martedì 25 febbraio 2020

RECENSIONE: GREG DULLI (Random Desire)

GREG DULLI  Random Desire (Cream/BMG, 2020)
 
 
 
 

la bellezza ci salverà
Difficile voler male a un artista come Greg Dulli, uomo viscerale che poche volte ha sbagliato le sue mosse. E anche quando l'ispirazione non era delle migliori a salvarlo è sempre stata l'onestà e un approccio alla musica unico e ancora romantico come pochi. In un periodo della vita in cui l'ispirazione sembra tornata ai massimi livelli (In Spades degli Afghan Whigs uscito tre anni fa è ancora caldo e scalpitante, degno dei migliori episodi targati anni novanta) sarebbe stato veramente un peccato lasciare queste dieci canzoni (per soli 37 intensi minuti, curati in ogni minimo particolare) chiuse in un cassetto. Meglio farle uscire anche se tutti gli amici più stretti erano impegnati in altri progetti.
"Tutti avevano un progetto, quindi ero tipo:'Devo fare qualcosa e se mai lo farò, dovrei farlo subito' " dice.
E allora, decide di fare quasi tutto da solo questa volta con l'aiuto di una ristretta schiera di musicisti tra cui Jon Skibic, Rick G. Nelson, Jon Theodore: il risultato finale non sembra così distante da quanto proposto con gli ultimi Afghan Whigs (ascoltare 'Black Moon') , Gutter Twins e soprattutto con il progetto Twilight Singers. Ballate alla Greg Dulli, liriche ('Sempre') oscure e viziose, investigative tra le pieghe più carnali dell'amore, tra i chiaro scuri della vita e delle perdite (pesante e dolorosa la morte dell'amico Dave Rosser), dei demoni personali, condotte dalla linea guida di un pianoforte come la finale 'Slow Pan', 'It Falls Apart', e ' Scorpio' che lo stesso Dulli ha dichiarato ispirata da Prince. Malinconiche e notturne pennellate acustiche come 'Marry Me' e la strepitosa 'Ghost', scritta a New Orleans, con un violino a disegnare velata malinconia, una algida e elettronica 'Lockless' scaldata dal soffio di una tromba, con qualche lampo elettrico ed esplosivo ('Pantomina', 'The Tide') a pompare ancora sangue rosso carminio.
Profondo e ispirato.
 
 
 
 

 
 

venerdì 21 febbraio 2020

RECENSIONE: SUPERSUCKERS (Play That Rock'n'Roll)

SUPERSUCKERS  Play That Rock'n'Roll  (2020)



alzate il volume
Ci sono band a cui nessuno chiederebbe mai delle rivoluzioni. Band nate per suonare rock'n'roll dall'inizio alla fine dei loro giorni. I Supersuckers di Eddie Spaghetti sono una di queste. Questa volta poi sta tutto nella foto di copertina e nel titolo: e che vada alla malora anche l'originalità. "La nostra lettera d'amore al rock'n'roll" lascia detto Spaghetti. Dopo aver festeggiato i trent'anni di carriera con il precedente Suck It (2018) ma soprattutto dopo la riabilitazione di Spaghetti reduce da una doppia vittoria sulla vita (ha sconfitto un tumore alla gola e mandato la morte a farsi fottere dopo un brutto incidente stradale) si buttano come freschi ventenni (Eddie e soci, il chitarrista Marty Chandler e il batterista Chris Von Streicher battono tutti intorno al mezzo secolo di vita) con immutata spavalderia a suonare come se non ci fosse un domani. E se ci fosse sarebbe proprio tale e quale al loro presente.
Tolta 'Ain't No Day Like Yesterday' con una chitarra vagamente psichedelica non c'è un attimo di tregua nelle dodici canzoni registrate a Austin, Texas, nello studio di Willie Nelson. Dall'iniziale 'Ain' t Gonna Stop' dove Spaghetti sembra già mettere le cose in chiaro "non smetterò fino a quando non lo fermerò" canta, passando per la dura e diretta 'Last Time Again' che sarebbe tanto piaciuta a Lemmy, dal punk di 'Bringing It Back' al blues di 'You Ain’t The Boss Of Me', dall'atto d'amore scritto con sangue, sudore e devozione della title track, viaggio nella storia del rock, fino alla cover di 'Dead, Jail o Rock n 'Roll' di Michael Monroe, un altro grande troppo spesso dimenticato. Play It Loud e long live rock'n'roll.








lunedì 17 febbraio 2020

RECENSIONE: OZZY OSBOURNE (ORDINARY MAN)

OZZY OSBOURNE  Ordinary Man (Epic, 2020)




Un "all right now" gridato come ai vecchi tempi, poi la sua inconfondibile risata malefica. ORDINARY MAN, il nuovo disco di OZZY OSBOURNE inizia nel segno della tradizione. Un deja vu che ti fa pensare immediatamente: "Ozzy è tornato, è sempre lui". Quando qualche mese fa diceva che questo è il miglior disco della sua carriera però non gli credevo. Ora, parecchi ascolti gli credo ancor meno, ma mica perché sia brutto eh, solo perché ritengo non sia così. Ha voluto accontentare un po' tutti con questo disco e in qualche modo si è pure rimesso in gioco (l'hanno rimesso in gioco): ha messo in fila la sua carriera con una decina di belle canzoni. Sicuramente il miglior disco dai tempi di Ozzmosis.
Ci sono i riff pesanti e alcune veloci ripartenze in stile vecchi Black Sabbath (la schizofrenica e fumosa 'Goodbye') anche se non c'è Tony Iommi e nemmeno Zakk Wylde, c'è perfino un'armonica che porta il pensiero dritto dritto a 'The Wizard' in 'Eat Me', c'è la malignità horror e alcuni momenti ('Straight To Hell') che richiamano Blizzard Of Ozz e Diary Of A Madman (eccoli i motivi per cui questo non sarà mai il miglior disco di Ozzy), c'è una 'Under The Graveyard' in bilico tra eighties e i novanta di Ozzmosis ma in qualche modo con tutti gli attributi di un classico e una melodia che ti si inchioda nel cervello, c'è perfino una velocissima traccia dall'attitudine punk ('It's A Raid') che da un Ozzy settantunenne non ti aspetteresti più, forse mai, nata ricordando quei caldi giorni in California immersi nella cocaina durante le registrazioni di Vol. 4 dei Black Sabbath come ha recentemente dichiarato.
Di 'Ordinary Man' sappiamo già tutto, una ballata al pianoforte che da Ozzy Osbourne abbiamo già sentito tante altre volte. Ricordo: 'So Tired' , 'L. A. Tonight', 'Dreamer'. La grande differenza qui la fanno il pianoforte e la voce dell'ospite sir Elton John e l'assolo di chitarra lasciato da Slash.
"Mi sono accorto che assomigliava a una canzone di Elton. Così ho chiesto a Sharon: e se la cantassi con lui? Glielo abbiamo chiesto e, roba da non credere, ha detto di sì e ha cantato e suonato il pianoforte”.
Della sinfonica 'Holy For Tonight' sarà bello scoprire che ci piacerà con gli ascolti, grazie a quelle antiche reminescenze da Electric Light Orchestra che si trascina dietro.
Ci sono Chad Smith alla batteria, Duff McKagan al basso in tutte le tracce, Slash e Tom Morello a piazzare assoli e il giovane produttore, classe 1990, Andrew Watt alle chitarre, tutti insieme fanno il loro dovere facendo suonare il disco alla grande, seppur registrato in tempi brevissimi e un Ozzy a mezzo servizio. Il 2019 non è certamente stato tra i suoi anni da incorniciare.
C'è perfino l'auto-tune (orribile), soprattutto nella finale e già edita 'Take What You Want' e ospiti inconsueti (ma qui il vero ospite è Ozzy) come Post Malone e il rapper Scott Travis, da non confondere con Travis Scott, batterista dei Judas Priest (sarebbe stato certamente più utile), per accontentare le nuove generazioni che forse nemmeno sanno da dove spunti fuori un tale, tremolante, che si fa chiamare Ozzy, balzato agli onori delle cronache non musicali qualche anno fa per un reality ambientato in famiglia. Ah sì, poi ci sono i Black Sabbath. La sua strana famiglia che ora pare stringersi intorno a lui per proteggerlo.
E pensare che i primi 40 secondi promettevano pure bene. Ecco, forse di quest' ultima avremmo fatto volentieri a meno.
Ozzy Osbourne ha il morbo di Parkinson, già combattuto in passato, forse annullerà ancora una volta il suo ultimo tour, già più volte rimandato. Molto probabilmente questo sarà il suo ultimo disco in carriera e i pochi rimpianti per una vita condotta in corsia di sorpasso che affiorano in mezzo a cannibali e alieni verdi (quelli della inconsueta 'Scary Little Green Men') i tanti messaggi di addio sparsi nei testi sembrano purtroppo confermarlo. Il solo pensiero mi rattrista parecchio. Pare proprio un disco di commiato.
Ozzy è stato uno dei miei primi miti musicali.
Faccio ripartire tutto dal principio: un altro "all right now" ci seppellirà…








martedì 11 febbraio 2020

RECENSIONE: THE CADILLAC THREE (Country Fuzz)

THE CADILLAC THREE Country Fuzz  (Big Machine Records, 2020)




fuori da ogni etichetta
 
Birra fredda, whiskey Jack Daniels, pick up El Camino, Johnny Cash, Merle Haggard, Charlie Daniels sono solo alcuni nomi e parole che spuntano fuori leggendo i testi dei Cadillac Three, band di Nashville giunta al traguardo del quarto disco, a due anni dal precedente Legacy. Non ci vuole certamente troppo ingegno per inquadrarli : il loro è un southern rock dal taglio ruspante ed elettrico (il boogie 'Bar Round Here' apre le danze nel migliore dei modi) che ama anche adagiarsi sui verdi campi del country ('Back Home'), senza disdegnare sipari più melodici e pop ('Heat', la finale 'Long After Last Call' che gioca di slide).
Ma attenzione, perché da qui in avanti, stanchi di essere etichettati ( ecco in arrivo la canzone 'Labels') scelgono loro stessi il nome del genere musicale a cui vogliono essere associati: "country fuzz, va bene, grazie". Prendiamo nota.
"Ci siamo stufati di essere chiamati southern rock o essere visti troppo rock per suonare country, quindi, abbiamo dato a tutti qualcosa per chiamarci che in realtà pensavamo fosse bello e sensato."
 
"Non puoi giudicare un disco dalla copertina fino a quando non lo senti girare sul giradischi. C'è sempre di più dietro il titolo" cantano in 'Labels'.
Jared Johnston (voce e chitarra), Neil Mason (batteria) e Kelby Ray (basso) compensano una latente originalità dei contenuti (i titoli promettono proprio quello) con la giusta attitudine che gioca spesso e volentieri con il funk, danzereccio di 'The Jam' (e qui appare pure il fantasma di Prince) e 'All The Makin' s Of A Saturday Night', con il southern blues elettrico di 'Hard Out Here For A Country Boy' (con gli ospiti Chris Jason e Travis Trit) con le chitarre hard di 'Slow Rollin' e quelle di 'Crackin' Cold Ones With The Boys' dal taglio più moderno, con il blues acustico di 'Raise Hell'. Pochi fronzoli, tanta sostanza, voglia di divertirsi e attitudine live. Fieri e chiassosi, i Cadillac Three non pretendono di essere ricordati per i loro messaggi quanto per la varietà e la spensieratezza con cui affrontano la materia rock. Insieme a Whiskey Myers, Blackberry Smoke, Black Stone Cherry, Rival Sons rappresentano il miglior presente del classic rock legato al passato e questo è senza dubbio il loro miglior disco: "per noi ogni album è più ambizioso del precedente". Avanti così.











 

venerdì 7 febbraio 2020

RECENSIONE: DRIVE BY-TRUCKERS (The Unraveling)

DRIVE BY-TRUCKERS  The Unraveling (ATO Records, 2020)


THE UNRAVELING sembra iniziare proprio là dove finiva il precedente American Band. "Gli ultimi tre anni e mezzo sono stati tra i più tumultuosi che il nostro paese abbia mai visto" racconta Patterson Hood. Se quattro anni fa la preoccupazione più grande era affrontare e scongiurare la possibile vittoria di Donald Trump alle elezioni presidenziali, questo nuovo album fa i conti con tutto quello che è avvenuto dopo il trionfo dell'attuale presidente.
La band di Athens guidata da Patterson Hood e Mike Cooley che da tempo ha messo da parte l'epica southern rock si conferma una delle poche realtà ancora in grado di cavalcare il presente, mai così cupo, e metterlo in discussione con chitarre taglienti (anche se non mancano momenti meditativi come l'apertura 'Rosemary With A Bible And A Gu' guidata da pianoforte e archi o il country di Thoughts And Prayers') e testi diretti e provocatori, ambientati in una America in ombra da nubi nere e minacciose.
Tra gli ospiti Cody Dickinson e la sua washboard in 'Babies In Cages', brano registrato live in studio. Titoli come il ritratto americano dipinto in '21 st Century USA' dove "gli uomini lavorano sodo ma mai abbastanza per stare bene" , 'Armageddon's Back In Town' e la lunga 'Awaiting Resurrection' sulla scia delle cavalcate in crescendo alla Neil Young, sono chiarissimi e non hanno bisogno di troppe spiegazioni.
C'è poca luce tra i solchi, tra le parole serpeggia amarezza, voglia di riscatto e cambiamento. Anche altri spettri neri si stanno ripresentano minacciosi, conseguenza inevitabile del mal di vivere: "il 1971 non ci ha insegnato nulla!? Il 1994 non ci ha insegnato nulla?... Mi mancano i miei amici morti per via dell'eroina" cantano in 'Heroin Again'.
C'è da riempire il grosso buco di questo presente e nella lunga presentazione al disco che accompagna i testi, la conclusione recita: "non rinunciate a lottare, e non smettete di inseguire un sogno. Votate e resistete. A volte è la cosa migliore che possiamo fare. Ci vediamo al prossimo rock show".
Seguiamo i consigli.







DRIVE-BY TRUCKERS  It’s Great To Be Alive!  (2015)




lunedì 3 febbraio 2020

RECENSIONE: TIJUANA HORROR CLUB (Naked Truth)

TIJUANA HORROR CLUB  Naked Truth (2020)


la nuda verità
Un altro lunedì è lasciato alle spalle ed è nuovamente ora di montare gli strumenti, preparare o disfare il backstage (tanto è uguale), riempire i bicchieri e salire sul palco. I bresciani Tijuana Horror Club non lasciano sciogliere troppo il ghiaccio nel tumbler della vita e ritornano a poco più di un anno dal precedente The Big Swindle. Lo fanno alla loro maniera proprio come recitava la copertina del precedente disco: una base ritmica solida e da battaglia formata da Mario Agnelli (batteria) e Davide Rudelli (basso), una bella dose di pianoforte saettante suonato da Alberto Ferrari (anche voce), la chitarra fuzz e la voce greve e cavernosa di Joey Gaibina a riempire e dare il tocco finale. Aggiungete a piacimento il sempre gradito supporto di Andy McFarlane, la tromba di Francesco Venturini e il trombone di Fabrizio Del Vecchio, ben presenti in tutti il disco, la produzione di Ronnie Amighetti al Klubhouse di Brescia e avrete l'esplosivo nuovo cocktail denominato Naked Truth.
L'aggiunta dei fiati nel suono da big band della travolgente 'Monday Blues' e la tromba nella finale 'Trained Wild Animals' a sbuffare malinconia aprono e chiudono un disco che mette nuovamente in fila i loro tanti punti fermi che passano dal macabro teatro di Screaming Jay Hawkins alle atmosfere notturne e caliginose di Tom Waits, dal rock'n'roll swing battuto dai tasti di Jerry Lee Lewis al punk, dal blues al psychobilly dei Cramps fino a quel Django Reinhardt tanto amato dalla band.
In mezzo tra lo swing ruspante di 'Party Girls', la luna piena che illumina 'Windy Night', il tiro rock di 'Soul Savers', il rock’n’roll di 'Dick Picking' e 'Grand Marnier' c'è anche il tempo di una pausa nella fumosa ballata da notte fonda ' Believe In What I Say'.
La nuda verità è che qui non ci sono inganni e truffe: tutto viene spiattellato in bella mostra come nel tavolo preparato per la copertina (foto di Paolo Tresoldi). Tra amori, feticci, strumenti di "lavoro", passioni ed effetti personali c'è pure il vinile di Sgt. Pepper e scoprirete perché ascoltando il disco.
La nuda verità è che tutto è suonato e sviscerato con il solo aiuto di sudore, passione, incrollabile fede rock'n'roll, alcol e faccia tosta da vendere. Basta assistere a un loro live.
L' appuntamento  è per il 28 Febbraio 2020 alla Latteria Molloy di Brescia in occasione del release party, aperto dall'amico Cek Franceschetti.





RECENSIONE: TIJUANA HORROR CLUB-The Big Swindle (2019)



lunedì 27 gennaio 2020

RECENSIONE: GENERAL STRATOCUSTER AND THE MARSHALS (Get A Lawyer)

 GENERAL STRATOCUSTER AND THE MARSHALS   Get A Lawyer (Black Candy Records, 2020)





comodamente seduti tra le vecchie strade del rock'n'roll

"La musica è un viaggio" rispose Jacopo Meille alla mia domanda "il viaggio ha influenzato la vostra musica?", non più tardi di quattro anni fa quando uscì il loro terzo disco Dirty Boulevard.
Doveva essere una di quelle band nate quasi per gioco, un progetto estemporaneo, dove musicisti già rodati provenienti da diversi gruppi si incontrano per dare sfogo alla loro passione comune per il caro vecchio  rock a tinte hard. Sulla mappa un viaggio corto, breve ma intenso. Si è trasformato in un viaggio lungo costruito su tappe sempre più sorprendenti e a fuoco.
La partenza da Firenze, l'arrivo è ancora ignoto.
A dieci anni dalla nascita i General Stratocuster And The Marshals sono ancora qui con noi a lottare e giocarsi le  carte sul tavolo delle migliori classic rock band italiane con una buona probabilità di portarsi a casa la mano senza troppa fatica. Gli assi ci sono tutti: Jacopo "Jack" Meille, attuale cantante degli storici Tiger Of Pan Tang, prime mover della scena NWOBHM, Alessandro "Nuto" Nutini (batterista dei Bandabardo), il generale Fabio Fabbri alla chitarra, l'esperto Richard Ursillo (già con Sensations' Fix, gliSheriff e i Campo di Marte) al basso e Federico Pacini alle tastiere.
Questo quarto album, poi, sembra veramente un incrollabile atto d'amore verso il viaggio in musica: gli angoli più affilati del passato hard rock sono stati leggermente smussati (comunque presenti in tracce come 'Greetings From Hell' e 'Rock Steady, Roll Lady') a favore di una libertà di movimento che ad ogni disco stupisce sempre più ma qui raggiunge l'apice per varietà e bravura.
Ascoltate il riff killer di 'California Rave' e quel chorus che grida pace e libertà, i sapori on the road dell'asfalto e dell'avventura alla Creedence Clearwater Revival di 'That Kind Of Woman', gli accenti sudisti di 'Body & Soul' con quel finale che più stonesiano non si può, lo spiazzante funky soul di 'Talkin' Bout Love' con Meille che si prende la scena giocando di falsetto. Sembra solo un gioco ma di quelli morbosi.
Evocano lo spirito di David Bowie in 'Let It Rain' tanto che si intravede Marte dopo la curva, chiudono con la malinconica ballata 'Too Good To Be True' che ci trascina attraverso  una lunga e diritta highway alla migliore stagione dei Led Zeppelin.
Siete ancora lì seduti sul marciapiede? Alzatevi e salite a bordo, il viaggio è ancora lungo ma assolutamente appagante.






GENERAL STRATOCUSTER AND THE MARSHALS- Dirty Boulevard e INTERVISTA (2016)
GENERAL STRATOCUSTER AND THE MARSHALS (2011)
GENERAL STRATOCUSTER AND THE MARSHALS-Double Trouble (2013)





lunedì 20 gennaio 2020

RECENSIONE: FARTY WAYNE (Walking Wayne)

FARTY WAYNE  The Walking Wayne (2020)

il carnevale sporco

 Ecco una bella proposta oidirettamente da Ivrea (Torino) per tutti gli amanti del rock blues più sporco, selvaggio e suonato ad alti volumi. I Farty Wayne nascono nel 2015 come tribute band dei micidiali Left Lane Cruiser, duo rural blues di Fort Wayne, Indiana. Con il peso degli anni e la gavetta dei tanti concerti, anche fuori dal confine italiano, hanno sviluppato un suono tutto loro, personale, che trova nel lavoro del produttore Silvano Ganio Mego presso lo studio Osteria del Suono di Ivrea, la giusta strada per venire allo scoperto. Autodefiniscono il loro genere come dirty trash blues e ascoltandoli si può anche capire il perché. Pochi abbellimenti estetici e un suono che va diretto al punto: tambureggiante ('Sirius Lake') e veloce come la più veloce delle locomotive in corsa ('Ivrea'). Blues che gioca di slide ('Uncle Beta'), che diventa hard ('Mucho Brutal'), rallenta e scivola sul country distorto della ballata 'Lost Lullaby' e testi tra la cronaca reale e il demenziale, fortemente inchiodati da chiodi arrugginiti alle tavole del loro territorio d'origine, il Canavese, dove i veri protagonisti sono di volta in volta la loro città e lo storico carnevale con la battaglia delle arance (da vedere almeno una volta nella vita), gli animali che popolano il vicino lago Sirio, bizzarri e caratteristici personaggi del posto ('Disco Trash') e tipici piatti della tradizione dalla difficile e complicata digestione ('Electric Tomino'). Quando l'odore del fieno si mischia alla ruggine del ferro, quando il marcio delle arance dimenticate a bordo strada a Carnevale finito prendono la via del vostro naso, entrano in gioco i Farty Wayne: Alx Bonny (chitarra e voce), Tanaka (basso) e Bramba (batteria). Buon divertimento.




venerdì 17 gennaio 2020

RECENSIONE: MARCUS KING (El Dorado)

MARCUS KING   El Dorado (Fantasy, 2020)

arrivare in alto con talento e eleganza
Il perché un ragazzo di ventitré anni con tre dischi alle spalle con la sua band già osannati da critica e pubblico, senta la necessità di inciderne un terzo solo a suo nome, senza band, con l'importante impronta di Dan Auerbach in produzione non è dato sapere. O forse sì? MARCUS KING è sicuramente uno dei più grandi talenti musicali usciti dagli States negli ultimi cinque anni e questo disco potrebbe già essere la consacrazione definitiva e arrivare là dove non sono arrivati i precedenti album: il grande pubblico, anche grandissimo.
EL DORADO è certamente il nome dell'automobile Cadillac, anche della sua prima chitarra Epiphone ma soprattutto "rappresenta la città dell'oro e della prosperità ed è ciò che Nashville è per me, ha davvero poco a che fare con la mia auto" racconta King in una intervista.
Auerbach mette a disposizione del ragazzo di Greenville il suo solito studio di registrazione Easy Eye Sound a Nashville, gli importanti session men che vi gravitano attorno (i "ragazzi" di Memphis, gente che ha suonato con Elvis tanto per intenderci) e regala, con la collaborazione di tre esterni, quelle canzoni in grado di far uscire con maggior prepotenza le doti vocali e chitarristiche di King, fino ad oggi ben ingabbiate dentro all'approccio da jam band della gruppo madre.
"Sono stato colpito dal modo in cui può cantare - così facile, così pieno di sentimento, direttamente dal cuore. È anche uno scrittore dal talento naturale. Tutto per lui è così innato" dice il produttore.
Difficilmente Auebarch sbaglia il colpo: Dr. John, i più i recenti lavori con Yola, Donald "Duck" Holmes e Robert Finley sono straordinari e da quello che ho sentito anche qui non si scherza anche se a prevalere è quasi sempre la morbidezza. Ballate country soul di pregevole fattura (le avvolgenti 'Young Man' S Dream' e 'Beautiful Stranger' condotte da pianoforte e lap steel), a volte sconfinante nel soul di casa Motown, a volte ammiccante  a tratti pure pop (il funky di 'One Day She's Here') suonato da dio ('Wildflowers And Wine' che sconfina nel gospel) e legato alla Nashville country dei seventies come l'honky tonk 'Too Much Whiskey' e poi qualche scatto elettrico di southern blues dai riff vincenti e accattivanti, in grado di portare nuovi adepti alla corte del nuovo "re". Il singolo 'The Well' è lì a dimostrarlo con tutta la sua contagiosa esuberanza rock blues insieme a 'Say You Will', unici episodi che sembrano ricondurre a quel Marcus King che avevamo imparato a conoscere.
Si sente troppo la mano di Auerbach? Per Marcus King non è un problema, anzi: "mette la sua essenza su qualunque cosa stia lavorando".

Per me è un sì, perché il ragazzo ha talento da vendere, anche se non è ben chiaro se questa rimarrà una breve parentesi o l'impalcatura che porta verso il futuro.


giovedì 16 gennaio 2020

RECENSIONE: PETE MOLINARI (Just Like Achilles)

PETE MOLINARI   Just Like Achilles (2020)




vintage 2.0
Il ritorno di Pete Molinari non tradisce i punti fermi su cui ha costruito tutta la carriera anche se risulta il più vario, suonato e sfaccettato fino ad oggi. E siamo al quinto disco. L' amorevole sentimento verso le radici e le epoche da lui mai vissute c'è tutto, tanto calato nella parte che pare uscire direttamente dai sixties se non ci fossero quelle scarpe Nike gialle in copertina a tradire la sua vera epoca che quindi non può che uscire allo scoperto in canzoni come 'No Ordinary Girl', molto più vicina al nostro presente anche se comunque legata agli anni novanta dei suoi conterranei Oasis. E son passati tanti anni anche da lì. British nella testa, la bandiera americana sullo sfondo e una incredibile somiglianza con Dion DiMucci fanno il resto in copertina.
Che sia il caro folk ('Waiting For A Train') che abitava il vecchio Greenwich Village newyorchese frequentato dal giovane Bob Dylan o il primigeno rock'n'roll visto con gli occhiali alla Buddy Holly non importa. Molinari con quelli che oggi potrebbero essere fantasmi ci ha sempre convissuto fin dalla tenera età quando le sue piccole mani tenevano certi vinili importanti che giravano nella casa della sua multietnica famiglia. Fin dal primo disco quei fantasmi li ha portati a ballare nel suo presente.
Prodotto da Linda Perry e Bruce Witkin, Just Like Achilles è un disco coloratissimo di pop della miglior specie che emana positività, come sempre senza scadenza, dove i Byrds (' Color My Love'), i Kinks ('Please Mrs. Jones'), i Beatles ('Steal The Night'), Phil Spector ('I' ll Take You There'), Phil Ochs, Bob Dylan ('Absolute Zero') il country di 'Born To Be Blue' e le chitarre elettriche di 'I Can' t Be Denied' sembrano danzare senza paura nel presente.
Ed è giunta l'ora che qualcuno provveda a creargli una pagina Wikipedia.










venerdì 10 gennaio 2020

RECENSIONE: THE GREAT INFERNO (All The While White Collides With Black)

THE GREAT INFERNO  All The While White Collides With Black (2020)



Giovedì 3 Gennaio 2019. Un giovedì sera come tanti a Brescia città: i numerosi locali che puntano sulla musica live stanno aprendo i battenti, c’è chi inizia presto, chi sempre troppo tardi. Vista da fuori, da un forestiero come me, Brescia è una città ricca di musica e dallo spirito rock’n’roll anche se so che molti protagonisti, diretti interessati, spesso arricciano il naso di fronte all'evidenza della verità. Mi piace pensare sia solo modestia. A volte c’è l'imbarazzo della scelta ma quella sera dal freddo pungente non avevo dubbi su dove puntare. Quella sera, Paul Mellory ebbe la mia stessa idea. Passammo il pre concerto a parlare e mi raccontò più dettagliatamente e con il consueto sarcasmo di sempre le stesse cose che scrisse l’ultimo giorno dell’anno sulla sua bacheca Facebook

"Saluto il 2018 come uno degli anni più importanti della mia vita, se non altro perché ho perso mio padre. Poi mio cugino Dario, Fabione ‘il colonnello’ e la diciannovenne gatta Pta. A gennaio ero disoccupato, a dicembre sono direttore. Il Brescia è passato dalla zona retrocessione alla vetta della classifica. Con gli Intercity di figa ho suonato e prodotto un incredibile doppio album che ha preso 8 su Blow up ma che nessuno si è cagato. Con Ronnie Amighetti e Paolo Blodio Fappani ho aperto uno studio fighissimo, che è una nuova casa in cui sarete tutti i benvenuti. Ho girato un po’ di videoclip e questo sotto è il piu bello, vincitore della categoria ‘miglior scena soft porno’. In tutto questo, un ringraziamento particolare a Daisy Flower per la pazienza e l’amore incondizionato. ” Paolo Comini, 31 Dicembre 2018

Ma in quell’elenco di cose belle e meno belle, mancava qualcosa. “Paul, quindi i Seddy Mellory si sono sciolti?". “Sì e no” rispose, “sono solo accantonati. Un giorno potrebbero tornare”, e mi parlò di questo nuovo progetto a cui stava lavorando da due anni e mezzo insieme a Paolo Blodio Fappani, Michele Bertoli (di fatto l’ultima formazione dei Seddy Mellory) con Ronnie Amighetti in cabina di regia. Nome: The Great Inferno.
Il futuro stava prendendo forma nel nuovo studio di registrazione, Le Klubhaus, ricavato all’interno della Latteria Molloy, una sorta di seconda casa per alcuni di loro, forse anche per tutti i bresciani amanti della buona musica. Una settimana dopo quell'incontro, di cui porterò per sempre con me le sue risate dopo le battute del bluesman Cek (Franceschetti) nelle pause tra una canzone e l’altra prima del concerto dei Tijuana Horror Club, arrivò la terribile notizia. Quel progetto lo abbiamo ora nelle mani ("dopo otto mesi e venti giorni di lavoro" come ricorda Blodio) ed è veramente qualcosa di prezioso perché Paul ci stava lavorando duro e con la consueta passione di sempre. Riuscì a lasciare la sua voce solo su tre di quelle canzoni. Dopo i chiari momenti di sconforto e superata, fortunatamente, l’idea di lasciare tutto dentro all’hard disk dello studio, si è deciso di proseguire perché Paul avrebbe sicuramente voluto così. Avrebbe voluto vedere il suo disco girare. Le sue canzoni suonate sul palco, ascoltate dagli amici. (L'appuntamento è alla Latteria Molloy, Venerdì 10 Gennaio 2020).
Ecco l’idea di coinvolgere altri cantanti e musicisti, tanti bassisti naturalmente, vecchi amici, per portare a termine le canzoni lasciate in sospeso. L'elenco è lungo: Kika Negroni, Fidel Fogaroli, Omar Pedrini, Dario Bertolotti e Giovanni Battagliola dei Don Turbolento, Pietro Berselli, Simone Piccinelli (Plan De Fuga), Luisa Pangrazio e Gigi Ancellotti degli Ovolov, Cristian Barbieri (Hyper Evel),  Gabriele Tura (Endrigo), Cris Lavoro, Nikki Lavoro, Emiliano Milanesi (Lunar), Umberto Ottonelli (IoBestia)
Il risultato lo stiamo ascoltando. Lo ascolteremo in futuro.
"Non è il disco che avrebbe dovuto essere" scrive Blodio nella bella presentazione al disco.
Oltre a essere diventato un tributo alla figura di un uomo, rocker e musicista che negli ultimi vent’anni ha dato tanto alla musica bresciana, mi piace pensare a questo disco come a un nuovo punto di partenza per tutta la scena rock della città. Un lavoro collettivo. Un trio che diventa una super band guidata da un solo spirito guida: Paul Mellory.
E dentro potrete trovare ancora l' anima rock'n'roll della vecchia band Seddy Mellory in alcuni brani più cazzuti ('Eve-O-lution', 'You Steal My Rock N Roll' e soprattutto nella tirata punk di 'Sympathy For My Fuck Out') e poi la direzione che stavano prendendo, nonostante fossero tutte nate con i germi punk al loro interno: ritmi più lenti e dilatati, pieni di riverberi e riconducibili a certa new wave anni ottanta come 'Oxy, Oxy, Oxy', 'Baby Dope' con la voce di Paul Mellory "recuperata da dei provini del 2017" mi racconta Blodio, o l'apertura 'Let Me Kiss Your Throat From The Inside', uno dei due brani fatti e finiti insieme a Paul Mellory, che mi ha tanto ricordato i Killing Joke.
Senza dimenticare  la cover di 'Russian Roulette' dei Lords Of The New Church, "in una versione abbastanza west coast" cantata da Ronnie Amighetti e con Omar Pedrni ai cori e una finale acustica e crepuscolare 'When I Die I'll Be A Ghost' dei The Senders a metà strada tra Nick Cave e Mark Lanegan  con Pietro Berselli alla voce.
Ma c’è ancora una bella cosa da sapere. Un ultimo sigillo o se volete la chiara rappresentazione della continuità con il magico, a volte beffardo mondo del rock’n’roll: Paul ci ha lasciato il 10 Gennaio 2019, lo stesso giorno in cui se ne andò David Bowie tre anni prima. L’ultima canzone su cui Paul ha lavorato prima di lasciarci è ‘Junk Blackstar’, così vicina al titolo dell'ultimo album di Bowie.
"E' stata l’ultima canzone cantata da Paul, una settimana prima di morire, lavoro fatto in solitaria con Ronnie, erano i primi dell’anno e nessuno aveva cazzi di venire in studio" racconta Blodio.
Chiamatele coincidenze. Io li chiamo segnali. You can't kill rock and roll, cantava qualcuno.




giovedì 9 gennaio 2020

RECENSIONE: THE STONE GARDEN (Black Magic)


THE STONE GARDEN Black Magic (2020)



high voltage rock'n'roll
Nati nel 2015 nella provincia bergamasca ma con già tre lavori in discografia, i STONE GARDEN sono un super gruppo formato da componenti e ex componenti provenienti da diverse formazioni come The Presence, Mojo Filter, Bulldog, No Quarter, Mr. Feedback che hanno unito il loro amore per la rozza semplicità del buon vecchio e caro rock'n'roll fatto di sole chitarre (Marco Mazzucotelli, Carlo Lancini), basso (Daniele Togni), batteria (Francesco Bertino) e una voce, quella di Claudio "Klod" Brolis in grado di graffiare e prendersi la scena con disinvoltura e mestiere. Chi l'ha detto che in Italia non sappiamo suonare rock? Ecco uno dei tanti esempi. Da provare assolutamente con un volante tra le mani e le ruote sull'asfalto. 
BLACK MAGIC, registrato al Le Klubhaus di Brescia da Ronnie Amighetti, è un concentrato di elettricità che viaggia liberamente e con estrema scioltezza sopra alla storia del rock duro cercando di mantenere inalterate l'energia e l'irruenza che solo le assi di un palco e un pubblico davanti possono trasmettere, subito riscontrabili dalla title track in apertura: dove pesantezza e groove stoner, nobili richiami all'hard rock seventies di gruppi come Uriah Heep e Rainbow incontrano nel mezzo la psichedelia. C’è il vecchio hard blues di scuola Hendrix e Led Zeppelin, la pesantezza dei Black Sabbath, la frenesia dello street metal anni ottanta, il calore del southern rock americano, ma anche il suono moderno di band più recenti come Rival Sons e Dead Daisies, di questi ultimi hanno anche aperto il tour italiano.
Si viaggia più spediti con il riff di 'Shout And Roll' con una bella armonica nel mezzo, si agita la testa con la più lenta e cadenzata 'What I' ve Got To Give'. Se cercate chitarre elettriche in 'Mother' s Prayer' e 'Hold On' ne troverete in abbondanza. Ma quando a metà disco pensi di averli inquadrati ti stampano la sorpresa. Due canzoni che inizialmente spiazzano ma poi riescono a conquistare: 'Better Than You' e la semi ballad 'By My Side' scavano nella profondità più scura degli eighties, nella new wave rock di gruppi come The Cult, Lords Of New Church, Alarm. Un bel sentire che affascina e cattura.
Il finale ci regala ancora la loro essenza più dura con le chitarre fuzz dal sapore stoner in 'Rock Damnation' e le tenebre della pesante 'I Should Believe In You', un blues nero che pare uscita da uno dei primi quattro lavori di Danzig, calando il sipario su un disco che un gruppo a loro caro sintetizzerebbe con un semplice "high voltage rock'n'roll".

The Sone Garden presenteranno il nuovo disco Venerdì 10 gennaio tra le mura amiche del Druso a Bergamo









martedì 7 gennaio 2020

RECENSIONE: DEVON GILFILLIAN (Black Hole Rainbow)

DEVON GILFILLIAN  Black Hole Rainbow   (Capitol Records, 2020)




il tempo giusto
Tra le prime uscite interessanti di questo 2020 un posto lo merita sicuramente BLACK HOLE RAINBOW il debutto di DEVON GILFILLIAN, talentuoso artista con base a Nashville con un solo Ep registrato nel 2016 . Cresciuto a Filadelfia con i classici del soul nel cuore cucitigli addosso dal padre (cantante) e l'hip hop nelle orecchie, Gilfillian disegna il suo personale contributo in questo nuovo quadro che sta prendendo forma intorno al soul e alla musica afroamericana: nel 2019 la grande conferma di Michael Kiwanuka e il debutto dei Black Pumas sono stati significativi.
In una intervista si è lasciato andare indicando Jimi Hendrix come l'artista che lo ha influenzato di più ma con una canzone in particolare che gli ha aperto un mondo:"All Along The Watchtower che è una cover di una canzone di Bob Dylan naturalmente, dall'ascolto di un sacco di Jimi Hendrix e dell'ascolto di quella canzone in particolare, ho aumentato l'apprezzamento non solo per la musica e la chitarra ma anche il lato lirico. E così Jimi mi ha fatto conoscere gli incredibili testi di Bob Dylan".
A tutto il resto hanno pensato una laurea in psicologia ("quando la musica è fatta in modo onesto, le persone lo sentono e si connettono ad esso. Questo è ciò a cui associo "soul", quando si tratta di musica"), le prime esperienze in alcune cover band (di Delta blues, di reggae e perfino dei Tears For Fears), l'incontro con l'amico e batterista Jon Smalt e la sua band dopo il trasferimento a Nashville con la scoperta del nuovo e vecchio Outlaw Country di gente come Willie Nelson, Waylon Jennings e il più moderno Sturgill Simpson.
Tenendo strette le radici garantite da suoni analogici e strumenti vintage (produzione di Shawn Everett conosciuto per i suoi lavori con Alabama Shakes e War On Drugs) Devon Gilfillian si muove liberamente tra crescendo emotivi ('Lonely'), soul ('The Good Life'), funky ('Get Out And Get In'), gospel blues ('Stranger') e beat moderni ('Stay A Little Longer') che il singolo 'Unchained' ispirato alla storia vera del giocatore di football afroamericano Brian Banks, accusato ingiustamente di stupro, mettono bene in evidenza.

Rolling Stone America non si è risparmiato nel definire Gilfillian "uno dei giovani artisti più entusiasmanti della fiorente scena soul di Nashville". Ne sentiremo parlare.








venerdì 3 gennaio 2020

DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA # 82: AMERICA (America)

AMERICA    America (1971)




Nel 1979 entrò in casa il primo impianto stereo; il primo disco degli America (1971), quello con gli indiani in copertina, arrivò subito dopo. Credo fosse una delle prime stampe perché 'A Horse With No Name' non era presente nella track list. Per molti anni sono andato avanti a chiedermi: ma dov'è? È la loro canzone più famosa e qui non c'è? In alternativa si può sempre chiedere al padre di Neil Young: la leggenda vuole pensasse che quella canzone fosse farina del figlio. Non fu il solo.
In effetti venne aggiunta successivamente, quando già stavano per iniziare i lavori per il secondo album Homecoming, quando il produttore Jeff Dexter si accorse che il singolo scelto per lanciare l'album, la romantica ballata al pianoforte 'I Need You' scritta dalla penna sempre gentile di un appena sedicenne Gerry Beckley, non riuscì a sfondare a dovere. Harry Nilson ne fece una cover anni dopo.
Allora Dewey Bunnell se ne uscì con quella 'Desert Song' che poi diventò 'A Horse With No Name' scritta a diciott'anni con un sentimento nostalgico verso i deserti americani e le sue radici in quei luoghi "l'ho scritta mentre ero seduto in una stanza in Inghilterra in una grigia giornata piovigginosa - quegli ultimi anni in cui eravamo lì sembrava che il sole non fosse mai venuto fuori!". Sì perché i tre America pur avendo radici negli States trascorsero gran parte della loro gioventù in Inghilterra (unirono il loro destino comune alla London Central High School) dove i padri militari americani prestavano servizio. Gerry Beckley e Dan Peek nacquero in America, Dewey Bunnell in Inghilterra.
Il nome America uscì fuori dopo aver visto un jukebox "Americana" in una caffetteria.
In Inghilterra si conobbero e lì al Trident Studio di Londra con Ken Scott come ingegnere del suono, registrarono questo loro debutto.
Un disco spesso ingiustamente dimenticato. La critica li bollò subito come delle brutte copie di Neil Young e CSN & Y e finita lì (la west coast fatta da tre ragazzi "inglesi" sembrava un insulto) ma il disco era pieno zeppo di canzoni stupende che rimandavano ai deserti, ai grandi spazi aperti.
Canzoni in prevalenza acustiche, l'intreccio di chitarre e percussioni, ma suonate con il piglio e l'impeto elettrico ('Riverside'!, 'Three Roses') e poi l'unica volta che usarono la chitarra elettrica e la batteria uscì quella meraviglia cangiante intitolata 'Sandman', che sabbia e serpenti sembrano materializzarsi ai tuoi piedi, scritta da Bunnell ispirandosi ai terribili racconti dei soldati in Vietnam.
Il country con la steel guitar di 'Rainy Day' , il folk di 'Pigeon Song' il meraviglioso intreccio di chitarre di 'Here'. Le loro armonie vocali. E pensare che inizialmente la loro idea era totalmente diversa:" la loro idea all'epoca era di fare qualcosa di più simile Sgt. Pepper dei Beatles" raccontò il produttore Jeff Dexter. Ci arriveranno pochi anni dopo con George Martin in produzione.
Lo straordinario inizio di una carriera che quest'anno ha toccato il traguardo dei cinquanta.






sabato 28 dicembre 2019

RECENSIONE: HELL SPET (Killer Machine)

HELL SPET Killer Machine (autoproduzione, 2020)




non c'è tempo da perdere
Pronti per l'apocalisse? Gli Hell Spet ce ne danno un anticipo di mezz'ora (29 minuti e 32 secondi per la precisione) tanto per metterci in guardia da quello che ci aspetterà in un futuro nemmeno troppo lontano, quando le macchine e la tecnologia prenderanno il sopravvento. Continuando il discorso programmatico iniziato da band come i Fear Factory in tempi non sospetti. Ma se là regnava il freddo chirurgico della proposta musicale, qui c'è ancora spazio per il calore. C'è ancora speranza. 
La band bresciana arriva al traguardo del quinto disco riuscendo nell'intento di mettere su disco quello che stavano sempre cercando: il connubio perfetto tra la tradizione musicale del country bluegrass americano (ecco il calore!), l'anarchia e la libertà d'intenti punk gridata nei chorus, la pesantezza delle chitarre e le trame del thrash metal. Queste ultime in netta prevalenza rispetto al passato. Quello che vogliono in questo momento. 
L'odore di letame della stalla di montagna e le scintille di un'officina meccanica giù in città non sono mai state così vicine tra loro. Cowpunkmetal della miglior specie: in Italia non lo troverete facilmente, dovete spostarvi dalle parti di Hank Williams III o su alcune opere di quel matto di Scott H. Biram. 
Qualcuno ricorda ancora i tedeschi Waltons? 
Mandolino (Simone Grazioli) e banjo (Nicolò Papini) lanciati a tutta velocità introducono il lavoro incessante della sezione ritmica formata dalla poderosa batteria (Michele "Cannibal" Saleri) e dal mastodontico è vintage double bass (Andrea "Biscio" Bresciani), dalle chitarre elettriche che spaziano dal rock'n'roll 50 a riff speed metal (Federico "Feddo" Guarienti) e dalla voce camaleontica che prima ti culla con la profondità di Johnny Cash  poi ti sveglia con il più brutale dei growl (Federico Cantaboni). Tutto scorre alla velocità della luce non c'è tempo da perdere. Non c'è sosta e non c'è inganno nelle undici tracce registrate all'Indiebox Music Hall di Giovanni Bottoglia: dall'iniziale motorhediana 'You' ll Fall' alla finale 'Back From Hell' passando dallo speed country di 'Cyborg Genocide' con i suoi stop and go cadenzati e i chorus Oi!, dalla veloce 'Dirty Life', al forte grido di 'Right Now', dalla cangiante pesantezza di 'Space Shuttle', all'arcigno hardcore di 'Killer Machine', fino all'epicità Irish folk di 'Rising From The Graves' e 'Don' t Look Back'. 
Ah dimenticavo la cosa più importante: la Hell Spet band da il meglio di sé sopra un palco. Se poi offrirete loro qualche birra come carburante, vi ringrazieranno con uno  spettacolo live in cui difficilmente riuscirete a star fermi e su cui non vorreste mai vedere la parola fine. Cheers. 

(Il disco sarà presentato in anteprima Domenica 5 Gennaio alla Latteria Molloy di Brescia) 


Foto: Dino Stupe