le canzoni che il frontman Ketch Secor ha scritto ispirato dalle persone che lo circondano. 

"Mi piacciono le persone che fungono da segnaletica per altre persone, mi piacciono le persone che possono essere sia un simbolo che reali... Incontro sempre persone su cui potrei scegliere di scrivere una canzone o di non scriverne una. Ci sono così tanti personaggi affascinanti e interessanti in questa città e tutte le città».






giovedì 21 aprile 2022

RECENSIONE in breve: SCORPIONS (Rock Believer)

SCORPIONS  
 Rock Believer (Vertigo, 2022) 






il passato chiama, gli Scorpions rispondono

A volte "il ritorno al passato" sembra una minaccia. Altre può essere una benedizione, soprattutto se in discografia hai un disco che cercò di cavalcare il presente (e il futuro) come Eye II Eye (1999), massacrato all'uscita ma che ho comunque recuperato recentemente per completezza. Dopo vent'anni pare almeno divertente. La verità è che spesso il famoso "ritorno al passato" è una frase che poche volte trova casa nella verità. Questa volta no: sembra tutto vero. Finalmente. Lo si capisce immediatamente dalla copertina che pare riprendere quella di Blackout (uno dei loro vertici) e dal trittico iniziale che riporta gli Scorpions indietro a quei nove anni cavalcati in cima alla montagna hard e heavy, quelli che partivano da Animal Magnetism (1980) e portavano a Savage Amusement (1988), quando chiodo di pelle e toppe, riff e melodia viaggiavano a braccetto. 'Rock Believer' e 'Peacemaker' sono un perfetto esempio del sound eighties della band. Rudolf Schenker e Matthias Jabs poi, rimangono una delle coppie di chitarre più affiatate e longeve del rock mentre Klaus Meine sembra non risentire minimamente degli anni che passano. C'è ancora tutto. Se in 'Gas In The Tank' piazzata all'inizio è la migliore delle chiamate alle armi, piena di riferimenti al passato nascosti nel testo, l'assalto di 'Roots In My Boots' si contrappone alla cadenzata 'Knock' Em Dead' e 'Call Of The Wild' avanza sinuosa e suadente, con 'When I Lay My Bones To Rest' il nuovo batterista Mikkey Dee si presenta portando un po' di sano fast rock'n'roll alla Motorhead che ti fa esclamare "ah però 'sti settantenni!". A volte ci sono autoplagi come il ritmo quasi reggae di 'Shining Of Your Soul' che pare lo stesso di 'There Anybody There?', la bella 'Seventh Sun' ricorda 'China White' ma la presenza di una sola ballata ('When You Know (Where You Come From)'), questa sì non all'altezza del passato, è la cartina al tornasole che ci fa capire quanto gli Scorpions dopo cinquant'anni di carriera siano stati in grado di tirato fuori il loro miglior disco "heavy" dai tempi di Face The Heat. Correva l'anno 1993. 
A testimonianza del buono stato di forma, non deludono anche le cinque canzoni in più contenute nella versione Deluxe: 'Shoot For Your Heart' e 'Unleash The Beast' avrebbero meritato di stare nel disco principale.






venerdì 15 aprile 2022

RECENSIONE: ERIC WAGNER (In The Lonely Light Of Mourning)

 

ERIC WAGNER   In The Lonely Light Of Mourning (Cruz Del Sur Music, 2022)



disco emozionale del 2022?

Di un artista che nei suoi testi ha sempre cercato di trovare un significato all'esistenza e a ciò che eventualmente ci aspetterà dopo, è quantomeno straniante ascoltare un disco postumo.

Ancor di più dopo aver ascoltato 'Maybe Tomorrow' qui contenuta che recita:"Where will I be this time tomorrow If I die today, Will you remember I was even here, By the end of the day, Maybe tomorrow I will love again".

Eric Wagner ha abbandonato questa vita terrena a 62 anni nell'Agosto del 2021, vittima del Covid, non prima di aver portato a termine le otto canzoni che compongono il suo secondo disco solista. Un disco fatto e finito che trovo splendido nel suo riallacciarsi con la parte più pesante della sua lunga carriera di cantante, spingendosi a recuperare il primordiale heavy doom dei mai troppo lodati Trouble ma anche della sua creatura Skull.

Che i Trouble abbiano aperto tante strade a altre band lo testimoniano i tanti elogi e attestati di stima ricevuti negli anni: da Dave Grohl ("ascoltare i Trouble la prima volta, fu come ascoltare Sgt. Peppers per la prima volta. Psalm 9, The Skull furono gli album che diventarono la colonna sonora della mia vita. I testi di Eric Wagner erano ispiratissimi e nessuna band ti trascinava in una nenia funebre come sapevano fare loro. Dio li benedica") a Lee Dorrian dei Cathedral ("hanno completamente reinventato il genere e trasceso la formula standard in qualcosa di veramente unico"), tanto per citarne due.

Messo da parte anche l'amore per la psichedelia (e gli amati Beatles) che ha segnato notevolmente la seconda parte di carriera dei Trouble ma non solo - chi si ricorda dei LID formati da Wagner insieme a Danny Cavanagh degli Anathema? - le otto canzoni sono una passeggiata sulfurea tra i lenti ritmi doom che hanno nella greve 'If You Lost It All', voce e violoncello, e nel più tirato hard rock finale 'Wish You Well' gli unici momenti di divagazione dal pesante incedere guidato dalla sua voce inconfondibile, divenuta vera icona del genere. Ad ascoltarlo oggi sembra quasi un testamento a cui hanno messo firma anche tanti ex compagni dei Trouble: da Dave Synder, batterista ma anche autore e chitarra, il chitarrista Chuck Robinson e il bassista Ron Holzner. Aggiungete la chitarra di Victor Griffin (Pentagram e Place of Skulls) nella title track e avrete una superband.

In una intervista di qualche anno fa Wagner spiegò: "non credo nelle religioni perché non credo che tutti possano avere ragione. Ma credo che ci debba essere qualcosa di meglio di questo, perché altrimenti non ci sarebbe alcuno scopo per noi essere qui, attraversare tutta questa miseria, il dolore, la sofferenza, i soldi, le persone che muoiono, le persone che vengono uccise, la coca cola, le droghe. Non credo che siamo solo messi in una scatola e poi nel terreno. Altrimenti non vedo alcun senso".

Sarà tutto dettato dalle suggestioni, da quanto è successo, ma canzoni come la sabbathiana 'Strain Theory', 'Isolation' e 'Walk With Me To The Sun' toccano il vertice delle emozioni.

Certo, Wagner poteva aspettare ancora qualche anno prima di iniziare la personale esplorazione dell'aldilà. Qui sembra darci, ancora una volta, qualche anticipo.





domenica 3 aprile 2022

RECENSIONE: THE HANGING STARS (Hollow Heart)

 

THE HANGING STARS  Hollow Heart (Loose Music, 2022)



aria di sixties

Sbirciando tra le "nuove" uscite discografiche dei pochi negozi di dischi rimasti è impossibile non notare quanto il mercato sia totalmente invaso da reperti della grande epoca del rock: è un susseguirsi di uscite di vecchi live dimenticati, registrazioni radiofoniche, b side e outtake. Mi domando allora: meglio "raschiare" il fondo del barile finché ce n'è andando sul sicuro con i grandi nomi della storia (tipo l'ennesimo live di Neil Young datato 1971 che sappiamo a memoria ancor prima di sentirlo) oppure "rischiare" con qualche nuova band che pur guardando al passato vive il presente e ha pure cose da dire sul questi tempi bui, strani e maledetti (brexit, pandemia)? The Hanging Stars con il quarto disco in carriera calano l'asso in grado di far girare il nome. Londinesi ma innamorati di certi suoni che andavano di moda in America tra il 1967 e il 1972: country rock, psichedelia, pop, cosmic country con band come Byrds, CS&N, Turtles, Buffalo Springfield, Flying Burrito Brothers come punti di riferimento. Ma anche il folk britannico dei Fairport Convention, più vicino geograficamente, non manca. Ma il bello arriva quando quei suoni californiani in voga a Laurel Canyon negli anni 70 vengono filtrati con qualcosa di più moderno (per modo di dire): echi di REM, Jayhawks, Wilco e Stone Roses si mischiano in un suono che solo una band di oggi con una tavolozza con cinquant'anni di rock a disposizione può governare a proprio piacimento e la band guidata da Richard Olson ci sa fare. 

Registrato tra le a highland scozzesi, Hollow Heart è un disco in grado di prendere l'ascoltatore e farlo viaggiare per terra e mare, cieli e strade tra le pedal steel e i cori eterei di 'Weep & Whisper', le suggestioni sixties di 'I Don' t Want To Feel So Bad Anymore', le chitarre elettriche acide e ficcanti di 'Hollow Eyes, Hollow Heart', il country rock da viaggio che più west coast non si può di 'Black Light Night', il singolo 'Radio On' ("sono io che cerco di scrivere una canzone soul e penso che abbia qualcosa di simile ai Velvet Underground. È come se i Big Star incontrassero i Velvet" racconta Olson). 

Nota di merito anche per la bella copertina.





domenica 27 marzo 2022

RECENSIONE: IAN NOE (River Fools & Mountain Saints)

IAN NOE   River Fools & Mountain Saints (Thirty Tigers, 2022)


prova superata

"Il secondo album è sempre il più difficile nella carriera di un artista" canticchiava Caparezza molti anni fa, riprendendo un detto sempre in voga tra musicofili incalliti. 

A smentirlo ci pensa Ian Noe, folksinger trentunenne del Kentucky, nonostante proprio il debutto di tre anni fa si fosse aggiudicato  un podio tra le migliori uscite discografiche di folk (e dintorni) degli ultimissimi anni. Between The Country si distinse per il ficcato iper realismo dei testi che non ebbero bisogno di cercare storie andando troppo lontano. Testi a chilometro zero che si nutrivano di poetica vera, malinconica, a tratti disperata raccontando di avvenimenti e personaggi circoscritti alla sua città natale Beattyville (con il suo triste primato di città bianca più povera d'America) e camminando un po' più in là ma senza mai  uscire dai confini del Kentucky. Difficile fare meglio? 

Ian Noe dall'alto del suo ex lavoro come operaio in una piattaforma petrolifera (come accenna nel country di 'River Fool') , continua a camminare e vivere il suo mondo circoscritto nei confini, a presentarci una carrellata di personaggi che ha conosciuto e incontrato lungo la strada, tra le rive di un fiume (dove i giovani si divertono) e le strade di montagne dove c'è chi coltiva erba sui monti Appalachi ('Mountain Saint'). 

Spesso solitari in cerca di amore e riscatto (la triste e spoglia 'Ballad Of A Retired Man'), vecchi veterani del Vietnam, camionisti (nel lento trotto guidato dalla lap steel in 'Lonesome as It Gets' ), tanti infaticabili lavoratori degni di essere ricordati (nella ballata con violino 'Strip Job Blues 1984') e raccontati con la stessa facilità di narrazione, fluente e ricca di particolari, imparata dal suo grande mentore John Prine ('Tom Barrett').

Un disco di ritratti e ballate, spesso  dolenti ('In Road May Flood/It' s A Heartache' riprende anche  Bonnie Raitt) a volte  tristi ('Appalachia Haze') anche se  questa volta abbozza qualche accelerazione in più come nell'iniziale 'Pine Grove (Mad House)' con un accenno alla recente pandemia ("questa canzone parla di essere bloccati, di essere isolati, ma di trarne il massimo anche da queste situazioni" ha raccontato recentemente) e un paio di scatti elettrici come succede in  '' Pow Blues' e negli assoli di chitarra della dylaniana 'Burning Down The Prairie'. Sono proprio queste piccole ma fondamentali aperture strumentali (al disco partecipano ospiti come  Jack Lawrence dei  Raconteurs al basso e Derry deBorja  dei The 400 Unit di Jason Isbell alle tastiere) a confermare la bontà del debutto lasciando aperte tante altre porte. Il ragazzo sembra avere ancora tante storie da raccontare.






giovedì 17 marzo 2022

RECENSIONE in pillole: JETHRO TULL - The Zealot Gene

JETHRO TULL
  The Zealot Gene (Sony Music, ,2022)





qualcosa c'è ancora

La copertina di The Zealot Gene è probabilmente una delle più brutte dell'intera discografia, asettica e fredda come solo quelle di A e Under Wraps lo erano (qui niente elettronica però), Ian Anderson non ha più la voce dei bei tempi (dal vivo si fa aiutare spesso e volentieri) ma ci mette ancora la faccia, pure i Metallica stiano tranquilli perché le chitarre elettriche qua dentro ogni tanto ci sono ('Barren Beth, Wild Desert John', 'The Zealot Gene') ma non graffiano come vorrebbero le webzine e le riviste hard rock che lo hanno recensito tiepidamente. Tanto il Grammy Award categoria hard metal non lo vinceranno più nemmeno loro. I Metallica intendo. JETHRO TULL senza Martin Barre? Non è un'eresia, "si può fare" deve aver pensato Anderson (i fan oltranzizsti sono sul piede di guerra): Ian Anderson tramuta una sua vecchia idea, (composta da dodici canzoni basate su dodici emozioni che contraddistinguono l'essere umano, intersecandosi con attualità e sacre scritture), in un disco a nome Jethro Tull che non usciva da ventitre anni ( Dot Com) e diciannove dall'album di "Natale". A suonarlo ci mette la band che lo accompagna dal vivo da anni. Questi sono i nuovi Jethro Tull almeno sulla carta. Eppure: eppure, nonostante tutto, ogni volta che ascolto Ian Anderson, la sua voce, quel flauto, quelle atmosfere bucoliche ('Sad City Sisters'), il folk prog ('Mine Is The Mountain', alleggerito in 'In Brief Visitation') anche il blues della prima ora dissotterrato ('Jacob' s Tales') , io mi commuovo sempre un po' e ci sto bene. Tutto il resto rimane fuori e poco m'importa.





lunedì 7 marzo 2022

RECENSIONE: MIKE CAMPBELL & THE DIRTY KNOBS (External Combustion)

MIKE CAMPBELL & THE DIRTY KNOBS  External Combustion (BMG, 2022)



la leggenda continua

Partendo dal presupposto che Tom Petty a questo mondo manca tantissimo, tanto che riusciamo a ritrovarlo perfino nell'ultimo disco di Eddie Vedder, non c'è nessuno al mondo che possa fare Tom Petty come Mike Campbell. Ma non si tratta di mero scimmiottamento, i due viaggiavano nello stesso vagone della vita uno accanto all'altro. Lo hanno fatto per quarant'anni, inevitabile si siano contagiati reciprocamente. 

"Tutto quello che ho fatto da quando Tom è morto, incluso nell'album con i The Dirty Knobs, è nello spirito di onorare ciò che abbiamo fatto insieme" raccontò Mike Campbell all'uscita del debutto della band che mise in piedi quindici anni fa, tra un tour degli Heartbreakers e l'altro. Era puro divertimento allora, lo è ancora  anche se ora è diventata priorità. Vita. Ossigeno.

"Ho fatto abbastanza soldi per vivere comodamente. Non ho bisogno di uscire e fare un tour. Non ho più bisogno di registrare. Ma mi piace davvero farlo e voglio migliorare. Questo è ciò che mi fa andare avanti" ha dichiarato recentemente. 

Nasce come tanti dischi durante la pandemia, frutto di quel  tempo che doveva essere regalato al tour per promuovere il debutto Wreckless Abandon e che invece si è tramutato in attesa. Lunga ed estenuante. Per uno come Campbell abituato da sempre a vivere in tour, stare con le mani in mano è impossibile, il passo verso il secondo disco dei Dirty Knobs è stato brevissimo: il tempo di scrivere alcune  canzoni  durante il lockdown, e la volontà di ridare forma e sostanza a vecchi demo dormienti nel cassetto. Ha radunato i compagni Lance Morrison (basso), Matt Laug (batteria) e Jason Sinay (chitarre) in studio e senza troppi fronzoli e sovraincisioni External Combustion è nato in un paio di settimane insieme al produttore George Drakoulias. Una combustione spontanea. Ecco trovato il titolo. 

C'è voglia di suonare. Di divertimento. Lo si capisce fin dall'apertura 'Wicked Mind', un rock'n'roll inconfondibilmente da cuori spezzati con la chitarra di Campbell a tirare la fila. 

Lo si capisce dalla presenza di una leggenda come Ian Hunter che presta la sua voce da ultraottantenne (che prodigio! ) e le sue mani su un pianoforte in 'Dirty Job'. "È stato un brivido per me. Perché sono un grande fan dei Mott the Hoople. Penso solo che sia uno dei migliori scrittori in circolazione. Quindi era solo un regalo caduto dal cielo" racconta Campbell. 

C'è la gioia di suonare senza barriere e steccati: dal tirato country di ' Brigitte Bardot', alla tensione creata dagli archi in 'Cheap Talk', dal blues con finale acido della title track, dallo stomp di 'Rat City', dalla voce di Margo Price che regala a 'State Of Mind' tutta la calma di una canzone d'amore con la A maiuscola. Le atmosfere orientali e meditative di 'In This Lifetime' sono un inaspettato svicolo dalla vecchia strada del rock che catturano al primo ascolto. 

In 'Lightning Boogie', ritorna la vecchia magia degli Heartbreakers con il piano ospite di Benmont Tech: rock'n'roll, solo puro e semplice rock'n'roll da gente che sa come trattare la materia. Si gioca. C'è solo da imparare. Nel country 'It Is Written' c'è un chiaro riferimento a Tom Petty, alla loro amicizia, al sud, alla California come se The Band suonasse ancora una volta l'ultimo degli infiniti valzer che la musica ogni tanto sa regalarci. 

"You were born in California, I was born in FLA, I went out there, with a rock and roll band". La mente vaga, rilegge, rivede con nostalgia. 

E dopo la finale 'Electric Gypsy' non si può ribadire ancora una volta quanto solo Mike Campbell sia concesso di fare Tom Petty. Un legame che va oltre. E questa volta la strada che porta verso il tour sembra essere libera perché come lo stesso Campbell ha rilasciato in una intervista: "è così divertente suonare in una band. Non c'è niente di simile. È il miglior lavoro del mondo".




domenica 27 febbraio 2022

RECENSIONE: JAIME DOLCE'S INNERSOLE (Love Generator)

JAIME DOLCE'S INNERSOLE   Love Generator (lo Stran Palato, 2022)


amore per la musica

Jaime Dolce è un bluesman che come tutti i buoni bluesmen  assorbe: luoghi, amicizie, situazioni, temperature, generi musicali. Un viaggiatore partito dalla lontana New York che ha trovato in Italia, a Parma, la sua comfort zone. Chitarrista per Mason Casey nei primi anni novanta, arrivato in Italia ha partecipato e suonato per molti progetti ma quando ha da parte abbastanza canzoni per un disco tutto suo esce allo scoperto con il progetto Jaime Dolce's Innersole, accompagnato da Filippo Buccianelli alle tastiere, Matteo Sodini alla batteria, Andrea Mr. Tibia Tiberti al basso. 

La sua chitarra guida canzoni trasversali, mai scontate che si abbeverano tra i generi, così che il passo dal blues al dub reggae di 'God Love If You Want It' (di Slim Harpo, una delle due cover, l'altra è 'Fire' del suo mentore Jimi Hendrix), dal RnB al funky di 'Bad Gone Blues' sembrano di una facilità disarmante. Ma si chiama bravura, stile e attitudine. Così come la chitarra che straborda nel finale di 'Money Ain't Nothing', la solarità quasi pop che circonda 'Zinfandel Blues', il blues sincopato 'Losing Me' portato a termine con la voce sporca il giusto, la classe della band che esce  nella strumentale 'TTF (Lust Generator'), il southern funky travolgente di 'Holy Sole', il soul spartano e avvolgente di 'Time (Pietrasanta Blues)', il blues acustico di 'The Wind Cries Mississippi John Hurt', la ballata 'Love Generator' e l'arrivederci della finale  'Il Bacio Della Buona Notte' confermano la bontà del chitarrista americano, ma se lo chiamate italiano, credo non si offenda. Fa da buon sigillo di qualità blues la produzione e distribuzione da parte de Lo Stran Palato di Brescia.

                                                          Foto: Gianfilippo Masserano





martedì 22 febbraio 2022

RECENSIONE dischi in pillole: EDDIE VEDDER (Earthling)

EDDIE VEDDER  Earthling (Seattle Surf/Republic Records, 2022)


divertimento assicurato

Ho letto tante cose sull'ultimo di EDDIE VEDDER: alcune lo dipingevano come una ciofeca immonda, altre lo osannavano quasi fosse il disco in grado di salvare il rock'n'roll. Naturalmente bisogna alzare e abbassare i livelli e arrivare al centro dove forse siede pacifica e annoiata la verità, troppo democratica (parolona che fa sempre paura) per far rumore e troppo dimenticata per far litigare le opposte fazioni nei social. 

È un disco pasticciato EARTHLING, questo sì, ma nel senso buono del termine, che potrebbe anche voler dire: essere spassoso, incatalogabile, vario, paraculo il giusto. A tratti chiassoso e sopra le righe come il suo produttore Andrew Watt. Uno che ha ricordato a Ozzy Osbourne di fare Ozzy almeno ancora una volta. Non ha un mood  intimista piantato al centro dell'opera come i precedenti due dischi di Vedder, gli scarni e acustici Into The Wild e Ukulele Songs (i fan oltranzisti quello volevano) ma bensì raccoglie per strada canzoni presumibilmente scritte nel tempo che quindi ondeggiano a seconda dell'umore e del momento nei quali sono state scritte. 

Certo, l'apertura secondo me non è delle più incoraggianti: l'epicità di 'Invicible' mi sembra tronfia come le cose peggiori di Vasco Rossi. Eppure per molti è tra le migliori. Ma dalla seconda traccia in avanti le montagne russe che percorrono l'intero disco funzionano alla grande senza attimi di noia. No, non ci si annoia nell'ultimo disco di Vedder. Passare dalla solarità di 'Fallout Today', all'intimità di 'The Haves', al rock'n'roll tirato che pare Danko Jones di 'Rose Of Jericho' è un attimo. 

Certo, manca la fame della gioventù che bruciava il terreno intorno (ma quella manca da anni ormai, vent'anni si hanno una volta sola) sostituita dalla maturità che si nutre di mainstream. L'intervista con Bruce Springsteen uscita in contemporanea  è un lancio mediatico opportunista e furbo. La maturità porta ad avere anche amici di peso. Ma si deve arrivare lì. 

E a conferma di quanto Vedder abbia voglia di divertirsi ci sono i tre duetti che: fanno suonare l'armonica di Stevie Wonder (che assolo pazzesco) dentro a un pezzo dal tiro punk ('Try'), fanno fare ad Elton John se stesso come fosse ancora negli anni settanta ('Picture'), fanno suonare Ringo Starr in una canzone dei Beatles che non è dei Beatles ('Mrs. Mills'). Sono "cose" anche queste. 

E poi una 'Long Way' che profuma di Tom Petty e 'Brother THe Cloud' che sembra rifarsi ai Talking Heads come alcune delle ultime cose firmate Pearl Jam.Un omaggio alla musica. Da fan. 

Ah, per me  è comunque meglio dell'ultimo Gigaton firmato Peal Jam. E che ci vuole direte voi?





sabato 12 febbraio 2022

RECENSIONE, dischi in pillole: MADRUGADA (Chimes At Midnight)

 


MADRUGADA  Chimes At Midnight (Madrugada Music/ Warner, 2022)




tornati per restare

Il concerto alla Latteria Molloy di Brescia per il tour del 2019, nato per festeggiare i vent'anni dall'uscita del loro strepitoso esordio Industrial Silence rimane, per intensità, uno dei migliori concerti visti negli ultimi anni. Ora che la band si è riformata, a quattordici anni dall'ultimo album, che fu registrato durante e dopo la morte del chitarrista Robert Buras, i MADRUGADA ritornano con CHIMES AT MIDNIGHT. Dicono di averlo registrato per suonare nuove canzoni ai prossimi concerti, anche se due le pescano dal passato. Tornati per restare quindi. Intanto io dico che questo album registrato in parte nei mitici Sunset Sound Studio di Los Angeles, ha tutte le carte in regola per far proseguire la band norvegese sugli stessi binari di sempre come se il tempo non fosse mai passato, dove tensione, atmosfere romantiche e notturne, rarefatte e scatti elettrici sono come al solito guidati dalla inconfondibile e baritonale voce di Sivert Høyem come sempre l'arma in più. I loro paesaggi sonori sono inconfondibili, ed è un piacere lasciarsi trasportare senza fretta e con lòa voglia di non finire mai il viaggio. L'unico limite è forse la troppa perfezione dei Madrugada che fanno i Madrugada, dall'inizio alla fine, ma per un ritorno dopo tanti anni mi sembra il minimo che si possa concedere loro. Un trademark ormai consolidato. Ancora un caldo abbraccio dalla sempre fredda Norvegia. 





martedì 1 febbraio 2022

RECENSIONE, dischi in pillole: EELS (Extreme Witchcraft)

 

EELS   Extreme Witchcraft (E Works Records, 2022)


mi voglio divertire!

Ho ancora negli occhi l'arsenale di chitarre che Mr. E si portò dietro durante il tour  che passò all'Alcatraz di Milano nel 2010. Cambiò quasi una chitarra ad ogni pezzo in preda ad una bulimica voglia di rock'n'roll, arrotolato dentro a una tuta da meccanico bianca e candida e una bandana che finiva dove iniziava la sua lunga barba ascetica dell'epoca. 

La stessa voglia di divertirsi che sembra esplodere nei primi quattro pezzi e poi ancora più avanti in questo nuovo album dopo il per me poco riuscito ed ombroso Earth To Dora del 2020.

Schitarrate beat garage ('Amateur Hour', 'Good Night On Earth') che sembrano riportare ai tempi di Souljacker (ed ecco di nuovo John Parish in produzione, mica un caso) e Hombre Lobo. È un disco spassoso dall'inizio alla fine, uno dei più  divertenti della sua carriera. Perché vario: quando le chitarre incontrano l'elettronica ('The Magic') quando si lancia nel giro funky di 'Grandfather Clock Strikes Twelve', nel riff blues di 'Better Living Through Desperation' e quando torna al passato, agli inizi, in 'Learning While I Lose'. 

Anche l'umore sembra essere up (i tempi sono cambiati) nonostante la pandemia e le sue "strane abitudini alimentari" acquisite per inerzia ('Strawberries & Popcorn'), le ore che sembrano non passare e qualche disavventura d'amore ('Stumbling Bee') che però sembra non preoccupare così tanto come una volta perché nella soffice 'So Anyway' c'è una dichiarazione d'amore sincera e romantica. Sarà la stessa persona? Mr. E si è nuovamente accasato e bambini e cani scandiscono i suoi giorni. 

Certamente l'uscita più varia e divertente dei suoi ultimi anni. Bentornato Mr. E. 

Recentemente ha detto: "sono costantemente stupito di essere una delle poche persone fortunate al mondo che riesce a fare quello che vuole fare per lavoro". E questa volta è proprio un buon lavoro.





venerdì 21 gennaio 2022

RECENSIONE: JOHN MELLENCAMP (Strictly A One-Eyed Jack)

 

JOHN MELLENCAMP  Strictly A One-Eyed Jack (Republic Records, 2022)



quello che vedo non mi piace

A pochi giorni dall'uscita del nuovo disco di John Mellencamp, la notizia che innalza Bruce Springsteen  come artista musicale che ha guadagnato di più nel corso del 2021 (la cessione del catalogo ha fatto effetto) può stridere con l'ultimo tratto di carriera del "Little Bastard" dell'Indiana: nel corso della sua carriera Mellencamp ha piano piano scelto un basso profilo musicale, e la coerenza artistica come  punto fermo, senza mai cedere al facile compiacimento (ricordate il concerto di Vigevano?) e uscendo ultimamente con un "non mi piace suonare nelle grandi arene" che sembra confermare il tutto, se non fosse che Springsteen lascia la sua voce e chitarra in ben tre canzoni qua dentro. In quella 'Wasted Years' uscita a sorpresa dopo l'estate a confermare la collaborazione tra i due dopo alcune foto sibilline comparse in rete, amara riflessione sul tascorrere del tempo e la vecchiaia che bussa alle porte, concludendosi con "la fine sta arrivando, è quasi arrivata" che sembra lasciare ben poche speranze nel futuro dietro l'angolo, una più movimentata 'Did You Say Such a Thing' che si ricollega alla metà carriera di Mellencamp, e la finale 'A Life Full of Rain', ballata al pianoforte condotta in porto da vero crooner, con il suo testo da "una vita piena di pioggia, senza un posto asciutto dove stare" che conferma una certa disillusione di fondo. Nuovamente. 

L'incontro tra i due era però scritto dal destino e recentemente Mellencamp ne ha raccontato la genesi. 

"L'incontro con Bruce è stato del tutto casuale. Per tutta la mia carriera sono sempre stato indicato come il Bruce Springsteen dei poveri. E io e Bruce ci conosciamo da anni. Ci siamo conosciuti anni fa, ci conoscevamo abbastanza per salutarci. Ma abbiamo fatto una cosa nella foresta pluviale per Sting e abbiamo suonato insieme. E all'improvviso è diventato come il mio fratello maggiore, e mi trattava come se fossi suo fratello, e io lo trattavo con rispetto. Poi siamo diventati davvero buoni amici, ed è semplicemente successo. È venuto in Indiana, è rimasto a casa mia… ". 



Ma sarebbe veramente un delitto far passare questo nuovo album solo per "il disco con Springsteen" perché ancora una volta Mellencamp ci dimostra d'essere uno dei migliori songwriter impressionisti che calpestano le terre americane e qui viene pure fuori il pittore che ha dentro. Un'analisi di quello che gli occhi vedono intorno ma anche, spesso, un'autoanalisi sincera e profonda. Consapevolezza o forse rassegnazione davanti alle "estati migliori" che non torneranno più.  

Nel crescendo di 'I Am A Man To Worries' canta: "sono preoccupato per le parole che sento, sono preoccupato per tutte queste brutte notizie, so che è una maledizione che  non andrà più via".

E da tempo ha scelto di camminare dentro i solchi delle radici, lasciando la via del rock ad altri (anche se in 'Lie To me' ci ritorna con accenni quasi dylaniani), accontentandosi di suoni roots, nudi, acustici, minimali, intimi, caldi, mai over prodotti (chi ha detto Springsteen?) dando alla sua voce sempre più sporca e roca (recentemente ci ha pure scherzato su: "finalmente le tante sigarette fanno il loro effetto") la possibilità di mettersi in evidenza cantando di bugie e bugiardi (la dimessa 'I Always Lie to Strangers' che apre il disco con il violino piangente, 'Lie To Me'), e calpestando insoliti territori jazz come succede in 'Gone So Soon', notturna gita dalle parti del primo Tom Waits con la tromba di Joey Turtell a soffiare nel buio . Una bella sorpresa.

È un disco che segue la scia delle ultime produzioni, dai toni generali spesso dimessi, dettati da una pandemia che ha lasciato troppi dubbi, poche certezze, tanti rimpianti e pochi sprazzi di luce vera, se non presenti in 'Chasing Rainbows' se si vuole cercare tra le righe. 

Dove la fisarmonica guida a fari spenti 'Driving In The Rain', il pianoforte e l'acustica la spoglia 'Streets Of Galilee', gli stacchi funky si impossessano di una magnifica 'Sweet Honey Brown' e il lavoro dei fidi Andy York e Mike Wanchic alle chitarre, Dane Clark (batteria), Troye Kinnett (piano e fisarmonica), John Gunnell (basso), Merritt Liar (violino) e Miriam Sturm (violino) è una certezza su cui contare sempre. 

Certo, la presenza di Springsteen potrebbe riportare Mellencamp sulle prime pagine dopo molto tempo ma questo album non ha nessuna caratteristica dei dischi che si fanno comprare, ascoltare e amare con troppa facilità dal mainstream. La scelta di non segnalare la presenza di Springsteen con nessun adesivo e nemmeno con un semplice "feauturing" dopo le canzoni la dice lunga: nessuna scorciatoia. Questo è un grande disco e Mellencamp ha sbagliato poche volte in carriera.

D'altronde Mellencamp lo dice spiegando il significato della canzone che da il titolo all'album: "non sono per tutti".