mercoledì 23 dicembre 2020

RECENSIONE: GEORGE THOROGOOD and THE DESTROYERS (Live ln Boston 1982: The Complete Concert)

GEORGE THOROGOOD and THE DESTROYERS - Live ln Boston 1982: The Complete Concert (Craft Records, 2020)



sudati e contenti

Lo sostengo da sempre, per quanto poco serva, è sempre meglio aspettare Dicembre per tirare le somme dell'anno musicale. Se il disco di Ryan Adams è quanto di più profondo e confessionale abbia  trovato in questo 2020 in scadenza, l'uscita dell'intero concerto del 23 Novembre 1982 a Boston di George Thorogood con i suoi Destroyers si può considerare la summa del rock'n'roll suonato sopra a un palco in un anno in cui i palchi sono rimasti vuoti e silenti. Tristi. Uno sguardo al passato che non può che essere di buon augurio per il futuro. 

È un Thorogood al massimo della forma "noi al nostro meglio" come dice lui stesso. Un concerto che arrivò a coronare un anno, il 1982, vissuto costantemente in corsia di sorpasso. Se il 1981 lo aveva visto protagonista aprendo i concerti dei suoi amati Rolling Stones, nel 1982 la viscerale carica di Thorogood venne consacrata con un disco da cui uscì quella Bad To The Bone ("è solo Hoochie Choochie Man di Muddy Waters con le parole diverse" disse una volta) che bucò i video di Mtv diventando un tatuaggio indelebile da mostrare in futuro e con una serie di concerti, 50 in 50 giorni (ma furono 51!) che lo consacrarono come uno degli animali da palco più sudati, selvaggi e coinvolgenti in circolazione. Esuberante, anfetaminico. Il concerto al Bradford Ballroom, locale che sorgeva in uno dei quartieri più malfamati di Boston (città che li adottò), già uscito nel 2010 in forma ridotta, questa volta è completo nelle sue 27 tracce e 140 minuti raccolti in 2 cd: c'è il pubblico rumoroso, c'è Thorogood che parla e presenta i brani, ci sono i Destroyers in piena forma, una bar band rodata e perfetta, c'è tutto l'amore di Thorogood per il rock'n'roll blues di John Lee Hooker (l'immancabile 'One Bourbon, One Scotch, One Beer' in una versione da 13 minuti), Elmore James ('Madison Blues'), Bo Diddley ('Who Do You Love?', 'Ride On Josephine'), il "maestro" Chuck Berry ('It Wasn' t Me', 'Reelin And Roclin'), per il country di Hank Williams ('Move It On Over'), il tutto rivestito di nuova grinta e pura energia e dato in pasto al suo pubblico. 

"Ero l'Indiana Jones del rock'n'roll, l'archeologo del rock. Ero dentro a tutte quelle cose che le persone non avevano mai ascoltato o semplicemente dimenticato". 

E pare quasi di essere lì sotto il palco vicino alle casse, con le scarpe incollate al pavimento, la maglietta sudata e con le mani in aria ad incitare Thorogood impegnato a tutta slide o durante l'ennesimo assolo prodotto dalla sua amata Gibson, ammirare il sax di Hank Carter che colora il suono, e tenere il tempo con Bill Blough (basso) e Jeff Simon (batteria).  Intanto il buon Thorogood ha già programmato un tour mondiale nell'imminente  2021. Non sarà come quel 1982 ma è un segnale di vita più che gradito.






venerdì 18 dicembre 2020

RECENSIONE: FRANZONI-ZAMBONI (La Signora Marron)

FRANZONI-ZAMBONI 
  La Signora Marron (Bluefemme Records, 2021)






Una serata estiva come tante, di sudore e aria condizionata, birra presto annacquata e schiamazzi dalla finestra, passata a sbirciare artisti bresciani su Youtube, circa due anni prima dell'uscita di questo disco: si fa strada con prepotenza un video registrato alcuni anni fa al Festival 4/quarti, storica kermesse musicale bresciana, una sorta di Woodstock cittadina che iniziava al mattino e proseguiva fino a notte fonda. Sul palco si alternavano senza interruzioni centinaia di artisti di Brescia e provincia: tra loro anche Marco Franzoni che in quella occasione eseguì una canzone dal titolo 'Gesù Tascabile'. Mi informo dove si possa trovare quel brano che mi ha particolarmente colpito. Mi dicono che quella, insieme ad altre decine di canzoni riposavano negli archivi dell'artista, cantautore e produttore. Mai uscite. Ma com'è possibile che una canzone così non abbia ancora una vita? Delle gambe che la portino lontano, più in là di un archivio di file e di un palco? Passa un anno e a sorpresa in pieno lockdown Covid19 un video casalingo, girato con pochi mezzi dalla coppia formata da Marco Franzoni e Manuele Zamboni, autori della canzone, fa la sua comparsa nei social. È 'La Signora Marron' preludio a qualcosa che stava finalmente prendendo forma. "Una raccolta di canzoni inseguita per vent'anni" dicono. "Vent'anni perché le parole suonassero, e un suono le traducesse ancora meglio. Scrivendo e riscrivendo, gettando o salvando, con niente da raccontare davvero se non un senso di non appartenenza. Niente da scacciare, nessun demone. Ci serviva solamente bere fino in fondo qualche altro bicchiere di troppo lasciando dietro un vuoto: a perdere". Questo disco suggella l’incontro artistico e un’amicizia che durano da circa vent’anni. Vent’anni di tante canzoni scritte insieme (qui si alternano alla voce e ai cori), tante finite nei loro precedenti dischi, nel progetto comune Noverose, in quelli solisti, tante accumulate, alcune finite, altre solo abbozzate. E a volte ci vogliono veramente delle forti spinte motivazionali per prendere finalmente delle decisioni importanti: riprendere in mano le idee e tramutarle in qualcosa di concreto. Il materiale è tanto, così come sembra esserlo il tempo da impiegare durante il forzato lockdown imposto dalla pandemia. Se una prima e forte spinta arriva dall’amico e concittadino Omar Pedrini che ogni volta che dalle casse dello studio Bluefemme StereoRec di Marco Franzoni salta fuori una loro canzone come me sembra chiedersi “cosa aspettate a fare uscire queste canzoni?”, la spinta decisiva sembra arrivare per puro caso in modo virtuale anche se ha un nome e un cognome: Jonathan Womble, batterista di Dallas, amico di Jay Bellerose, musicista con un buon curriculum e che ha Levon Helm come punto di riferimento. Uno scambio di file, affinità musicali, stima reciproca fanno il resto. Ecco che in una settimana alcune di quelle canzoni che riposavano da anni hanno iniziato a respirare aria nuova, a trasformarsi in qualcosa di concreto, da ascoltare, annusare, toccare, avviandosi in quella via che porta ai confini e che solo un americano poteva contribuire a dare. I loro “Basement Tapes” prendono forma. Ma non è così raro che pensando alla coppia Franzoni Zamboni davanti agli occhi mi si parino davanti il Bob Dylan quasi quarantenne del periodo Street Legal fermo davanti alle scale del suo studio e Townes Van Zandt affacciato alla finestra nel suo disco Flyin’ Shoes. Certo, potrebbero essere abbagli per troppa fantasia, scherzi fisiognomici ma questi due grandi artisti hanno avuto anche un peso nella crescita artistica di Marco Franzoni e Manuele Zamboni così come le sonorità di frontiera di un gruppo come i Calexico che la tromba e il basilare aiuto in produzione di Francesco Venturini hanno saputo evidenziare in modo netto, così come i tanti musicisti intervenuti (Matteo Crema, Beppe Facchetti, Filippo Pardini, Daniele Richiedei, Cecilia Paganini, Claudia Ferretti, Glenn Stromberg o chi per lui). Tutte sfumature americane che sanno di terra di confine ma che inevitabilmente sconfinano nella scrittura dei testi, rigorosamente in italiano, legati al classico cantautorato, quello dove le parole contano ancora e vengono cesellate con cura e metrica studiata. Se in ‘Controluce’ “avevamo in testa Piero Ciampi. La sua non forma canzone. La sua rabbia. Parole delle quali vergognarsi. Fino a dimenticarle”, inusuale e coraggiosa è la scelta di rifare ‘Vincenzina E La Fabbrica’ di Enzo Jannaccci, canzone dal testo tanto semplice ma dalla potenza inaudita, ai tempi di Romanzo Popolare di Mario Monicelli e ancora oggi, qui riproposta come se gli amati Calexico avessero preso la metropolitana in fermata Duomo con destinazione Sesto Marelli. Non è un concept album ma c’è un sottile filo conduttore che lega i suoni più moderni di ‘Ti Aspettavo’ (con Tommaso Parmigiani e Francesco Zovadelli alle chitarre, due membri della band Koffey’s Afka) alla veglia funebre della Fanfara Dei Cugini Di Montagna che accompagna il finale di ‘Gesù Tascabile’. A voi scoprirlo. Il trascorrere del tempo, i rimpianti, le nostalgie, le ferite, vecchi e nuovi amori, la quotidianità con la sua noia e le tante incertezze, i vecchi ricordi quando ancora li si poteva appendere alla data di una partita di calcio sono passati attraverso quello scarico di lavandino lì in copertina. Tanta vita è passata in mezzo ma in superfice qualcosa ti rimane sempre addosso. 

Manuele Zamboni, cantautore con all'attivo tre lavori da solista: Flyin' shoes (2006), Povero Ragazzo Blues (2009), Nessuna Attenuante Per Un Figlio Di Puttana (2012). Dal 2002 al 2007, è stato bassista e co-autore di alcuni brani della band Noverose, capitanata dal musicista e produttore Marco Franzoni. Nel 2015 ha partecipato in veste dico-autore, alla realizzazione del disco Piccoli Momenti Di Caos del chitarrista/cantante Matteo Mantovani. 

Marco Franzoni, cantautore, musicista, produttore e proprietario degli studi Bluefemme Stereorec di Brescia. Muove i primi passi come fonico di studio/live per Micevice e Hugo Race, ricoprendo anche il ruolo di bassista e chitarrista. Nel 2002 forma con il cantautore Manuele Zamboni i Noverose, dando alle stampe nel 2005 una raccolta di brani dal titolo “03/04 cpl”. Parallelamente all'attività di fonico, entra a far parte come polistrumentista di band tra cui Le Man Avec Les Lunettes, The Union Freego e Claudia Is On The Sofa. Nel 2014, registra e co-produce l'album di Omar Pedrini Che Ci Vado A Fare a Londra, mentre nel 2017 inizia una stretta collaborazione con il duo alternative-blues Superdownhome in qualità di produttore e fonico. 

 









mercoledì 16 dicembre 2020

RECENSIONE: PAUL McCARTNEY (III)

PAUL McCARTNEY    III (Capitol Records, 2020)


chi fa da solo... 

Qualche anno fa quando la mia musica viaggiava ancora tra  chilometri di nastri in cassette e le immagini delle copertine erano quelle che ammiravi nei cataloghi di dischi, qualcuno, non so più chi, mi disse: "guarda che in quella cassetta dei Beatles che stai ascoltando non c'è il vero Paul McCartney ma un suo sosia". Stupore e incredulità. E mi raccontò tutta la simpatica storiella, leggenda o verità, chissà, dietro alla copertina di Abbey Road. Era ed è sempre qualcosa di affascinante da raccontare, ci hanno costruito libri e trasmissioni televisive. Quando la mia musica ha iniziato a viaggiare su supporti diversi da quelle cassette registrate sempre con tanta fatica, mi sono fatto la discografia di quel sosia. Bravo per essere un imitatore mi sono sempre detto, anche se a volte rincorreva l'originale senza arrivarci. E chi poteva dirlo che nell'anno 2020, così fortemente segnato da una pandemia che verrà ricordata nei libri di storia, quell'imitatore chiuso nella sua  casa di campagna nel Sussex insieme alla sua famiglia allargata, all'età di 78 anni, quella vera di Paul McCartney (chissà qual'è quella del sosia?) riuscisse a tirare fuori un disco suonato completamente da solo che in qualche modo completa la trilogia iniziata dallo scarno debutto acustico del 1970 e proseguita con II, con le sue stranezze elettroniche uscito dieci anni dopo nel 1980. Due dischi massacrati dalla critica all'uscita e rivalutati dal tempo. E allora scopri che qui dentro ci sono almeno altri cinque o sei Paul McMartney: quello che suona il basso, quello alla batteria, quello al piano, quello alla chitarra elettrica, quello al contrabbasso…proprio come in quei vecchi album. Manca solo Linda. 

Bello constatare come a differenza di tanti di noi, il sosia si sia divertito così tanto durante il lockdown, che il periodo è stato marchiato con un "made in rockdown". L'apertura è cosa assai straniante: uno strumentale a tutto fingerpicking con un riff blues ripetuto in loop che sa un po' di prog, di oriente e un po' troppo di prolisso ('Long Tayled Little Bird') ma che prepara la strada a ciò che arriverà. 

"Vivevo in isolamento nella mia fattoria con la mia famiglia e andavo ogni giorno nel mio studio. Dovevo fare un po’ di lavoro su un po’ di musica da film e questo si è trasformato nel brano d’apertura e poi, quando è stato fatto, ho pensato: cosa farò dopo?"

Ecco, dopo arrivano tante cose, a volte piacevoli, in alcuni momenti però sembra ci sia confusione come nel polpettone di otto minuti 'Deep Deep Feeling', farcito a dismisura fino a risultare indigesto tra falsetto, innesti black e aperture progressive. Troppo e niente allo stesso tempo. Le cose migliori sembrano arrivare quando gioca con la semplicità. 

Sì prende tutta la libertà, è pur sempre (il sosia di) Paul McCartney, di spaziare  tra il pop (questo sì che gli riesce bene) di 'Find My Way' dove gioca con il falsetto e  il folk romantico di 'The Kiss Of Venus', lasciandosi andare a qualche confessione privata ('Seize The Day'), per arrivare al rock della corale 'Slidin' e dell'incalzante  'Lavatory Lil' che sembra fare  addirittura il verso ai Queens Of The Stone Age di 'No One Knows' fino a raccontarci dei suoi passatempi in campagna e in giardino tra prati e alberi  nel delicato folk di ' When Winter Comes' recuperata da vecchie cose scritte per Flaming Pie, album del 97 con George Martin in produzione.

Certo, quando si  siede al pianoforte e tira fuori 'Woman And Wives' anche la voce segnata inevitabilmente dal tempo (pare Johnny Cash nelle American Recording) diventa un punto di forza. 

È allora mi ripeto, come allora: non male per un vecchio sosia che cerca di mantenere ancora in vita uno dei più grandi compositori pop a cavallo di due secoli. Poi giri la copertina e c'è una sua foto: non è mica Paul McCartney quello!





lunedì 14 dicembre 2020

RECENSIONE: RYAN ADAMS (Wednesdays)

RYAN ADAMS  Wednesdays (Paxam Records, 2020)



senza filtri

Possiamo farlo entrare tra i migliori dischi di questo 2020, oppure prenotargli un posto tra quelli che usciranno nel 2021, visto che fisicamente vedrà la luce solo a Marzo. Una cosa sembra certa: Ryan Adams è tornato con un disco importante, di peso, che ci mostra tutte le sue fragilità anche se convertite in canzoni dall'impianto musicale lieve e ridotto all'osso. Un cuore aperto, spezzato e sanguinante dato in pasto a chi ha ancora voglia di porgergli le mani per raccoglierlo. 

Undici canzoni dolenti, piene di sofferenza e redenzione. Quasi devastante in alcuni passaggi. Senza barriere, muri e interferenze: voce, chitarra, pianoforte e un'armonica, quella di 'When You Cross Over' (con lavoce di Emmylou Harris) una dedica accorata al fratello Chris scomparso nel 2017.

Solo in 'Mamma' compare un controcanto femminile dietro. Uno stacco completo dalla botta rock dell'ultimo Prisoner uscito nel 2017 e di quel concerto in Italia, a Gardone, che ne era il proseguimento ideale sopra al palco. Siamo  dalle parti del debutto Heartbreaker, dell'oscurità del tetro 29, di alcuni passaggi di Ashes & Fire e  Love is Hell e di tutte le ballate più dolenti seminate nei suoi tanti dischi. 

Ryan Adams qui sembra ancora inchiodato alla croce che gli è stata preparata e quei pochi passi che  riesce a fare sono tra le strade ancora avvolte nel buio più completo, anche se là in fondo, la luce seppur fioca si intravede. In verità molte di queste canzoni furono scritte dopo il naufragio del suo matrimonio con Mandy Moore, molto prima che la stessa Moore insieme ad altre donne  lo accusassero di abusi e molestie attraverso le pagine di una inchiesta condotta dal New York Times. Non si è mai giunti alle  vie legali ma Ryan Adams non hai nemmeno mai smentito, non si è mai proclamato del tutto innocente e ha chiesto pubblicamente scusa per il male che ha arrecato con i suoi comportamenti, ha giurato pubblicamente di essere cambiato, di aver capito quanto alcuni suoi atteggiamenti siano andati oltre. Troppo oltre. È bastato? Naturalmente la gogna mediatica ha fatto il resto del gioco sporco. Qualcuno dei suoi fan non lo ha ancora  perdonato, forse mai lo farà. Tanti altri ne stavano aspettando il ritorno. 

Intanto il tempo è passato e i tre dischi pronti e finiti che dovevano uscire nel 2019 sono stati accantonati. La sua carriera si è bruscamente fermata. Ecco ora a sorpresa Wednesdays. Doveva essere la seconda uscita di quella trilogia (doveva uscire dopo Big Colors, mai pervenuto se non per il singolo di lancio), già presentato con una copertina che richiamava la grafica dell'album Nebraska di Bruce Springsteen ma con un anello nuziale al posto del paesaggio in bianco e nero. È invece il primo ad uscire, ancora intriso però di tutte quelle ferite laceranti del dopo divorzio. "Il nostro amore è un labirinto,Solo uno di noi doveva scappare" canta in 'So, Anyways'. 

Segni che vanno giù nel profondo, toccano la carne viva. Scarne e crude ballate al pianoforte come la stupenda 'I'm Sorry and I Love You' (dove canta "se potessi vedere la tua faccia, forse potrei cancellare le bugie con la verità… Ti ricordo prima che mi odiassi") e  'Dreaming You Backwards' che aprono e chiudono il disco riportando alla mente il Neil Young di After The Goldrush, imtimità attaccata a un  folk minimale e crepuscolare ('Walk In The Dark' con l'organo di Benmont Tench), popolato da demoni ( in 'Poison & Pain' canta "e i miei demoni che si sono così annoiati di sognare, i miei demoni Alcool e libertà, Un re senza una Regina, Un re senza regno") e con i fantasmi del seminale Blood on The Tracks a fare spesso visita (in 'Wednesdays' dice "e i piani che abbiamo fatto svaniscono come il sole sulla costa") ma anche nelle canzoni più corali come 'Birningham' con un Hammond dietro a riempire i buchi, a venire a galla  è sempre e solo la disarmante onestà con la quale sono state vissute, scritte e interpretate queste canzoni. Non sono tanti gli artisti che riescono a mettersi così completamente a nudo. 

Ryan Adams è un uomo vurnerabile e ancora sofferente. A voi scegliere da che parte stare. Non sappiamo ancora se nel frattempo sia riuscito a  ricucire questa ferita d'amore così profonda, visto quello che è successo dopo. Una cosa è certa: glielo auguro con tutto il cuore, diversamente da chi continua a puntargli il dito contro (certi articoli usciti recentemente sono eticamente illeggibili).







martedì 8 dicembre 2020

RECENSIONE: SEASICK STEVE (Blues In Mono)

SEASICK STEVE   Blues In Mono (2020)



siediti qui a fianco

Va bene, forse per troppi anni le tante leggende e le genuine verità che tengono unita la sua vita hanno tenuto banco quanto la sua musica, a volte con qualche pesante pennellata di troppo ad offuscare il talento a favore del personaggio. E allora in questo 2020 che lo ha già visto protagonista con un'uscita estiva intitolata Peace & Love, Seasick Steve ci conferma che non ci sono trucchi né inganni nella sua musica. Nel suo schietto talento. Della serie: datemi una chitarra scassata (anzi no: me la costruisco io), un microfono degli anni 40 e un pavimento in legno su cui possa battere il piede e vi faccio vedere di cosa sono capace, e tanto che ci sono registro il tutto con un vecchio registratore "come se fossi seduto lì vicino a casa tua". Si accomodi mr. Steve. 

"Siamo solo io e una chitarra acustica, che suoniamo il vecchio country blues. Ho sempre voluto farlo ma non mi sono mai sentito degno, ma poi ho capito che era meglio che mi sbrigassi e lo facessi perché non mi sentirò mai degno!" scrive nel suo sito. 

Blues In Mono è questo, né più né meno: ossa e carne, senza uno straccio di abbellimento. È già tutto bello così. Anche la copertina! Calda, intima, un abbraccio. Scricchiolii e rumori vari inclusi. Un omaggio a vecchie canzoni di Willie Dixon ('My Babe'), Charlie Patton ('Moon Goin Down'), Lightnin 'Hopkins (' Buddy Brown'), Mississippi Fred McDowell, R. L. Burnside (' Goin Down South', 'Miss Maybelle') a cui aggiunge quattro canzoni scritte di suo pugno tra cui 'Golden Spun'  e 'Well Well Well'. Folk blues solitario alla vecchia e antica maniera che per farlo devi essere proprio uno bravo o chiamarti Seasick Steve. 

Un piccolo, semplice e rustico regalo per le feste dato in pasto ai suoi fan che per ora però si potrà trovare solamente in forma digitale, cosa che cozza un po' con tutto il progetto così vintage e polveroso.







venerdì 4 dicembre 2020

RECENSIONE: CALEXICO (SEASONAL SHIFT)

CALEXICO   Seasonal Shift (ANTI Records, 2020)



let it snow!

Una roulotte parcheggiata in mezzo al deserto in pieno periodo natalizio.  È un po' quello che vorrei quest'anno. Staccare completamente da questi ultimi 365 giorni, scappare lontano. Da tutto. E quasi tutti. Ma il dpcm "non te lo consente". Mi sembra di sentirla quella voce ormai anche troppo familiare, uscire nascosta da sotto una mascherina, e  rimbombare a reti unificate nella mia testa. Allora ci pensano i Calexico (John Convertino e Joey Burns) con un disco che nella carta potrebbe essere il classico disco natalizio (che palle!) ma nella realtà, fortunatamente, non lo è. Vedete del rosso in copertina? No. È un disco che continua il percorso virato pop degli ultimi anni. Non è un miracolo natalizio. Non aggiunge ma non toglie nemmeno nulla. È un accompagnamento. A volte basta. 

Basterebbe togliere dalla scaletta la tanto abusata 'Happy Xmas (War is Over)' di John Lennon qui arricchita dai fiati, inserita perché a Joey Burns piace così tanto, e ci troviamo nel pieno di un deserto ma  inclusivo, dove c'è spazio per tutti e tutte le culture. Ma non dovevo essere da solo in quella roulotte? C'è spazio per la natura incontaminata disegnata dal siparietto  strumentale acustico 'Glory's Hope' che sembra già spegnere la luce e condurre verso la magia della notte, il quadro da favola di 'Nature's Domain', per le campane di Tucson che in  'Hear The Bells' annunciano l'inizio del periodo natalizio, per i colori del  sud America che escono prepotenti da 'Mi Burrito Sabanero' dove  Gaby Moreno canta di un asino in viaggio verso Betlemme, per il clima divertente, casalingo e intimo di 'Seasonal Shift', per lo scherzetto di 'Sonoran Snobal' con Camilo Lara, per la controparte silenziosa 'Piece Of Mind' e triste ('Tanta Tristeza' con Gisela Joao) che dicono tutto nei loro titoli. 

Ma ci sono anche gradite persone che tengono compagnia davanti al fuoco: c'è Tom Petty omaggiato con la sua poco conosciuta 'Christmas All Over Again' qui cantata insieme a Nick Urata dei DeVotchKa e c'è Bombino in carne ossa e chitarra che con una magia africana mischia sapientemente la sabbia dei deserti americani con quella dei deserti sahariani in 'Heart Of Downtown'. Bella! Ci sono gli auguri di tutti i partecipanti a fine disco. 

Un disco di ballate fatto di cover, traditional e canzoni scritte per l'occasione con qualche up tempo per lasciarsi andare a un passo di danza, un disco che raggiunge il suo semplice e rispettabile scopo: trasmettere pace e tranquillità, il piacere di un viaggio, anche se celebra le festività in un periodo in cui le festività saranno blindate. "Non ce lo possiamo permettere". Spengo la TV e cerco il primo deserto utile su Google maps. Forse è già il bosco vicino a casa. Sta nevicando.





martedì 1 dicembre 2020

RECENSIONE: WARD DAVIS (Black Cats And Crows)

WARD DAVIS  Black Cats And Crows (Thirty Tigers, 2020)



outlaw al piano

Sta diventando sempre più difficile orientarsi tra i tanti nuovi songwriter americani che si presentano con  barba lunga e cappello texano in testa. L'aspetto fisico di Ward Davis non è troppo diverso da quello di Chris Stapleton o dell'amico Cody Jinks che in questo disco lascia la firma in un paio di episodi. Musicalmente invece riesce a dare il suo tocco personale a un outlaw country 2.0 oggi tanto abusato grazie all'uso di un pianoforte che a tratti sembra richiamare il miglior Elton John in salsa americana e stivali da cowboy. 

Come altri della sua generazione Davis è arrivato al terzo album solista dopo una carriera da prolifico paroliere. Dopo il suo spostamento dall'Arkansas a Nashville le sue canzoni sono state cantate da Willie Nelson e Merle Haggard (sua 'Unfair Weather Friend' su Django & Jimmie) Trace Adkins,The Roys, Wade Hayes, Sammy Kershaw, Jimmie Van Zant. Le sue tastiere e il suo pianoforte hanno suonato durante i live di Ray Scott e proprio il R&B  'Papa And Mama' di Scott è una delle due cover presenti, l'altra è 'Lay Down Love' degli Alabama. 

Benché siano i tempi lenti delle ballate a prendere per mano un disco profondo e spesso amaro nei suoi testi, un paio di episodi rock si distinguono: l'apertura 'Ain’t Gonna Be Today' sembra condurre diretti verso quell' hotel California abbandonato dagli Eagles negli anni settanta, 'Sounds Of Chains' è una western song dura ed elettrica dove si staglia l'inaspettata chitarra di Scott Ian, mitica ascia dei thrasher newyorchesi Anthrax, nell'honky tonk alcolico 'Get To Work Whiskey' affoga invece i suoi dispiaceri. 

Forse più  episodi up tempo come questi avrebbero alleggerito un disco che soprattutto nella seconda parte rischia di invischiarsi nella rete  della ripetizione, nonostante tutte le canzoni, prese una ad una, siano di altissimo livello come scrittura ed esecuzione. Questo grazie anche al buon lavoro in produzione di Jim "Moose" Brown

È il recente divorzio a imbastire il mood introspettivo e amaro che aleggia lungo le quattordici tracce. 

Della ballata al pianoforte 'Good And Drunk' che chiude il disco dice in una recente intervista: "ho scritto quella canzone quando sono tornato a casa dal tour e mia moglie non mi ha lasciato entrare in casa. Ho aperto la porta del garage e mentre ero per strada lei aveva impacchettato tutto quello che avevo e lo aveva messo dentro a delle scatole in garage. Solo pile di scatole. Era metà pomeriggio e volevo bere qualcosa, ma non potevo perché non sapevo in quale scatola avesse messo il whiskey. Ho tirato fuori la mia chitarra, quindi mi sono seduto e ho iniziato a scrivere questa canzone"

La title track vanta una strepitosa chitarra elettrica che piange note, "ogni strada che percorro vedo gatti neri e corvi" sono le sue visioni, 'Threads' è una triste ballata al pianoforte per cuori spezzati, 'Colorado' un country dolente disegnato sommessamente da un violino. 

Canzoni autobiografiche e sincere come 'Book of Matches', 'Lay Down On Love', ballata al pianoforte dove canta da una prospettiva diversa "non poteva vivere con un uomo di cui non poteva fidarsi"  e il lento country 'Nobody' non lasciano dubbi su quanto la fine dell' amore sia stato determinante alla comunque buona riuscita di questo disco. Ora però il buon Davis, a 41 anni, deve ricucire in fretta le ferite e prepararsi a qualche nuova avventura da raccontare.






domenica 29 novembre 2020

DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #85: JOHN LENNON (Rock'N'Roll)

JOHN LENNON  Rock'n'roll (Apple/EMI, 1975)



Amburgo, Aprile 1961, John Lennon è sull'uscio di una porta in posa con il suo giubbotto di pelle, quei disgraziati dei suoi compagni di band Paul, George e Stu Sutcliffe passano davanti all'obiettivo di Jurgen Vollmer, proprio come il fotografo voleva. Clic. Le loro sagome in movimento sono  impresse indelebili sul muro di mattoni. La foto è stupenda, anche se lo è di più quella originale non tagliata dove i piedi dei tre sono completamente a fuoco rispetto ai corpi. In quei giorni i beatles non erano ancora I Beatles ma il  Rock'n'roll era ancora il Rock'n'roll ed era proprio il rock'n'roll ad averli portati fino in Germania, prima vera tappa del loro percorso verso una sorta di delirio mondiale che in quei giorni del 1961 sembrava ancora un miraggio. Se la copertina in qualche modo si è fatta da sola (il fotografo Jurgen Vollmer non diventò mai ricco con quegli scatti), John Lennon a questo album ci è arrivato dopo tante tappe in un momento alquanto turbolento della sua carriera. Un pegno al rock'n'roll che doveva essere fatto, forse poteva essere fatto solo meglio. Dentro ci sono certamente quei primi spensierati passi ad Amburgo ma anche le prime canzoni ascoltate da bambino con la madre Julia e poi suonate con la prima band Quarry Men, c'è una vecchia promessa fatta all'editore Morris Levy dopo aver inserito (rubato pare brutto) alcuni accordi di 'You Can't Catch Me' di Chuck Berry  dentro a 'Come Togheter' (era un po' come dire "mi scusero' aggiungendo qualche canzone del tuo catalogo in un disco di cover che farò presto" ecco allora anche 'Sweet Little Sixteen' ), c'è la separazione da Yoko Ono, ci sono le prime deliranti sedute di registrazione per l'album avvenute a Los Angeles nel 1973 con quel folle di Phil Spector, uno a cui si poteva tener testa solo se eri almeno un po' matto come lui.

Ecco allora che gli episodi grotteschi non mancano, con tanto di armi da fuoco ( dove c'è Phil Spector c'è sempre una pistola), litigi e tribunali. Alla fine Spector rivendicò la proprietà dei nastri fino ad allora registrati e se ne scappò via a metà sedute portandoli con sé, Lennon ne venne in possesso solo grazie all'intervento della casa discografica e al fato che mise il produttore fuori gioco: Spector fu coinvolto in un grave incidente stradale. Riappropiatosi dei nastri, non tutto era così bello come Spector lì dipingeva, tanto da indurre Lennon a rinchiudersi nuovamente in studio di registrazione, un anno dopo, per portare a termine quell'album di cover che ormai sembrava più penitenza che svago. 

John Lennon bolla quel periodo come il suo "Lost Weekend". Giorni segnati dall'alcol, dalle sostanze, da una nuova donna (la segretaria May Pang), da una ritrovata libertà dal personaggio che si era creato, ma tutto sommato anche da una buona vena d'ispirazione che portò all'incisione del buon Walls And Bridges e alla produzione di Pussy Cats di Harry Nilsson. 

Un disco che inizia proprio con 'Be Bop A Lula' di Gene Vincent, la canzone che Lennon suonò per la prima volta con i Quarry Men, lo stesso giorno che conobbe Paul McCartney, presente tra il pubblico. Era il 1957. Ma che verrà ricordato soprattutto per la versione di 'Stand By Me' che in qualche modo fa sua, per il medley dedicato a Little Richard ('Rio It Up/Ready Teddy'), per quella Ain't That A Shame di Fats Domino che fu una delle prime canzoni che la madre Julia gli insegnò a suonare con il banjo, per la bella versione di 'Just Because' che chiude così bene l'album. 

Tutte canzoni che suonavano nella sua testa e puntellavano il suo cuore da sempre e che lo portarono a dichiarare il suo amore per il rock'n'roll e Chuck Berry con questa frase "se provate a dare un altro nome al rock'n'roll lo chiamereste Chuck Berry". Anche un po' John Lennon.








mercoledì 25 novembre 2020

RECENSIONE: JESPER BINZEN (Save Your Soul)

JESPER  BINZER  Save Your Soul (Warner Bros, 2020)



rock and rock radar

Ecco un altro disco nato in pieno lockdown. Con i D-A-D in pausa forzata (l'anno scorso era uscito il buon A Prayer For The Loud) Jasper Binzer, cantante e chitarrista della cult band danese, ha trovato il tempo per incidere il secondo disco solista dopo Dying Is Easy, uscito nel 2017. 

"Ho iniziato dipingendo tutti i lavori in legno dentro casa e, quando ho finito, non c'erano più scuse, quindi mi sono seduto  sul divano con i pantaloni della tuta e una chitarra acustica e ho scritto tutte le canzoni che sono state incluse nel disco". 

Aiutato dal tuttofare Sören Andersen, chitarrista e produttore, Save Your Soul è un disco che si apre in maniera decisamente rock con la dichiarazione di libertà 'Life Is Moving' e la title track, una traccia hard  dal sapore seventies con l'ugola ruvida e riconoscibile di  Binzer sugli scudi e l'hammond dietro, ma poi in fondo sembra rispecchiare il momento cupo e straniante nel quale è nato, lasciando in un angolo il puro divertimento  a favore di canzoni più riflessive, a tratti impegnate, come le ballate  'Don' t Let Make You Choose Sides' e 'The Price Of Patience', i rock melodici di 'Premonition' e 'Drown Waving' o la sorprendente atmosfera di 'Move A Mountain' tutta giocata su pianoforte e voce. 

Per i nostalgici non mancano comunque rimandi alla band madre nel rock'n'roll di 'The Heart Will Find Its Way' e nella leggerezza di What Time Is It Now. In fondo Binzer è il rocker senza fronzoli che conosciamo da sempre  anche se qui ci presenta le sue diverse facce (quelle della copertina, davanti e dietro). Ma, se i dischi solisti sono fatti per uscire da certe dinamiche ormai consolidate all'interno della band, Binzer ci riesce comunque benissimo, con tutta l'esperienza accumulata in più di tre decenni di carriera e apportando quelle poche e minimali variazioni melodiche che portano le canzoni dalla sua parte. Onesto e credibile. Sempre.








sabato 21 novembre 2020

RECENSIONE: WHITE DOG (White Dog)

WHITE DOG 
 White Dog (Rise Above, 2020) 



the next "old" big thing 

I WHITE DOG arrivano da Austin, Texas, hanno firmato per l'etichetta inglese Rise Above di Lee Dorrian (Cathedral) e il 25 Settembre è uscito questo loro debutto, anticipato dal singolo 'The Lanterns', un blues che sembra tirare in ballo lo spirito lisergico di Jimi Hendrix. Anche se sembra siano già al lavoro per il successore: il tempo non manca in questo periodo orfano di concerti e ascoltando il disco si può intuire subito quanto la dimensione live, free e jammata sia a loro più congeniale ('Crystal Panther'). Prendete 'Abandon Ship', è la canzone più corta del disco ma al suo interno ha abbastanza cambi di tempo da far girare la testa per un paio di minuti e poco più. Basterebbe guardarli in copertina per capire che la band texana ama rimanere dentro a un periodo musicale ben delimitato che difficilmente supera l'anno 1973. Sicuramente si può dare loro un anno d'inizio e potrebbe essere il 1967, anno d'oro per la stagione psichedelica americana, perché è da lì che partono, girano e ritornano. Psych rock, garage, hard rock, divagazioni proto progressive, qualche riff sabbathiano più pesante per una proposta tanto datata quanto comunque convincente, dove Allman Brothers, Grateful Dead, 13th Floor Elevators, Quicksilver Messenger Service, Creedence Clearwater Revival amoreggiano piacevolmente senza litigare troppo per primeggiare. Mai scontati (l'incredibile groove di 'Verus Cultus' stemperato dai distesi momenti di quiete), caldi, visionari e avvolgenti ('Pale Horse' inizia lenta e arpeggiata finisce in un turbine di suoni ) guidati dalla voce di Joe Sterling e dalle chitarre sempre ispirate di Clemente De Hoyos e Carl Amoss (con suo fratello John che siede dietro la batteria e Rex Pepe al basso) che duellano e si incrociano scegliendo di diventare acide o desertiche, pesanti o morbide a seconda dell'ispirazione. 
Quello che manca è certamente la canzone in grado di aprire loro la strada del successo ma forse a loro sta bene così. Non stanno rincorrendo nulla, completamente slegati da qualsiasi moda.
La vera notizia è che là fuori c'è ancora gente con il rock'n'roll nel DNA che ha voglia di suonare libera e felice.





martedì 17 novembre 2020

RECENSIONE: THE DIRTY KNOBS (Wreckless Abandon)

THE DIRTY KNOBS  Wreckless Abandon (BMG, 2020)



con la benedizione di Tom Petty

"La perdita di Tom è stata sconvolgente per me. È stato uno shock totale. Sembrava che avremmo potuto suonare insieme per sempre. Per un po' è stato difficile immaginare di suonare di nuovo nella mia band, figuriamoci in quella in cui sono il frontman. Tom è sempre stato il mio faro. Ma tutto quello che ho fatto da quando Tom è morto, incluso questo album con The Dirty Knobs, è nello spirito di onorare ciò che abbiamo fatto insieme ". Con queste parole Mike Campbell presenta il disco di debutto della sua band, nata come svago tra un tour degli Heartbreakers e l'altro circa dodici anni fa. Formata insieme al chitarrista Jason Sinay, al bassista Lance Morris e il batterista Matt Laug

Dopo la scomparsa di Petty, dopo l'entrata di Campbell nei Fleetwood Mac, sembrava fosse finalmente giunta  l'ora di questa creatura rock nata per calpestare i palchi dei piccoli club di Los Angeles e della California, lontano dalle grandi arene. Un ritorno all'essenzialità del rock, alla libertà di comporre senza seguire canovacci imposti dal piedistallo della gloria. Qui c'è ancora tutto da costruire. Si parte però da basi molto solide. 

E la buona stella di Tom Petty sembra splendere e benedire alcune di queste canzoni scritte da Campbell, d'altronde i due sono stati inseparabili amici e collaboratori per quarant'anni, anche quando il nome degli Heartbreakers non brillava in copertina, la chitarra e l'esperienza di Campbell in produzione e come autore c'erano sempre. 


Il suono degli Heartbreakers è presente: dalla poetica ballata 'Irish Girl', ispirata da Van Morrison, alla ironica 'Fuck That Guy', scritta con Chris Stapleton e presentata da un altrettanto ironico video che cerca di sdramatizzare questo 2020 segnato dal Coronavirus, al rock del primo singolo 'Wreckless Abandon' , il personale e sentito blues di 'I Still Love You', di  'Don't Knock The Boogie', 'Aw Honey' e  'Don't Wait' gli accenti hard sudisti di 'Sugar' , il country rock "on the road" dell'alcolica  'Pistol Packin' Mama' con Chris Stapleton ospite (a sua volta il songwriter ospita Campbell e Benmont Tench-presente anche qui- nel suo ultimo disco Starting Over), la ballata 'Anna Lee', i riff hard rock ('Southern Boy' e lo spirito quasi punk che animano 'Loaded Gun'. 

È un disco che non ha troppe pretese, nato per divertimento, costruito live in studio con la produzione di George Drakoulias conosciuto per i suoi lavori con  Black Crowes e Jayhawks, dove le chitarre sono sempre davanti e protagoniste, libere di lasciarsi andare in tutta libertà e la Les Paul di Campbell è maestra in tutto questo. "C'è stato un momento in cui a nessuno veniva richiesto di abbassare il volume" raccontano dei giorni passati in studio per la registrazione. 

"Questa band è sempre esistita solo per l'amore di suonare. Ci conosciamo da 15 anni, ma non abbiamo mai avuto un'agenda per essere un progetto commerciale fino ad ora. E questo è il bello - lo facciamo per la gioia della musica. " E allora musica sia. 

Ultima curiosità: la copertina è stata creata da Klaus Voormann, celebre per Revolver dei Beatles, anche se difficilmente sarà ricordata come quella.







venerdì 13 novembre 2020

RECENSIONE: CHRIS STAPLETON (Starting Over)

CHRIS STAPLETON  Starting Over (Mercury, 2020)



conferma di una certezza

Lo avevamo lasciato con un progetto ambizioso, i due dischi From A  Room legati tra loro ma usciti in tempi diversi che in qualche modo sembravano disperdere un po' troppo il concentrato di americana e soul che legava così bene il debutto Traveller. Un disco che lo proiettò diritto tra i grandi cantautori americani degli ultimi anni ma che comunque arrivò tardi dopo una vita passata nell'ombra come autore e poi come componente dei SteelDrivers e dei Jompson Brothers, canzoni nate dopo l'importante perdita del padre lungo le strade di un viaggio salvifico insieme alla moglie tra l'Arizona e il Tennessee.Nel mezzo anche collaborazioni mainstream (Justin Timberlake) che hanno trascinato il suo nome fuori dall'underground. Sono passati tre anni e questa volta Stapleton ritorna con un disco che fin dalla copertina sembra intenzionato a far parlare solo la musica. Il suo white album. Una copertina bianca tutta da riempire di canzoni. E lo fa con un disco lungo 14 tracce: vario, ispirato, sentito. Una scelta di purezza che si incastra alla perfezione con le canzoni. Si rinchiude nuovamente nello studio A della RCA a Nashville con il fido produttore e amico Dave Cobb. 

"Io e Dave Cobb possiamo essere elencati come produttori nel disco, ma mia moglie è generalmente la produttrice della mia vita ...credo che abbia un gusto eccellente in tutto tranne che negli uomini". Così Stapleton racconta e ironizza su due figure importanti del  suo percorso musicale. Il produttore spesso presente anche come musicista e la moglie Morgane che spesso doppia la sua voce come nello strepitoso finale 'Nashville, TN', lento congedo dal disco guidato dalla lap steel di Paul Franklin

Ma questa volta scorrendo la lista degli ospiti, è impossibile non notare la presenza di due pezzi grossi direttamente dagli Heartbreakers del compianto Tom Petty: le tastiere di Benmont Tench (che si presentano subito  fin dall'apertura 'Starting Over', un pezzo alla Petty, decisamente) e la chitarra di Mike Campbell. Più la band che lo accompagna formata dai fidi Derek Mixon (batteria) e J.T. Cure (basso). Ed è un continuo alternarsi tra ballate di impronta country come il pigro valzer di 'When I' m With You', la dylaniana con tutto il passo della Band incorporato 'Maggie' s Song' su cui spicca imperioso l'hammond di Tench, il lento e minaccioso avanzare della tesa 'Whiskey Sunrise'. Di numeri di southern soul come 'You Should Probably Leave', e il sorprendente e riuscito crescendo orchestrale di 'Cold' dove a mettersi in mostra è la straordinaria voce, suo vero punto di forza. 


E canzoni più elettriche e rock del solito tra cui spiccano il southern rock fumante di 'Devil Always Made Me Think Twice' e poi l'esplosiva e boogie 'Arkansas' e una 'Watch You Burn', scritte a quattro mani con Mike Campbell, quest'ultima ispirata dalla sparatoria di massa avvenuta a un festival country nel 2017 dove persero la vita 59 persone, un crescendo gospel (con le voci delle All Voices Choir) dove Campbell lascia il suo importante tocco di chitarra. Infine piazza tre cover: 'Joy Of My Life' di John Fogerty estrapolata da Blue Moon Swamp del 1997, e due composizioni del mai dimenticato amico Guy Clark (il blues elettrico 'Worry B Gone' e la discorsiva 'Old Friends' dal primo mitico album del songwriter scomparso).                            

Chris Stapleton conferma ancora di essere una spanna sopra all'eccellenza musicale americana. Al giorno d'oggi pochi si destreggiano così bene tra radici, outlaw country, soul e southern rock, in maniera così intensa e profonda con un songwriting e una voce da primo della classe. Se mai ce ne fosse bisogno, questo disco è la conferma che in questo anno nefasto stanno uscendo dischi favolosi.






venerdì 6 novembre 2020

RECENSIONE: AC/DC (Power Up)

AC/DC  Power Up (Columbia/Sony, 2020)


same old song and dance

Da un certo punto della loro carriera a oggi, io la partenza la fisserei da The Razor's Edge, dei nuovi album degli AC DC non amo tanto le canzoni in sé quanto il fatto che loro insieme a quel marchio stampato ci siano ancora e sempre. Nonostante tutto. Anche se una menzione particolare per Stiff Upper Lip (2000) la farei, tentativo di uscire fuori dagli schemi e buttarsi nelle acque più torbide del blues senza l'aggettivo hard prima. Loro oggi sono un po' come quella statuina che campeggiava in quella copertina, puoi metterli dove vuoi tanto ci stanno sempre bene. E allora anche questo Power Up diventa un altro manifesto di resistenza dopo la morte di un pilastro basilare come Malcolm Young, l'uomo che teneva tutto attaccato con chiodi, martello e chitarra ritmica. E a chi si aspettava un disco in studio con la voce di Axl Rose chiamato per completare il tour dell'ultimo album Rock Or Bust ( il ragazzo si comportò pure bene) rispondono con il ritorno a sorpresa di quella vociaccia da corvaccio di Brian Johnson, miracolosamente guarito dai suoi problemi uditivi, forse. Speriamo. 

"Non abbiamo mai pensato di fare un album con Axl. Lui fu molto gentile con noi e ci aiutò a superare quel difficile periodo" ribadisce chiaramente Angus Young

E la storia è tutta lì con il gruppo, inossidabile, che a sorpresa, dopo gli annunciati ritiri dello stesso Brian Johnson e Cliff Williams, i reiterati problemi con la legalità di Phil Rudd e la morte del povero Malcolm, fa impilare casse e amplificatori e riunisce tutti i tecnici, il produttore Brendan O'Brein negli studi Warehouse di Vancouver in Canada. Nessuno sa cosa sta per succedere. Angus Young si presenta con lo zainetto pieno di vecchi riff, periodo Black Ice, creati con il fratello e le canzoni nascono così con tutta la band nuovamente riunita: Phil Rudd ancora una volta dietro la batteria con la sua faccia da teppista mancato (mica tanto), Cliff Williams ci ripensa e impugna nuovamente il basso, il nipote di famiglia Stevie Young, figlio di Alex, il più vecchio dei fratelli Young, alla "pesante" chitarra ritmica ha l'occasione della vita a 63 anni compiuti, Brian Johnson al microfono con coppoletta in testa sembra guarito, Angus Young si veste nuovamente da scolaretto alla veneranda età di 65 anni e dirige a suo modo, lo stesso di sempre, poi c'è lo spirito di Malcolm Young che si aggira elettrico nell'aria."Questo disco è praticamente una dedica a Malcolm, mio ​​fratello. È un tributo per lui come Back in Black è stato un tributo a Bon Scott." dice Angus. 

Si inventano letteralmente le canzoni intorno ai riff di chitarra, come sempre, e poco importa se sanno tutte di già sentito. Il trade mark è loro. La storia glielo permette. 


'Shot In The Dark' viene scelta come singolo, e la scelta è quanto mai azzeccata, chorus da stadio come non si sentiva da tempo e una perdonabile vaga somiglianza con 'Rock'n'roll Train', tutto il resto sono mid tempo solidi, compatti, melodici con poche vere  accelerazioni (ecco l'arcigna 'Demon Fire' ad alzare un po' il ritmo). Peccato: ho sempre pensato che il rock'n'roll boogie alla Bon Scott fosse l'ingrediente necessario alla loro musica per uscire da certi schemi su cui si sono affossati nell'era Johnson. 

'Realize' apre senza sorprese, corale e magnetica il giusto ma non di più, 'Rejection' è più solida e Angus inizia a piazzare uno dei suoi brevi assoli, quelli che troveremo lungo tutto il disco, 'Through The Mists Of Time' è buon street che fa l'occhiolino alla melodia nonostante i mostri che sembrano popolare il sonno, 'Wild Reputation' un blues che riporta ai tempi Stiff Upper Lip e che nel testo sembra evidenziare quanto sia dura stare in piedi in una piccola città di provincia, 'No Man'Land' è cadenzata e arcigna, 'Systems Down' secca e pulita in grado di liberare nell'aria buone scosse elettriche e per un attimo il rosso della copertina sembra pure illuminarsi a intermittenza. 

Poi ad esempio c'è 'Kick You When You're Down' che trovo bella e ruffiana con un ripetuto riff da southern rock band, certamente la mia preferita. E se 'Code Red' dovesse essere l'ultima canzone del loro ultimo disco in carriera sembra pure trovarsi al posto giusto nel momento giusto. Si è sempre detto che i loro ultimi dischi fossero un buon pretesto per fare le valige e partire in tour. Forse questa volta non sarà proprio così. Prevedere concerti all'orizzonte è cosa da maghi. Allora… "Se riusciamo a far sorridere le persone, significa che abbiamo lavorato bene” ha recentemente dichiarato Cliff Williams. E sorridere in questo nefasto 2020 sarebbe già una grande vittoria.






sabato 31 ottobre 2020

RECENSIONE: ARMORED SAINT (Punching The Sky)

ARMORED SAINT   Punching The sky (Metal Blade, 2020)




cuore, maturità e nessuna nostalgia

Quasi quarant'anni di carriera, otto album incisi in studio. Una pausa, la ripartenza Mai un passo falso. Mai. Ecco se c'è un gruppo che meriterebbe più di quanto raccolto, gli Armored Saint sarebbero lì davanti a reclamare un posto tra i grandissimi. Punching The Sky è qui, ora, a ribadirlo con le sue canzoni stampate a fuoco, dove passato e presente si uniscono, hard rock e heavy metal si fondono, riff e melodia si abbracciano, si odono addirittura strumenti inusuali come la  cornamusa nella maestosa apertura 'Standing On The Shoulders Of Giants', già sulla via del classico e un flauto che apre la finale 'Never You Fret', thrash metal veloce, melodico e diretto alla Armored Saint, lo stesso di 'End Of The Attention Span'. C'è addirittura Dizzy Reed (Guns 'N Roses) con le sue tastiere in un paio di  canzoni. 

Il vecchio sound eighties degli esordi (l'epica 'Missile To Gun') senza essere troppo nostalgici, riff incisivi di matrice thrash metal, echi 90 di Alice in Chains (l'atmosferica e cupa 'Unfair') e Pantera (i riff pesanti e quadrati di 'Do Wrong To None'), la modernità di 'Bubble' e di 'Lone Wolf' dal l'irresistibile chorus, l'hard rock dei maestri Thin Lizzy ('Bark, No Bite') trovano la loro via in un sound che  ha il loro trade mark definitivi stampato sopra. Mai banali nella costruzione melodica, mai scontati i testi. Sì, sono loro. "A volte il mio approccio lirico è un po 'ambiguo e faccio in un modo che le persone pensino a quello che ho detto, leggano tra le righe" dice John Bush

Sono sempre loro: la voce unica, preziosa e inimitabile di John Bush, uno dei cantanti più ambiti della scena metal americana (chiedere ai Metallica. Perché se hai un Bush te lo tieni. Vero Anthrax? Ma cos'era Sound Of White Noise?), il basso, l'intelligenza e la regia- in tempi di pandemia-di Joe Vera (che sempre i Metallica hanno spesso corteggiato ma lui ha preferito i Fates Warning), le chitarre di Jeff Duncan e Phil Sandoval, la batteria di Gonzo Sandoval (ah, il flauto lo suona lui). Una famiglia che non si è mai divisa e che sarebbe ancora più numerosa se Dave Prichard non ci avesse lasciato così presto. Il loro Symbol Of Salvation uscito nel lontano 1991, poco dopo la morte di Prichard, rimane sempre uno dei miei dischi della vita. Questo è sicuramente la loro migliore uscita dopo la reunion. Sono passati quasi trent'anni da quel vecchio disco: era da tempo che non ascoltavo un disco di metal classico con le orecchie dei miei diciotto anni. Conferma che, nonostante tutto, in questo nefasto 2020  stanno uscendo dischi ancora interessanti.





mercoledì 28 ottobre 2020

RECENSIONE: BRENT COBB (Keep 'Em On They Toes)

 

BRENT COBB  Keep 'Em On They Toes (Ol' Buddy Records, 2020) 

 


ballate per l' autunno 

Il quarto disco di Brent Cobb è un po' quella foto presente nel retro copertina: un pick up che viaggia senza troppa fretta in una strada sterrata di campagna con due file di alberi ai lati e un uomo (Cobb naturalmente) con la chitarra seduto nel retro. Brent Cobb è tornato a vivere in Georgia dopo aver esplorato Nashville con l'aiuto del più famoso cugino Dave Cobb, ricercato e famoso produttore. Accelera solo un paio di volte per superare un paio di ostacoli (l'impetuosa armonica di 'Shut Up And Sing' segna i solchi, l'up tempo 'Dust Under My Rug' li ricopre), mantenendo sempre una bassa velocità su ballate country agro dolci, nel minimalismo di 'When You Go', nella lenta galoppata di 'This Side Of The River', giocate anche sul piano (Soapbox') in grado di emanare la serafica pace della quiete del mattino presto e il silenzio della notte fonda, la tranquillità di chi non ha troppa fretta di arrivare e non ha nessunissima voglia di mettere in mostra quello che non è. Come sedersi sulle rive di un fiume e parlare con un amico. 
 "I miei ultimi due album riguardavano persone e luoghi, e volevo che questo album parlasse di pensieri e sentimenti". Non alza mai la voce Cobb, coinvolge tutta la sua famiglia ( la moglie, il padre, i figli come ispiratori) in dieci canzoni che non rivoluzioneranno un bel nulla, pagano dazio alla scrittura di John Prine, Willie Nelson e in particolare a un vecchio album di Jerry Lee Lewis, Country Memories che Cobb non nasconde essere stato di forte ispirazione. 
Prodotto da Brad Cook che Cobb ha fortemente voluto in questo album. "Tutti i suoi dischi suonano così scarni, ma allo stesso tempo c'è molto spazio occupato". Proprio così, come questo disco dal tono autunnale, dal foliage ricco e dalla classica luce fioca e arancione che esce dalle finestre al primo imbrunire d'inverno.





domenica 18 ottobre 2020

RECENSIONE: BETTE SMITH (The Good The Bad & The Bette)

BETTE SMITH   The Good The Bad & The Bette (Ruf Records, 2020)



esuberanza soul

Produce Matt Patton dei Drive By- Truckers, vi suonano il compagno di band Patterson Hood, Jimbo Mathus e Luther Dickinson. E già solo da qui sembra una buona garanzia. Ma il meglio arriva durante l'ascolto di questo album registrato a Water Valley, Mississippi, luogo così lontano dalla sua New York: bello, compatto e scorrevole, dieci tracce dieci, senza riempitivi, noia e passaggi a vuoto. Proprio come i cari vecchi vinili di un tempo. Il secondo album di Bette Smith (il primo Jetlagger è del 2017), cantante soul d'assalto, nativa di Brooklyn è una vera bomba esplosiva di seducenti vibrazioni soul rock, tanto autobiografico nei testi da lei scritti quanto impreziosito da alcuni significativi aiuti esterni in alcune tracce. Parte dalla sua difficile infanzia a Brooklyn innaffiata di canti gospel e soul "Mio padre era il direttore del coro della chiesa. Cantavo da quando avevo cinque anni. Mia madre non ascoltava altro che gospel" arriva a un presente che si tuffa senza indugi nelle terre del southern e pure del garage rock, rinforzato da una buona fila di chitarre schierate, tanto che in certi passaggi vengono in mente i certo più abrasivi Bellrays di Lisa Kekaula.

Un sound che si è evoluto nel tempo come ha raccontato in una recente intervista: " si è evoluto perché era solo blues. Ho iniziato ad ascoltare Aretha Franklin e Billie Holiday. Quando ero molto piccola ascoltavo principalmente Mahalia Jackson perché mia madre era molto religiosa. E ha sempre ascoltato lei e Miriam Makeba, che era una cantante sudafricana. Quindi quelle sono le due persone con cui sono cresciuta."

Ascoltare l'assalto sonoro di 'I Felt It Too' che pare uscita da un live del miglior Southside Johnny è significativo per capire dove sta andando il suo suono. Voce graffiante, roca al momento giusto, presenza fisica da prima linea, Bette Smith si trova a proprio piacimento in ogni situazione: dal tirato funky 'I Will Feed You' che apre il disco nel migliore dei modi, passando dalla autobiografica ballata 'Whistle Stop' dedicata a sua madre morta nel 2005, canzone che avrebbe voluto cantare nel disco insieme al suo idolo Elton John, all'altro assalto rock chitarristico di 'I'm A Sinner', giungendo  all'accattivante 'Human', dedicata al suo cane che si merita pure la presenza in copertina, al sincopato blues elettrico di 'Pine Belt Blues' (cover dei Dexateens) carico di voci nere e gospel, l'altra cover è 'Everybody Needs Love' di Eddie Hinton, fino al finale acustico 'Don' t Stop Out On Me', splendido brano scritto da Willy Vlautin (Richmond Fontaine) con pedal steel e tromba (suonata da Henry Westmoreland e presente in tutto il disco) pronte a evocare spazi e sogni. 

Una Aretha Franklin con il chiodo liso e nero  da rocker, l'esuberanza fisica della giovane Tina Turner, la professionalità di Mavi Staples: posso solo immaginare cosa possa essere dal vivo sopra un palco con la sua essenziale band rock dietro e i fiati al fianco.






lunedì 12 ottobre 2020

RECENSIONE: THEE JONES BONES (Rock And Soul Music)


THEE JONES BONES
   Rock And Soul Music (autoproduzione, 2020) 



questo è amore
Esattamente un anno fa Luke Duke, voce, chitarra e compositore dei camuni THEE JONES BONES mi diceva "il disco nuovo è una bella cosa". Ho passato un anno ad ascoltare file mp3 ma dell'album fisico non vi era mai traccia. "Stai a vedere che ci hanno ripensato. Sarebbe un gran peccato" mi dicevo. È passato tanto tempo e molte cose sono successe in mezzo ma in questi giorni mentre finalmente esce il settimo disco della loro carriera, sembra che la band sia già entrata in studio di registrazione, pronta per far uscire un seguito che lo stesso artista bresciano mi dice "il migliore della serie". Se questa non è voglia di alzare sempre l'altezza dell'asticella e migliorarsi, cos'è? 
Ascoltando in fila i lavori della band lo si può capire benissimo: dal garage hard blues di inizio carriera la proposta è andata via via espandendosi, colorandosi di nuovi umori, fino ad aggiungere massicce dosi di R&B e soul come già avvenuto nel precedente This Is Love grazie all'aggiunta di coriste e fiati. In Rock And Soul Music i fiati non ci sono, ma l'album non tradisce il suo titolo. La band continua ad esplorare i sixties e i seventies con immutato coinvolgimento direttamente proporzionale all'aumento del numero di elementi in organico. La band ora è formata da ben nove musicisti che spesso fanno tornare alla memoria il carrozzone di Joe Cocker e i suoi Mad Dogs : il già citato Luca "Luke Duke" Ducoli (voce e chitarre), Paolo Gheza (basso), Matteo Crema (chitarre), Luca Cottarelli (chitarre), Marco Monopoli (piano), Sergio Alberti (batteria), Anna Pina, Monica Pagani e Tiziana Salvini ai cori. 
Un suono ricco e corposo che pur non perdendo la carica rock'n'roll ('Dance On Saturday Night' è uno spassoso honky tonk che rotola senza freni inibitori), 'Shine On You' è puro Stones sound che mi ha portato alla mente pure il primo pregevole album solista di Izzy Stradlin e i suoi Ju Ju Hounds, l'apertura strumentale 'Roll Up One' s Sleeves' sembra puntare a sud verso gli Allman Brothers. 
Ma a colpire sono episodi come 'This Is Love', sussurro notturno alla Tom Waits interrotto da scariche elettriche e cori, i dieci minuti psichedelici in crescendo di 'Our Song', il soul blues di 'Lady Duke', il breve intermezzo country cantato a cappella 'Once In A Lifetime', quasi una dichiarazione d'intenti, e le due tracce finali, il southern di 'The Streets Of Love' e le atmosfere cangianti, free e jammate di 'You Stoned Me', adatta a dipingere il quadro che potreste trovarvi davanti durante un loro live. 
 A questo punto, non ci resta altro che aspettare l'uscita del prossimo imminente album con queste canzoni a tutto volume, finalmente nello stereo alla vecchia maniera.





sabato 10 ottobre 2020

RECENSIONE: GODSPELL TWINS (Badtism)

 


GODSPELL TWINS  Badtism (Outbreak Records, 2020)



… nel nome delle chitarre

Ecco un disco che potrebbe piacere a tutti gli amanti del buon vecchio rock con profonde radici americane. Nessuno escluso. Dietro al progetto Godspell Twins ci celano vecchie conoscenze come il musicista Nick Baracchi (voce, chitarra) e Carlo Lancini (chitarre, già nel Mojo Filter e ora Stone Garden), aiutati dalla sezione ritmica formata da Daniele Togni (basso) e Jacopo Moriggi (batteria) e da un manipolo di ospiti tra cui Francesco Più, Luca Milani, Elisa Mariani (voci), Filippo Manini (tastiere) e Joe Barreca e Daniele Negro dei Mandolin Brothers.

La copertina svela e mantiene quello che promette: la direzione impostata sul navigatore  è quella che da Bergamo, dove le canzoni sono nate in pieno lockdown tra Marzo e Giugno, porta direttamente tra le strade americane che incrociano spesso e volentieri le chitarre british degli Stones (nell'apertura 'Callie Crane'), che serpeggiano in mezzo alle verdi vallate di prati incontaminati del country ('This Old Town Will Bring Me Down'), che si inerpicano tra le vie buie e profonde del blues (l'acustica 'Kansas City' arricchita dalla chitarra di Francesco Piu). E basterebbe il viaggio affrontato e raccontato in una traccia come 'Way Down Mississippi' per capirlo. Canzone in grado di catturare al primo ascolto. Ci sono chilometri di vita vissuta, strade, sogni, speranze e qualche stoccata politica che in tempi come questi non fa mai male (la tesa 'Children Of War' con la voce di Luca Milani). A far peso sopra al pick up lanciato sull'asfalto la scelta di due cover come 'Willin' dei Little Feat, un classico "on the road" riletto alla loro maniera e una non facile interpretazione di 'Mellow My Mind' di Neil Young che però sembra sintetizzare bene ciò di cui abbiamo bisogno in questi infiniti mesi senza prospettive certe: "qualcuno che ci addolcisca la mente".                                                                            

I Godspell Twins ci provano, almeno per una buona mezz'ora, durata di un disco, sì battezzato in tempi incerti ma anche da una buona stella d'ispirazione.




martedì 6 ottobre 2020

RECENSIONE: DRIVE-BY TRUCKERS (The New OK)

DRIVE - BY TRUCKERS
   The New OK (ATO Records, 2020) 





presenti e combattenti con le elezioni alle porte

Doveva essere un EP con gli scarti del precedente The Unraveling uscito a inizio anno, in Gennaio, quando il Covid era ancora un emerito sconosciuto e il 2020 solo l'anno in cui Donald Trump poteva essere mandato a casa. Il lockdown e l'impossibilità di viaggiare in tour (iniziato e mai finito) hanno invece trasformato The New OK in un vero e proprio album di nove canzoni e 36 minuti di durata uscito a sorpresa senza annunci e troppo clamore. Canzoni che per caratteristiche non si adattavano all'album precedente, invece di prendere la strada delle dimendicate B side, fanno gruppo e diventano protagoniste.
 I Drive - By Truckers non mollano la presa e se il precedente disco si prendeva sulle spalle gli ultimi tre anni di scellerate decisioni politiche americane, qui il tutto si aggiorna di nuovi inquietanti capitoli. "Questa infinita estate di proteste, rivolte , imbrogli politici e orrori pandemici " spiega Patterson Hood. La band di Athens guidata da Hood e Mike Cooley continua la propria corsa fatta di canzoni tese ('The Unraveling', canzone che porta il titolo dell'ultimo album e ospia la voce di Bobby Matt) e chitarre taglienti ('The New Ok' è un buon compromesso tra Tom Petty e Neil Young), percorrendo anche inedite e riuscite strade funky e soul come succede in 'The Perilous Night' e 'Sea Island Lonely' dai forti sapori southern soul con i fiati in bella evidenza, ballate come 'Sarah's Flame' e 'Watching The Orange Clouds' quest'ultima ispirata dalle proteste di piazza scaturite dopo l'omicidio di George Floyd a Minneapolis e dove cantano "non mi rendevo conto che questo fondale è così dannatamente profondo, sperando che un giorno ci alzeremo e andremo in un posto migliore". 
Il valzer elettrico con l'hammond in bella evidenza di 'Tough To Let Go' piace, così come la cover dei Ramones 'The KKK Took My Baby Away' cantata dal chitarrista Matt Patton cercando di non ribaltare troppo l'originale carica punk. 
La conferma, se mai ce ne fosse bisogno, che i Drive By Truckers sono tra i gruppi rock americani più presenti e calati nell'incerto futuro dei loro Stati Uniti. E questo disco, uscito a sorpresa, è certamente anche un'astuta mossa politica in vista delle imminenti elezioni presidenziali. Bene così.




sabato 3 ottobre 2020

RECENSIONE: BLUE ÖYSTER CULT (The Symbol Remains)

BLUE ÖYSTER CULT 
 The Symbol Remains (Frontiers Records, 2020)





simbolo indelebile
Il fatto che in Giappone l'album sia già uscito fa sì che lo si trovi in rete con una certa facilità. Quindi è circa una settimana che mi gira allegramente in macchina. La passione è debole. 
Prima che parta 'The Machine', canzone incastonata a metà di un un album fin troppo generoso di quattordici canzoni per sessanta minuti (naturalmente i giapponesi hanno anche la loro esclusiva bonus track), si sente la vibrazione e il suono di un cellulare: è un po' il segno dei tempi che ci annuncia il ritorno della band guidata dagli storici Eric Bloom (chitarre, tastiere, voce) e Donald "Buck Dharma" Roeser (chitarre, tastiere, voce) dopo diciannove anni di assenza discografica (Danny Miranda al basso, Jules Radino alla batteria e Richie Castellano alle tastiere, chitare e voce in un paio di pezzi a completare). Tanti ma l'importante è esserci e dimostrare vitalità e freschezza. 
In qualche modo qua dentro convivono l'una con l'altra. 
Ascoltando e riascoltando The Symbol Remains, uscito per la nostra Frontiers Records, del nuovo Blue Öyster Cult posso dire che non si sono fatti mancare proprio nulla in varietà: hard massicci e pesanti (la minacciosa apertura 'That Was Me' nasconde anche un intermezzo reggae al suo interno, la bella 'The Return Of St. Cecilia' a recuperare il passato), 'Box In My Head' avanza incalzante rastrellando melodia e chorus vincenti, heavy oscuri e veloci ('There' s A Crime'), rock'n'roll con pianoforte in primo piano ('Nightmare Epiphany'), boogie blues scalcianti e divertenti ad evocare una locomotiva in corsa con tanto di armonica ('Train True (Lennie's Song)'), Aor melodici e soft rock d'annata ('Tainted Blood'), accenti southern (la bizzarra 'Florida Man' scritta insieme al paroliere e romanziere John Shirley), incursioni prog nella saga quasi teatrale di 'Alchemist', la più lunga  nei suoi sei minuti e forse il vero capolavoro del disco. 
Certo non tutto è perfetto: il metal epico alla Manowar (!!!), suono, cori e titolo compreso, di' Stand And Fight' mi fa sorridere…anche se nelle loro corde da sempre. Manowar prima di voi, si potrebbe quasi osare. Ricordate 'Godzilla'? 
Le parole di Eric Bloom confermano: "quando sono emerse le demo delle canzoni, ci siamo resi conto che c'era tanta, se non maggiore, varietà nello stile e nei contenuti in questo disco che nella nostra storia". 
Sì: questo album vola sopra la loro intera carriera in modo disinvolto, spassoso e divertente. Manca quell'alone di mistero, esoterismo e paranormale in bianco e nero che permeava i loro migliori anni settanta ma la croce con il gancio riesce ancora a sollevare, agganciare e distruggere a seconda dei casi. Anche se a colori da moltissimi anni. 
Non male dai, per una band con tutti quei decenni sulle spalle.