lunedì 21 giugno 2021
RECENSIONE: LUKAS NELSON & PROMISE OF THE REAL (A Few Stars Apart)
sabato 19 giugno 2021
RECENSIONE: RYAN ADAMS (Big Colors)
RYAN ADAMS - Big Colors (PAX AM Records, 2021)
gattini, sole e pioggia
"Farò uscire tre dischi in un anno", lo aveva promesso due anni fa quasi fosse una minaccia, prima che tutto iniziasse e lo travolgesse, e non sto parlando della fottuta pandemia. Accantonato (forse) lo scandalo che lo ha coinvolto (inutile ritornarci su viste le tante parole spese, buone e cattive) Ryan Adams si appresta a mantenere la parola e guardando al suo passato sappiamo che sarà proprio così: due dischi su tre sono già usciti in questi primi sei mesi del 2021. Il terzo arriverà a fine anno.
La cosa bella per ora è che sono tutti e due ottimi, pure diversi tra loro, anche se il velo di malinconia che li permea è lo stesso. Wednesdays era un campionario delle sue fragilità incollato su canzoni piene di sofferenza, acustiche e scarne, dai toni grigio scuro, Big Colors invece è un'esplosione di varietà, sia nei temi che musicalmente. "La colonna sonora di un film del 1984 che esiste solo nella mia anima", così l'ha presentato Adams. Il sole della California incontra la pioggia di New York, gli eighties musicali nel basso battente di 'Do Not Disturb' spettinati dal vento new wave, il rock'n'roll psychobilly in tinte dark della graffiante 'Power', una mosca fuor d'acqua che spezza e funziona lì in mezzo, il rock della pettyana 'Middle Of The Line' e di 'I Surrender' con il suo grido esistenziale, gli archi che accompagnano 'Showtime', l'omaggio a una città come Manchester che gli ha fatto conoscere tantissima musica, la componente acustica ancora ben presente in 'What Am I?' e 'In It For The Pleasure'. Gli ospiti Benmont Tench e John Mayer in 'Fuck The Rain'. La chitarra di Bob Mould in 'Summer Rain'.
Al mondo esistono quelli che di Ryan Adams si prendono tutto, pacchetto completo (pure l'introvabile Orion), quelli che lo hanno abbandonato dopo i primissimi dischi ("ah quel debutto ineguagliato!"), quelli che non lo sopportano da sempre ("un personaggio spocchioso!"), quelli che non lo hanno perdonato ("l'ha fatta troppo grossa questa volta!. Basta, l'uomo arriva prima dell'artista!"). Quelli che forse lo perdoneranno o l'hanno già fatto (" in fondo la legge non lo ha condannato! "). L'unica cosa certa è che Ryan Adams con questa doppietta ci dimostra che sta vivendo un momento di alta ispirazione. Perché non goderne?
"Big Colors vuole essere come un sogno ad occhi aperti, un disco che mi è arrivato più di quanto io l'abbia voluto". E allora è bello entrare ancora in questo sogno in sua compagnia. A parte il prezzo del disco non costa nulla.
domenica 13 giugno 2021
RECENSIONE: CEK FRANCESCHETTI (Sarneghera Stomp)
CEK FRANCESCHETTI Sarneghera Stomp (Slang Records, 2021)
incroci sul lago
Con un po' di immaginazione lo si può vedere il piccolo e curioso Andrea Franceschetti mentre in piedi davanti alle sponde del suo lago, sotto un cielo nero, tanti anni fa, attende l'arrivo della Sarneghera, nome dato alla forte tempesta proveniente da sud che si abbatte sul lago soprattutto nelle calde giornate estive, mentre da lontano una voce famigliare gli intima di rientrare presto in casa: potrebbe essere pericoloso. Siamo a Pisogne, l'ultimo dei paesi sul lago di Iseo salendo verso la bassa Valcamonica. Come la più violenta delle tempeste, il nuovo disco del bluesman bresciano irrompe in un momento che sa di rinascita, anche se dentro si porta dietro tutte le ansie, le paure, le perdite (il disco è dedicato al padre scomparso a inizio pandemia) e poi le speranze di un anno di lockdown che lo ha comunque visto nascere.
"All this world have been set on fire, I'm locked down in my room, I keep on punchin' my own hangin' bag I'm Spittin' out all my blood" canta nell'apertura 'Moanin' Rain'.
Dieci canzoni pure e genuine, violente e distese come la caduta dei chicchi di grandine sull'acqua, registrate in soli quattro giorni negli studi di registrazione dell'amico Carlo Poddighe a Brescia e masterizzato da David Farrel a New Orleans (USA), usando solo chitarra resophonica, voce e stomp. Non serve altro al Cek per farci capire con quanta naturalezza sa maneggiare il verbo del blues. Chi lo conosce lo sa bene, tutti gli altri dovrebbero cercare la data più vicina per farsene un'idea e lui è uno che non si formalizza troppo, potreste trovarlo anche sopra al tetto della casa adiacente alla vostra appena aprite la finestra al canto del gallo nelle prime ore del mattino, a qualunque ora del giorno o meglio della notte.
Non c'è il rischio di rimanere delusi ma di innamorarsene sì. Ma è un rischio che vale la pena di affrontare. Se togliamo le presenze "pesanti" di Andy J Forest (armonica in un paio di tracce), Luca Manenti (acustica in 'Maybe Tomorrow') e Roberto Luti, chitarra ospite in tre canzoni tra cui 'I Don’t Live Today' di Jimi Hendrix (una delle due cover presenti insieme a una sorprendente 'Maybe Tomorrow' degli Stereophonics che lo stesso Cek dice essere "un blues camuffato" già nella versione originale) qui dentro c'è la sua vera essenza primordiale. E come la Sarneghera, la cui nascita è avvolta nella leggenda di due innamorati morti sui fondali del lago d'Iseo, il Cek sa essere prima seducente ('Lady Lake'), poi minaccioso ('Chicks And Wine') e infine impetuoso nel gioco di squadra di 'Horny Dog'. Canta dei suoi affetti ('Home Lake Blues'), di un amico diavolo sempre dietro l'angolo ('Breakin' Deal') conclude il disco con una bellissima e sorprendente 'Nothin 'At All', acustica con voce fantasticamente impostata.
Passata la bufera, ritorna la calma. Ma attenzione tutto si ripete ciclicamente e quando meno te lo aspetti. Un occhio al cielo, uno alle acque del lago…e uno ai tetti se potete.
lunedì 7 giugno 2021
RECENSIONE: BILLY GIBBONS (Hardware)
BILLY GIBBONS Hardware (Concord REcords, 2021)
Un, dos, tres
Dopo la sbornia cubana di Perfectamundo, l'omaggio al blues di The Big Bad Blues, il terzo album solista di BILLY GIBBONS pare quello uscito meglio, sicuramente il più vario e divertente. C'è tutto il suo universo lungo più di cinquant'anni di onorata presenza lungo l'autostrada della musica. Modellato su blues polverosi in pieno ZZ Top style (lo shuffle di 'Shuffle, Stop & Slide' è esplicito all'inverosimile), possenti rock ('My Lucky Card' e 'S-G-L-M-B-B-R'), tuffi nei sixties in salsa surfer ('West Coast Junkie') che farebbero innamorare Quentin Tarantino, dove auto lucidate a nuovo e donne da amare e conquistare (il rock stonesiano 'She' s On Fire', 'More More More' con il suo riff in piena regola industrial anni novanta) viaggiano spesso insieme come avviene nella zztopiana 'I Was The Highway' dove si consuma pure un delitto, mentre la lenta e riflessiva 'Vagabond Man' si carica sul portapacchi migliaia di chilometri on the road, consumati di città in città, di tour in tour.
L' immagine dei deserti è predominante come ama ripetere nelle interviste: il disco è stato registrato a Palm Springs e nel misterioso spoken 'Desert High' compaiono pure i fantasmi di Gram Parsons e Jim Morrison, due le cui impronte nella sabbia paiono ancora visibili. Mentre nella straniante e psichedelica 'Spanish Fly' è inevitabile volare sulle ali delle sostanze stupefacenti.
C'è la sua inconfondibile chitarra che sparge assoli, la voce roca e consumata, una band formata da Matt Sorum (batteria) e Austin Hanks (chitarre) ormai super oliata che partecipa attivamente alla stesura dei brani (a parte la cover della latineggiante 'Hey Baby, Que Paso') e le giovani amiche Larkin Poe che rendono più sbarazzino e leggero il tosto blues 'Stackin' Bones'.
Potrebbe già essere il disco dell'estate con qualche settimana in anticipo. La temperatura è sicuramente quella giusta.
mercoledì 2 giugno 2021
RECENSIONE: BLACKBERRY SMOKE (You Hear Georgia)
greetings from Georgia
Pur reggendosi sulla leadership del cantante e chitarrista Charlie Starr, chi ha visto almeno una volta dal vivo la band sa quanto il lavoro di squadra sia il loro vero punto di forza. I loro concerti non deludono. Questo nuovo album, registrato in soli dieci giorni e già pronto da circa un anno ("ci siamo chiesti se era il caso di farlo uscire senza presentarlo dal vivo" dice Starr, la risposta è ora nelle nostre orecchie) sembra enfatizzare la loro forza da live band, anche grazie al lavoro in produzione, alla vecchia maniera analogica, dell'esperto Dave Cobb dentro agli storici RCA Studios A di Nashville. Al passato guarda anche il disegno di copertina, una cartolina dalla loro Georgia, terra di grandi band (dai Black Crowes andando indietro) ma anche di ingombranti luoghi comuni che proprio la title track vuole sfatare e portare a galla. Dentro a queste dieci canzoni c'è tutto ciò che è necessario per confermare quanto Gregg Allman lasciò detto qualche anno fa prima di morire, predicendo un roseo futuro, una cosa tipo "riporteranno il southern rock sulla giusta strada" che suonava un po' come una benedizione o un battesimo dentro alle acque del fiume Chattahoochee.
Una strada fatta di canzoni rock, solide, epiche e pesanti ('Morninside'), funky ('Live It Down'), tirate come 'All Rise Again' con la chitarra e la voce ospite di Warren Haynes, prima di una serie di pezzi che Haynes e Starr sembra abbiano scritto insieme. Ma anche di limpide e ariose camminate West Coast come 'Ain' t the Shame' anche se nel testo si narra dei problemi di un veterano di guerra, saltellanti funky colorati di nero che chiamano in causa i Little Feat ('Hey Delilah'), boogie da asfalto e polvere come 'All Over The Road' che ha il primigenio tiro dei concittadini Black Crowes, poi la loro immancabile country side che esce prepotente nell'acustica pennellata old style di 'Old Enough To Know' che guarda a Willie Nelson e in 'Lonesome For a Livin' un lento walzer insieme a Jamey Johnson, un omaggio a George Jones, leggenda della country music, scomparso nel 2013. 'Old Scarecrow' chiude con le chitarre di Starr e Paul Jackson in bella evidenza in una canzone caratterizzata da continue esplosioni elettriche.
Fa un po' sorridere leggere ancora in giro che i Blackberry Smoke siano considerati il futuro del southern rock vista l'ormai ventennale carriera, certamente rappresentano bene il presente di un genere che periodicamente, tra iella, disgrazie e grandi perdite, sa comunque come rigenerarsi. E nel genere, guardare al passato è fondamentale.
sabato 29 maggio 2021
RECENSIONE: JOHN HIATT With The JERRY DOUGLAS Band (Leftover Feelings)
ritorno a Nashville
Avevamo lasciato John Hiatt a farsi ispirare all'ombra di un'eclissi lunare, lo ritroviamo tre anni dopo chiuso dentro agli storici RCA Studio B a Nashville insieme a Jerry Douglas e la sua band a registrare un disco che esce fuori perfettamente riuscito e che in qualche modo chiude il lungo cerchio della sua carriera che proprio da Nashville prese il via. "Sono stato immediatamente catapultato al 1970, quando sono arrivato a Nashville" ha scritto nel suo sito. Stanze insonorizzate impregnate di storia che avvolgono Hiatt e Douglas in un abbraccio che pare quanto più famigliare. Certamente caldo e ispirato.
"Tutta la musica che è stata fatta lì, la puoi sentire uscire dai muri" racconta Hiatt.
Un reciproco rispetto tra i due nato lontano nel tempo ma che solo ora ha preso forme concrete "ho molto rispetto per lui, anche prima che avessimo mai fatto qualcosa insieme" spiega Douglas.
Si suona tutti uniti, con una classica strumentazione da bluegrass band: niente batteria ma violino, basso, chitarre elettriche e acustiche, su cui svetta la dobro di Douglas (anche un mago con la lap steel e produttore del disco) sono i soli ingredienti di queste undici canzoni elettro acustiche che come sempre abbracciano forte l'amore, la strada, la vita fino ad arrivare a toccare il suicidio del fratello Michael, avvenuto quando lui aveva solo undici anni nella crepuscolare 'Light of the Burning Sun', vero punto focale del progetto.
L'inconfondibile voce di Hiatt, che il tempo, (68 anni) ha reso solo un po' più roca, fa il resto. Un lavoro di sottrazione che tende ad arricchire, messo in piedi in sole quattro sedute di registrazione, buon esempio da seguire per chi è invece abituato ad aggiungere sempre e comunque, fino ad esagerare. Qualche buon up tempo rock'n'roll blues infarcito di groove come 'Long Black Electric Cadillac,' Little Goodnight e 'Keen Rambler', il country sbuffante di 'All The Lilacs in Ohio' e ballate country folk come 'The Music Is Hot', un vero atto di fede, e 'I'm in Asheville', fanno di Leftover Feelings l'ennesimo disco riuscito di una carriera tanto prolifica quanto tarata quasi sempre verso i livelli dell'eccellenza. Una continuità con l'intera carriera confermata anche dalla copertina, con quella tazza di caffè (o the?) che, pure con qualche capello bianco in più, sembra riportare al retro copertina di Bring The Family, certamente tra i suoi vertici di sempre.
domenica 23 maggio 2021
RECENSIONE: THE REVEREND PEYTON'S BIG DAMN BAND (Dance Songs For Hard Times)
THE REVEREND PEYTON'S BIG DAMN BAND Dance Songs For Hard Times (Family Owned Records,2021)
Torna quel "canotta a tutta chitarra" di Reverend Peyton, naturalmente insieme alla moglie Breezy sempre impegnata con la sua instancabile washboard e Max Senteney alla batteria: uno dei più bizzarri e genuini personaggi che popolano la roots music americana, talento innato di fingerpicking che negli anni si è guadagnato tante prime pagine nelle riviste specializzate di chitarre.
Un disco nato in piena pandemia che ha dovuto lottare duramente con il Covid e le sue conseguenze che hanno colpito da vicino la moglie, alcuni suoi famigliari e tanti amici, a volte anche in maniera durissima. Canzoni dai testi non troppo sereni (dalle pessime condizioni finanziarie eredità della pandemia cantate nel blues alla Bo Diddley d'apertura ' Ways And Means', all'aiuto dall'alto invocato in 'Come Down Angels' un gospel sui generis) ma che "surfano" su questi tempi difficili con la consueta irruenza e vivacità di sempre.
"Mi piacciono le canzoni che suonano felici ma in realtà sono molto tristi" dice lui.
Country blues innaffiato di rockabilly (la veloce 'Rattle Can'), l'irresistibile invito a cogliere l'attimo della ballabile 'Too Cool To Dance' ("sembra quasi una canzone degli anni '50 andata perduta" dice) , il blues di 'No Tellin' When' e 'Sad Songs', lo swamp boogie di 'Nothing Easy But You And Me' sono state registrate senza troppe sovraincisioni, cantate in presa diretta come se fossimo tutti seduti lì, intorno all'aia, circondati da porci, galline e fieno svolazzante. Naturalmente tutti vicini, abbracciati e con un bicchiere in mano perché la pandemia nel frattempo è svanita.
domenica 16 maggio 2021
RECENSIONE: AMIGO THE DEVIL (Born Against)
AMIGO THE DEVIL Born Against (Liars Club, 2021)
a tinte noir
Padre greco, madre spagnola, Danny Kiranos è un personaggio dai tratti inquietanti e gli occhi spiritati, ancora tutto da scoprire. Fisicamente mi ricorda il povero Bob Hite dei Canned Heat con meno grammi di panza in corpo. Arriva dal Texas, vicino ad Austin, questo è il suo secondo disco importante dopo Everything Is Fine del 2018 e avendo poco più di mezz'ora da dedicargli tra il monumentale box di Deja Vu e l'album di cover blues dei Black Keys, ne sono sicuro, qui dentro ho trovato alcune belle sorprese che valgono la pena d'essere ascoltate. Nulla di miracoloso e roboante ma canzoni scritte, costruite e suonate bene che pescano su più fronti, tanto ciniche e dalla lunga ombra inquietante trascinata dietro da essere morbosamente invitanti e accattivanti. Che ti fanno dire a fine disco:"aspetta, aspetta che lo riascolto".
Testi poco accomodanti i suoi, che narrano di sparatorie dentro a sale da gioco Bingo ('Murder At The Bingo Hall' è un racconto dal canovaccio teatrale che non sarebbe dispiaciuto ad Alice Cooper), di vendette ai danni di vecchi serial killer degli anni 30 ('Drop For Every Hour'), di ultime lettere dal braccio della morte ('Letter From The Death Row') , insomma popolate da gente poco raccomandabile, venuta al mondo con una missione da compiere che non sempre è quella più giusta e incanalata nelle vie della legalità.
Del titolo, estrapolato dalla canzone 'Quiet As A Rat' dice: "per me non è ancora chiaro se nasciamo in una tabula rasa e poi troviamo la fede o ci viene insegnata la fede, o siamo nati con una sorta di fede e poi la perdiamo o la riscopriamo lungo la strada?".
Una crocevia variegato e democratico dove il country folk alla John Prine ('Better Ways To Fry A Fish'), il Tom Waits sgangherato di Raindogs con tuba, chitarra e percussioni in stile New Orleans ( 'Quiet As A Rat'), i "cattivi semi" di Nick Cave sparpagliati qua e là, i crescendo orchestrali alla Glen Campbell ('Small Stone' è un'apertura sontuosa presentata da una voce non da meno), il country malinconicamente epico di 'Different Anymore', il bluegrass di '24K Casket' e il blues cucinato quasi crudo di 'Shadow' (eccoli i "semi cattivi") si succedono in una incombente atmosfera dalle tinte noir che sa avvolgere, confondere ma farsi piacere.
domenica 9 maggio 2021
RECENSIONE: TONY JOE WHITE (Smoke From The Chimney)
TONY JOE WHITE Smoke From The Chimney (Easy Eye Sound, 2021)
una voce da lontano
Io a Tony Joe White voglio un gran bene a prescindere: la sua voce potrebbe cantare qualsiasi cosa e sarei incantato davanti alla sua magnetica sagoma intagliata a suon di swamp rock. E anche oggi che White non c'è più da tre anni, la sua musica emana la stessa magia di sempre, dove i fantasmi delle paludi della sua Lousiana si risvegliano e sembrano imbracciare gli strumenti e suonare l'ultimo dei valzer in terra. Poco prima di morire il 24 Ottobre del 2018, aveva fatto uscire un disco intimo e tenebroso che sembrava un temporale minaccioso e incombente sulla sua esistenza. Si chiuse nel fienile della sua casa con una Stratocaster, pochi amici e suonò il suo ultimo blues. Fu un disco quasi premonitore, ridotto all'osso, arricchito solamente da sussurri e battiti di piede sulle assi del pavimento a fare ancor più spavento. Così diverso da questo, frutto di alchimie (ma nemmeno troppe) da studio di registrazione, ma assolutamente credibile e lo dico subito: riuscito, nonostante operazioni come queste siano sempre un alto rischio per chi le mette in pratica e altissimo per la reputazione di chi non c'è più e non può nemmeno prendere provvedimenti se non le distanze. Tutto è in mano al buon gusto degli eredi.
Ecco però spuntare quel prezzemolo di Dan Auerbach. Questa volta al buon Auerbach riesce pure di resuscitare i cari estinti: trasforma nove demo voce e chitarra, registrati da Tony Joe White durante gli ultimi quindici anni della sua esistenza (proprio come l'ultimo disco) in nove canzoni finite (bene), e complete. L'idea di lavorare con uno dei padri dello swamp rock risale a parecchi anni prima, quando i due si incontrarono ad un festival in Australia nel 2009 ma solo ora, grazie al l'intermediazione del figlio Jody White (ecco l'erede), è diventata reale e concreta. Meglio tardi che mai? Come al solito Auerbach ci mette i musicisti di Nashville, tra cui Billy Sanford alla chitarra, Paul Franklin alla pedal steel e Bobby Wood (Elvis Presley) al piano, in più un grande Marcus King alla chitarra elettrica a sostenere il groove di una circolare 'Bubba Jones', naturalmente l' etichetta Easy Eye Sound, la sua chitarra e la passione di sempre.
"Non è stato usato nessun computer" sottolinea Auerbach. La band ha suonato in presa diretta seguendo le tracce grezze lasciate da White.
Del primo singolo uscito, la cavalcata acida a lento trotto 'Boot Money' Auerbach dice anche: "una specie di serpente che striscia fuori dalla palude". E nel video cartoon i due sono disegnati insieme in un ipotetico studio di registrazione, ciò che Auerbach sognava potesse concretizzarsi prima o poi. Per una 'Del Rio You're Making Me Cry' che accarezza l'anima a passo di flamenco sollevando polvere texana, una 'Over You' che segue a ruota dando l' imprinting al disco (pigrizia e distensione sono la regola), l'ariosa 'Listen To Your Song' con il suo assolo di chitarra finale, c'è il tenebroso blues di 'Scary Stories', la magniloquenza orchestrale di 'Someone Is Crying', la ballata ' Billy' a chiudere. In mezzo alle canzoni, immagini fumose di uomini che stanno in piedi nonostante tutto e una notte perenne con la luce della luna a fare da unica via di fuga.
Operazioni delicate e sempre un po' discutibili queste, ma il risultato che si può ascoltare fin dalla prima canzone in scaletta, l'amabile country soul 'Smoke From The Chimney', non è affatto male. È tutta una questione di buon gusto e qui è stato usato con rispettosa devozione. Non conterà molto ma per me è un sì.
giovedì 6 maggio 2021
RECENSIONE: GARY MOORE (How Blue Can You Get)
GARY MOORE How Blue Can You Get (Provogue, 2021)
aperti gli archivi!
Ricordo ancora con un certo rimpianto la mia rinuncia a quel concerto di Gary Moore a Milano nel Luglio del 2010. Non ricordo il motivo della mia assenza ma ricordo benissimo che volevo assolutamente andarci. Ma chi poteva saperlo che fu l'ultimo in Italia: pochi mesi dopo, il 6 Febbraio del 2011, il suo corpo fu trovato esamine dalla sua compagna in una stanza d'albergo nella Costa del Sol in Spagna. Sono passati dieci anni, mentre io continuo a vangare tra i ricordi cercando una valida motivazione alla mia assenza, esce sul mercato quello che a tutti gli effetti si può considerare il primo disco postumo di inediti (nel 2012 uscì il live Blues For Jimi). Otto canzoni sono forse poche per questo primo evento ma la qualità è veramente buona e sicuramente ora che gli archivi sono stati aperti, questa uscita non rimarrà isolata per molto tempo. Il Gary Moore passato in rassegna è quello della svolta blues partita da Still Got The Blues (1990) e arrivata fino alla morte con l'ultimo disco inciso Bad For You Baby (2008). Ad accompagnare Moore ci sono il bassista Peter Rees, le tastiere di Vic Martin e le batterie di Darrin Mooney e Graham Walker. Un disco che ricalca le uscite di quel periodo, dove cover, riletture e brani inediti vengono assemblati insieme. Qui troviamo quattro cover: una torrenziale 'I'm Tore Down' di Freddie King dai toni quasi hard, canzone che Moore amava spesso presentare durante i suoi live, un'altra vivace, strumentale e travolgente 'Steppin' Out' di Memphis Slim, lo standard di BB King 'How Blue Can You Get' del 1964 che da il titolo al disco e una frizzante 'Done Somebody Wrong' di Elmore James. Le quattro canzoni firmate da Moore sono la notturna 'In My Dreams' ballata con Moore che fa piangere la sua chitarra, il quasi rural blues 'Looking At Your Picture' e poi due rivisitazioni di suoi vecchi brani: 'Love Can Make A Fool Of You' ripescata da Da Corridors Of Power del 1982, ripulita dagli orpelli anni ottanta e trasformata in un blues malinconico con un grandissimo assolo, infine 'Living With The Blues', un'altra classica ballata dal tocco alla Gary Moore a chiudere il disco.
A Moore non importava troppo vendere dischi, l'importante era rimanere sempre onesto e in linea con le proprie idee musicali. Probabilmente, però, questo disco venderà di più rispetto agli ultimi dischi in vita, usciti un po' in sordina e dimenticati in fretta. Ne sono sicuro.
In un'intervista rilasciata al Belfast Telepraph a proposito delle sue smorfie mentre suonava disse:" potrebbero essere di dolore o di piacere. La gente mi prende in giro per questo, ma non c'è nulla di artificioso. Quando suono mi perdo completamente e non sono nemmeno consapevole di quello che sto facendo con la mia faccia - sto solo suonando ".
E in questo disco suona ancora molto bene tanto da riuscire ad immaginare quelle smorfie sul suo volto.
martedì 27 aprile 2021
RECENSIONI: LUCA ROVINI & COMPANEROS (L'ora Del Vero), ANTHONY BASSO, STAGGERMAN (Eight Crows On A Wire)
sabato 24 aprile 2021
RECENSIONE: TOM JONES (Surrounded By Time)
TOM JONES Surrounded By Time (2021)
il lento passo degli anni
L'altra sera Ornella Vanoni, ospite in un programma televisivo, l'ha buttata giù dura e chiara: "sono l'unica che alla mia età incide un disco di inediti. Di solito si fanno solo dischi di vecchi successi". Chissà forse era una frecciatina indirizzata anche al buon Tom Jones. Negli ultimi dieci anni però il signor Jones si è rimesso completamente in gioco e ha fatto uscire tre dischi, tra gospel, folk, R&B, country e americana, uno più bello dell'altro: Praise & Blame nel 2010, Spirit in the Room nel 2012 e Long Lost Suitcase nel 2015. Oggi a ottant'anni, quasi 81, a sei anni dall'ultimo, torna con SURROUNDED BY TIME, un disco di cover (eccolo!) nuovamente sotto la produzione di Ethan Johns. Ascoltando il nuovo brano 'Talking Reality Television Blues' che aveva anticipato il disco, una spoken song scritta da Todd Snider che vaga in tutta libertà tra la storia della televisione e le tappe che l'hanno caratterizzata sembrava proprio che pur arrivato a quella età, il gallese non avesse ancora mollato la presa, non stanco di mettersi ancora una volta in gioco. E ora che abbiamo tutto l'album si può confermare, anche se le prime canzoni sono abbastanza spiazzanti rispetto a quanto ci aveva abituato nei precedenti dischi: 'I Won't With You If You Fall' di Bernice Johnson Reagon, 'The Windmills Of Your Mind' , 'PopStar' di Cat Stevens e 'No Hole In My Mind' diMalvina Reynolds (con il sitar suonato da Ethan Johns) hanno suoni sintetici, elettronici, lenti, cupi, spesso guidati da moog e tastiere, feedback e riverberi, sembrano giocare con l'inesorabile trascorrere del tempo, della vita, ma la voce di Jones si staglia prepotente e ipnotizzante su tutto.
Se in 'In Won't Lie' dell'astro nascente Michael Kiwanuka mette sul piatto la sua età e si avvicina a grandi passi alle American Recordings di Johnny Cash e con 'This is The Sea' dei Waterboys che ci dimostra tutta la sua grandezza: sono sette minuti di crescendo folk soul che pochi al mondo possono condurre con questa naturale autorevezza. Sicuramente il miglior pezzo del disco. Troviamo poi una rivisitazione di 'Ole Mother Earth' di Tony Joe White, una straordinaria 'One More Cup Of Coffee' dell'amato Bob Dylan, spogliata dei suoni di frontiera alla Desire e gettata in pasto voce, chitarra, basso, batteria e moog. 'Samson And Delilah', è un rock’n’roll ridotto all'osso che lascia una scia di freddo dietro di sé. Ma mentre 'I'm Growing Old', una cover di Bobby Cole del 1967, guidata dal pianoforte, mette sul tavolo tutto il peso dell'età, i nove minuti finali di 'Lazarus Man' di Terry Callie, la smentiscono immediatamente con una versione che vola verso la psichedelia e la vita.
Tom Jones continua a non dare limiti alle sue interpretazioni, è la sua storia che glielo permette e il capitolo finale è ancora lontano nonostante l'amara consapevolezza, dettata anche dalla perdita dell'adorata moglie Linda, scomparsa nel 2016 e dalla malattia degli ultimi anni, che il tempo rimasto là davanti non sia più molto:"stare sulla strada. Questa è la cosa che mi è mancata di più. Sto aspettando il mio tempo, ma non ho molto tempo da aspettare. Non voglio avere 90 anni prima di poter tornare di nuovo sulla strada! ".
mercoledì 21 aprile 2021
RECENSIONE: DAVID OLNEY and ANANA KAYE (Whispers And Sighs)
DAVID OLNEY and ANANA KAYE Whispers And Sighs (Appaloosa Records, 2021)
l'ultimo saluto
"Mi dispiace": con queste parole David Olney, chitarra ben stretta in mano, si è accomiatato dal mondo. È successo il 18 Gennaio del 2020 durante un suo concerto al 30A Songwriters Festival a Santa Rosa Beach, in Florida.
Non era ai saluti finali, non era un semplice "arrivederci alla prossima" dato in pasto al suo pubblico, era solo alla terza canzone quando il suo cuore non ha più retto. Era veramente un addio al mondo. Improvviso. Inaspettato. Sul palco. Dieci anni prima era stato operato a quel complicato organo che tiene in piedi tutto ma il peggio sembrava essere passato. Sembrava. Olney aveva 71 anni e sebbene non arrivò mai al grande successo di pubblico, è stato uno dei songwriter di Nashville più amati e saccheggiati: da Johnny Cash a Townes Van Zandt (che una volta disse "ogni volta che qualcuno mi chiede chi sono i miei autori musicali preferiti, dico Mozart, Lightnin 'Hopkins, Bob Dylan e Dave Olney") da Emmylou Harris a Steve Earle, in tanti hanno cantato le sue canzoni. Prima di morire, però, aveva portato a compimento un piccolo grande sogno, che lui stesso disse essere ambientato in un'epoca tra il 1890 e il 1920. Durante il sogno, ubicato in una città apparentemente non esistente (ma che Olney indica simile a Parigi o Vienna), era in corso una guerra (nella dolente 'My Last Dream Of You' ci sono gli ultimi ricordi di un soldato in punto di morte) ma tutto intorno però fioriscono e svaniscono amori e amicizie. In 'Behind Your Smile' cantano di quanto sia importante avere qualcuno che condivida i tuoi stessi sogni. Insomma, nonostante tutto, si respira ottimismo a pieni polmoni
Già i sogni. Nel sogno di Olney, in quella città, c'è perfino un bistrò vicino alla strazione ferroviaria dove incontra due musicisti di Nashville. Una coppia artistica e nella vita: la giovane cantante di origine georgiana Anana Kaye, 26 anni, e suo marito Irakj Gabriel, chitarrista. È però tutto vero. I frutti di questo incontro artistico sono documentati in alcuni video presenti su Youtube.
Su tutto l'album sembra sempre calare l'oscurità portata in dote dalle voci della Kaye e dalla straordinaria interpretazione dello stesso Olney che si alternano al canto in canzoni dove Americana e cultura dell'Est Europa si incrociano in modo divino.
Aleggia un tono greve che sa di antico, di passato, imbastito da arrangiamenti d'archi e pianoforte ('Whispers And Sighs'), dalla teatralità su cui è costruita 'The World We Used To Know', dalle ballate acustiche dolenti come 'Tennessee Moon' e la quasi preveggente 'My Favorite Goodbye', dalla waitsiana e notturna 'Thank You Note' fino alla finale 'The Great Manzini', quasi un connubio perfetto tra Leonard Cohen e Nick Cave.
Ma non mancano un paio di scosse elettriche come 'Lie To Me, Angel' e la stonesiana 'Last Days Of Rome' con un riff alla Keith Richards, un sax a sbuffare fumo e con Olney che sembra quasi darsi al rap in quella che è forse la canzone più particolare e staccata dal contesto.
Un lavoro certamente ambizioso, non facile, ma riuscitissimo. Se entrate nel mood verrete ripagati. Ecco, quando Olney esclamò quel "mi dispiace" prima di accasciarsi sul palco, forse nel suo debole cuore sapeva che questo suo ultimo sogno prima o poi si sarebbe avverato. Vista la qualità non poteva rimanere nascosto per troppo tempo.
lunedì 12 aprile 2021
RECENSIONE: SUZI QUATRO (The Devil In Me)
SUZI QUATRO The Devil In Me (SPV/Steamhammer, 2021)
un diavolo per capello
A Suzi Quatro non si può non volere bene, soprattutto dopo essere caduti innamorati davanti ai suoi attillati vestiti di pelle nera, al suo basso pulsante, alla sua ribelle carica giovanile. Erano gli anni settanta e potevi avere dieci anni, venti o cinquanta ma lei in qualche modo riusciva a catturarti senza mettere in campo troppi ammiccamenti o pose sexy. Posò pure per Penthouse: vestita di pelle naturalmente, ma non la sua. Non era da tutte.
Potevi averla conosciuta con le note di '48 Crash', 'Can The Can' o nascosta sotto gli abiti di Leather Tuscadero, praticamente i suoi, in Happy Days ma difficilmente passava inosservata senza lasciare segni futuri. Chiedere alle riot girl che arriveranno dopo di lei.
Ora che di anni ne ha settanta (eh, non si dovrebbe dire ma credo che a lei interessi poco), dice di aver registrato il suo miglior disco di sempre. Non so se abbia ragione o meno (gli artisti dicono sempre così dei loro ultimi dischi), so solo che questo nuovo album prosegue diritto nella stessa direzione del precedente No Control uscito due anni fa: davanti a tutto c'è la libertà artistica che può permettersi a questo punto della carriera. Ad aiutarla in fase compositiva e alla chitarra c'è ancora una volta il figlio Richard Tuckey, frutto del suo primo matrimonio ma soprattutto buona spalla su cui appoggiarsi per riprendersi un posto che le spetta di diritto.
The Devil In Me è un disco fresco, vario e vivace, fatto di tante chitarre ma anche di momenti di grande atmosfera blues. Pieno di belle canzoni che non hanno grandi pretese se non quella di dimostrare che se hai il groove e il rock'n'roll sotto le unghie a vent'anni continui a graffiare anche a settanta.
Se agli estremi troviamo ancora il pulsante rock'n'roll che ci ricorda il passato, certo il bubblegum non è più di moda e si è pure indurito un po', quello con il riff di chitarra più moderno e hard dell'iniziale tite track, quello glam, boogie e on the road della finale 'Motor City Riders', in mezzo troviamo anche tutta la maturità di un'artista che ama ancora giocare con il pop ('You Can' t Dream It'), il soul ('My Heart And Soul'), il blues (la scatenata 'Get Outta Jail'), con notturni R&B ('Isolation Blues' e 'Love' s Gone Bad') e con la ballata "In The Dark' che ne svelano una inaspettata ma vincente anima da soul crooner. È pur sempre figlia di quella Detroit musicale, quindi del rock'n'roll e della Motown, si percepisce.
Ah dimenticavo: Suzie Quatro indossa splendidamente anche i suoi anni maturi, senza trucchi e senza inganni.
lunedì 5 aprile 2021
RECENSIONE: SMITH/KOTZEN (Smith/Kotzen)
SMITH/KOTZEN Smith/Kotzen (BMG, 2021)
la forza di coppia
Due artisti che non hanno bisogno di troppe presentazioni: per Adrian Smith basta seguire la storia degli Iron Maiden dall'inizio fino ad oggi, togliendo gli anni novanta comunque passati in compagnia di Bruce Dickinson solista, per Richie Kotzen oltre a una carriera solista consolidata e costruita su ormai tanti dischi, ci ricordiamo anche dei tanti gruppi a cui ha prestato chitarra e voce (Poison, Mr. Big, Mother Head's Family Reunion, Winery Dogs). E di uno come Richie Kotzen io mi sono sempre fidato, ancor di più dopo averlo visto dal vivo: artista completo, non solo chitarra ma grande autore e una voce più che interessante e sorprendente. Per questo debutto la strana coppia (ma mica tanto) ha deciso di fare quasi tutto da sola: i due intrecciano le loro chitarre, suonano il basso un po' a testa, Kotzen si siede addirittura dietro alla batteria (lasciata a Nicko McBrain nella tirata 'Solar Fire' e a Tal Bergman in altre tre tracce) e si alternano al microfono come fossero David Coverdale e Glenn Hughes in Stormbringer dei Deep Purple, disco che gli stessi Smith e Kotzen hanno indicato come uno dei fari guida.
Registrato presso le isole caraibiche di Turks e Caicos, queste nove canzoni sono il risultato di un sodalizio che premeva da alcuni anni dietro a prolungate jam tra i due a Los Angeles. "Tra noi c'è stata una scintilla!" dice Kotzen.
Era partito tutto con la composizione di 'Running', rock roccioso e carico di groove, si è sviluppato in nove brani, lunghi, hard ('Taking My Chances'), articolati, melodici (la distesa 'I Wanna Stay') dove l'amore per il blues fa da collante (tra le migliori la notturna 'Scars') ma dove ognuna delle due parti ha portato le proprie esperienze e virtù.
"La prima canzone che abbiamo effettivamente sviluppato è stata 'Running' , a quel punto ho pensato: 'va bene qui sta succedendo qualcosa'. Quando poi abbiamo fatto 'Scars', che penso fosse la seconda traccia che abbiamo messo insieme, a quel punto ho pensato che avessimo davvero qualcosa di speciale" racconta Kotzen.
Così se l'hard funk di 'Some People' e gli umori southern con l'andatura alla Free di 'Glory Road' sono iscrivibili a Kotzen e al suo sempre troppo dimenticato progetto southern Mother Head's Family Reunion, l'articolata 'Til Tomorrow' sembra uscire da un disco solista di Bruce Dickinson o dal mai troppo osannato Brave New World degli Iron Maiden così come l'epicità di You Don't Know Me'. Non ci saranno canzoni memorabili ma tutto il disco suona compatto, vivace e vero. Se i due avranno la voglia di proseguire su questa strada ne sentiremo delle belle.
martedì 30 marzo 2021
RECENSIONE: NEIL YOUNG (Young Shakespeare)
NEIL YOUNG Young Shakespeare (Reprise Records, 1971/2021)
same old song (but I like it)
I concerti al Cellar Door di Washington DC, quello al Massey Hall di Toronto e ora questo allo Shakespeare Theatre di Stratford, nel Connecticut, sono solo tre delle sei date suonate a pochi giorni l'una dall'altra tra la fine del 1970 e i primi giorni del 1971 con un Neil Young non in grandissima forma fisica che forse avrebbe voluto tenere tra le mani una chitarra elettrica e avere i Crazy Horse dietro, ma che invece si ritrova solo, seduto su una sedia al centro di piccoli palchi con una chitarra acustica e un pianoforte (durante il concerto scherzerà pure sulle sue capacità allo strumento).
Dietro ha comunque un anno straordinario come il 1970 che lo ha visto protagonista prima con Deja Vu insieme a Crosby, Stills e Nash, davanti un futuro che se non è ancora scritto è però già imbastito a dovere da canzoni presentate per la prima volta in pubblico. Ecco 'Old Man', 'The Needle And The Damage Done', uno stupendo medley al pianoforte tra 'A Man Needs A Maid' e 'Heart Of Gold' che usciranno su Harvest solo un anno dopo.
"Per i due anni seguenti l'uscita di After The Goldrush e Harvest facevo dentro e fuori dagli ospedali: ho un lato debole, la schiena e così non riuscivo a sostenere la chitarra. Questo è il motivo per il quale nel mio tour da solo stavo sempre seduto, non riuscivo a muovermi bene" dirà in una intervista a Rolling Stone.
Sorvolando sull'aspetto prettamente speculativo di questa ennesima uscita (c'è comunque il DVD con le immagini della serata nella versione deluxe insieme al vinile), il bombardamento di uscite discografiche che sta investendo i fan di Neil Young in questo inizio 2021 è da terza guerra mondiale (parlo naturalmente della guerra che vorremmo tutti: fatta di amore, pace e tanta musica), anche Young Shakespeare pur avendo le stesse canzoni che troviamo sparse tra Cellar Door e Massey Hall, e che abbiamo mandato a memoria (a parte una 'Sugar Mountain' nel finale durante la quale Young invita il pubblico a cantare con lui), è l'ennesimo disco dall'atmosfera raccolta e magica con un Young che sta vivendo una dei suoi massimi momenti creativi di sempre. A soli tre giorni dall'osannato concerto di Toronto, queste dodici tracce, registrate il 22 Gennaio 1971, si differenziano per l'alto tasso di intimità che permea le esecuzioni (Young parla, scherza e introduce alcune canzoni) lontane dall'esuberanza del pubblico amico del Massey Hall, rumoroso e presente con mani, grida e pure piedi.
Dopo la facciata elettrica mostrata con i Crazy Horse dei primissimi anni Novanta con il live Way Down In The Dust Bucket ecco anche l'altro lato della sua musica. Per me è sempre stata dura scegliere una delle due. Ho sempre preso entrambe senza distinzioni. Prendo Neil Young tutto intero.
RECENSIONE: NEIL YOUNG With CRAZY HORSE - Way Down In The Rust Bucket (Reprise Records, 2021)
mercoledì 24 marzo 2021
RECENSIONE: ISRAEL NASH (Topaz)
ISRAEL NASH Topaz ( Loose Records, 2021)
il grande volo
Qualche mese fa in pieno primo lockdown fui catturato per l'ennesima volta dalle splendide foto di Henry Diltz, scattate tra la fine degli anni sessanta e i pieni settanta tra Laurel Canyon e la California tutta. Non nascondo che se proprio volete buttarmi dentro a un periodo storico legato alla musica vorrei finire lì dentro, affacciato alla finestra della casa di Joni Mitchell, scavalcare il recinto del Broken Arrow Ranch di Neil Young come fosse la staccionata dell'olio Cuore, farmi crescere i baffoni a manubrio alla David Crosby possibilmente con quel carisma annesso. Questo per dirvi che ascoltando questo sesto album di ISRAEL NASH ho avuto lo strano stesso desiderio: voglio finire qui dentro, anche se i suoi testi, a parte alcuni pungenti riferimenti alla non felice vita politica della sua America, sembrano troppo personali e introspettivi per far posto a qualcun altro. Mi metterò in un angolo ad osservare. Ad ascoltare prima di tutto. Voglio finire qua dentro perché TOPAZ (titolo rubato al nome di un motel) è un gran bel disco, fin dalla copertina. Ecco: finalmente c'è ancora qualcuno che ci crede a queste cose, alle belle copertine dico. Un disco, inciso quasi in presa diretta nella sua casa a Austin in Texas con la produzione di Adrian Quesada (uno dei due Black Pumas), che sa viaggiare lontano da qualunque lato si inizi l'ascolto. Siamo sullo stesso campo di gioco del primo Jonathan Wilson, di Ryley Walker. Country folk (la ballata 'Canyonheart' tra Neil Young e Dylan) imbevuto di morbidezza acida ('Dividing Lines'), squarci psichedelici sognanti e cosmici ('Southern Coasts') e scaldato a forti dosi di fuoco soul ('Stay', 'Down In The Country', 'Pressure'), cori gospel ('Closer') e fiati. Certamente un posto affascinante dove poter stare ed è bello che qualcuno continui ancora a crearli posti così, anche se solo con la mente. Io ci sarò.
giovedì 18 marzo 2021
RECENSIONE: PETER CASE (The Midnight Broadcast)
PETER CASE The Midnight Broadcast (Bandaloop Records, 2021)
the last dj
Ascoltando questo nuovo disco di Peter Case, le prime immagini che mi sono venute in mente sono arrivate direttamente dai primissimi anni ottanta, quando con la macchina dello zio si vagava a tarda sera per le stradine che delimitavano i campi di frumento delle campagne di Pordenone e provincia in cerca di quei strani segni, bruciature, che i più fantasiosi attribuivano alla calata in terra di qualche navicella extraterrestre. Gli UFO erano tra di noi e sembrava che tutte le estati venissero a trovarci. Ricordo che zio era un appassionato di CB (o baracchini) e nella sua macchina era un continuo andare e venire di segnali radio, con voci, rumori e fischi che si sovrapponevano di continuo. Comunicava con tutto il mondo così. In un'era pre internet sembrava una cosa veramente magica e "spaziale" appunto.
"Un tentativo di catturare la sensazione che ho provato in innumerevoli viaggi durante la notte americana con la radio accesa", così Peter Case descrive questo disco: una raccolta di canzoni altrui (l'unica sua è in apertura e s'intitola 'Just Hangin 'On') spesso interrotte dalle voci e dai più vari e fantasiosi discorsi di dj radiofonici che cercano di tenere sveglio l'ascoltatore solitario al volante mentre dal finestrino scorrono veloci i paesaggi dell'America più profonda. Un disco di un certo fascino. Straniante, solitario, scuro, lo-fi, fatto di folk blues minimale, chitarra e voce, a volte solo organo e voce, essenziale che va indietro a scavare e riprendere le radici della musica americana. E qui Peter Case è un vero campione. Da traditional come 'Stewball' e 'Captain Stormalong', passando per 'Farewell To The Gold' di Paul Meters, 'When I Was A Cowboy' (conosciuta nella versione di Ledbelly), 'President Kennedy' di Sleepy John Est e arrivando a un recente Bob Dylan con 'Early Roman Kings' (da Tempest) e The Band con 'Wheels On Fire', scritta ancora da Dylan con Rick Danko.
Peter Case si conferma come uno dei più straordinari studiosi delle radici musicali americane e questo album possiede un fascino quasi sinistro e inquietante in grado di trasportare l'ascoltatore indietro quando le foto erano ancora in bianco e nero e la radio un lusso per pochi. E se non riuscite a immaginare quelle strade cantate da Case (e registrate nel 2019 alla Old Whaling Church) certamente vi verrà in mente un vostro ricordo legato all'asfalto, a quattro ruote che vi girano sopra veloci , un volante e quella radio tenuta accesa a far compagnia durante le ore più buie di una qualunque giornata di tanti anni fa.
giovedì 11 marzo 2021
RECENSIONE: THOM CHACON (Marigolds And Ghosts)
THOM CHACON Marigolds And Ghosts (Pie Records, 2021)
le cose semplici
Sangue metà libanese, metà messicano, nato a Sacramento ma proveniente da Durango, un vecchio cugino pugile, Bobby Chacon, avversario di quel Ray “Boom Boom” Mancini cantato da Warren Zevon e un nonno sceriffo nel New Mexico ai tempi di Billy The Kid. Basterebbero tutte queste coordinate per capire quanto per Thom Chacon i confini non siano alti muri invalicabili ma semplici linee da attraversare con curiosità e speranza in cerca di buone opportunità di vita, proprio come canta in 'Borderland' dove denuncia le condizioni dei bambini sul confine tra USA e Messico o la terra promessa sognata dagli immigrati raccontata in 'A Better Life'.
Marigolds And Ghosts è il suo terzo disco dopo il debutto del 2013, ancora il mio preferito con quel suono che mi ricordava tanto John Wesley Harding, e di Blood In The USA di tre anni fa. Tom Cachon non è un rivoluzionario, non lo diventerà mai, credo, ma un onesto operaio che sa raccontare storie di pancia e cuore, sangue e lacrime, speranza e disillusione. Per farlo non si complica la vita, usa sempre il modo più semplice possibile: strumentazione basilare da country folker (la sua chitarra acustica e l' armonica, il contrabbasso suonato da Tony Garnier, vecchia conoscenza per chi segue Bob Dylan), e una voce calda, roca e profonda (proprio come Ryan Bingham) che si fa per forza ascoltare mentre canta sì di disperazione ma anche di cose più intime e private: la storia di un amico che ha passato cinque anni tra le sbarre ('Marigolds And Ghosts'), la vita che scorre tra paesaggi americani che catturano gli occhi e i pensieri ('Mansoon Rain'), I ricordi legati alla nonna materna ('Florence John' con la dobro di Tyler Nuffer), la sua infanzia senza i genitori ('Kenneth Avenue'), la fede ('Sorrow', 'Church Of The Great Outdoors') o più semplicemente l'infatuazione verso personaggi da film Western come Lee Van Cleef ('Angel Eyes').
Questa volta sembra ancora tutto più semplice, tutto ridotto all'osso perché insieme al produttore Perry A. Margouleff ha deciso di registrare queste nove canzoni live su nastro analogico, mettendo in risalto il più possibile le storie, esaltando il messaggio ben amplificato dalla sua voce certamente d'impatto, graffiante e riconoscibile.
sabato 6 marzo 2021
RECENSIONE: ANDERS OSBORNE (Orpheus And The Mermaids)
ANDERS OSBORNE Orpheus And The Mermaids (5th Ward Ent, 2021)
folk solitario
Cosa gli sia rimasto di svedese, ora che anche i capelli e barba sono bianchi come un vecchio bluesman della Lousiana, lo custodisce lui nel suo profondo. Trent'anni di New Orleans come minimo vuol dire averci messo tante radici da sembrare il perfetto padrone di casa di quelle terre americane dove decise di fermarsi poco più che ventenne. Ha vangato quella terra, ha respirato la musicalità presente nell'aria di quei luoghi. Ha messo tutto in musica. Ha cesellato dischi straordinari come Which Way To Here (1995) e Living Room (1999), canzoni più cupe e scure come quelle contenute in American Patchwork (2010) e Black Eye Galaxy (2012) e cose più bizzarre e giocose come quelle di Peace (2013), sfrontato fin dalla copertina.
L'ultimo Buddha And The Blues (2019) era il suo disco dalle atmosfere solari e californiane, west coast, e questo nuovo sembra proseguire nella stessa direzione anche se in modo diverso. Solitario e senza compagnia si tuffa completamente nel folk con qualche puntata nel blues (la ritmica 'Welcome To Earth'). Semplice e diretto. Solare ('Light Up The Sun'). Nove canzoni incredibilmente riuscite, come sempre, ispirate, costruite con sola voce, chitarra acustica e qualche armonica (l'apertura da viaggio on the road 'Jacksonville To Wichita', la riuscita e dylaniana 'Last Day In The Keys', 'Dreamin'), cantate divinamente e con la solita chitarra ispirata a ricamare (la slide di 'Pass On By'). Elettrico o acustico poco importa, Osborne sa scrivere canzoni quindi difficilmente sbaglia un disco. Eccone un altro da mettere in fila. Rimane solo il mistero della reperibilità fisica di questo disco. Al momento si può trovare solo il vinile con allegato merchandise, ordinabile dal suo sito. Aspettiamo...
lunedì 1 marzo 2021
RECENSIONE: NEIL YOUNG With CRAZY HORSE (Way Down In The Rust Bucket)
giovedì 25 febbraio 2021
RECENSIONE: ALICE COOPER (Detroit Stories)
ALICE COOPER - Detroit Stories (earMUSIC, 2021)
ritorno a casa
"Detroit ci calzava come un guanto. Stooges, MC5, Amboy Dukes, Bob Seger e adesso… Alice Cooper! Eravamo dentro".
1970, così Alice Cooper annunciava il trasferimento della band dalla scena di Los Angeles alla città di Detroit. Per lui un ritorno a casa, per la band il trampolino di lancio verso il successo dopo due dischi sotto l'ala protettrice di Frank Zappa, tanto originali quanto passati inosservati nel ricco mercato discografico dei tempi. Tante le cose che cambiarono: la loro musica, il loro aspetto, gli spettacoli, l'etichetta discografica (ecco la Warner!), il produttore (ecco il giovane Bob Ezrin!, all'epoca solo diciannovenne).
"La scena hard rock di Detroit era vibrante, quasi magica. Potevi andare in un club e vedere cinque o sei incredibili band in una stessa sera...era il centro dell'universo rock" ricorda Ezrin.
Alice Cooper: "Detroit era l’unico luogo che riconobbe il tipico sound hard rock e i nostri spettacoli folli dal vivo. Detroit era un porto sicuro per gli emarginati… eravamo a casa.”
E in quella casa Alice Cooper ci ritorna oggi dopo cinquant'anni, anche se ci era già tornato più volte, l'ultima con l'album Paranormal, uscito nel 2017. Ma attenzione non è un ritorno nostalgico, perché Alice Cooper durante la sua carriera ci ha dimostrato di prendere spunto dal passato per guardare sempre avanti. Sa stare al passo con i tempi senza mai forzare la mano. La variegata discografia parla chiaro. E a 73 anni è ancora in forma smagliante e dopo averlo visto dal vivo poco meno di due anni fa lo posso confermare: uno dei concerti più divertenti che abbia visto negli ultimi anni. E proprio due anni fa fece uscire un EP, Breadcrumbs, che sembrava già anticipare le sue future mosse. Fu la presentazione di un progetto molto più ampio che aveva in mente. Alcune tracce come il proto punk di 'Go Man Go', l'hard rock di 'Detroit City 2000', sua vecchia canzone ripresa e aggiornata dove vengono citati Mc5 e la Motown, alcune cover come 'Sister Anne' degli MC5, 'East Side Story' di Bob Seger vengono riprese anche qui.
Certo, la presenza di vecchie volpi come il produttore Bob Ezrin (un sodalizio resistente il loro) e musicisti ospiti come Wayne Kramer (MC5), Johnny ‘Bee’ Badanjek (batterista dei Detroit Wheels), i chitarrista Steve Hunter (The Detroit Wheels) e Mark Farmer (Grand Funf Railroad), e il bassista Paul Randolph sembrano chiudere perfettamente il cerchio con quell'epoca d'oro così come fa quella 'Rock'n'roll' con la chitarra ospite di Joe Bonamassa posta in apertura, per omaggiare e rinsaldare l'amicizia con Lou Reed che non era di Detroit ma ha avuto il suo peso.
Ma le vere sorprese sembrano arrivare dopo.
"C'è un certo suono di Detroit che stiamo cercando, è indefinibile. C'è una certa quantità di R&B dentro. C'è una certa quantità di Motown. Ma poi aggiungi le chitarre e aggiungi l'atteggiamento e si trasforma in rock di Detroit. Mi sento come se fossimo in giro con tutti i musicisti di Detroit, troveremo quel suono ".
E gli occhi pittati di Alice Cooper sembrano planare sì sulla città dei motori (suo padre vendeva macchine usate), della rivista Creem e del garage rock'n'roll più sguaiato (la corale 'I Hate You' che vede riuniti i membri della vecchia band Neal Smith, Michael Bruce, Dennis Dunaway che cantano una strofa a testa, 'Hail Mary' e “Shut Up And Rock') ma più in generale sulla musica con lo sguardo sincero e ancora devoto da vero fan: sull'hard rock di 'Social Debris', dentro il blues di 'Drunk And In Love', sulle ali del pop lisergico di ‘Our Love Will Change The World’, nel rock'n'roll imbevuto di soul e funky di '$1000 High Heel Shoes’ con i suoi cori femminili delle Sister Sledge, chiaro omaggio alla Motown così come 'Wonderful World' e 'East Side Story' che sembrano mischiare l'amore mai nascosto per Jim Morrison con l'aspetto più teatrale della sua arte, nel cadenzato incedere di 'Hanging By Thread' uscita a inizio pandemia, un chiaro invito a resistere.
Se amate il rock, uno sguardo dentro a questi cinquanta minuti potete buttarlo, anche se non avete gli occhi truccati e scappate di fronte a un boa, pochi artisti a questa età riescono a trasmettere la freschezza compositiva di Alice Cooper.