lunedì 29 gennaio 2018

RECENSIONE: JOE PERRY (Sweetzerland Manifesto)



JOE PERRY     Sweetzerland Manifesto (Roman Records, 2018)





Il chitarrista manda Terry Reid e David Johansen in prima fila: un piacevole disco virato blues.

Se il primo disco solista di Steven Tyler, uscito due anni fa mi lasciò l’amaro in bocca, perso com’era in un country pop con poco mordente e da sbadiglio facile, con JOE PERRY si è sempre andati sul sicuro (più o meno) fin dal Joe Perry Project nei primi anni ottanta, passando dagli altri due album solisti JOE PERRY (2005) e HAVE GUITAR, WILL TRAVEL (2009). Una chitarra, imitata e che ha lasciato un segno. Basterebbe soffermarsi sui nomi dei cantanti che lo accompagnano in questa nuova avventura fuori dagli AEROSMITH per capire che qui si fa sul serio. Nulla per stupire ma abbastanza per accontentare i rocker duri e puri di vecchia data, orfani da ormai troppo tempo da un disco a nome Aerosmith che meriti. A proposito: ma il futuro della band di Boston qual è? C’è TERRY REID, una voce incredibile (nel bel blues ‘I’ll Do Happiness’ con Zak Starkey dietro le pelli, nella ritmata ‘Sick And Tired’, nel marziale hard rock dominato dalla chitarra ‘ Won’t Let Me Go’in chiusura del disco) personaggio corteggiato dai più grandi gruppi hard rock degli anni settanta ma che ha sempre preferito una carriera defilata, ai margini del rock system. C’è DAVID JOHANSEN (New York Dolls) che non ha bisogno di troppe presentazioni e gioca bene le sue carte da trasformista: fa il crooner nell’acustica ‘I Wanna Roll’, mentre nei canonici Chicago blues ‘Haberdasher Blues’ e ‘I’m Going Crazy’ si trasforma in un vecchio blues man cimentandosi anche all’armonica. Infine ROBIN ZANDER (Cheap Trick) nella traccia più scatenata e divertente del disco, un rock’n’roll ad alto voltaggio ‘Aye, Aye, Aye’ che rimanda agli Aerosmith anni settanta. Rimangono una poco convincente cover di ‘Eve Of Destruction’  portata al successo da Barry Mcguire e cantata dallo stesso Joe Perry con JOHNNY DEPP alla batteria, già compagno di band nei Hollywood Vampires insieme ad Alice Cooper, e le due strumentali (poco riuscite pure queste per la verità) dai forti sapori esotici: l’apertura afro tribale affidata a ‘Rumble In The Jungle’ e la più moderna ‘Spanish Sushi’ carica di synth che trova riuniti anche i due figli di Perry, Tony e Roman. Insomma, quando si va sul sicuro con i cantanti davanti il disco viaggia che è un piacere. E dire che era nato per essere un disco di sole canzoni strumentali…




sabato 20 gennaio 2018

RECENSIONE: CORROSION OF CONFORMITY (No Cross No Crown)

 CORROSION OF CONFORMITY  No Cross No Crown (Nuclear Blast, 2018)









1995. Megadeth in concerto al Forum di Assago. Era il tour di Youthanasia e ad aprire c’erano i CORROSION OF CONFORMITY, ancora reduci da quel Deliverance che non ho difficoltà a indicare come uno dei miei dischi preferiti di tutti gli anni novanta. Devo essere sincero: ero lì più per loro che per Dave Mustaine. Prima dell’inizio mi comprai pure la t.shirt della band di Pepper Keenan e soci, quella originale, pagata salatissima. Ma era proprio figa per lasciarla lì. Con me ho uno zainetto e la t-shirt rimase lì dentro per tutto il concerto, al sicuro, anche quando, dopo sole due canzoni e guadagnato un buon posto nelle prime file, qualcuno si appoggiò a me, aggrappandosi ad una tracolla dello zaino che naturalmente si ruppe, trascinandomi a terra. Presi qualche inevitabile scarpata, qualcuno mi camminò sopra, ma mi rialzai combattivo e vendicativo più che mai. La forza dei vent’anni. Passarono soli pochi secondi e realizzai che con lo zaino rotto non potevo fare molto altro se non piazzarmi in un angolo e godermi i concerti in tutta tranquillità. Ma con la rabbia in corpo. Da allora, per molti anni e concerti dopo, entrò in vigore una legge non scritta: mai più zaini ai concerti!

1996, un solo anno dopo. Concerto dei Metallica sempre al Forum di Assago. Anche questa volta ci sono i Corrosion Of Conformity in apertura. I Metallica a promuovere Load (che per assurdo voleva scimmiottare i COC) i COC hanno il nuovo Wiseblood. Io non ho più lo zainetto con me, ma anche questa volta non riesco a godermi il concerto come vorrei. Il palco dei Metallica era al centro del parterre, occupando di fatto quasi tutta l’area, io lassù in alto nelle tribune, ma più avanti capii il perché. A metà concerto vidi una delle cose più tamarre di sempre: fu simulato un finto incidente con tanto di scoppi, crollo del palco, finti operatori luce che piombavano a terra come marionette e musicisti che se la davano a gambe. Qualcuno tra il pubblico ci cascò e imboccò la via d’uscita. I Metallica riapparvero dopo cinque minuti a centro palco, illuminati da quattro lampadine: un ritorno ai garage days. Cazzo, non potevano fare tutto il concerto così? Sta di fatto che dopo l’11 Settembre una cosa così sarebbe punita con la galera. Sì ma i Corrosion Of Conformity? Mai pervenuti. Visti dalla tribuna, sto ancora aspettando ora che arrivino i suoni. I Metallica si presero tutta la scena, palco compreso.

2012. I Corrosion of Conformity vicino a casa (al Rock And Roll Arena di Romagnano Sesia)! Figo dico io, consapevole del fatto che non sono quelli con Pepper Keenan, impegnato in pianta stabile con i Down di Phil Anselmo, ma la prima formazione a tre, quella legata all’hardcore dei primi album. Poche tracce degli anni novanta, un tour per ricordare gli inizi. Concerto senza infamia e senza lode.

2018. Ritornano con la formazione di Deliverance: Pepper Keenan ritorna alla chitarra e voce dopo quattordici anni, Woody Weatherman, Mike Dean sono sempre al loro posto (chitarra e basso) e Reed Mullin siede alla batteria. Il disco NO CROSS NO CROWN (titolo ispirato da una chiesa inglese del 1700 dove suonarono in tour), registrato in North Carolina in 40 giorni con il fido John Custer alla produzione (sporca e molto differente dagli anni novanta) e Keenan che faceva la spola dalla sua abitazione a New Orleans, dai primi ascolti, sembra promettere bene, sporco e paludoso il giusto: un concentrato di nero sabbathiano anni settanta (‘Wolf Named Crow’, ‘Nothing Left To Say’ cita dichiaratamente Planet Caravan nei momenti di lisergica quiete), doom (‘A Quest To Believe’), accenti southern rock (‘Little Man’) e stoner groove (‘Forgive Me’, ‘Disaster’ ricorda i Trouble) come ai vecchi tempi, ci sono pure i brevi intermezzi acustici tra un brano l’altro e una cover regalata alla fine, ‘Son And Daughter’ dei primissimi Queen. Ma la domanda è una sola: riuscirò finalmente a vederli nelle condizioni ottimali, da headliner, senza zainetto, senza palchi che crollano e setlist perfetta?



mercoledì 17 gennaio 2018

RECENSIONE: THOM CHACON (Blood In The USA)


THOM CHACON    Blood In The USA (Appaloosa/IRD, 2018)





Sangue metà libanese, metà messicano, nato a Sacramento ma proveniente da Durango, un vecchio cugino pugile, Bobby Chacon, avversario di quel Ray “Boom Boom” Mancini cantato da Warren Zevon e un nonno sceriffo nel New Mexico ai tempi di Billy The Kid. Basterebbero tutte queste coordinate per capire quanto per Thom Chacon i confini non siano alti muri invalicabili ma semplici linee da attraversare con curiosità e speranza in cerca di buone opportunità. Questo nuovo disco esce a distanza di ben cinque anni dal precedente. Tanto tempo. Era nel cassetto da ben due anni ma vede la luce solamente ora, non perdendo assolutamente nulla in attualità, anzi, le tematiche delle sue canzoni sembrano ancor più radicate nel presente di questi Stati Uniti targati scelleratamente Donald Trump. Anche questa volta non cerca troppi colpi ad effetto. Preferisce raccontare quell’America che una volta chiamavamo nascosta e invisibile, quella che qualcuno vorrebbe nascondere sotto il tappeto buono delle feste: canzoni corte, stringate (nove canzoni per ventisette minuti), minimali e senza orpelli, costruite intorno ad una chitarra acustica e un’armonica, senza gridare, dove i protagonisti sono sempre gli emarginati, i lavoratori senza più lavoro (‘Union Town’) e quelli con pochi diritti (‘Work At Hand’), la disperazione dei contadini dimenticati nei loro campi (‘Empty Pockets’), gli immigrati messicani erranti tra i confini (‘I Am An Immigrant’), la disillusione, le terre promesse che tradiscono e non accolgono più (‘Blood In The USA’), le speranze (‘Easy Heart’, ‘Big As The Moon’), quelle ci sono ancora, guai se mancassero.. Il suo è un folk antico, agrodolce, cantato con voce aspra e profonda che ricorda l’ultimo John Mellencamp e Ryan Bingham, che guarda al passato, ispirandosi ai più grandi songwriter americani come John Prine, Bob Dylan, Steve Earle, lo Bruce Springsteen di The Ghost Of Tom Joad, Townes Van Zandt, il sempre dimenticato Jim Croce, e Tom Russell. Non sono paragoni, sono punti di riferimento. Nessun colpo ad effetto ( chi li vuole?) ma onesta solidità cantautorale senza scadenze, sempre dura a morire.




lunedì 15 gennaio 2018

RECENSIONE: CHEAP WINE (Dreams)


CHEAP WINE-Dreams (Cheap Wine Records, 2017)






 è ora di sognare
Ormai dei veterani del rock italiano, i pesaresi Cheap Wine non hanno bisogno di troppe presentazioni così come non sono mai venuti a compromessi con niente e nessuno: la scelta di continuare ad autoprodursi, con il basilare aiuto del crowdfunding questa volta, dopo anni (e sono venti!) non può che deporre a loro favore quando si tratta di misurarne il livello d’indipendenza. Anche se mi piace immaginare le lotte con i mostri là fuori, pronti ad avanzare indecenti compromessi per fare il grande salto mainstream nell’epoca in cui un contratto discografico non lo si nega nemmeno all’ultimo dei concorrenti di un talent. I Cheap Wine rimangono duri e puri. Così come la loro musica. DREAMS è il disco che conclude la trilogia iniziata da BASED ON LIES (2012), proseguita con BEGGAR TOWN (2014) e intervallata dall’originale e bel disco dal vivo MARY AND THE FAIRY uscito nel 2015 che metteva completamente a nudo la loro vera anima musicale costruita su un approccio al rock libero e incontaminato che solo i grandi dalla forte personalità possono permettersi, e la band dei fratelli Marco e Michele Diamantini (Andrea Giaro al basso, Alan Giannini alla batteria e con il sempre più riconoscibile e indispensabile tocco di Alessio Raffaelli alle tastiere) rientra a pieno merito nella categoria dei grandi. L’ascolto di due canzoni come ‘Pieces Of Disquiet’ e dell’iniziale ‘Full Of Glow’ potrebbero bastare per descrivere il loro approccio alla musica lontano da qualsiasi etichetta se non un semplice e inclusivo “rock”: la prima avanza con il passo lento, sinuoso, scuro e avvolgente, quasi pinkfloydiana nella struttura, la seconda è un attacco di chitarre fiero e indipendente a metà strada tra gli Heartbreakers di Tom Petty, i Dream Syndicate i gli amati Green On Red. Dopo aver lottato con le menzogne e camminato tra le rovine, i personaggi delle loro canzoni iniziano a lanciare lo sguardo oltre il grigio. Il pezzo mancante della trilogia sono i sogni: il futuro inizia a schiarirsi, colorarsi e fiorire. La copertina del disco , sempre curatissimo il lavoro che c'è dietro, lo annuncia in anticipo. Sognare non è più vietato, sperare è un dovere. Che sia di buon auspicio per il 2018 e oltre.




lunedì 8 gennaio 2018

DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA # 52: DUST (Dust)

DUST  Dust (1971)







Marc Bell (il futuro Marky Ramone) e Kenny Aaronson sono poco più che adolescenti quando si conoscono tra i banchi di scuola. Uno suona la batteria, l'altro il basso, dai libri alla prima band il passo sarà brevissimo, tanto quanto la nascita dei Dust nel 1969 con i più esperti Richie Wise alla chitarra e voce e Kenny Kerner a fare da guida, mentore, produttore e paroliere. I Dust si formano per le strade di Brooklyn a New York e DUST, il primo disco, è qualcosa di molto potente per l’epoca: “guardando al passato, i Dust possono essere annoverati tra le prime band americane di Heavy Metal, eravamo influenzati da quello che succedeva in Gran Bretagna, ma non c’erano altre band in America che facevano quello che facevamo noi” racconterà Marky Ramone nel 2013.
Ascoltando il sulfureo incedere hard blues di ‘From A Dry Camel’ è impossibile non citare i Black Sabbath tra le principali influenze ma in mezzo ai cangianti dieci minuti della canzone ci sono anche i futuri semi che vent’anni dopo saranno raccolti e seminati nuovamente nei deserti di Palm Springs dal movimento stoner-la canzone che vale il disco- , anche ‘Love Me Hard’ aggredisce di chitarre ma è più snella e veloce, l’apertura ‘Stone Woman’ è un blues urgente dominato dalla slide tanto quanto il più canonico di ‘Goin Easy’. 'Chasin’ Ladies’ sembra seguire le grandi orme lasciate dai Mountain di Leslie West, ‘Open Shadows Felt’ è una ballata che prende forma tra i fumi psichedelici e che cresce nella distanza, mentre la finale ‘Loose Goose’ è un tirato rock'n'roll strumentale suonato alla velocità della luce e aperto alle lunghe jam. “Quando ho incontrato Marc Bell per la prima volta non credevo che qualcuno potesse suonare la batteria in modo così hard e veloce” dirà Kenny Kerner.
Dust sarà replicato l’anno dopo da HARD ATTACK, per certi versi anche meglio del debutto per produzione e scrittura, acquistando pure inaspettati toni epici ben rappresentati anche dalla copertina, opera di Frank Frazetta. Poi, per ogni componente ci sarà un futuro roseo ma non sotto il nome Dust che invece rimarrà solo un culto per pochi racchiuso e impolverato dentro a due soli dischi. Se non li conoscete e avete buon fiato, soffiate sulla polvere e scopriteli.



PUNTATE PRECEDENTI
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #18: BOB DYLAN-Street Legal (1978)
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #19- CRAZY HORSE-Crazy Horse (1971)
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #20-TOM PETTY-Wildflowes/Echo (1994/1999)
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #21-NICOLETTE LARSON-Nicolette (1978)
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #22-AMERICA-Silent Letter (1979)
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #23-ERIC ANDERSEN-Blue River (1972)
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #24-BADLANDS-Voodo Highway (1991)
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #25-GEORGE HARRISON-Living In The Material World (1973)
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA#26: DAVID CROSBY GRAHAM NASH-Wind On The Water (1975)
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #27: DICKEY BETTS & GREAT SOUTHERN (1977)
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #28: JUNKYARD-Junkyard (1989)
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #29: STEPHEN STILLS (1970)
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #30: RITMO TRIBALE-Bahamas (1999)
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #31: SUZI QUATRO-Suzi Quatro (1973)
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #32: BADFINGER (1970)
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #33:RONNIE LANE'S SLIM CHANCE    One For The Road (1976)
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #34: EDOARDO BENNATO- Edo Rinnegato (1990)
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #35: GENE CLARK-White Light (1971)
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #36: JOHNNY WINTER-Second Winter (1969)
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #37: CAPTAIN BEYOND-Captain Beyond (1972)
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #38: ROD STEWART-Every Picture Tells a Story (1972)
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #39: GEORGE THOROGOOD & DESTROYERS-Bad To The Bone (1982)
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #40: THE ROLLING STONES-Their Satanic Majesties Request (1967)
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #41: ALBERTO FORTIS (1979)
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #42: NOMADI-Gente Come Noi (1991)
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #43: CROSBY, STILLS & NASH-Daylight Again (1982)
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #44: TERRY REID (River)
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #45: JACKSON BROWNE-Running On Empty (1977)
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #46: THE ROLLING STONES-Emotional Rescue (1980)
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #47:TOM PETTY-Highway Companion (2006)
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #48:STEVE FORBERT-Alive On Arrival (1978)
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #49:CRY OF LOVE -Brother (1993)
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #50:THE BLACK CROWES-By Your Side (1999 )
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #51: NEIL YOUNG-Re-Ac-Tor (1980)

giovedì 4 gennaio 2018

RECENSIONE: MAVIS STAPLES (If All I Was Was Black)


MAVIS STAPLES  If All I Was Was Black (ANTI, 2017)





non c'è tempo per piangere
Pochi sanno mettersi in gioco così bene superata una certa soglia di anni (non si svelano gli anni delle signore e comunque c’è sempre wikipedia per i più curiosi). Se poi sei già entrata nella leggenda della musica gospel soul con tutta la famiglia, che bisogno hai di confrontarti con i più giovani? Mavis Staples no, è un’artista che ha sempre vissuto tra le note alte, sa il fatto suo e sembra averci preso mano e (buon) gusto. I lusinghieri riscontri hanno dato coraggio ulteriore e la classe è sempre tanta, tantissima. Dopo le cure di Ry Cooder (WE’LL NEVER TURN BACK rimane per me insuperato), l’anno scorso si mise nelle mani di M. Ward (cantautore e produttore, vi ricordate il progetto Monsters Of Folk con Conor Oberst?) per interpretare canzoni scritte appositamente per lei da diversi autori, tra cui spiccava una ‘Jesus Lay Down Beside Me’ scritta da Nick Cave. Un disco più leggero del solito. Purtroppo, o fortunatamente per l’ispirazione artistica, è capitato che un certo Donald Trump si sia messo sulla strada (proprio lo stesso che pochissimi giorni fa si è messo a scherzare sul riscaldamento del pianeta), ed è sembrato quasi un obbligo ritornare alla cara vecchia canzone di protesta come accadeva negli anni sessanta per rivendicare i propri diritti civili. “Non c'è tempo per piangere, non c'è tempo per le lacrime” canta in ‘No Time For Crying’, è ora di agire. Ritorna il vecchio amico Jeff Tweedy, con il quale aveva già registrato due album (YOU ARE NOT ALONE e ONE TRUE VINE), che porta con sé l’ormai inseparabile figlio Spencer e il compagno di band nei Wilco, Glenn Kotche, scrive dieci canzoni adatte alla voce, alla classe e alla tempra combattiva della Staples, suona e duetta in una canzone, ‘Ain’t No Doubt About It’. Americana (‘Peaceful Dream’), black music (‘If All I Was Was Black’) e funk (‘Who Told You That’) si fondono insieme per la giusta causa e ne esce uno dei dischi più combattivi dell’anno.



40 DISCHI per ricordare il mio 2017


martedì 2 gennaio 2018

RECENSIONE: GUY LITTELL (One Of Those Fine Days)

GUY LITTELL   One Of Those Fine Days (AR Recordings, 2017)




Ho conosciuto Gaetano Di Sarno (in arte Guy Littell) in occasione dell'uscita di LATER, album del 2011. Sono passati sei anni, nel frattempo è uscito l'album WHIPPING THE DEVIL BACK (2014) e finalmente quest'anno l'ho incontrato di persona al concerto di Ryan Adams a Gardone, eravamo pure seduti vicini. Già, Ryan Adams, uno dei suoi punti fermi musicali. Durante una vecchia intervista fatta per Impatto Sonoro a ridosso dell'album Later, gli chiesi se avesse qualche sogno nel cassetto. Mi rispose: "il mio sogno nel cassetto è quello di continuare quello che sto facendo, di suonare il più possibile e incidere dischi, non chiedo altro...". Bene, credo che quel modesto sogno si sia avverato: sta continuando a fare quello che più gli piace, suona ed ha inciso un altro bel disco, andando oltre il sogno, perché ONE OF THOSE DAYS, presentato dalla bella grafica di copertina credo sia un grande passo in avanti, un disco che mette sempre in mostra la peculiarità della sua scrittura che si nutre di forti contrasti ma questa volta sembra funzionare molto meglio che nel recente passato. Se da una parte troviamo canzoni con le chitarre a dominare l’urgenza della bella ‘New Records And Clothes’, di ‘Song From A Dream’, di una ‘Love It’ che sembra penetrare lo spettro sonoro più articolato dei REM o di 'Cheating Morning' che mette bene in fila i suoi gusti musicali dichiarati: c'è il Neil Young più rock, quello accompagnato dai Crazy Horse, ci sono le chitarre elettriche degli amati Dream Syndicate di Steve Wynn del quale ricordiamo la prestigiosa partecipazione nel precedente disco. Dall’altra parte, quella acustica e sensibile, intimista, dominata dalla luce e dalle ombre con queste ultime a prevalere, troviamo l’apparente leggerezza di ‘Better For Me’, ‘Twenty Six’, ‘Don't Hide’ e ’Old Soul’ con la chitarra ospite di Kevin Salem. Il disco, uscito solo pochi giorni fa (14 Dicembre) ha la sua forza nella variabile track list che alterna le montagne elettriche con le pianure acustiche: scaletta in grado di accontentare qualsiasi buon ascoltatore di classic rock.


vedi anche
GUY LITTELL (Whipping The Devil Back) & INTERVISTA a GUY LITTELL

lunedì 1 gennaio 2018

40 DISCHI per ricordare il mio 2017

40 dischi per ricordare il mio 2017 in musica



AFGHAN WHIGS-In Spades
CHRIS STAPLETON-From A Room Vol.1&2
MAGPIE SALUTE
WILLIE NELSON-God’s Problem Child RODNEY CROWELL-Close Ties
SON VOLT-Notes Of Blue
JASON ISBELL-Nashville Sound
BLACK JOE LEWIS-Backlash
ELLIOTT MURPHY-Prodigal Son
GARLAND JEFFREYS-14 Steps To Harlem CHUCK BERRY-Chuck!
DON ANTONIO EDDA-Graziosa Utopia
BRUCE COCKBURN-Bone On Bone
LEE BAINS III and THE GLORY FIRES-Youth Detention
JOHN MURRY-A Short History Of Decay LITTLE STEVENS-Soulfire
MARTY STUART-Way Out West
LUKAS NELSON & The PROMISE OF THE REAL
MICHAEL CHAPMAN-50
ROBERT FINLEY-Goin Platinum!
BLACK SABBATH-The End live
CHEAP WINE-Dreams
RYAN ADAMS-Prisoner
CHUCK PROPHET-Bobby Fuller Die For Your Sins
JOHN MELLENCAMP-Sad Clown & Hillbillies
STEVE EARLE-So You Wanna Be An Outlaw TINARIWEN-Elwan
HUMULUS-Reverently Heading Into Nowhere GREGG ALLMAN-Southern Blood
DAN AUERBACH-Waiting On A Song
RAY WYLIE HUBBARD-Tell The Devil…I’m Gettin’ There As Fast I Can
PARADISE LOST-Medusa
ROBERT PLANT-Carry Fire
DAVID CROSBY-Sky Trails SUPERDOWNHOME MAVIS STAPLES-If All I Was Was Black
ALICE COOPER-Paranormal
NEIL YOUNG-Hitchhiker
GEORGE THOROGOOD-Party Of One

sabato 23 dicembre 2017

RECENSIONE: CHUCK BERRY (Chuck!)

CHUCK BERRY  Chuck! (Decca Records, 2017)




Uno dei più grandi inni alla vita di questo 2017? Nell’Ottobre 2016, il giorno del suo novantesimo compleanno ci fu l’annuncio: nel 2017 sarebbe uscito CHUCK, il disco che avrebbe interrotto un silenzio discografico lungo quasi quarant'anni. Era il lontano 1979 quando uscì Rock It, l'ultimo prima di una lunghissima pausa dagli studi di registrazione. Il 2017 è arrivato fin troppo in fretta ma Chuck Berry non ha mai potuto assaporare il frutto di anni di registrazioni (la stesura delle canzoni risale al 1980 e arriva ai nostri giorni): il 18 Marzo ci ha lasciato e il suo nuovo disco non era ancora uscito nei negozi. Abbiamo dovuto aspettare fino a Giugno ma ne è valsa la pena: le dieci canzoni di CHUCK sono un prodigio senza tempo ed età, buone ora come lo saranno tra cinquant’anni, cento, mille. Chuck Berry accompagnato dai fidi Blueberry Hill, una sgangherata rock band da bar non certo dei session man strapagati, ripercorre la sua carriera con spirito e grande autoironia: l’autobiografica ‘Lady B.Goode’ è una chiara risposta alla vecchia e immortale ‘Johnny B.Goode’ e la musa ispiratrice è la moglie Toddy, il calypso di ‘Jamaica Moon’ si ispira a ‘Havana Moon’, ‘Big Boys’ con gli ospiti Tom Morello e Nathaniel Rateliff, è un nuovo inno in grado di stare accanto ai vecchi successi. Non c'è nulla di nuovo ma sembra tutto fresco e vibrante come fossero ancora gli anni cinquanta. Riunisce intorno a sé i famigliari, quasi volesse da loro un lungo caldo abbraccio. Nell’apertura ‘Wonderful Woman’, dedicata come tutto il disco alla moglie Toddy, sono riunite tre generazioni di chitarristi: lui, il figlio Charles Berry Jr. e il nipote Charles Berry III, oltre all’ospite Gary Clark Jr.. La figlia Ingrid è ai cori e duetta in ‘Darlin’, una country song dove Berry sembra prendere consapevolezza del tempo giunto ormai agli sgoccioli e canta “my dear, the time is passing fast away”. Già. Troppo veloce ma non abbastanza per riuscire a scrivere un piccolo classico senza tempo all'età di novant’anni. Un volta disse:”Non penso di fare uno spettacolo per nostalgici. La musica che suono è ormai un rituale. Qualcosa che sta a cuore della gente in maniera speciale. Non vorrei interferire con questo”. Anche questa volta non l’ha fatto.


RECENSIONE: MAGPIE SALUTE-Magpie Salute (2017)
RECENSIONE: ELLIOTT MURPHIE-Prodigal Son (2017)
RECENSIONE: GARLAND JEFFREYS-14 STeps To Harlem (2017)
RECENSIONE: JOHN MELLENCAMP- Sad Clowns & Hillbillies (2017)
RECENSIONE: TAJ MAHAL & KEB' MO'-TajMo (2017)
RECENSIONE: CHRIS STAPLETON: From A Room, Volume I and II (2017)
RECENSIONE: WILLIE NELSON-God's Problem Child  (2017)
RECENSIONE: DAN AUERBACH-Waiting On A Song (2017)
RECENSIONE: STEVE EARLE & The DUKES-So You Wannabe An Outlaw (2017)

RECENSIONE: BLACKFOOT GYPSIES-To The Top (2017)
RECENSIONE: LEE BAINS III + THE GLORY FIRES-Youth detention (2017)
RECENSIONE: GEORGE THOROGOOD-Party Of One (2017)
RECENSIONE: NEIL YOUNG-Hitchhiker  (2017)
RECENSIONE: JAKE BUGG- Hearts That strain (2017)


giovedì 21 dicembre 2017

RECENSIONE: ROBERT FINLEY (Goin' Platinum!)

ROBERT FINLEY  Goin' Platinum (Easy Eye Sound/ Nonesuch, 2017)
 
 
 
 
 
 
non è mai troppo tardi
A volte abbiamo bisogno delle favole per andare avanti e credere ancora in qualcosa. La musica non è esente, se ben setacciata, anzi, ne è fucina inesauribile. La storia di ROBERT FINLEY non è che una delle ultime favole a lieto fine infarcita di verità e leggende, ricordando da vicino quella di Seasick Steve: un giovane della Louisiana, che a diciannove anni nel 1974 lascia i campi di cotone a Bernice e si arruola nell’esercito americano, unico modo sicuro per poter aiutare economicamente la madre. Con l’esercito arriva in una base americana in Germania e proprio in Europa, in mezzo al dovere (chiamiamolo così) ha modo di sviluppare la sua grande passione per la musica con la band dell’esercito: cresciuto a pane e gospel (a undici anni si comprò la prima chitarra con i soldi che il padre gli diede per un nuovo paio di scarpe), con James Brown, B.B. King e i Temptations in testa. Tornato in Usa dopo il duro lavoro da carpentiere capisce che la sua vera strada è la musica. La strada è però dura e in salita. Fino a due anni fa girava vie secondarie e piccoli locali mentre ora a 64 anni si trova a registrare un disco insieme a Gene Chrisman (Elvis Presley band) e a mostri sacri come Duane Eddy (suo il solo di chitarra in 'You Don't Have To Do Right'), Bobby Woods e la Preservation Hall. Arriva alla musica che conta con GOIN’ PLATINUM! (dopo l’esordio Age Don't Mean a Thing del 2016), il primo disco a uscire per la nuova etichetta di Dan Auberbach, Easy Eye Sound. Già è proprio “prezzemolo” Auberbach a prendere questo vecchio bluesman sotto la sua ala protettrice, invitarlo nel suo mondo, lo stesso che gravitava intorno al suo ultimo album solista (le canzoni sono scritte da lui, John Prine, Nick Love, Pat McLaughlin) e a fargli fare il grande salto. “Ho capito le capacità di Robert di andare oltre le canzoni blues. È un grande chitarrista blues, ma se posa la chitarra e si mette davanti ad una orchestra può diventare come Ray Charles.” Così lo presenta Aurbach. Black Keys meets blues singer, quello che ne esce è un magnetico incrocio tra R&B, swamp blues ('Three Jumpers') retro soul di casa Nashville e il suo è nome Robert Finley (provate il suo falsetto in 'Holy Wine'). Lui è un personaggio, il disco senza un’età apparente è da ascoltare per la varietà stilistiche con cui è stato assemblato. L’ultimo colpo di questo 2017.
 
 
 
 

lunedì 18 dicembre 2017

RECENSIONE: BOB SEGER (I Knew You When)


BOB SEGER  I Knew You When (Capitol Records, 2017)


Dico la verità, quando in Ottobre si sparse la notizia della sospensione del tour americano di Bob Seger, per un attimo ho temuto il peggio, sembrava la ripetizione di una notizia già letta troppe volte: un disco in uscita già programmato e le rockstar che ci saluta in anticipo. Fortunatamente Seger è ancora qui con noi e i problemi alle vertebre non sembrano così gravi come si pensava.
Strano disco questo I KNEW YOU WHEN. Di chiara matrice rock e lo si capisce subito dalla partenza southern ‘Gracile’, certamente più del precedente RIDE OUT che si perdeva sovente tra le vie country di Nashville. Pur con una tracklist raffazzonata che raccoglie dal passato recuperando vecchi scarti, con due cover (‘Busload Of Faith’ di Lou Reed e ‘Democracy’ di Leonard Cohen) riviste e attualizzate nei testi (un deciso attacco a Trump) e con una produzione così e così opera dello stesso Seger, e qui un buon produttore sarebbe servito- i synth di ‘The Highway’ e i muscoli di ‘Runaway Train’ rimandano direttamente agli ’80, quelli invecchiati male e ti chiedi perché?-si fa comunque voler bene per l’onestà. ‘I Knew You When’, ‘Marie’, il pianoforte più il crescendo di ‘I’ll Remember You’ lo riportano sulle epiche strade delle sue irraggiungibili ballate del passato, e ripeto irraggiungibili per intensità che girava nei settanta. ‘Sea Inside’ è un hard rock che lo stesso Seger ha dichiarato essere nata sulla scia dei Led Zeppelin. Seger guarda alla gioventù in copertina, vive il presente nei testi e si tuffa nella malinconica nostalgia con la finale ‘Glenn Song’ dedicata, come tutto il disco, all’amico Glenn Frey, compagno d’avventura fin dal lontano ‘66 lungo la scalpitante Detroit musicale di allora. Certamente non uno dei suoi migliori dischi (l'ultimo rimane il buonissimo FACE THE PROMISE del 2006), anzi, ma un segno di vitalità non da poco vista l'età e i già citati problemi fisici, speriamo veramente superati. A metà carriera, un disco del genere sarebbe stato definito “di passaggio". A voi le conclusioni.


 

 
 

venerdì 8 dicembre 2017

RECENSIONE: SUPERDOWNHOME (Twenty-Four Days)

SUPERDOWNHOME   Twenty-Four Days (Slang/Warner 2017)



Quando vedo le classifiche dei migliori dischi dell’anno già a fine Novembre un po' mi incazzo, non che sia così importante, i dischi non hanno scadenze, ma... Il perché ce l'ho sotto gli occhi e dentro le orecchie in questo momento, anche se per ora solo in formato digitale. Già: TWENTY- FOUR DAYS, il primo disco completo dei bresciani SUPERDOWNHOME uscirà solo il 25 Dicembre (presentazione ufficiale alla Latteria Molloy di Brescia proprio il giorno di Natale) e si preannuncia come una piccola bomba con deflagrazione lunga poco più di trenta minuti, pochi ma abbastanza per far scattare un applauso da Natale in avanti. E credo che il 2018 sarà un anno importante per loro. A inizio anno, qui siamo ancora nel 2017 però, il duo formato dagli esperti musicisti Beppe Facchetti (cassa e rullante) e Henry Sauda (chitarre, cigar box, Diddley bow e voce) si era presentato al grande pubblico con l’ep che metteva in bella mostra l’approccio al blues, tradizionale ma personale, a cui potete aggiungere un “rural” se volete seguire il suggerimento, grezzo e genuino nato sulle orme di one man band come il vecchio Seasick Steve e quel pazzo di Scott H Biram: blues ridotto all’osso nella forma, nella sostanza, nella strumentazione. In mezzo tra ep e lp (mi piace chiamarlo così, chissà se uscirà anche in versione vinile?): tanti concerti e importanti festival (Narcao, Soiano, Sound Tracks) e incontri che si trasformeranno in spontanee collaborazioni come vedremo. TWENTY-FOUR DAYS, registrato nuovamente al Bluefemme Studio insieme a Marco Franzoni e Ronnie Amighetti (affiatata squadra vincente non si cambia) mantiene fede a quell’ approccio primitivo ma aggiunge mille altre sfumature di abbellimento. Dall’assalto proto punk incendiario e rivoluzionario di ‘Kick Out The Jams’ degli Mc5, una delle tre cover presenti, le altre sono ‘Stop Breaking Down Blues’ del padre Robert Johnson e lo schiaffo al razzismo ‘Down In Mississippi’ di J.B. Lenoir (ripresa da tantissimi ma mi piace ricordare la bella versione di Mavis Staples) alle numerose sfumature dei sette brani originali che si allungano sul rock'n'roll, il folk e il country (‘Goodbye Girl’) ma quello che più stupisce è l’elevato potenziale (anche commerciale perché no?) di ogni singolo brano. Come rimanere fermi davanti al contagioso chorus di ‘Long Time Blues’, e proprio qui incontriamo il grande ospite del disco, il mastodontico chitarrista newyorchese Popa Chubby che piazza il suo cattivo assolo di chitarra (lo ritroviamo anche nella cover di Robert Johnson), davanti alla viziosa ‘Over You’, alla zztopiana ‘Disabuse Boogie', nell’oscuro incedere della più stratificata title track. Natale è vicino. Fatevi un regalo.




SUPERDOWNHOME-Superdownhome (Roam, 2017)

Un contrasto vincente! Non lasciatevi ingannare troppo dalla copertina che li ritrae seduti, elegantemente vestiti, su due poltrone Chesterfield. E non dovrete farvi ingannare nemmeno da come si presentano in concerto: esattamente così. A cambiare sono solo le poltrone vintage, sostituite da due poveri sgabelli. Dal lato blu notte esce la figura di Enrico Sauda, seduto alle prese con le sue chitarre (cigar box artigianali comprese), dal lato rosso carminio Beppe Facchetti, seduto dietro a cassa e rullante. Il minimo indispensabile. Il contrasto qual è allora? La musica. Perché proprio di sottrazione vivono le loro canzoni. I due esperti musicisti bresciani sono in giro da circa due anni sotto il nome Superdownhome, ma solo ora sembrano aver trovato la strada vincente, e ce la mostrano con questo primo ep prodotto da Marco Franzoni e Ronnie Amighetti (preludio a qualcosa di più sostanzioso, si spera) composto da cinque brani: quattro autografi e la cover di ‘Shake Your Money Maker’ di Elmore James. Sauda e Facchetti hanno trovato nel rock blues viscerale, terroso, innaffiato da buone dosi di alcol, e molto vicino a personaggi come Seasick Steve e Scott H. Biram (giustamente omaggiati durante i live), ma anche i Black Keys, il loro punto in comune. Basterebbe l’ascolto della riuscitissima ‘Can’t Sweep Away’ a fugare ogni dubbio, con il bellissimo video compreso. Enrico Sauda è un dotatissimo chitarrista dall’animo rock blues, con un alcuni dischi solisti alle spalle, attualmente in vista con la band The Scotch, ammirata recentemente in apertura a Alejandro Escovedo a Chiari; Beppe Facchetti ha un curriculum vitae lunghissimo (che potrete cercarvi nel web) per cui mi limito a citare il suo prezioso lavoro con The Union Freego e Slick Steve And The Gangsters. Two men band, a volte è meglio di one.

http://enzocurelli.blogspot.it/2017/04/recensione-superdownhome-superdownhome.html








mercoledì 6 dicembre 2017

RECENSIONE: CHRIS STAPLETON (From A Room, Volume I & Volume II)

CHRIS STAPLETON    From A Room, Volume I & Volume II (Mercury Nashville/ Universal 2017)




“Il luogo dove registri può influenzare, nel mio caso anche elevare, quello che fai”. Con queste parole CHRIS STAPLETON, 38 anni, sintetizza il titolo scelto per l’ambizioso progetto musicale di questo 2017. Il 5 Maggio erano uscite le prime nove canzoni raccolte sotto il titolo: FROM A ROOM, VOLUME I. Il primo Dicembre è arrivato il VOLUME II. Chris Stapleton ha registrato il seguito del fortunato debutto TRAVELLER, negli stessi studi di Nashville dove registrarono i suoi grandi idoli: Waylon Jennings, Willie Nelson, Elvis Presley. Mura piene di storia che un paio d’ anni fa furono salvate dal triste destino a cui stavano andando incontro: la demolizione. Scongiurata la wrecking ball rimane la magia. Prodotti entrambi dal fido Dave Cobb, che ci suona anche la chitarra acustica, Stapleton cerca di bissare il grande successo di un debutto nato sulle highway, durante un lungo viaggio con la moglie in cui cercò di recuperare sia il meglio di se stesso, dopo alcune delusioni di vita, che le sue aspirazioni e esperienze musicali, comprese le parentesi con i suoi vecchi gruppi, e le tante canzoni scritte per altri come autore. Con lui in studio: la moglie Morgane Stapleton ai cori, il batterista Derek Mixon, il basso di J.T. Cure e le ospitate di Mickey Raphael all’ armonica, Robby Turner alla pedal steel e le tastiere di Mike Webb.
VOLUME I ripete bene la formula, bilanciando le varie anime della sua musica anche se a prevalere, come già anticipato dal debutto, è sempre quella più soul e nera grazie soprattutto alla sua straordinaria voce: ‘I Was Wrong’, l’incidere soffuso e notturno della finale ‘Death Row’, la splendida ‘Either Way’ che insieme a ‘Last Thing I Needed , First Thing This Morning’ (rubata a Willie Nelson) sono il punto più alto del disco e sembrano uscite da impolverati dischi motown abbandonati su una vecchia diligenza guidata da vecchi cowboy e persa tra le strade del Texas. Come se Otis Redding camminasse, senza fretta, sotto braccio a Waylon Jennings. Outlaw soul. Maggiore omogeneità rispetto al debutto, spezzata solamente da un lento walzerone country dominato dalla lap steel (‘Up To No Good Livin’’), un vecchio blues con l’armonica (‘Them Stems’), e l’incalzante rock di ‘Second One To Know’, il momento più elettrico e movimentato del disco. Il perché i sessanta minuti di musica siano stati divisi in due parti non si sa bene, perché anche il VOLUME II batte le stesse strade. E non è per nulla un male. Due le cover: l’apertura ‘Millionaire’, un country rock di Kevin Welch e la finale ‘Friendship’ di Pope Staples. In mezzo c’è ancora la sua straordinaria voce che si esalta e emoziona nei momenti più marcatamente soul come la stessa ‘Friendship’, in ‘Nobody’s Lonely Tonight’ e ‘Tryin’ To Untagle My Mind’, un country soul dal passo pigro e un bel lavoro di chitarre dietro. Ci sono galoppanti honky tonk alcolici il giusto (‘Hard Livin’’), chitarre che graffiano in profondità nello stomp rock di ‘Midnight To Memphis’, l’episodio più marcatamente rock di questa seconda uscita, e ballate dal fiero accento americano come ‘A Simple Song’ e ‘Drunkard’s Prayer’ o l’atsmosfera di frontiera tra polvere e cielo che si respira nella bella ‘Scarecrow In The Garden’.
Chris Stapleton si conferma uno degli ultimi depositari di una vecchia formula che tra gli anni sessanta e i settanta cercò di riscrivere la musica americana. Anche se un punto inferiore al debutto, che poteva giocarsi la carta sorpresa, rimane pur sempre due punti superiore per spessore e intensità alla media delle uscite odierne nel suo campo. Una delle migliori uscite discografiche americane di quest’anno. Il buon Stapleton è un songwriter di talento e con questa ambiziosa opera si assicura un posto lì, immediatamente dietro i grandi vecchi.



venerdì 1 dicembre 2017

THE FOUR HORSEMEN ( cantavano: "Rockin' is my business - business is good", mica vero. Una storia molto rock'n'roll)

THE FOUR HORSEMEN ( cantavano: "Rockin' is my business - business is good", mica vero. Una storia molto rock'n'roll)




1986: Stephen “Haggis” Harris (o Kid Chaos, scegliete voi) sta suonando il basso nel tour dei The Cult, dopo aver militato in svariate formazioni tra cui quella di Zodiac Mindwarp. La band di Ian Astbury e Billy Duffy è al top della fama, è appena uscito ELECTRIC, nel 1989 pubblicherà SONIC TEMPLE. Solo un pazzo lascerebbe una band del genere in quel momento. Ecco, quel fuori di testa è proprio Haggis. Al gallese emigrato a Los Angeles in cerca di fortuna, il ruolo di semplice comprimario va stretto, vuole una band tutta sua. "Senza di me stanno sicuramente meglio, almeno dal punto di vista finanziario, visto che non c'è più nessuno che sfascia lo stage ad ogni spettacolo" dirà della sua fuoriuscita dai The Cult. In soccorso arriva Rick Rubin, il re mida dei produttori, (produttore di Electric) che gli presenta un poco raccomandabile cantante italo americano, il suo nome è Frank C. Starr, il suo idolo è Bon Scott e ha la fama di attaccabrighe. Si narra che al primo incontro Starr si presentò con le mani sporche di sangue: si azzuffò fuori dallo studio di registrazione per trovare parcheggio (altre leggende dicono che pure Axl Rose uscì malconcio da una scazzottata con lui).
A completare la formazione: un tal Ken Montgomery, sopranominato “Dimwit” e fratello di Chuck Biscuits, batterista di Danzig ("aveva capelli unti, pochi denti e un osceno tattoo dei Black Sabbath su un braccio. Gli ho chiesto 'suoni?' e lui ha risposto: 'Sì, le pentole’” racconta Haggis in una vecchia intervista); alla seconda chitarra Dave Lizmi, fino ad allora conosciuto più alle famiglie a cui consegnava le pizze a domicilio; al basso Ben Pape ex Scream, band da cui uscì Dave Grohl prima di entrare nei Nirvana.
THE FOUR HORSEMEN è anche il titolo del primo EP, formato da sole quattro canzoni: ‘Welfare Boogie’, ‘Shelly’, ‘Highschool Rock n Roller’, Hard Lovin’ Man’. Nulla di originale, tanto che gli stessi membri del gruppo non nascosero le varie influenze, i ganci e i rimandi presenti (AC/DC e Status Quo su tutti). Ma se nel rock conta anche l’attitudine, i THE FOUR HORSEMEN ne avevano da vendere: il loro sporco southern rock sposava i riff hard blues degli AC/DC (“eravamo dei grossi fan degli AC/DC”), si invaghiva del polveroso boogie alla ZZ Top e flirtava appassionatamente con lo stile di vita “sex, drugs and rock’n’roll”. Insomma ce la mettevano tutta per essere irriverenti, sfrontati ma fottutamente veri, e la cosa riusciva loro molto bene.
"Siamo punk nello spirito, non nel tipo di musica. Gli anni settanta sono stati veramente grandi, mi piace sperare che possano tornare" Haggis. Una carriera che sembra prendere il volo con la registrazione del primo album NOBODY SAID IT WAS EASY (1991) trainato ironicamente dal manifesto ‘Rockin’ Is Ma’ Business’ (che poi il business andasse bene era tutta un’altra storia, ma poco importa), ‘Tired Wings’, ‘Wanted Man’(una sorta di autobiografia del cantante Frank Starr) e l’atipica ‘Moonshine’ con la voce di Starr registrata via telefono.
“La mie giornate sono intense (riparo auto, corro sui dragster, giro in moto e gioco a biliardo) e mi rifiuto di pianificarle attorno alla registrazione di un album. Mi avevano detto che avevo finito e io me ne sono tornato a casa. La canzone gliel’ho cantata al telefono.” Un album registrato in due settimane con Rick Rubin come produttore anche se “Rick non ha avuto alcun input nel disco, ci abbiamo messo talmente poco che non gli sarebbe stato possibile”. In mezzo ci sono importanti tour insieme a leggende come i Lynyrd Skynyrd e gli allora ancora poco conosciuti Black Crowes. “Non abbiamo smesso un momento dall’agosto 1991. 8 settimane con i Black Crowes, 7 con i Lynyrd Skynyrd, 4 con Joan Jett e 6 da soli. Lavoriamo sempre. Con i Lynyrd Skynyrd ci siamo veramente divertiti e, pare che l’apprezzamento sia stato reciproco”.
Oltre ad avere attitudine da vendere, i The Four Horsemen vendettero anche l’anima al diavolo. Dopo il primo disco, nel 1994, il batterista Dimwit morì per overdose, mentre il cantante Starr lasciò questa terra dopo un incidente motociclistico con i conseguenti anni di coma (tanti) nel 1999. La classica (anti) rockstar vittima dei suoi eccessi.
Intanto, tra una uscita di galera e l’altra di Starr, nel 1996 era uscito il secondo disco GETTIN’ PRETTY GOOD AT BARELY GETTIN’ BY (1996) dagli umori sudisti più marcati che aveva nella cover ‘Still Alive And Well’ di Rick Derringer e Johnny Winter il punto di forza. In mezzo: DAYLIGHT AGAIN, disco perduto con i soli Haggis e Lizmi al timone, registrato nel 1994 e rimesso in commercio solo nel 2009. Tutto molto rock’n’roll! Tutto troppo breve...








martedì 28 novembre 2017

RECENSIONE: NEIL YOUNG + THE PROMISE OF THE REAL (The Visitor)

NEIL YOUNG + THE PROMISE OF THE REAL  The Visitor (Reprise Records, 2017)






Dopo l’uscita di HITCHHIKER, l’anno di Neil Young poteva finire lì e saremmo stati tutti contenti. Facile direte voi: il Neil Young di quarant'anni fa vince sempre e porta a casa la partita. Invece no, ecco ricomparire la sua bulimica dose di canzoni che divideranno ancora una volta critici e fan. Più i primi come sempre. Chi lo stroncherà e chi gli darà nuovamente del genio. Confessiamolo: c'è sempre un sorta di timore davanti a un nuovo disco di Neil Young, eppure a differenza di tanti suoi coetanei riesce sempre a stupire, nel bene come nel male. PEACE TRAIL, uscito l’anno scorso aveva un'anima ben precisa, una traccia da seguire sulle orme dei nativi americani. Un grande album per me, forse capito poco.
THE VISITOR, il secondo, oltre all'atipico live EARTH, insieme ai Promise Of The Real  di Lukas Nelson e compagni (il fratello Micah, Corey McCormick, Anthony Logerfo e Tato Melgar: bello il loro disco di quest’anno) è molto più vario musicalmente mentre concettualmente poggia sulle riflessioni di un canadese davanti al paese (gli Stati Uniti) che lo ospita da più di mezzo secolo: un atto d'amore che in tempi di esodi di massa può far riflettere. Se da una parte le invettive (la risposta a Donald Trump nel southern rock di ‘Already Great’ dove gliele canta senza paura, sfidandolo e sognando un mondo senza: "No wall, no hate, no fascist U.S.A"canta) e gli slogan ripetuti all’infinito dell'ambientalista ‘Stand Tall’ sembrano riallacciarsi al mood di THE MONSANTO YEARS-sono anche le tracce più rock del disco-l'inno patriottico ‘Children Of Destiny’ che avanza stancamente in modo tronfio tra fiati, chitarre e orchestrazioni (i 56 elementi del Capitol Studios), ‘Diggin’ A Hole’, un blues corale, ma innocuo e un poco noioso nel suo incedere, e ‘When Bad Got Good’ un riempitivo inutile, dall'altra parte ci sono almeno quattro canzoni che fanno alzare notevolmente le quotazioni, questo quando Young osa e dimostra di sapersi ancora divertire con la musica.

‘Fly By Night Deal’ è un pezzo dal ritmo funk con il testo narrato e parlato, fresco e divertente, ‘Almost Always’ è una classica ballata chitarra e armonica in cui ricicla se stesso per la millesima volta (tra Harvest e Harvest Moon per intenderci, ma più il secondo), ma in fondo Neil Young che fa Neil Young è sempre un piacere sentirlo, mentre a sorprendere di più è l’altro pezzo acustico ‘Change Of Heart’, oscuro e notturno con un fischiettio come linea guida. I pezzi forti sono i più lunghi: la finale e melanconica ‘Forever’ ("il mondo è come una chiesa senza il prete" è la chiosa), dieci minuti che risvegliano antichi sapori ’70 e soprattutto ‘Carnival’, un Neil Young inedito e mai sentito prima che lungo gli otto minuti di durata ne combina di tutti i colori aggirandosi beffardo come un pazzo tra la sabbia del deserto, un luna park e il tendone di un circo, dove veste i panni di Carlos Santana a Woodstock, fa il verso a Dr. John tra percussioni latineggianti e rallentamenti a ritmo di valzer, e il tutto è molto psichedelico e sembra datato 1969. Sorprendente davvero. In retrospettiva il pezzo per cui The Visitor verrà ricordato in futuro.
Cosa dire? Ormai ad ogni uscita discografica io dico solo: questo è Neil Young, prendere o lasciare.
" Diretto verso il sole, ero grato di essere vivo e sulla strada di casa", così Neil Young chiude il suo libro Special Deluxe e così lo immagino ancora una volta: un uomo vivo (come chiamereste voi, un uomo con così tante idee?), con lo sguardo proiettato sempre in avanti (come spieghereste voi, un uomo così impegnato e fortemente convinto delle sue battaglie?) e nonostante tutto rassicurante come la strada più conosciuta, quella che ci porta verso casa.
★★★ 1/2 (5)



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