RED DRAGON CARTEL Patina (Frontiers Records, 2018)
Chissà quanto deve essere stato pesante per uno come Jake E. Lee prendere il posto dell'amatissimo Randy Rhoads nella band di Ozzy Osbourne? Un sodalizio che durò poco più di tre anni, il tempo di cavarsela bene e incidere due dischi (Bark At Moon nel 1983 e The Ultimate Sin del 1986) e poi la rottura, ancora avv...olta nel mistero anche se il famigerato telegramma di licenziamento ha un mandante ben preciso: Sharon Osbourne. Poco male perché il chitarrista di Norfolk, Virginia, ebbe modo di inseguire la sua voodoo highway con il supergruppo Badlands insieme al mai troppo compianto cantante Ray Gillen, un talento durato troppo poco. Un gruppo che in due dischi, più uno postumo, lasciò impronte di genuino hard southern blues, anticipando il revival seventies che prese piede negli anni novanta. Da lì in avanti le mosse di Jake E. Lee si fanno sempre più rade tanto che la polvere del tempo ne ha coperto le impronte principali. Solo nel 2014 sembra ricomparire timidamente con un nuovo progetto: i RED DRAGON CARTEL. Se il debutto era ancora confuso, costruito su vecchie canzoni scritte in precedenza, e vedeva impegnati diversi cantanti e tanti ospiti, con il secondo PATINA, la band inizia ad avere una personalità ben precisa, a lavorare in squadra. Sono della partita oltre al chitarrista: il cantante Darren Smith, il batterista Phil Varone (Saigon Kick) e il bassista Anthony Esposito (Lynch Mob). Un album vario, anche se la produzione perfetta e moderna toglie un po’di calore, dove ai momenti più heavy che ricordano l'epoca grunge (‘Speedbag’, ‘Crooked Man’) si contrappongono i momenti più bluesy: se ‘Havana’ si candida come canzone dal riff più groovy e accattivante dell’anno, ‘The Luxury Of Breathing’ e ‘‘My Beautiful Mes’ contengono fumosi semi psichedelici, mentre ‘A Painted Heart’ è una semi ballad in grado di spostare l’ago della bilancia verso il segno positivo. Così come la finale ‘Ink And Water’ che lo stesso chitarrista dichiara essere influenzata da David Bowie.
“Per questo album, sono tornato alle mie radici. Mentre scrivevo l'album stavo ascoltando un sacco di Bowie, e un sacco di cose con cui sono cresciuto da ascoltatore, cose che hanno avuto un impatto enorme su di me”.
Peccato per una copertina non troppo accattivante che attira poco e mal rappresenta il disco. Bentornato Jake.
venerdì 16 novembre 2018
mercoledì 14 novembre 2018
FANTASTIC NEGRITO/Superdownhome live@Santeria Social Club, Milano, 12 Novembre 2018
Un performer a 360 gradi in grado di catalizzare tutta l'attenzione su di sé pur avendo dietro un band di soli tre elementi che pare suonare come una big band d'altri tempi (manca pure il basso!) . Un talento innato il suo, o ce l'hai o sei destinato a rincorrere.
FANTASTIC NEGRITO scappa via con naturalezza e non lo prendi più. Stare al suo passo è difficile. Rafforzato da una vita che lo h...a messo a dura prova, a cinquant'anni si gode il meritato trionfo che va ben oltre il Grammy per il miglior album blues vinto con il suo primo disco, uscito senza etichetta discografica come ama ricordare lui. Accellera, rallenta e accellera ancora a ripetizione.
Una rinascita che si è trasformata piano piano in un'occasione di riscatto, costruita con impeccabile bravura e un pizzico di furbizia da navigato intrattenitore (cerca spesso la voce del suo pubblico) quando sale sopra un palco che pare la camera di casa sua da sempre da quanto scivola con naruralezza sul pavimento.
In mezzo alle note alte e a quelle basse di una voce che potrebbe cantare qualunque cosa e qualsiasi genere, e così fa, Fantastic Negrito allunga le canzoni a suo piacimento, detta i tempi alla band, dirige, trasformandole di volta in volta in un lungo medley dove confluiscono il blues, il funk, il rock’n’roll, i traditional ('In The Pines'). Ma sa andare anche diritto al punto quando vuole ('Plastic Hamburgers') Improvvisa senza piantare paletti, parte dalla black music e arriva dove vuole. Il tutto legato da una instancabile verve da trasformista che lo fa diventare predicatore, aizzatore di folle, comico, pensatore, attore impegnato e ballerino. Spettacolo completo a un prezzo modico. Ancora per poco?
Ma lo spettacolo lo hanno dato anche i nostrani SUPERDOWNHOME (RECENSIONE DISCO) nella troppo breve mezz’ora a disposizione come opener. Il duo bresciano pesta duro di rural blues. Chi li conosce sa cosa aspettarsi e non rimane deluso. Chi li vede per la prima volta rimane folgorato e incuriosito. In una parola: trionfo. Anche per loro. Bella serata in uno dei migliori locali milanesi di live music.
FANTASTIC NEGRITO scappa via con naturalezza e non lo prendi più. Stare al suo passo è difficile. Rafforzato da una vita che lo h...a messo a dura prova, a cinquant'anni si gode il meritato trionfo che va ben oltre il Grammy per il miglior album blues vinto con il suo primo disco, uscito senza etichetta discografica come ama ricordare lui. Accellera, rallenta e accellera ancora a ripetizione.
Una rinascita che si è trasformata piano piano in un'occasione di riscatto, costruita con impeccabile bravura e un pizzico di furbizia da navigato intrattenitore (cerca spesso la voce del suo pubblico) quando sale sopra un palco che pare la camera di casa sua da sempre da quanto scivola con naruralezza sul pavimento.
In mezzo alle note alte e a quelle basse di una voce che potrebbe cantare qualunque cosa e qualsiasi genere, e così fa, Fantastic Negrito allunga le canzoni a suo piacimento, detta i tempi alla band, dirige, trasformandole di volta in volta in un lungo medley dove confluiscono il blues, il funk, il rock’n’roll, i traditional ('In The Pines'). Ma sa andare anche diritto al punto quando vuole ('Plastic Hamburgers') Improvvisa senza piantare paletti, parte dalla black music e arriva dove vuole. Il tutto legato da una instancabile verve da trasformista che lo fa diventare predicatore, aizzatore di folle, comico, pensatore, attore impegnato e ballerino. Spettacolo completo a un prezzo modico. Ancora per poco?
Ma lo spettacolo lo hanno dato anche i nostrani SUPERDOWNHOME (RECENSIONE DISCO) nella troppo breve mezz’ora a disposizione come opener. Il duo bresciano pesta duro di rural blues. Chi li conosce sa cosa aspettarsi e non rimane deluso. Chi li vede per la prima volta rimane folgorato e incuriosito. In una parola: trionfo. Anche per loro. Bella serata in uno dei migliori locali milanesi di live music.
SUPERDOWNHOME |
IL DISCO
le seconde opportunità della vita
FANTASTIC NEGRITO Please Don't Be Dead (2018)
Non credo mai a chi continua a farneticare che il rock (e derivati) è morto, che non escono più dischi degni e via così, evidentemente chi sostiene tutto ciò non ha ancora ascoltato PLEASE DON’T BE DEAD il nuovo album di Fantastic Negrito. Cinquantenne dalle mille vite complicate, riesce a farle entrare tutte in undici canzoni nelle quali non si butta via nulla, così come sono costruite su una valanga di belle e geniali intuizioni, perché se è impossibile creare ancora qualcosa di nuovo nella musica, vince chi sa ripetere e rinnovare la lezione. Fantastic Negrito in questo è un mago.
Ci sono il vecchio blues dei neri americani e il rock bianco, c’è la Black music in tutte le sue inclinazioni (funk, soul, R&B, disco). Ci sono la rabbia sociale e la denuncia, c’è tutta la sua vita passata fatta di stenti, sofferenza e rinascita, artistica e sociale. Nessun pelo sulla lingua, niente viene nascosto. Sebbene abbia in tasca un Grammy vinto con il suo precedente disco, il magnifico The Last Days In Oakland, preferisce mostrarsi sofferente in un letto d’ospedale, esperienza vissuta per tre lunghi mesi dopo l’incidente che lo portò al coma. Da lì in avanti non fu più la stessa cosa: Xavier Dphrepaulezz morì, nacque il personaggio di oggi. Insomma il messaggio è chiaro, se non muori puoi sempre prenderti una rivincita. Un po’ lo stesso discorso del rock.
Uno dei dischi dell’anno? Probabile.
FANTASTIC NEGRITO Please Don't Be Dead (2018)
Non credo mai a chi continua a farneticare che il rock (e derivati) è morto, che non escono più dischi degni e via così, evidentemente chi sostiene tutto ciò non ha ancora ascoltato PLEASE DON’T BE DEAD il nuovo album di Fantastic Negrito. Cinquantenne dalle mille vite complicate, riesce a farle entrare tutte in undici canzoni nelle quali non si butta via nulla, così come sono costruite su una valanga di belle e geniali intuizioni, perché se è impossibile creare ancora qualcosa di nuovo nella musica, vince chi sa ripetere e rinnovare la lezione. Fantastic Negrito in questo è un mago.
Ci sono il vecchio blues dei neri americani e il rock bianco, c’è la Black music in tutte le sue inclinazioni (funk, soul, R&B, disco). Ci sono la rabbia sociale e la denuncia, c’è tutta la sua vita passata fatta di stenti, sofferenza e rinascita, artistica e sociale. Nessun pelo sulla lingua, niente viene nascosto. Sebbene abbia in tasca un Grammy vinto con il suo precedente disco, il magnifico The Last Days In Oakland, preferisce mostrarsi sofferente in un letto d’ospedale, esperienza vissuta per tre lunghi mesi dopo l’incidente che lo portò al coma. Da lì in avanti non fu più la stessa cosa: Xavier Dphrepaulezz morì, nacque il personaggio di oggi. Insomma il messaggio è chiaro, se non muori puoi sempre prenderti una rivincita. Un po’ lo stesso discorso del rock.
Uno dei dischi dell’anno? Probabile.
martedì 6 novembre 2018
RECENSIONE: ALL THEM WITCHES (ATW)
ALL THEM WITCHES Atw (New West, 2018)
In giornate nelle quali si ascoltano dodici versioni diverse ma simili di ’You're Gonna Make Me Lonesome When You Go’ di Bob Dylan, lo stesso tempo lo si può impiegare per ascoltare l’ultimo disco di uno dei gruppi rock più interessanti usciti negli ultimi cinque anni. Il nome del gruppo come titolo, il quinto disco della carriera per la band di Nashville, Tennessee, sembra già segnare un nuovo inizio. Ascoltando gli otto brani in scaletta (51 minuti) è palese la voglia di uscire definitivamente da certi steccati troppo stretti legati alla scena stoner. Non tanto musicalmente quanto come etichetta da portarsi appiccicata addosso. Anche se l'apertura ‘Fishbelly 86 Onions’ è ancora una scheggia di garage stoner in continuo crescendo, già dalla seconda ‘Workhorse’ si capisce quanto la band del cantante e bassista Charles Michael Parks Jr., voce sempre protagonista la sua, abbia intenzione di lasciare aperti i confini, abbracciando soluzioni per nulla scontate, seppur derivative, e in continuo mutamento (‘1st Vs 2nd’), dando sempre pochi appigli per cercare di acciuffarli. Blues, desert rock e psichedelia viaggiano a braccetto: mentre in ‘Half Tongue’ prevale il lato soffuso e sognante, il singolo ‘Diamond’ è scandito dal drumming tribale del batterista Roby Staebler, gran lavoro su tutto il disco il suo così come degno di nota è il battere sui tasti di Rhodes e organo di Jonathan Draper (belle le influenze soul e jazz catturate in ‘Half Tongue’), ‘Harvest Feast’ è un lento e notturno blues di undici minuti che sa tanto di orgia tra Free e Black Sabbath condotto dalla chitarra protagonista di Ben McLeod (anche produttore del disco) con una lunga coda finale che si tramuta in jam, ottimo esempio della loro attitudine live.
“L'improvvisazione ha un ruolo in tutte le nostre canzoni, sia che le persone lo sentano o no. ‘Harvest Feast’ è un buon esempio: prendere qualcosa di deprimente come una canzone blues e lasciarla uscire dalla nebbia. Improvvisare ci fornisce gli strumenti per far vivere e respirare veramente la musica”.
‘HTTC’ procede sincopata, straniante e marziale con un esaltante crescendo che porta al gran finale di ‘Rob’s Dream’, una delle migliori tracce: sette minuti che alternano momenti di liquida psichedelia pinkfloydiana e scatti rock alla Led Zeppelin. Diretti, credibili e senza fronzoli, Atw si prenota un posto tra i miei dischi dell’anno.
In giornate nelle quali si ascoltano dodici versioni diverse ma simili di ’You're Gonna Make Me Lonesome When You Go’ di Bob Dylan, lo stesso tempo lo si può impiegare per ascoltare l’ultimo disco di uno dei gruppi rock più interessanti usciti negli ultimi cinque anni. Il nome del gruppo come titolo, il quinto disco della carriera per la band di Nashville, Tennessee, sembra già segnare un nuovo inizio. Ascoltando gli otto brani in scaletta (51 minuti) è palese la voglia di uscire definitivamente da certi steccati troppo stretti legati alla scena stoner. Non tanto musicalmente quanto come etichetta da portarsi appiccicata addosso. Anche se l'apertura ‘Fishbelly 86 Onions’ è ancora una scheggia di garage stoner in continuo crescendo, già dalla seconda ‘Workhorse’ si capisce quanto la band del cantante e bassista Charles Michael Parks Jr., voce sempre protagonista la sua, abbia intenzione di lasciare aperti i confini, abbracciando soluzioni per nulla scontate, seppur derivative, e in continuo mutamento (‘1st Vs 2nd’), dando sempre pochi appigli per cercare di acciuffarli. Blues, desert rock e psichedelia viaggiano a braccetto: mentre in ‘Half Tongue’ prevale il lato soffuso e sognante, il singolo ‘Diamond’ è scandito dal drumming tribale del batterista Roby Staebler, gran lavoro su tutto il disco il suo così come degno di nota è il battere sui tasti di Rhodes e organo di Jonathan Draper (belle le influenze soul e jazz catturate in ‘Half Tongue’), ‘Harvest Feast’ è un lento e notturno blues di undici minuti che sa tanto di orgia tra Free e Black Sabbath condotto dalla chitarra protagonista di Ben McLeod (anche produttore del disco) con una lunga coda finale che si tramuta in jam, ottimo esempio della loro attitudine live.
“L'improvvisazione ha un ruolo in tutte le nostre canzoni, sia che le persone lo sentano o no. ‘Harvest Feast’ è un buon esempio: prendere qualcosa di deprimente come una canzone blues e lasciarla uscire dalla nebbia. Improvvisare ci fornisce gli strumenti per far vivere e respirare veramente la musica”.
‘HTTC’ procede sincopata, straniante e marziale con un esaltante crescendo che porta al gran finale di ‘Rob’s Dream’, una delle migliori tracce: sette minuti che alternano momenti di liquida psichedelia pinkfloydiana e scatti rock alla Led Zeppelin. Diretti, credibili e senza fronzoli, Atw si prenota un posto tra i miei dischi dell’anno.
giovedì 1 novembre 2018
RECENSIONE: DAVID CROSBY (Here If You Listen)
DAVID CROSBY Here If You Listen (2018)
music is love
“Questa è una delle migliori esperienze musicali della mia vita”, lo scrive nel libretto che accompagna il disco ma lo si potrebbe immaginare mentre te lo dice di persona lisciandosi i baffi e aggiustando il berretto di lana calato in testa, con lo sguardo fiero e gli occhi puntati sul futuro. Ascoltando il disco gli si crede pure, perché nei 45 minuti traspare un senso di leggerezza, freschezza e purezza che hanno il potere di avvolgenti come una buona e vecchia coperta nei momenti di gelo. La candida copertina conferma. È felice il vecchio Crosby, entusiasta di questo disco venuto quasi in dono grazie all’incontro sfociato in collaborazione con i tre giovani musicisti che questa volta si guadagnano pure il nome in copertina sotto quello di Croz dopo la collaborazione su Lighthouse del 2015: Becca Stevens, Michelle Willis e Michael League (Snarky Puppy). “Stavamo camminando verso lo studio di Mike League a Brooklyn con sole due canzoni finite per iniziare un nuovo disco con la Lighthouse Band… ” e poi? Poi è successo che Crosby si è lasciato coinvolgere dalla sfrontata gioventù dei suoi compagni di ventura: in un mese il disco era pronto.
“Queste tre persone sono così sorprendentemente talentuose, non ho letteralmente potuto resistere alla realizzazione di questo album con loro". Un amore vero.
Undici canzoni che continuano il discorso iniziato quattro anni fa con Croz, proseguito con Lighthouse e Sky Trails, una prolificità che non gli è mai appartenuta in carriera ma che ha trovato nelle collaborazioni una strada che a 77 anni pare non avere neppure una fine tanto vicina. Molti compagni di viaggio alla sua età stanno programmando dischi di commiato e tour di addio, il sopravvissuto (forse il segreto sta in questa parola) Crosby non ci pensa neppure e lavora con i giovani a cose nuove, anche se nelle ultime interviste ha pure lasciato le porte aperte a eventuali reunion con CSN & Y e Byrds. Lui è disponibile, lascia la palla ai meno convinti.
Con la Lighthouse Band vengono messe in risalto le armonie vocali anche a quattro voci come succedeva ai vecchi CSN più soft, canzoni di chitarre acustiche e pianoforte, delicate, eleganti, eteree, che sfiorano il jazz, a volte non c’è nemmeno bisogno delle parole come avviene nella vecchia ‘1967’, fatta rinascere da vecchi demo, così come ‘1974’, a volte manda qualche frecciatina ai potenti della terra (‘Other Half Rule’) e firma un appello a parole: "chiedere educatamente alle donne degli Stati Uniti d'America di salvare i nostri culi", nella frizzante ‘Vagrants Of Venice’ lancia un forte grido ecologista, in ‘Your Own Ride’ riflette sulla sua vita (ecco ritornare il sopravvissuto), c’è perfino una nuova versione con diverso arrangiamento di ‘Woodstock’ dell’amica Joni Mitchell (“la migliore” dice lui, riferendosi alla cantautrice che non se la sta passando troppo bene) . Riscrive il passato, vive il presente, mentre sicuramente scruta l’imminente futuro. All’orizzonte si intravedono già una collaborazione con Jason Isbell e un film sulla sua vita diretto da Cameron Crowe. Buona vita Croz!
music is love
“Questa è una delle migliori esperienze musicali della mia vita”, lo scrive nel libretto che accompagna il disco ma lo si potrebbe immaginare mentre te lo dice di persona lisciandosi i baffi e aggiustando il berretto di lana calato in testa, con lo sguardo fiero e gli occhi puntati sul futuro. Ascoltando il disco gli si crede pure, perché nei 45 minuti traspare un senso di leggerezza, freschezza e purezza che hanno il potere di avvolgenti come una buona e vecchia coperta nei momenti di gelo. La candida copertina conferma. È felice il vecchio Crosby, entusiasta di questo disco venuto quasi in dono grazie all’incontro sfociato in collaborazione con i tre giovani musicisti che questa volta si guadagnano pure il nome in copertina sotto quello di Croz dopo la collaborazione su Lighthouse del 2015: Becca Stevens, Michelle Willis e Michael League (Snarky Puppy). “Stavamo camminando verso lo studio di Mike League a Brooklyn con sole due canzoni finite per iniziare un nuovo disco con la Lighthouse Band… ” e poi? Poi è successo che Crosby si è lasciato coinvolgere dalla sfrontata gioventù dei suoi compagni di ventura: in un mese il disco era pronto.
“Queste tre persone sono così sorprendentemente talentuose, non ho letteralmente potuto resistere alla realizzazione di questo album con loro". Un amore vero.
Undici canzoni che continuano il discorso iniziato quattro anni fa con Croz, proseguito con Lighthouse e Sky Trails, una prolificità che non gli è mai appartenuta in carriera ma che ha trovato nelle collaborazioni una strada che a 77 anni pare non avere neppure una fine tanto vicina. Molti compagni di viaggio alla sua età stanno programmando dischi di commiato e tour di addio, il sopravvissuto (forse il segreto sta in questa parola) Crosby non ci pensa neppure e lavora con i giovani a cose nuove, anche se nelle ultime interviste ha pure lasciato le porte aperte a eventuali reunion con CSN & Y e Byrds. Lui è disponibile, lascia la palla ai meno convinti.
Con la Lighthouse Band vengono messe in risalto le armonie vocali anche a quattro voci come succedeva ai vecchi CSN più soft, canzoni di chitarre acustiche e pianoforte, delicate, eleganti, eteree, che sfiorano il jazz, a volte non c’è nemmeno bisogno delle parole come avviene nella vecchia ‘1967’, fatta rinascere da vecchi demo, così come ‘1974’, a volte manda qualche frecciatina ai potenti della terra (‘Other Half Rule’) e firma un appello a parole: "chiedere educatamente alle donne degli Stati Uniti d'America di salvare i nostri culi", nella frizzante ‘Vagrants Of Venice’ lancia un forte grido ecologista, in ‘Your Own Ride’ riflette sulla sua vita (ecco ritornare il sopravvissuto), c’è perfino una nuova versione con diverso arrangiamento di ‘Woodstock’ dell’amica Joni Mitchell (“la migliore” dice lui, riferendosi alla cantautrice che non se la sta passando troppo bene) . Riscrive il passato, vive il presente, mentre sicuramente scruta l’imminente futuro. All’orizzonte si intravedono già una collaborazione con Jason Isbell e un film sulla sua vita diretto da Cameron Crowe. Buona vita Croz!
lunedì 29 ottobre 2018
RECENSIONE: PRIMAL SCREAM (Give Out But Don’t Give Up: the Original Memphis Recordings)
PRIMAL SCREAM Give Out But Don’t Give Up: the Original Memphis Recordings (1993/2018)
il disco perduto. Memphis: andata e ritorno (25 anni dopo)
Hai una bella manciata di canzoni registrate negli States, agli Ardent Studios di Memphis, con il produttore Tom Dowd e la sezione ritmica dei Muscle Shoals (David Hood al basso e Roger Hawkins alla batteria) che trasudano soul, R&B, rock’n’roll e gospel da ogni solco. Cosa fai? Non vedi l’ora di farle uscire e stupire il mondo no? No. Gli scozzesi Primal Scream no. Quelle registrazioni del 1993 le lasciarono nell’umidità di qualche cassetto della vecchia credenza giù in cantina. Nove canzoni, vennero completamente riregistrate e diventarono Give Out But Don’t Give Up che tutti conosciamo, un disco che comunque si smarcava nettamente da Screamadelica, tanto da ricevere il pollice verso della critica che in quella mossa vedeva un semplice accordarsi ai suoni dei Black Crowes dell’epoca, sicuramente al top e rappresentanti più giovani della rinascita del classic rock. O se vogliamo un omaggio ai vecchi Rolling Stones e Faces. Comunque un altro passo per ribadire la vena camaleontica è inclassificabile della band. “Dovevamo uscire da Londra: se avessimo fatto un disco a Londra, New York o Los Angeles, ci sarebbero stati due, forse tre morti nella band per come stavano andando le cose". Così Bobby Gillespie spiega quella impellente necessità di cambiare aria che si impadronì della band e che li spinse alla ricerca delle radici musicali il più lontano possibile. Seguirono lo spirito di sopravvivenza. La meta fu Memphis. Venticinque anni dopo quel cassetto è stato riaperto: esce fuori, più fresco che mai, The Original Memphis Recordings che oltre alle nove canzoni aggiunge un intero disco di inediti, Jam da studio, versioni alternative e cover (‘To Love Somebody’, ‘Blue Moon Of Kentucky’).
“Siamo andati laggiù con un buon intento, ma in qualche modo ci siamo persi in seguito. C'è sicuramente una lezione da imparare su come la creatività possa andare su una strada sbagliata. Siamo una band che continua a muoversi e non si guarda indietro, ma per anni mi sono sentito male per noi che siamo andati a Memphis e non abbiamo fatto quello che ci eravamo prefissati. Ascoltare queste canzoni dopo tutto questo tempo mi ha fatto bene. Mi sento redento " ammette Bobby Gillespie.
Uno spaccato caldo e avvolgente dell’atmosfera che si respirava da quelle parti in quei giorni: ‘Jailbird’, ‘Rocks’ e ‘Sad And Blue’ si arricchiscono di nuovi eccitanti colori. Memphis diventa la loro Parigi, queste registrazioni il loro Exile On Main Street perduto. Bobby Gillespie giustifica quella scelta scellerata (?) con un “eravamo stupidi e pazzi”. Alla storia, noi aggiungiamo solamente un: ”sì” .
il disco perduto. Memphis: andata e ritorno (25 anni dopo)
Hai una bella manciata di canzoni registrate negli States, agli Ardent Studios di Memphis, con il produttore Tom Dowd e la sezione ritmica dei Muscle Shoals (David Hood al basso e Roger Hawkins alla batteria) che trasudano soul, R&B, rock’n’roll e gospel da ogni solco. Cosa fai? Non vedi l’ora di farle uscire e stupire il mondo no? No. Gli scozzesi Primal Scream no. Quelle registrazioni del 1993 le lasciarono nell’umidità di qualche cassetto della vecchia credenza giù in cantina. Nove canzoni, vennero completamente riregistrate e diventarono Give Out But Don’t Give Up che tutti conosciamo, un disco che comunque si smarcava nettamente da Screamadelica, tanto da ricevere il pollice verso della critica che in quella mossa vedeva un semplice accordarsi ai suoni dei Black Crowes dell’epoca, sicuramente al top e rappresentanti più giovani della rinascita del classic rock. O se vogliamo un omaggio ai vecchi Rolling Stones e Faces. Comunque un altro passo per ribadire la vena camaleontica è inclassificabile della band. “Dovevamo uscire da Londra: se avessimo fatto un disco a Londra, New York o Los Angeles, ci sarebbero stati due, forse tre morti nella band per come stavano andando le cose". Così Bobby Gillespie spiega quella impellente necessità di cambiare aria che si impadronì della band e che li spinse alla ricerca delle radici musicali il più lontano possibile. Seguirono lo spirito di sopravvivenza. La meta fu Memphis. Venticinque anni dopo quel cassetto è stato riaperto: esce fuori, più fresco che mai, The Original Memphis Recordings che oltre alle nove canzoni aggiunge un intero disco di inediti, Jam da studio, versioni alternative e cover (‘To Love Somebody’, ‘Blue Moon Of Kentucky’).
“Siamo andati laggiù con un buon intento, ma in qualche modo ci siamo persi in seguito. C'è sicuramente una lezione da imparare su come la creatività possa andare su una strada sbagliata. Siamo una band che continua a muoversi e non si guarda indietro, ma per anni mi sono sentito male per noi che siamo andati a Memphis e non abbiamo fatto quello che ci eravamo prefissati. Ascoltare queste canzoni dopo tutto questo tempo mi ha fatto bene. Mi sento redento " ammette Bobby Gillespie.
Uno spaccato caldo e avvolgente dell’atmosfera che si respirava da quelle parti in quei giorni: ‘Jailbird’, ‘Rocks’ e ‘Sad And Blue’ si arricchiscono di nuovi eccitanti colori. Memphis diventa la loro Parigi, queste registrazioni il loro Exile On Main Street perduto. Bobby Gillespie giustifica quella scelta scellerata (?) con un “eravamo stupidi e pazzi”. Alla storia, noi aggiungiamo solamente un: ”sì” .
giovedì 25 ottobre 2018
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA # 70: DIRE STRAITS (Dire Straits)
DIRE STRAITS Dire Straits (1978)
Immaginate una piccola piazza di un paese in collina nei primi anni ottanta, domenica mattina, una macchina parcheggiata con le portiere aperte e una canzone che si diffonde tra i vicoli stretti mischiandosi con i profumi di cibo che uscivano dalle finestre delle case. È quasi mezzogiorno. Gente che torna dalla messa domenicale, gente la cui unica funzione è il bar cooperativa del paese, vecchi seduti sulle panchine e il parco giochi sempre pieno di schiamazzi. Io probabilmente ero lì, nell’ultimo dell’elenco. Quando qualcuno doveva battezzare la nuova autoradio non era così raro ascoltare ‘Sultans Of Swing’ per le strade del paese e vedere gente suonare l’air guitar sull’assolo finale. Ma cosa sarebbe stato di tutto questo senza l’intuito del dj della BBC Charlie Gillett che ancora prima della registrazione del disco, iniziò a diffondere quella canzone in radio? Forse lo squattrinato (ecco il nome della band!) e mancino Mark Knopfler avrebbe continuato il resto della sua vita a alternare il lavoro di insegnante d’inglese con la sua passione per la Stratocaster, dando lezioni serali di chitarra un giorno e suonando per pochi intimi nel pub sotto casa l’altro, accompagnato dalla chitarra ritmica del fratello David, dal basso di John Illsley e dallo straordinario e sottovalutato batterista Pick Withers, vecchia conoscenza per chi seguì i Primitives di Mal. Quando il debutto dei Dire Straits uscì, uno dei più straordinari debutti nel rock, alla faccia di chi non li ha mai potuti digerire (un nuovo quarantenne in splendida forma), non era così difficile additarlo come una mosca bianca all’interno del panorama musicale dominato da punk, new wave e disco music. Anacronistico e controcorrente, forse più punk del più grande gruppo punk, perché se ne fotteva altamente di cosa andava di moda ai tempi. Senza tempo se ascoltato oggi.
L’amore per Randy Newman e Bob Dylan (che una volta visti dal vivo a Los Angeles non se li lasciò sfuggire”Mark mi imita meglio di chiunque altro” dirà prima di chiamarlo per Slow Train Coming) , J. J. Cale, per il blues, il R&B, il folk e il country si traduceva in canzoni (‘In The Gallery’, ‘Lions’, ’Water Of Love’, ‘Down To The Waterline’, ‘Wild West End’, ‘Southbound Again’, ‘Six Blade Knife’) che sembravano tanto semplici, pulite e lineari ma che in realtà non lo erano affatto. L’omogeneità generale è il maggior pregio e il peggior difetto per i detrattori, opera della produzione di Muff Winwood, fratello di Steve, quella manciata di canzoni erano in grado di immergere l’ascoltatore dentro un mood di rilassatezza senza scadenza, parete di quadri agrodolci, riflessivi, notturni e malinconici che ritraevano amanti, amori finiti e pittori, tanto un fumoso club con una band jazz protagonista e una chitarra che suona “puro ritmo”, quanto le vie più battute o le più periferiche di Londra e di Leeds. O quelle meno trafficate del mio paese, una domenica mattina grigia di Ottobre nei primi anni ottanta, proprio come oggi.
Immaginate una piccola piazza di un paese in collina nei primi anni ottanta, domenica mattina, una macchina parcheggiata con le portiere aperte e una canzone che si diffonde tra i vicoli stretti mischiandosi con i profumi di cibo che uscivano dalle finestre delle case. È quasi mezzogiorno. Gente che torna dalla messa domenicale, gente la cui unica funzione è il bar cooperativa del paese, vecchi seduti sulle panchine e il parco giochi sempre pieno di schiamazzi. Io probabilmente ero lì, nell’ultimo dell’elenco. Quando qualcuno doveva battezzare la nuova autoradio non era così raro ascoltare ‘Sultans Of Swing’ per le strade del paese e vedere gente suonare l’air guitar sull’assolo finale. Ma cosa sarebbe stato di tutto questo senza l’intuito del dj della BBC Charlie Gillett che ancora prima della registrazione del disco, iniziò a diffondere quella canzone in radio? Forse lo squattrinato (ecco il nome della band!) e mancino Mark Knopfler avrebbe continuato il resto della sua vita a alternare il lavoro di insegnante d’inglese con la sua passione per la Stratocaster, dando lezioni serali di chitarra un giorno e suonando per pochi intimi nel pub sotto casa l’altro, accompagnato dalla chitarra ritmica del fratello David, dal basso di John Illsley e dallo straordinario e sottovalutato batterista Pick Withers, vecchia conoscenza per chi seguì i Primitives di Mal. Quando il debutto dei Dire Straits uscì, uno dei più straordinari debutti nel rock, alla faccia di chi non li ha mai potuti digerire (un nuovo quarantenne in splendida forma), non era così difficile additarlo come una mosca bianca all’interno del panorama musicale dominato da punk, new wave e disco music. Anacronistico e controcorrente, forse più punk del più grande gruppo punk, perché se ne fotteva altamente di cosa andava di moda ai tempi. Senza tempo se ascoltato oggi.
L’amore per Randy Newman e Bob Dylan (che una volta visti dal vivo a Los Angeles non se li lasciò sfuggire”Mark mi imita meglio di chiunque altro” dirà prima di chiamarlo per Slow Train Coming) , J. J. Cale, per il blues, il R&B, il folk e il country si traduceva in canzoni (‘In The Gallery’, ‘Lions’, ’Water Of Love’, ‘Down To The Waterline’, ‘Wild West End’, ‘Southbound Again’, ‘Six Blade Knife’) che sembravano tanto semplici, pulite e lineari ma che in realtà non lo erano affatto. L’omogeneità generale è il maggior pregio e il peggior difetto per i detrattori, opera della produzione di Muff Winwood, fratello di Steve, quella manciata di canzoni erano in grado di immergere l’ascoltatore dentro un mood di rilassatezza senza scadenza, parete di quadri agrodolci, riflessivi, notturni e malinconici che ritraevano amanti, amori finiti e pittori, tanto un fumoso club con una band jazz protagonista e una chitarra che suona “puro ritmo”, quanto le vie più battute o le più periferiche di Londra e di Leeds. O quelle meno trafficate del mio paese, una domenica mattina grigia di Ottobre nei primi anni ottanta, proprio come oggi.
giovedì 18 ottobre 2018
RECENSIONE: COLTER WALL (Songs Of The Plains)
COLTER WALL Songs Of The Plains (Young Mary Records, 2018)
quel vecchio ventitreenne
Colter Wall è la voce scura, baritonale, profonda e quasi vecchia che riempie i grandi spazi silenziosi e poco popolati della sua parte di Canada, quelle infinite praterie dalle parti di Saskatchewan fatte di dune sabbiose e foreste. È quel puntino giallo e blu immerso tra le verdi colline, come appare nella foto interna della copertina. Sembra un punto perso ma Colter Wall sa benissimo quello che vuole e dove sta andando, e stare lontano dal music business sembra sia una delle sue più grandi doti: la scelta di cover poco convenzionali lo dimostra. Un po’ Johnny Cash, un po’ John Prine, un po’ Waylon Jennings, un po’ Ramblin Jack Elliott a parte quando ulula come un coyote nel tetro folk di ‘Wild Dogs’ di Billy Don Burns, canzone scelta tra le tante che l’outlaw gli propose dopo essersi congratulato con lui dopo un concerto e quando canta a cappella nel traditional ‘Night Herding Song’, registrata in presa diretta davanti a un fuoco. Ma non solo:”un album come Drifter (1966) , è stato un grande disco western di Marty Robbins che ha avuto molto a che fare con il modo in cui questo album è nato” aggiunge Wall in una intervista. Non c’è nulla che sembri datato 2018 in queste undici canzoni, tutto rimanda a date indefinite di un passato in bianco e nero che il giovane canadese non ha mai vissuto ma che sa raccontare come pochi,oggi. "Il nuovo disco è, per riassumere, una lettera d'amore a casa mia. Da dove vengo, riguarda il Nord-Ovest e le pianure, le cose che facciamo lassù e il tipo di persone che siamo ". Una seconda prova che cavalca le stesse orme lasciate dal debutto, aggiungendo al folk minimale qualche strumento in più: pedal steel (suonate da Lloyd Green), armonica (Mickey Raphael, l’armonica di Willie Nelson) , basso, una leggera batteria e poco altro, grazie alla comunque parca produzione di David Cobb al mitico RCA Studio A. Un concept album antico, fatto di inediti, cover e traditional ma dove non si sa chi appartiene a chi (ecco un merito), lento e rassicurante, dedicato alla sua terra, ai suoi abitanti, ai contadini e i rodei (‘Saskatchewan 1881’ e ‘Calgary Round-Up’, una cover di Wolf Carter con tanto di yodel finale), agli operai (‘The Trains Are Gone’) ai vecchi cowboy che abitavano in quelle terre (‘Night Herding Song’) ai camionisti (‘Thinkin’ On A Woman’). Poi nel finale il piccolo sussulto con il traditional ‘Tying Knots In The Devils Tail’ cantato insieme a Corb Lund e Blake Berglund che spezza in netto ritardo il mood del disco che si apriva in modo superbo con l’evocativa western song ‘Plain To See Plainsman’ così diversa dal finale, ma che lascia aperta la porta verso il futuro terzo e importante album per capire, se mai qualcuno avesse ancora dei dubbi, chi sia questo vecchio ventritrenne canadese con il cappello da cowboy incollato perennemente in testa.
quel vecchio ventitreenne
Colter Wall è la voce scura, baritonale, profonda e quasi vecchia che riempie i grandi spazi silenziosi e poco popolati della sua parte di Canada, quelle infinite praterie dalle parti di Saskatchewan fatte di dune sabbiose e foreste. È quel puntino giallo e blu immerso tra le verdi colline, come appare nella foto interna della copertina. Sembra un punto perso ma Colter Wall sa benissimo quello che vuole e dove sta andando, e stare lontano dal music business sembra sia una delle sue più grandi doti: la scelta di cover poco convenzionali lo dimostra. Un po’ Johnny Cash, un po’ John Prine, un po’ Waylon Jennings, un po’ Ramblin Jack Elliott a parte quando ulula come un coyote nel tetro folk di ‘Wild Dogs’ di Billy Don Burns, canzone scelta tra le tante che l’outlaw gli propose dopo essersi congratulato con lui dopo un concerto e quando canta a cappella nel traditional ‘Night Herding Song’, registrata in presa diretta davanti a un fuoco. Ma non solo:”un album come Drifter (1966) , è stato un grande disco western di Marty Robbins che ha avuto molto a che fare con il modo in cui questo album è nato” aggiunge Wall in una intervista. Non c’è nulla che sembri datato 2018 in queste undici canzoni, tutto rimanda a date indefinite di un passato in bianco e nero che il giovane canadese non ha mai vissuto ma che sa raccontare come pochi,oggi. "Il nuovo disco è, per riassumere, una lettera d'amore a casa mia. Da dove vengo, riguarda il Nord-Ovest e le pianure, le cose che facciamo lassù e il tipo di persone che siamo ". Una seconda prova che cavalca le stesse orme lasciate dal debutto, aggiungendo al folk minimale qualche strumento in più: pedal steel (suonate da Lloyd Green), armonica (Mickey Raphael, l’armonica di Willie Nelson) , basso, una leggera batteria e poco altro, grazie alla comunque parca produzione di David Cobb al mitico RCA Studio A. Un concept album antico, fatto di inediti, cover e traditional ma dove non si sa chi appartiene a chi (ecco un merito), lento e rassicurante, dedicato alla sua terra, ai suoi abitanti, ai contadini e i rodei (‘Saskatchewan 1881’ e ‘Calgary Round-Up’, una cover di Wolf Carter con tanto di yodel finale), agli operai (‘The Trains Are Gone’) ai vecchi cowboy che abitavano in quelle terre (‘Night Herding Song’) ai camionisti (‘Thinkin’ On A Woman’). Poi nel finale il piccolo sussulto con il traditional ‘Tying Knots In The Devils Tail’ cantato insieme a Corb Lund e Blake Berglund che spezza in netto ritardo il mood del disco che si apriva in modo superbo con l’evocativa western song ‘Plain To See Plainsman’ così diversa dal finale, ma che lascia aperta la porta verso il futuro terzo e importante album per capire, se mai qualcuno avesse ancora dei dubbi, chi sia questo vecchio ventritrenne canadese con il cappello da cowboy incollato perennemente in testa.
martedì 16 ottobre 2018
RECENSIONE: BLACK JOE LEWIS & THE HONEYBEARS (The Difference Between Me & You)
BLACK JOE LEWIS & THE HONEYBEARS The Difference Between Me & You (Black Joe Lewis Records, 2018)
BLACK JOE LEWIS e i suoi Honeybears difficilmente deludono. Anche nel quinto disco in carriera, The Difference Between Me &You (2018), la band di Austin prima raccoglie e poi sputa fuori quell'irresistibile groove dove soul ('Face In The Scene') , black music ('Blue Leather') e funky ('Do Yourself In') incontrano il blues('Hemming & Hawin') e il rock'n'roll ('Handshake Drugs') suonato con l'immancabile urgenza di certo garage rock seventies orbitante intorno a Detroit ('Girls On Bikes', Culture Vulture'). Scena che il nostro adora: cercate il vecchio Electric Slaves, il più esplicitamente rock fino ad ora. Se invece amate il lato Black si va diritti su Scandalous, ancora più vecchio. Il precedente Backlash, con la sua fuorviante copertina e questo si pongono esattamente nel mezzo. Chitarre elettriche e fiati impazziti, testi graffianti a sbeffeggiare gli usi e costumi della società, Black Joe Lewis non fa sconti a nessuno. I suoi dischi sono un palco con le luci sempre accese, difficile far calare la tensione o appisolarsi. Alzare i volumi e godere, sembra siano sempre le azioni chiave per entrare dentro il suo affascinante mondo.
giovedì 11 ottobre 2018
RECENSIONE: TONY JOE WHITE (Bad Mouthin’)
TONY JOE WHITE Bad Mouthin’ (Yep Roc Records, 2018)
funeral blues
Senza trucchi e senza inganni. Il disco che tutti i rocker dovrebbero fare dopo i settant'anni. Tributare le proprie radici blues, perché tutti le hanno, con semplicità, amore e devozione, proprio come ai primi tempi quando nella vecchia fattoria di famiglia il padre lo instradò alla musica: Tony Joe White, anni 75, lo fa bene, chiudendosi in un fienile in compagnia della fedele e vecchia Stratocaster e della sua voce che non è più quella ricca di sfumature soul, nera e baritonale di un tempo, quella di quel meraviglioso trittico andato in scena tra il 1968 e il 1970 ma ora è talmente secca e profonda, a volte pure stanca, che paiono uscire fantasmi dalle paludi della sua Louisiana ogni volta che apre bocca per una canzone. Qui di canzoni ce ne sono dodici, molte le porta a termine da solo, scarne e ridotte all’osso, chitarra e armonica con tanto di sospiri, rumori e battiti di piede come se fosse lì davanti a te in una notte di luna piena a ululare, nelle altre si fa aiutare dalla batteria di Brian Owings e dal basso di Steve Forrest ma si tratta solo di puro accompagnamento. Accanto a cinque canzoni sue tra cui spiccano due vecchie composizioni risalenti al 1966 (‘Bad Mouthin’ e ‘Sundown Blues’) rilegge tra gli altri l’amato Lightnin’ Hopkins nella rallentata esecuzione di ‘Awful Dreams’, vero e proprio ispiratore della sua carriera musicale, John Lee Hooker (‘Boom Boom’), Jimmy Reed (‘Big Boss Man’), Charley Patton in una ‘Down The Dirt Blues’ veloce come un treno a vapore d'altri tempi e dai sapori amaramente country e a tutte riesce ad appiccicare addosso un oscuro adesivo di presagio, catastrofe e disperazione anche quando chiude con una ‘Heart break Hotel’ dal passo quasi funereo e brutale. “Ho sempre desiderato in qualche modo fare qualcosa nel rispetto di Elvis. Ho finalmente avuto modo di farlo in questo album blues. ‘Heartbreak Hotel’, ma lo faccio in stile blues. Perché, quando Elvis cantava, aveva molta anima.” Ecco.
funeral blues
Senza trucchi e senza inganni. Il disco che tutti i rocker dovrebbero fare dopo i settant'anni. Tributare le proprie radici blues, perché tutti le hanno, con semplicità, amore e devozione, proprio come ai primi tempi quando nella vecchia fattoria di famiglia il padre lo instradò alla musica: Tony Joe White, anni 75, lo fa bene, chiudendosi in un fienile in compagnia della fedele e vecchia Stratocaster e della sua voce che non è più quella ricca di sfumature soul, nera e baritonale di un tempo, quella di quel meraviglioso trittico andato in scena tra il 1968 e il 1970 ma ora è talmente secca e profonda, a volte pure stanca, che paiono uscire fantasmi dalle paludi della sua Louisiana ogni volta che apre bocca per una canzone. Qui di canzoni ce ne sono dodici, molte le porta a termine da solo, scarne e ridotte all’osso, chitarra e armonica con tanto di sospiri, rumori e battiti di piede come se fosse lì davanti a te in una notte di luna piena a ululare, nelle altre si fa aiutare dalla batteria di Brian Owings e dal basso di Steve Forrest ma si tratta solo di puro accompagnamento. Accanto a cinque canzoni sue tra cui spiccano due vecchie composizioni risalenti al 1966 (‘Bad Mouthin’ e ‘Sundown Blues’) rilegge tra gli altri l’amato Lightnin’ Hopkins nella rallentata esecuzione di ‘Awful Dreams’, vero e proprio ispiratore della sua carriera musicale, John Lee Hooker (‘Boom Boom’), Jimmy Reed (‘Big Boss Man’), Charley Patton in una ‘Down The Dirt Blues’ veloce come un treno a vapore d'altri tempi e dai sapori amaramente country e a tutte riesce ad appiccicare addosso un oscuro adesivo di presagio, catastrofe e disperazione anche quando chiude con una ‘Heart break Hotel’ dal passo quasi funereo e brutale. “Ho sempre desiderato in qualche modo fare qualcosa nel rispetto di Elvis. Ho finalmente avuto modo di farlo in questo album blues. ‘Heartbreak Hotel’, ma lo faccio in stile blues. Perché, quando Elvis cantava, aveva molta anima.” Ecco.
sabato 6 ottobre 2018
RECENSIONE: ROD STEWART (Blood Red Roses)
ROD STEWART Blood Red Roses (Republic Records, 2018)
Che pasticcio Rod!
Gli ultimi tre dischi di Rod Stewart sono usciti in sordina, senza troppi clamori. Se per i primi due Time e Another Country mi scappa un “che peccato”, per questo dico “va bene, giusto così”. Ho sempre amato Rod Stewart. Fin da quel primo momento che lo vidi in tv un giorno d’estate di fine anni settanta. Quando la tv di stato passò- chissà poi perché?-un suo video live e lui era vestito con la classica tutina colorata e attillata che indossava in quegli anni. Sicuramente stava cantando ‘Da Ya Think I'm Sexy?’. Per me fu uno shock. Positivo. Quando recentemente è uscita la sua spassosa autobiografia ha messo da parte il grande canzoniere americano che aveva oramai consumato (arrivato a un tot spropositato di dischi) e gli è tornata la voglia di prendere una penna e scrivere nuove canzoni, insieme al produttore e musicista Kevin Savigar, come non succedeva più da tempo. “Quando ho realizzato il mio primo album ('Time') dopo il libro, ho scritto una canzone su mio padre ('Can not Stop Me Now') e mi sono reso conto che avevo così tante cose da scrivere". Time e Another Country, pur se non interamente avevano dei bei momenti: la sua voce ha retto bene e lo fa ancora in questo nuovo disco. Quella non si tocca! Ma le canzoni? No quelle sono una delusione. Come dite? Con quella voce potrebbe cantare di tutto?
Sì, ma qui il buon Rod prende tutto alla lettera e si lancia in una sarabanda di generi musicali che nella teoria potrebbero anche andare bene, ma poi arriva la pratica e c’è sempre qualche schifezza nei suoni e pastrocchio nella produzione che vanificano tutto lo sforzo: dalla pop danzereccia con orribili echi di voce (‘Look In Her Eyes’) al celtic rock della title track con quei violini che paiono campionati (come dite? lo sono?) , al funky dance (‘Give Me Love’) dimenticato nell’angolo buio di una discoteca dal 1978, peccato che siano rimaste solo le macerie di quella sala da ballo e non capisco perché in ogni disco si sente obbligato a rifare il verso a ‘Da Ya Think I'm Sexy?’ in eterno, al stucchevole soul di ‘Rest Of My Life’. Piacciono di più la ballata ‘Grace’, la cover blues ‘Rollin & Tumbling' di Muddy Waters, l’hard blues di ‘Vegas Shuffle’ con i suoi cori femminili che io avrei tolto, la ballata folk ‘Honey Gold’. Una ‘Did Not I’ che mette in fila i sentimenti di un padre verso i figli tossicodipendenti, i ricordi nostalgici della finale ‘Cold Old London’ dove canta “ora sto invecchiando, e le ragazze stanno diventando più giovani". Fattene una ragione Rod. Mette in fila tanti ricordi Rod (toccante è ‘Farewell’ dedicata a Ewan Dawson, un amico che non c’è più) ma peccato che tra questi non ne sia saltato fuori uno legato a quel periodo d’oro deg7li anni settanta quando più toglievi meglio era. Per tutti. Qui sembra ci sia una grande abbuffata di luoghi comuni e un abuso sopra le norme stabilite di cliché musicali da far quasi rimpiangere i Great American Songbook. Da gran burlone sembra che il meglio lo abbia lasciato nella versione Deluxe del disco, dove appaiono almeno un paio di canzoni niente male. Rod, senti me: chiama il tuo amico Ron Wood, sedetevi sopra a due sgabelli e fate quello che vi viene meglio.
Nella sua autobiografia scrisse “ne ho fatte di stronzate”. Questo disco potrebbe essere solo una delle tante... Intanto dice di aver già scritto almeno 15 canzoni per un altro disco. Avete paura eh? Amo quest’uomo.
Ph:Peggy Sirota |
mercoledì 3 ottobre 2018
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA # 69: PSYCHEFUNKAPUS (Skin)
PSYCHEFUNKAPUS Skin (1991)
con la benedizione di Talking Heads, Funkadelic e il re della chitarra surf Dick Dale
Il nome quasi impronunciabile non ha portato loro molto fortuna. Nonostante tutto ritengo SKIN uno dei migliori esempi della ricca scena crossover anni '90. La compagnia in quegli anni, fine ottanta primi novanta, era numerosa e variegata (Primus, Red Hot Chili Peppers, Jane’s Addiction, Fishbone, Living Colour, Faith No More e qui mi fermo ma si potrebbe andare avanti per molte righe) e le parole d’ordine erano osare, mischiare, stravolgere. Alcuni dischi hanno passato brillantemente la prova del tempo, rimanendo freschi e vitali a quasi trent’anni di distanza, altri meno tanto da risultare datati, a tutti però non si può negare un certo coraggio.
Gli Psychefunkapus da San Francisco, dentro al crossover ci sguazzano che è un piacere e la diversa etnia dei componenti non può che essere uno stimolo e un vantaggio per la composizione di brani surreali e folli. A produrli si scomodò Jerry Harrison, allora "seconda mente" dei geniacci TALKING HEADS da poco sciolti (“una delle band che ha una grossa influenza sulla nostra musica”) e con l'aiuto di Bernie Worrel gran compositore dei Funkadelic e dei Parliament (“un musicista geniale, dotato di tanta umiltà “) , due band cardine del funk settantiano, tra le principali influenze del gruppo californiano (il nome non è un caso) il ricco quadro è completo.
L’apertura del disco con ‘Evol Ving’, canzone cupa e psichedelica in odor di progressive, mette subito in chiaro la totale libertà di movimento del gruppo che subito dopo passa con ‘A New Beginning’ ad un funk rock sulla scia dei primi Red Hot Chili Peppers.
L'ascolto del disco è un continuo sobbalzo da un genere musicale all'altro: il singolo scelto fu ‘Surfin On Jupiter’, surf song che rimanda tanto ai Beach Boys quanto ai primissimi Who. Ospite un vecchio chitarrista surf degli anni '60: l’oggi ottantenne Dick Dale, il re della chitarra surf. Anche se: "sinceramente prima che il management ci parlasse di lui non sapevamo nemmeno che esistesse, ma ha svolto bene il suo compito. A noi serviva proprio quel suono di chitarra per cui era famoso negli abbi '60".
Se i fiati di ‘Autumn Leaves’, canzone malinconica, rimandano a un castello medievale, il divertente country di ‘Hillbilly Happy Smash’ ci catapulta in un vecchio saloon del west. Non mancano canzoni piu' tirate e hard come ‘No Time’, ‘Syria’ o ‘Work like a horse/drink like a fish’ fino ad arrivare alla lunga e finale ‘Banana Slut King’, canzone che non avrebbe sfigurato su qualche disco dei Faith No More.
Questo secondo disco targato 1991 fu anche il loro canto del cigno, da allora di tali Jon Axtell, Atom B.Ellis, Mooshi Moo Moo e Manny Martinez si persero inspiegabilmente le tracce. Trovai solamente qualcosa sul vetusto Myspace a loro dedicato, alcune tracce e un video, la notizia di una reunion targata 2010 per scopi benefici e poi il nulla.
con la benedizione di Talking Heads, Funkadelic e il re della chitarra surf Dick Dale
Il nome quasi impronunciabile non ha portato loro molto fortuna. Nonostante tutto ritengo SKIN uno dei migliori esempi della ricca scena crossover anni '90. La compagnia in quegli anni, fine ottanta primi novanta, era numerosa e variegata (Primus, Red Hot Chili Peppers, Jane’s Addiction, Fishbone, Living Colour, Faith No More e qui mi fermo ma si potrebbe andare avanti per molte righe) e le parole d’ordine erano osare, mischiare, stravolgere. Alcuni dischi hanno passato brillantemente la prova del tempo, rimanendo freschi e vitali a quasi trent’anni di distanza, altri meno tanto da risultare datati, a tutti però non si può negare un certo coraggio.
Gli Psychefunkapus da San Francisco, dentro al crossover ci sguazzano che è un piacere e la diversa etnia dei componenti non può che essere uno stimolo e un vantaggio per la composizione di brani surreali e folli. A produrli si scomodò Jerry Harrison, allora "seconda mente" dei geniacci TALKING HEADS da poco sciolti (“una delle band che ha una grossa influenza sulla nostra musica”) e con l'aiuto di Bernie Worrel gran compositore dei Funkadelic e dei Parliament (“un musicista geniale, dotato di tanta umiltà “) , due band cardine del funk settantiano, tra le principali influenze del gruppo californiano (il nome non è un caso) il ricco quadro è completo.
L’apertura del disco con ‘Evol Ving’, canzone cupa e psichedelica in odor di progressive, mette subito in chiaro la totale libertà di movimento del gruppo che subito dopo passa con ‘A New Beginning’ ad un funk rock sulla scia dei primi Red Hot Chili Peppers.
L'ascolto del disco è un continuo sobbalzo da un genere musicale all'altro: il singolo scelto fu ‘Surfin On Jupiter’, surf song che rimanda tanto ai Beach Boys quanto ai primissimi Who. Ospite un vecchio chitarrista surf degli anni '60: l’oggi ottantenne Dick Dale, il re della chitarra surf. Anche se: "sinceramente prima che il management ci parlasse di lui non sapevamo nemmeno che esistesse, ma ha svolto bene il suo compito. A noi serviva proprio quel suono di chitarra per cui era famoso negli abbi '60".
Se i fiati di ‘Autumn Leaves’, canzone malinconica, rimandano a un castello medievale, il divertente country di ‘Hillbilly Happy Smash’ ci catapulta in un vecchio saloon del west. Non mancano canzoni piu' tirate e hard come ‘No Time’, ‘Syria’ o ‘Work like a horse/drink like a fish’ fino ad arrivare alla lunga e finale ‘Banana Slut King’, canzone che non avrebbe sfigurato su qualche disco dei Faith No More.
Questo secondo disco targato 1991 fu anche il loro canto del cigno, da allora di tali Jon Axtell, Atom B.Ellis, Mooshi Moo Moo e Manny Martinez si persero inspiegabilmente le tracce. Trovai solamente qualcosa sul vetusto Myspace a loro dedicato, alcune tracce e un video, la notizia di una reunion targata 2010 per scopi benefici e poi il nulla.
sabato 29 settembre 2018
RECENSIONE: TOM PETTY (An American Treasure)
TOM PETTY An American Treasure (Reprise, 2018)
“Scrivere canzoni ha a che fare con la magia. È così per tanti lavori creativi, la pittura, il cinema, deve succedere questa cosa intangibile. E andarsela a cercare troppo non è detto che sia una buona idea. Perché sai, l’immaginazione creativa è una cosa timida timida. Ma una volta che l’hai afferrata, puoi lavorare sui pezzi e migliorarla. Una volta che ne hai afferrato l’essenza. Cerchi una parola migliore, un accordo migliore” così TOM PETTY spiegò a Paul Zollo il suo processo creativo. A quasi un anno dalla morte, chi è rimasto cerca di spiegarcelo meglio con AN AMERICAN TREASURE , cofanetto di quattro CD: la moglie Dana, la figlia Adria, il produttore Ryan Ulyate e i fidi compagni di sempre Mike Campbell e Benmont Tench hanno compilato questo percorso di vita in ordine cronologico che forse non è all’altezza del monumentale Playback o del Live Anthology, ma ha dalla sua, purtroppo, la completezza dell’intera carriera.
Inediti di studio (interessante l’autobiografica ‘Gainesville’, inedito dalle session di ECHO, non l’unica di quel disco cupo e scuro, uno dei vertici dimenticati di un periodo poco felice umanamente ma artisticamente ispirato), versioni alternative di canzoni già conosciute, live version, uno spot pubblicitario radiofonico, demo (‘The Apartment Song’ registrata con Stevie Nicks nel 1984), estratti già conosciuti ma scelti per dare risalto a canzoni
importanti ma spesso dimenticate, nelle 63 tracce racchiuse dentro alla copertina creata dall’artista Shepard Fairey su un'immagine di Petty del fotografo Mark Seliger, c’è tanta roba interessante per noi fan orfani. Senza dimenticare un libretto con esaurienti note per ogni canzone e tante foto.
Non c’è il Tom Petty più conosciuto, quello dei successi (non dimentichiamo che Greatest Hits rimane il suo disco più venduto in carriera) ma quello nascosto e dimenticato in sala d’incisione, facendo emergere anche sfumature ancora inedite. Una visione totalitaria su un artista che a differenza di altri, fermi al palo della gioventù, era in continua evoluzione.
Il meglio non sta tutto a inizio carriera ma è ben distribuito lungo tutti i suoi anni, con Wildflowers del 1994 a fare da spartiacque. Petty aveva quarant’anni e fece partire una seconda parte di carriera impeccabile. Non è un caso che la raccolta si concluda con la registrazione live di ‘Hungry No More’ del 2016…Tom Petty e i suoi Heartbreakers erano una macchina da guerra rock’n’roll sempre agguerrita. Lo sono stati fino alla fine.
Partendo dalla genesi del primo gruppo Mudcrutch (‘Lost In Your Eyes’ risale al 1974 da un disco abortito) che troveranno la gloria solo negli anni duemila, da una scoppiettante ‘Surrender’ che non trovò posto nel debutto degli Heartbreakers nel 1976 e Benmont Tench non se ne capacita ancora oggi per quella esclusione, da una scintillante ‘Keeping Me Alive’ e da ‘Keep A Little Soul’ tenute fuori da Long After Dark del 1982, da nuove versioni di ‘Louisiana Rain’ (Damn The Torpedo) , di ‘Rebels’ che nella versione inserita su Southern Accents aveva le drum machine, qui no, fino ad arrivare all’ultimo Hypnotic Eye con tre tracce lasciate fuori. Fare un elenco mi sembra cosa abbastanza inutile. Prendetevi del tempo e ripercorrete la carriera da questa inusuale ma curiosa prospettiva scelta da chi ha compilato la raccolta.
Sorprende, invece, vedere solo tre outtake da Wildflowers, visto che da anni si parla di un’uscita con molti inediti legati a quell’album. Ma le parole di Tench “abbiamo tagliato un sacco di cose davvero grandiose” sembrano chiare: siamo solo all’inizio. Il tesoro non sta tutto qui.
“Scrivere canzoni ha a che fare con la magia. È così per tanti lavori creativi, la pittura, il cinema, deve succedere questa cosa intangibile. E andarsela a cercare troppo non è detto che sia una buona idea. Perché sai, l’immaginazione creativa è una cosa timida timida. Ma una volta che l’hai afferrata, puoi lavorare sui pezzi e migliorarla. Una volta che ne hai afferrato l’essenza. Cerchi una parola migliore, un accordo migliore” così TOM PETTY spiegò a Paul Zollo il suo processo creativo. A quasi un anno dalla morte, chi è rimasto cerca di spiegarcelo meglio con AN AMERICAN TREASURE , cofanetto di quattro CD: la moglie Dana, la figlia Adria, il produttore Ryan Ulyate e i fidi compagni di sempre Mike Campbell e Benmont Tench hanno compilato questo percorso di vita in ordine cronologico che forse non è all’altezza del monumentale Playback o del Live Anthology, ma ha dalla sua, purtroppo, la completezza dell’intera carriera.
© Joel Bernstein, 1979 |
© Barry Schultz, 1979 |
martedì 25 settembre 2018
recensione: CLUTCH (Book Of Bad Decisions)
CLUTCH Book Of Bad Decisions (Weathermaker Music, 2018)
Ai Clutch del music business non è mai importato più di tanto, nonostante un passato con la Atlantic e buoni successi nelle radio di settore americane. Dopo ventotto anni di onorata carriera sono ancora qui, coerenti anche se un po' diversi, a scalciare come ai primi tempi con gli ampli tarati e fumanti, manciate di terra da tirare alle band più imbellettate e la voce da orco del cantante Neil Fallon a declamare i suoi testi. Una menzione la merita la politica ‘How To Shake Hands’ dove rivela la prima cosa che farà quando diventerà presidente degli Stati Uniti d’America : rivelare i nomi di tutti gli UFO e mettere Jimi Hendrix in una banconota da venti dollari. Bene aspetteremo. In eterno credo. BOOK OF BAD DECISIONS registrato a Nashville nel giro di sole tre settimane è decisamente un album di pesante e diretto blues (‘Sonic Consuelor’ e il southern di ‘Hot Bottom Feeder’ ne sono due facce diverse), ma blues come lo intendono dalle parti di Germantown nel Maryland: caricato a dosi di fumante Stoner nell’apertura ‘Gimme The Keys’ con ricordi persi nel loro primissimo tour, impegnato a ripetere la lezione dei papà Black Sabbath nella possente marcia hard di ‘A Good Fire’ , oppure caricato di groove come nella curiosa e riuscitissima incursione nel funk con la trascinante ‘In Walks Barbarella’ e i suoi fiati. ‘Vision Quest’ è un carrarmato in discesa sui tasti di un indiavolato piano honky tonk come se Chuck Berry fosse ritornato per un’ultima jam. Ogni tanto si tira il fiato: in ‘Emily Dickinson’ con un organo Hammond in evidenza , l’assolo di Tim Sult e con un finale a sorpresa e nell’epico, inquietante e fumoso finale ‘Lorelei’ che cresce e finisce con una batteria che rimanda alla guerra di secessione. L’aquila, simbolo degli States, ci mostra spalle e sedere. Qui scopriamo il perché.
Ai Clutch del music business non è mai importato più di tanto, nonostante un passato con la Atlantic e buoni successi nelle radio di settore americane. Dopo ventotto anni di onorata carriera sono ancora qui, coerenti anche se un po' diversi, a scalciare come ai primi tempi con gli ampli tarati e fumanti, manciate di terra da tirare alle band più imbellettate e la voce da orco del cantante Neil Fallon a declamare i suoi testi. Una menzione la merita la politica ‘How To Shake Hands’ dove rivela la prima cosa che farà quando diventerà presidente degli Stati Uniti d’America : rivelare i nomi di tutti gli UFO e mettere Jimi Hendrix in una banconota da venti dollari. Bene aspetteremo. In eterno credo. BOOK OF BAD DECISIONS registrato a Nashville nel giro di sole tre settimane è decisamente un album di pesante e diretto blues (‘Sonic Consuelor’ e il southern di ‘Hot Bottom Feeder’ ne sono due facce diverse), ma blues come lo intendono dalle parti di Germantown nel Maryland: caricato a dosi di fumante Stoner nell’apertura ‘Gimme The Keys’ con ricordi persi nel loro primissimo tour, impegnato a ripetere la lezione dei papà Black Sabbath nella possente marcia hard di ‘A Good Fire’ , oppure caricato di groove come nella curiosa e riuscitissima incursione nel funk con la trascinante ‘In Walks Barbarella’ e i suoi fiati. ‘Vision Quest’ è un carrarmato in discesa sui tasti di un indiavolato piano honky tonk come se Chuck Berry fosse ritornato per un’ultima jam. Ogni tanto si tira il fiato: in ‘Emily Dickinson’ con un organo Hammond in evidenza , l’assolo di Tim Sult e con un finale a sorpresa e nell’epico, inquietante e fumoso finale ‘Lorelei’ che cresce e finisce con una batteria che rimanda alla guerra di secessione. L’aquila, simbolo degli States, ci mostra spalle e sedere. Qui scopriamo il perché.
mercoledì 19 settembre 2018
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA # 68: GUY CLARK (Old No1)
GUY CLARK Old No 1 (1975)
Con un debutto di questo genere ci campi in eterno. Guy Clark ci arrivò a piccoli passi, passando di città in città (dal natio Texas a Houston, da San Francisco a Los Angeles fino all’approdo in quel di Nashville), esperienze dopo esperienze: dai primi passi nel mondo degli adulti nell’hotel che apparteneva alla nonna a Monahans in Texas, alla prima chitarra ricevuta a sedici anni che gli aprì un nuovo mondo sperimentato con le canzoni in lingua spagnola, fino al lavoro presso un liutaio di chitarre dobro. L’amicizia con Townes Van Zandt, l’incontro con Susanna Talley, artista e musicista, che diventerà sua moglie e musa ispiratrice. Si conobbero nel 72 e non si lasciarono più fino alla morte di lei. Clark fece in tempo a dedicargli il suo ultimo disco, il magnifico My Favorite Picture Of You uscito nel 2013, prima di lasciarci pure lui nel Maggio del 2016 . Intanto in quei primi anni settanta, vagabondando di città in città, metteva via canzoni su canzoni: ‘LA Freeway’ (scritta dopo la deludente parentesi a Los Angeles)e ‘ Desperados Waiting For The Train’ (ecco il romantico fuorilegge ispirato da Jack, il compagno della sua vecchia nonna) finirono nelle mani di Jerry Jeff Walker che ne fece buon uso, altre finirono a Rita Coolidge e Billy Joe Shaver , tra i tanti. Il debutto arrivò tardi ma che debutto! Si riappropriò di alcune di quelle canzoni, già lì pronte solo da registrare. Clark vive ormai in città ma nei testi ci mette tutta la polvere del suo Texas e la vita delle persone più semplici e indifese, trasformando le immagini di vita reale in metafore- Bob Dylan apprezzerà tantissimo-stupende le immagini evocate dalla nostalgica ‘Texas 1947’ in questo senso: i vagabondi (‘Istant Coffee Blues’), le cameriere, le autostoppiste (‘She Ain’t Goin’ Nowhere’), gli ubriachi, gli ultimi, i fuorilegge e i perdenti. Gli amori. Dieci ritratti acustici, dagli arrangiamenti semplici che toccano il country, il folk e l’honky tonk, intimi ma carichi di poesia e malinconia con qualche bello scatto bluegrass (‘A Nickel For The Fiddler’). Intanto ai RCA Studios di Nashville, Tennesse, come la tradizione texana vuole, si riunisce una bella banda di musicisti a dare man forte: dai veterani Johnny Gimble (violino), David Briggs (piano), Chip e Reggie Young (chitarre) agli allora giovanissimi Steve Earle, Rodney Crowell e Emmylou Harris che non potevano avere maestro migliore. E non furono gli unici allievi di un songwriter cardine per tutte le generazioni che verranno.
Con un debutto di questo genere ci campi in eterno. Guy Clark ci arrivò a piccoli passi, passando di città in città (dal natio Texas a Houston, da San Francisco a Los Angeles fino all’approdo in quel di Nashville), esperienze dopo esperienze: dai primi passi nel mondo degli adulti nell’hotel che apparteneva alla nonna a Monahans in Texas, alla prima chitarra ricevuta a sedici anni che gli aprì un nuovo mondo sperimentato con le canzoni in lingua spagnola, fino al lavoro presso un liutaio di chitarre dobro. L’amicizia con Townes Van Zandt, l’incontro con Susanna Talley, artista e musicista, che diventerà sua moglie e musa ispiratrice. Si conobbero nel 72 e non si lasciarono più fino alla morte di lei. Clark fece in tempo a dedicargli il suo ultimo disco, il magnifico My Favorite Picture Of You uscito nel 2013, prima di lasciarci pure lui nel Maggio del 2016 . Intanto in quei primi anni settanta, vagabondando di città in città, metteva via canzoni su canzoni: ‘LA Freeway’ (scritta dopo la deludente parentesi a Los Angeles)e ‘ Desperados Waiting For The Train’ (ecco il romantico fuorilegge ispirato da Jack, il compagno della sua vecchia nonna) finirono nelle mani di Jerry Jeff Walker che ne fece buon uso, altre finirono a Rita Coolidge e Billy Joe Shaver , tra i tanti. Il debutto arrivò tardi ma che debutto! Si riappropriò di alcune di quelle canzoni, già lì pronte solo da registrare. Clark vive ormai in città ma nei testi ci mette tutta la polvere del suo Texas e la vita delle persone più semplici e indifese, trasformando le immagini di vita reale in metafore- Bob Dylan apprezzerà tantissimo-stupende le immagini evocate dalla nostalgica ‘Texas 1947’ in questo senso: i vagabondi (‘Istant Coffee Blues’), le cameriere, le autostoppiste (‘She Ain’t Goin’ Nowhere’), gli ubriachi, gli ultimi, i fuorilegge e i perdenti. Gli amori. Dieci ritratti acustici, dagli arrangiamenti semplici che toccano il country, il folk e l’honky tonk, intimi ma carichi di poesia e malinconia con qualche bello scatto bluegrass (‘A Nickel For The Fiddler’). Intanto ai RCA Studios di Nashville, Tennesse, come la tradizione texana vuole, si riunisce una bella banda di musicisti a dare man forte: dai veterani Johnny Gimble (violino), David Briggs (piano), Chip e Reggie Young (chitarre) agli allora giovanissimi Steve Earle, Rodney Crowell e Emmylou Harris che non potevano avere maestro migliore. E non furono gli unici allievi di un songwriter cardine per tutte le generazioni che verranno.
ph.Jim Mcguire |
mercoledì 12 settembre 2018
RECENSIONE: ALEJANDRO ESCOVEDO with DON ANTONIO (The Crossing)
ALEJANDRO ESCOVEDO with DON ANTONIO The Crossing (Yep Roc Records, 2018)
la miglior risposta a Trump e Salvini
Le grandi rockstar che ci mettono ancora la faccia denunciando in musica i peggiori mali che attanagliano questo mondo allo sbando le contiamo sulle dita di una mano oramai, mentre l’altra è comodamente adagiata in tasca al caldo. Tocca allora a personaggi minori (intendo come successo) quali ALEJANDRO ESCOVEDO segnare la strada e indicare la via. Escovedo lo fa nella maniera più completa e veritiera possibile: prima perché è uno che ha sempre combattuto per ottenere quel che ha raggiunto ora a 66 anni sia nel mondo musicale che nella vita, vincendo tante battaglie, poi perché si lancia in un lungo e ambizioso concept album, vario musicalmente e carico di contenuti. Non è da solo questa volta ma si fa accompagnare da ANTONIO GRAMENTIERI e i suoi DON ANTONIO (Denis Valentini al basso, Matteo Monti alla batteria, Gianni Perinelli, Francesco Valtieri ai fiati e Nicola Peruch alle tastiere) , musicista italiano apprezzatissimo a certe latitudini rock degli Stati Uniti fin dai tempi del suo progetto SACRI CUORI. I due saldano così un’amicizia che li portò a girare insieme in un tour di 35 date in 40 giorni l’anno scorso dopo il bellissimo BORN SOMETHING BEAUTIFUL uscito nel 2016 (“Mi sono innamorato di loro” dice Escovedo parlando di DON ANTONIO). E anche in questo concept, nato e registrato in Italia a Villafranca con il produttore Brian Deck, viaggiano insieme, unendo le loro esperienze da immigrati: un messicano e un italiano (Diego e Salvo) che approdano negli Stati Uniti, in Texas, (si apre il tutto con ‘Andare’)nel nome della musica punk rock alla ricerca dei grandi gruppi come Ramones, MC5, New York Dolls , ad accoglierli invece il razzismo e la discriminazione verso gli immigrati.
Temi caldi sia negli States (ecco ‘Fury & Fire’ un attacco alla politica “alza muri” di Trunp) che in Italia. Dentro alle diciassette tracce tutto l’universo musicale che i due si portano dietro da sempre: tracce tex mex (le forti immagini di confine dipinte in ‘Footsteps In The Shadows’, ‘Texas Is My Mother’), spoken word song (‘Rio Navidad’ scritta da Willy Vlautin e letta da Freddy Trujillo, entrambi dei Richmond Fontaine), tratti swing (‘How many Time’) e jazzati (‘amor Puro) con qualche bella stoccata punk garage con le chitarre taglienti come ai tempi dei Nuns con ‘Outlaw For You’ e ‘Sonica USA’ che vede la partecipazione di WAYNE KRAMER (MC5) e con JAMES WILLIAMSON (The Stooges) in ‘Teenage Luggage’e ballate intense ed evocative come ’Something Blue’. Senza dimenticare la partecipazione di JOE ELY in ‘The Crossing’ e nella sua ‘Silver City’, uno che certi luoghi li conosce a memoria, e di Peter Perrett e John Perry degli The Only Ones, gruppo cult britannico all’opera nei fine settanta, che si riuniscono insieme dopo 40 anni. Con questo disco Escovedo, figlio di immmigrati messicani, scrive su un lato del foglio la sua personale autobiografia, nel retro imprime la radiografia di un mondo ancora troppo impreparato per accogliere ma sempre disponibile nel posare cemento di puro e insensato odio sui mattoni.
ALEJANDRO ESCOVEDO-Born Something Beautiful (2016)
la miglior risposta a Trump e Salvini
Le grandi rockstar che ci mettono ancora la faccia denunciando in musica i peggiori mali che attanagliano questo mondo allo sbando le contiamo sulle dita di una mano oramai, mentre l’altra è comodamente adagiata in tasca al caldo. Tocca allora a personaggi minori (intendo come successo) quali ALEJANDRO ESCOVEDO segnare la strada e indicare la via. Escovedo lo fa nella maniera più completa e veritiera possibile: prima perché è uno che ha sempre combattuto per ottenere quel che ha raggiunto ora a 66 anni sia nel mondo musicale che nella vita, vincendo tante battaglie, poi perché si lancia in un lungo e ambizioso concept album, vario musicalmente e carico di contenuti. Non è da solo questa volta ma si fa accompagnare da ANTONIO GRAMENTIERI e i suoi DON ANTONIO (Denis Valentini al basso, Matteo Monti alla batteria, Gianni Perinelli, Francesco Valtieri ai fiati e Nicola Peruch alle tastiere) , musicista italiano apprezzatissimo a certe latitudini rock degli Stati Uniti fin dai tempi del suo progetto SACRI CUORI. I due saldano così un’amicizia che li portò a girare insieme in un tour di 35 date in 40 giorni l’anno scorso dopo il bellissimo BORN SOMETHING BEAUTIFUL uscito nel 2016 (“Mi sono innamorato di loro” dice Escovedo parlando di DON ANTONIO). E anche in questo concept, nato e registrato in Italia a Villafranca con il produttore Brian Deck, viaggiano insieme, unendo le loro esperienze da immigrati: un messicano e un italiano (Diego e Salvo) che approdano negli Stati Uniti, in Texas, (si apre il tutto con ‘Andare’)nel nome della musica punk rock alla ricerca dei grandi gruppi come Ramones, MC5, New York Dolls , ad accoglierli invece il razzismo e la discriminazione verso gli immigrati.
Temi caldi sia negli States (ecco ‘Fury & Fire’ un attacco alla politica “alza muri” di Trunp) che in Italia. Dentro alle diciassette tracce tutto l’universo musicale che i due si portano dietro da sempre: tracce tex mex (le forti immagini di confine dipinte in ‘Footsteps In The Shadows’, ‘Texas Is My Mother’), spoken word song (‘Rio Navidad’ scritta da Willy Vlautin e letta da Freddy Trujillo, entrambi dei Richmond Fontaine), tratti swing (‘How many Time’) e jazzati (‘amor Puro) con qualche bella stoccata punk garage con le chitarre taglienti come ai tempi dei Nuns con ‘Outlaw For You’ e ‘Sonica USA’ che vede la partecipazione di WAYNE KRAMER (MC5) e con JAMES WILLIAMSON (The Stooges) in ‘Teenage Luggage’e ballate intense ed evocative come ’Something Blue’. Senza dimenticare la partecipazione di JOE ELY in ‘The Crossing’ e nella sua ‘Silver City’, uno che certi luoghi li conosce a memoria, e di Peter Perrett e John Perry degli The Only Ones, gruppo cult britannico all’opera nei fine settanta, che si riuniscono insieme dopo 40 anni. Con questo disco Escovedo, figlio di immmigrati messicani, scrive su un lato del foglio la sua personale autobiografia, nel retro imprime la radiografia di un mondo ancora troppo impreparato per accogliere ma sempre disponibile nel posare cemento di puro e insensato odio sui mattoni.
ALEJANDRO ESCOVEDO-Born Something Beautiful (2016)
venerdì 7 settembre 2018
RECENSIONE: NOWHERE BROTHERS (Down Life Boulevard)
fratelli si diventa
Basterebbe la bella storia di amicizia che si cela dietro alla realizzazione delle dieci canzoni che compongono il debutto del duo NOWHERE BROTHERS, per capire quanto amore per la musica serpeggi nelle loro vite. Nicola Ventolini (voce e armonica) e Roberto Fiorelli (voce, chitarra, piano e stomp) sono due amici italiani, i percorsi della vita li hanno portati a vivere a molta distanza l’uno dall’...altro: Roberto abita in Arizona, Nicola in Inghilterra. Il punto d’incontro è ben focalizzato in questo disco fatto di poco, registrato a Phoenix con la strumentazione ridotta all’osso, ma ricco di sentimenti e presentato in modo eccellente (testi cantati in inglese con traduzione in italiano nel libretto) e che ha nella canzone 'Nowhere Brothers' che apre il disco il passaporto per l'intero progetto. "Fratello Imbraccia la slide… “ cantano.
Folk americano costruito su chitarre acustiche e slide, armonica, voci e poco altro. Possiamo incontrare lo Springsteen dolente di Nebraska, il folk del primo Dylan, la scena grunge dei 90 nella veste spoglia ed unplugged (Alice In Chains, Eddie Vedder e Mark Lanegan), i songwriter americani di frontiera vecchi (Ry Cooper, Tom Russell, John Hiatt) e più recenti (Ryan Bingham, Thom Chacon). Si calpestano i territori aridi e desertici una volta appartenenti ai nativi americani (‘Stillness’), si respira aria di libertà (‘Bearing Your Name’), c’è il rifiuto verso l’oppressione dell’omologazione imposta dalla società (‘Dustwalker’), la ricerca della pace interiore (‘Peace’). L’estate volge al termine ma credo sia questo il momento migliore per salire in macchina al tramonto, abbassare il finestrino e godersi i 35 minuti di questo prezioso, piccolo disco, andando incontro alla notte e a quella luna che difficilmente si farà prendere-fortunatamente-continuando a farci sognare ancora un po'.
martedì 4 settembre 2018
RECENSIONE: MARK LANEGAN/DUKE GARWOOD (With Animals)
MARK LANEGAN/DUKE GARWOOD With Animals (Heavenly Recordings, 2018)
il sentiero delle ombre
Quando cinque anni fa uscì Black Pudding il primo disco della coppia Mark Lanegan/Duke Garwood, Lanegan fu molto chiaro nello descrivere il suo nuovo compagno di viaggio britannico, conosciuto nel 2009 : “uno dei miei artisti preferiti e una delle migliori esperienze di registrazione della mia vita." Parole importanti. Da allora i due hanno iniziato una intensa collaborazione sublimata in questo secondo disco. Registrato in analogico su otto piste, WITH ANIMALS segue la scia minimale di quel debutto, riuscendo nell’impossibile impresa di essere ancora più scarno e all’osso ('Lonesome Infidel' è costruita con il nulla) colonna sonora perfetta per un viaggio in solitaria dentro agli abissi della mente umana. Garwood ha condotto la parte musicale composta da chitarre che si adagiano su un tappeto sbiadito di beat e loop elettronici, quasi da battito cardiaco, in un flusso creativo istintivo e solitario (la title track è nata proprio così con Garwood che si allontana dall’umanità per rifugiarsi nel suo io con l’unica presenza degli animali intorno), Lanegan ci ha messo la voce, il malessere e la profondità che si trascina dietro da una vita.
“La nostra musica è istinto, non ne parliamo, la facciamo e basta. Penso che se tu sei in pace col tuo lavoro e lo senti, le cose funzionano, fluiscono, vengono da sé…” dice Garwood.
Sono nate canzoni rarefatte che sembrano uscire da anfratti fumosi (‘My Shadow Life’ dove compare pure un sax) nelle ore più scure, misteriose e silenziose della giornata (‘Save Me’, ‘Ghosts Stories’) quando anche i sentimenti in apparenza più luminosi indossano gli abiti più scuri e iniziano a farsi le domande più inopportune giocando pericolosamente con la morte (‘My Shadow Days’, ‘One Way Glass’). Quando a prevalere è la necessità di redenzione (il folk nero di ‘Upon Doing Something Wrong’).
Sono blues anticonvenzionali, quelli preferiti da Lanegan (‘Spaceman’, ‘LA Blue’) che sublima il tutto nella finale ‘Desert Song’, ballata da crepuscolo da una manciata di minuti che non sembra avere un parola fine, ma prolungarsi in modo infinito tra le terre di Joshua Tree, alla ricerca di una luce salvifica.
sabato 1 settembre 2018
RECENSIONE: ALICE IN CHAINS (Rainier Fog)
ALICE IN CHAINS Rainier Fog (BMG, 2018)
l'ombra scura del monte Rainier
"La nostra musica è un gigantesco ed efficace atto di esorcismo nei confronti di tutto quello che non amiamo o che finirebbe per portarci nella tomba...". Fa un certo effetto rileggere questa dichiarazione estrapolata da una vecchia intervista apparsa su HM nel Marzo del 1993, alla luce di quello che successe il 5 Aprile 2002, quando Layne Staley raggiunse il fondo di quell'abisso che lo accompagnò per tutti i suoi (soli) 35 anni di vita. Qualcosa non deve aver funzionato a dovere. Senza dimenticare le ombre dietro la morte di Mike Starr, deceduto nel 2011.
Gli Alice In Chains hanno nuotato in acque torbide negli anni novanta, il loro disco di maggior successo commerciale, Dirt (1992), fu la ricetta per esorcizzare tutto ciò, premiato anche dalle vendite, ma nulla potè per depurare l'acqua, che anzi via via si fece sempre più nera e inzaccherata, preferendo seguire il pericoloso percorso scavato dal loro cantante. Gli Alice In Chains di oggi, però, vivono nel presente, Jerry Cantrell continua a ribadirlo a più riprese: non amano girarsi troppo indietro e già lo hanno dimostrato con i precedenti Black Gives Way To Blue e The Devil Put Dinosaurs Here. Continuano a camminare per la loro strada, lasciando ai critici il compito di nominare il nome di Layne Staley una volta su tre in cerca di paragoni (impossibili e deleteri). C'è la voglia di sotterrare i ricordi negativi (quelli pesanti, vissuti in prima persona) ma c'è anche la difficoltà nel farlo completamente; quelli che hanno segnato profondamente le liriche rimangono a dare l'imprinting della loro musica, lasciando solamente alle canzoni il compito di parlare, un po' come se la copertina di Dirt rappresentasse il loro status odierno: un po' dentro, un po' fuori da quelle sabbie. William DuVall, poi, mi sta simpatico a pelle, si sta dimostrando un cantante-e chitarrista-con una personalità propria e vincente, capace di tenersi alla larga dai possibili paragoni con l'illustre, inarrivabile, e maledetto predecessore, anche se gli spazi sembra che debba guadagnarseli con il tempo e le unghie ben affilate. E questo è il momento giusto. E sappiamo tutti quanto il cambio del cantante in una band sia sempre faccenda delicata, costruita su complessi equilibri interpersonali. La verità è che la band di Seattle sembra molto compatta oggi come allora (sempre con Mike Inez al basso e Sean Kinney alla batteria), complice la maturità e l'esperienza.
RAINIER FOG è un disco monolitico, forse il punto più alto di questa seconda vita della band, registrato nuovamente a Seattle, i 4000 metri del monte Rainier, di origine vulcanica a dominare lo stato di Washington, è lì a ribadirlo, un ritorno a registrare nella loro città dopo più di vent'anni. Cantrell guida le danze fin dall’apertura ‘The One You Know’, un gigantesco, marziale e cadenzato riff per ribadire e certificare che il sound è quello di sempre, riff grossi legati con spesse catene al doom sabbathiano in ‘Drone’ e ‘So Far Under’, aperture lisergiche come avviene in ‘Red Giant’ e ‘Deaf Ears Blind Eyes’, mentre ‘Rainer Fog’ e ‘Never Fade’ possiedono il groove e l’immediatezza dei giorni della gioventù. Non mancano le caratteristiche armonie vocali che li hanno resi unici e inimitabili nel panorama dei ‘90 e alcuni momenti più ariosi come ‘Fly’ e l’acustica ‘Maybe’, in queste cose sono sempre stati dei fuoriclasse e dei precursori alle loro latitudini, che portano al finale struggente di ‘All I Am’, sette minuti che lasciano il segno in profondità. E se in alcuni passaggi sentirete odore di Deja Vu, chiamatelo trade mark e il problema è risolto. Cantrell dice: “è un disco che ha tutti gli elementi di qualsiasi cosa ti aspetti da noi. Ha la nostra impronta digitale”. Amen.
l'ombra scura del monte Rainier
"La nostra musica è un gigantesco ed efficace atto di esorcismo nei confronti di tutto quello che non amiamo o che finirebbe per portarci nella tomba...". Fa un certo effetto rileggere questa dichiarazione estrapolata da una vecchia intervista apparsa su HM nel Marzo del 1993, alla luce di quello che successe il 5 Aprile 2002, quando Layne Staley raggiunse il fondo di quell'abisso che lo accompagnò per tutti i suoi (soli) 35 anni di vita. Qualcosa non deve aver funzionato a dovere. Senza dimenticare le ombre dietro la morte di Mike Starr, deceduto nel 2011.
Gli Alice In Chains hanno nuotato in acque torbide negli anni novanta, il loro disco di maggior successo commerciale, Dirt (1992), fu la ricetta per esorcizzare tutto ciò, premiato anche dalle vendite, ma nulla potè per depurare l'acqua, che anzi via via si fece sempre più nera e inzaccherata, preferendo seguire il pericoloso percorso scavato dal loro cantante. Gli Alice In Chains di oggi, però, vivono nel presente, Jerry Cantrell continua a ribadirlo a più riprese: non amano girarsi troppo indietro e già lo hanno dimostrato con i precedenti Black Gives Way To Blue e The Devil Put Dinosaurs Here. Continuano a camminare per la loro strada, lasciando ai critici il compito di nominare il nome di Layne Staley una volta su tre in cerca di paragoni (impossibili e deleteri). C'è la voglia di sotterrare i ricordi negativi (quelli pesanti, vissuti in prima persona) ma c'è anche la difficoltà nel farlo completamente; quelli che hanno segnato profondamente le liriche rimangono a dare l'imprinting della loro musica, lasciando solamente alle canzoni il compito di parlare, un po' come se la copertina di Dirt rappresentasse il loro status odierno: un po' dentro, un po' fuori da quelle sabbie. William DuVall, poi, mi sta simpatico a pelle, si sta dimostrando un cantante-e chitarrista-con una personalità propria e vincente, capace di tenersi alla larga dai possibili paragoni con l'illustre, inarrivabile, e maledetto predecessore, anche se gli spazi sembra che debba guadagnarseli con il tempo e le unghie ben affilate. E questo è il momento giusto. E sappiamo tutti quanto il cambio del cantante in una band sia sempre faccenda delicata, costruita su complessi equilibri interpersonali. La verità è che la band di Seattle sembra molto compatta oggi come allora (sempre con Mike Inez al basso e Sean Kinney alla batteria), complice la maturità e l'esperienza.
RAINIER FOG è un disco monolitico, forse il punto più alto di questa seconda vita della band, registrato nuovamente a Seattle, i 4000 metri del monte Rainier, di origine vulcanica a dominare lo stato di Washington, è lì a ribadirlo, un ritorno a registrare nella loro città dopo più di vent'anni. Cantrell guida le danze fin dall’apertura ‘The One You Know’, un gigantesco, marziale e cadenzato riff per ribadire e certificare che il sound è quello di sempre, riff grossi legati con spesse catene al doom sabbathiano in ‘Drone’ e ‘So Far Under’, aperture lisergiche come avviene in ‘Red Giant’ e ‘Deaf Ears Blind Eyes’, mentre ‘Rainer Fog’ e ‘Never Fade’ possiedono il groove e l’immediatezza dei giorni della gioventù. Non mancano le caratteristiche armonie vocali che li hanno resi unici e inimitabili nel panorama dei ‘90 e alcuni momenti più ariosi come ‘Fly’ e l’acustica ‘Maybe’, in queste cose sono sempre stati dei fuoriclasse e dei precursori alle loro latitudini, che portano al finale struggente di ‘All I Am’, sette minuti che lasciano il segno in profondità. E se in alcuni passaggi sentirete odore di Deja Vu, chiamatelo trade mark e il problema è risolto. Cantrell dice: “è un disco che ha tutti gli elementi di qualsiasi cosa ti aspetti da noi. Ha la nostra impronta digitale”. Amen.
giovedì 30 agosto 2018
RECENSIONE: THE GREEN MUSHROOM BAND (Low)
THE GREEN MUSHROOM BAND Low (autoproduzione, 2018)
“In memoria di Gregg Allman” si legge all’interno del digipack e la copertina sembra riportare proprio agli Allman Brothers, certamente una degli amori principali che Riccardo Stura, chitarrista originario del Canavese ma con radici che hanno invaso e attecchito nel biellese, ha riversato dentro al debutto della sua nuova creatura THE GREEN MUSHROOM BAND (Silvano Ganio Mego al presentissimo basso e chitarre, Emmanuele Pella alla batteria). Lasciata nella custodia la chitarra elettrica del suo più recente progetto hard blues Buffalo Trio, tirata a lucido solamente per un bel assolo in ‘Forever Rollin On’, libera nelle dieci canzoni il suo lato più intimo e accomodante, proseguendo in modo originale il progetto acustico con cui rilegge e porta in giro il repertorio di Bruce Springsteen e ricollegandosi alla vecchia avventura Tag My Toe. Se durante i quaranta minuti di ascolto viene a mancare lo scatto rock ed elettrico che mi sarei aspettato da lui (ecco però la chitarra elettrica dell’ospite Jacopo Tommassini in ‘Guns In Our Hands’), tutte le canzoni sembrano unirsi in un unico concept musicale avvolgente e cullante con un piede nella musica americana tra accenti southern, west coast e nelle ballate di Neil Young (‘Mud In Your Eyes’ ha lo stesso passo di ‘Out In The Weekend’) e l’altro nel folk britannico a cavallo tra i ’60 e ’70 grazie ai preziosi interventi del sax di Sebastian Loyola Castillo (‘Before I Sell My Soul To You’). Mentre il flicorno soprano di Igor Vigna (anche tromba) in ‘Handcuffed To Your Life’ sembra riportarci a certe border song care ai Calexico, interessanti sono gli interventi vocali di Chiara Cortese nella spensierata ‘Don’t Dissapear’ dall’appeal pop e sognante e nella più oscura ‘Forever Rollin On’. Un disco dal passo lento e sinuoso che può avvicinarsi a piccoli passi alla seconda prova senza timore, basta un pizzico di esuberanza in più da unire a una buona dose di potenzialità ancora tutte da scoprire.
“In memoria di Gregg Allman” si legge all’interno del digipack e la copertina sembra riportare proprio agli Allman Brothers, certamente una degli amori principali che Riccardo Stura, chitarrista originario del Canavese ma con radici che hanno invaso e attecchito nel biellese, ha riversato dentro al debutto della sua nuova creatura THE GREEN MUSHROOM BAND (Silvano Ganio Mego al presentissimo basso e chitarre, Emmanuele Pella alla batteria). Lasciata nella custodia la chitarra elettrica del suo più recente progetto hard blues Buffalo Trio, tirata a lucido solamente per un bel assolo in ‘Forever Rollin On’, libera nelle dieci canzoni il suo lato più intimo e accomodante, proseguendo in modo originale il progetto acustico con cui rilegge e porta in giro il repertorio di Bruce Springsteen e ricollegandosi alla vecchia avventura Tag My Toe. Se durante i quaranta minuti di ascolto viene a mancare lo scatto rock ed elettrico che mi sarei aspettato da lui (ecco però la chitarra elettrica dell’ospite Jacopo Tommassini in ‘Guns In Our Hands’), tutte le canzoni sembrano unirsi in un unico concept musicale avvolgente e cullante con un piede nella musica americana tra accenti southern, west coast e nelle ballate di Neil Young (‘Mud In Your Eyes’ ha lo stesso passo di ‘Out In The Weekend’) e l’altro nel folk britannico a cavallo tra i ’60 e ’70 grazie ai preziosi interventi del sax di Sebastian Loyola Castillo (‘Before I Sell My Soul To You’). Mentre il flicorno soprano di Igor Vigna (anche tromba) in ‘Handcuffed To Your Life’ sembra riportarci a certe border song care ai Calexico, interessanti sono gli interventi vocali di Chiara Cortese nella spensierata ‘Don’t Dissapear’ dall’appeal pop e sognante e nella più oscura ‘Forever Rollin On’. Un disco dal passo lento e sinuoso che può avvicinarsi a piccoli passi alla seconda prova senza timore, basta un pizzico di esuberanza in più da unire a una buona dose di potenzialità ancora tutte da scoprire.
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