giovedì 25 giugno 2015

RECENSIONI:GIANT SAND(Heartbreak Pass) CALEXICO(Edge Of The Sun)


GIANT SAND
HEARTBREAK PASS
(New West Records, 2015)



Festa riuscita
Il recente tour italiano di Howe Gelb, condiviso con Grant-Lee Phillips, è stato una mezza delusione, e Gelb ha recitato la parte della mela marcia. Peccato. Chi lo conosce sa quanto il talento polveroso  venga fuori con maggior incisività quando è in compagnia, sebbene la nutrita band di Tucson è a tutti gli effetti una one man band. Per festeggiare i trent’anni di carriera ci sono 15 nuove canzoni, registrate in giro per il mondo e divise in tre parti, ogni capitolo racchiude un decennio di vita, come spiega Gelb: “la prima parte trasmette un senso di abbandono rumoroso e fortunato, la seconda è più pensierosa, lenta ma diretta, la terza  è il cuore in costante agitazione a causa di un continuo oltrepassare l’oceano, la benedetta maledizione dell’indie-transponder”. Una festa di alt/desert rock che tocca il folk e sfiora pure il jazz, a cui partecipano anche il già citato Phillips, Steve Shelley, John Parish e i nostri Vinicio Capossela (‘Heaventually’) e Sacri Cuori (‘Hurtin’ Habit’). (Enzo Curelli) da CLASSIX! #44 (Giugno/Luglio 2015)

vedi anche: GRANT-LEE PHILLIPS & HOWE GELB live@Latteria Molloy, Brescia, 4 Aprile 2015



CALEXICO
EDGE OF THE SUN
(City Slang, 2015)



Sole e luna
Il tour primaverile in Italia ha confermato quanto siano amati dalle nostre parti. John Convertino e Joey Burns hanno lasciato importanti impronte (‘The Black Light’ e ‘Hot Rail’ tra i loro capolavori) lungo le strade che dall’Arizona portano all’Europa e ora stanno raccogliendo i meritati frutti. ‘Edge Of The Sun’ non cerca lo stacco dal recente passato, il viaggio in direzione Messico è la conferma di quanto luoghi e suggestioni siano ancora al centro della loro musica, ma in primo piano finisce la ricerca della contaminazione perfetta e globale, soprattutto grazie alla interminabile lista di ospiti che compaiono nei credits, tra cui spiccano Ben Bridwell dei Band Of Horses, Sam Beam degli Iron And Wine, Neko Case, Nick Urata dei Devotchka. Manca il fascino misterioso dei primi tempi, presente troppo sporadicamente (‘World Undone’): giova forse alla maggiore immediatezza che esce da tracce come ‘Cumbia De Donde’, ‘Falling From The sky’ e ‘Tapping On the Line’. (Enzo Curelli) da CLASSIX! #44 (Giugno/Luglio 2015)







lunedì 22 giugno 2015

FESTA DELLA MUSICA, BRESCIA, 20 Giugno 2015

Hell Spet
The Tettalovers


Van Cleef Continental


Cek Deluxe


Cek Deluxe


The Crowsroads


Nana Bang

Jukebox all'Idrogeno


GuruBanana/Dead Candies



 

giovedì 18 giugno 2015

DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #1: FRANCESCO DE GREGORI (Titanic)

FRANCESCO DE GREGORI Titanic (RCA, 1982)


Questo è stato il disco delle mie estati per molti anni. Lo registrai sul lato A di una vecchia cassetta da 90, compresi i fruscii e i tonfi della puntina mentre s’adagiava (bruscamente) e si alzava dal disco, nel lato B ricordo una compilation di vecchi successi country tra cui Tom Dooley (chissà in quale versione?) e On The Road Again di Willie Nelson. Avevo undici anni, e lo scovai dalla raccolta di vinili di mio zio in Friuli, in mezzo a tanta altra bella roba. Pomeriggi estivi passati a contemplare quel povero e “freddo” frigo in copertina, con metà merluzzo e metà limone già spremuto per bene che sembravano abbandonati da giorni, magari da qualcuno partito per le vacanze estive come me. Quella foto, in verità scattata una mattina dallo stesso De Gregori nella sua cucina, riusciva a darmi quella sensazione di refrigerio necessaria per combattere la calura estiva della campagna friulana, mentre con il passare dei giorni si trasformava, trasmettendo sempre più malinconia, toccando il culmine durante le ultime ore di vacanza, quelle che precedevano la ripartenza verso il Piemonte.
Ho imparato il testo di Titanic come una filastrocca. Mi ha seguito per tutta la vita. Se davanti ad un falò in spiaggia mi chiedete una canzone da cantare, statene certi, io partirò con ”la prima classe costa mille lire…la seconda cento…la terza dolore e spavento…”. Le filastrocche imparate a scuola le ho dimenticate tutte al suono della campanella. Titanic no, non l’ho imparata a scuola. L’ho amata.
Ho cercato di immaginare il volto sotto a quei Belli Capelli, ancora adesso non so come sia. Ho cercato di immaginare il mio futuro in “quella palla di cannone accesa"  ma non l’ho ancora raggiunto. Forse mai lo farò. Ho vestito quella maglia numero sette, ma ho avuto paura di tirare quel maledetto e fottuto rigore. Ho fatto partire i miei sogni di rock’n’roll con Rollo & His Jets. Quelli continuano ancora…


 
 

giovedì 11 giugno 2015

RECENSIONE:BOB DYLAN (Shadows In The Night) JJ GREY & MOFRO (Ol' Glory)

BOB DYLAN Shadows In The Night (Sony/Columbia, 2015)




Saggezza definitiva
La recente ed esclusiva intervista per presentare l’album, rilasciata all’organo ufficiale dei pensionati americani AARP, è già un indizio per capire che strade sta percorrendo: “la passione è per i giovani, gli anziani dovrebbero essere più saggi. Se sei vecchio e ti comporti da giovane, rischi di farti male". Qualcuno ha atteso l’uscita con il fucile puntato, pronto ad esplodere l’ennesimo “cos’è questa merda?”. Ma Dylan ripaga con un disco languido, sentito, magico, in cui mette in gioco completamente se stesso, ancora una volta: affrontare il repertorio di Frank Sinatra potrebbe mettere al tappeto qualunque vero crooner di questa terra, ma Dylan vince la partita mettendo davanti a tutto lo scorrere del tempo. La vita e la morte trovano il giusto equilibrio e la sua interpretazione se ne frega dello stile esaltando la profondità. Dylan veste le dieci canzoni di pochi indumenti, la sua voce così (im)perfetta calza su tutto. Dylan è vecchio, si comporta da vecchio e commuove. (Enzo Curelli) da Classix! #43 (Marzo/Aprile 2015)




JJ GREY & MOFRO Ol’ Glory (Provogue Records, 2015)




Southern accents
La sorpresa più grande che potreste incontrare dopo aver ascoltato il nono album in carriera di JJ Grey, se ancora non lo conoscete, è scoprire che il colore della sua pelle non è il nero. La sua musica è un calderone dove blues, rock, funk, gospel, R&B e soul viaggiano all’unisono, legati insieme da personali liriche pregne degli umori sudisti della sua Jacksonville e di grande amore verso la vita, cantati da una voce passionale, intensa, colorata di forti dosi di pennellate black. Il groove alla base di tutto. Sempre. Dei CCR degli anni duemila con in più il calore dei fiati. I Mofro sono una band allargata che non lascia prigionieri: incalzanti nel funk di ‘Turn Loose’, contagiosi e graffianti nel rock di ‘Hold On Tight’, viziosi nella trascinante title track, catalizzanti quando calano i ritmi (‘Island’, ‘Home In The Sky’). Difficile non farsi contagiare dalla loro formula magica e da ospiti degni di nota come Luther Dickinson e Derek Trucks. (Enzo Curelli) da Classix! #43 (Marzo/Aprile 2015)





domenica 7 giugno 2015

RECENSIONE: CROSBY, STILLS, NASH & YOUNG (CSNY 1974, box set)

CROSBY, STILLS, NASH & YOUNG ’CSNY 1974’ (Rhino/Warner)



Nulla è perduto
Chiuso il primo grande capitolo della loro storia con il live ‘4 Way Street’ uscito nel 1971 e svaniti come bolle di sapone i tanti ideali di una generazione di cui erano diventai un’icona, CSNY nel 1974 erano già acqua stagnante nel giardino fiorito delle singole carriere che peraltro, pur innaffiate da un'ispirazione ai massimi livelli mai più raggiunti, non decollavano come dovuto a causa del marcio che girava intorno: Neil Young stava assaporando il grande successo arrivato con ‘Harvest’ ma la morte per overdose di Danny Whitten, chitarrista dei Crazy Horse, lo fece cadere in un abisso di sensi di colpa (Whitten era appena stato licenziato dallo stesso Young) che però ispirarono due tra le sue opere migliori di sempre, Graham Nash esordì come solista dopo la rottura sentimentale con Joni Mitchell e mise in piedi con David Crosby (reduce dalla morte della madre e da un fresco e non certo ultimo arresto per detenzione di droga) un tour e un disco in coppia, Stephen Stills, il più mal sopportato, stava nuotando a bracciate alterne nella merda delle droghe, cercando un salvagente nei nuovi Manassas, brillanti ma che durarono il tempo di due dischi per poi naufragare con tutte le numerose comparse. Perfino quella che doveva essere una rimpatriata tra vecchi amici alle Hawaii nella casa sulla spiaggia di Young si trasformò in un fallimento dopo le buone premesse iniziali che sembravano portare a un nuovo disco targato CSNY con tanto di copertina e titolo (‘Human Highway’) già pronti. "Metteteci tutti e quattro in una stanza e la minima cosa può innescare un'esplosione fatale. Siamo i peggiori nemici di noi stessi. Che razza di partnership!". Così Nash nella sua recente autobiografia.
Sotterrati nella sabbia di Mala Wharf i tentativi di riconciliazione insieme a eccessi, ego e droghe, ci pensa il vento (sotto forma di Bill Graham) a far volare banconote di verdi dollari verso i quattro, mettendoli tutti d'accordo: un enorme tour di 31 date da tenere nei grandi palazzetti della nazione con il grande finale in Europa, a Londra. Una grande idea che li tenne impegnati per tre mesi. Perché, nonostante tutto, i quattro sul palco erano veramente qualcosa di esplosivo, un patrimonio di perfetta armonia senza eguali che sotterrava tutto il resto.
© Joel Bernstein
 Delle registrazioni di quel tour mai nessuno volle saperne, e il motivo era impresso nella scarsa qualità. Graham Nash e Joel Bernstein hanno fatto un grande lavoro di rispolvero seppure la mancanza di pezzi da novanta come ‘Carry On’ e ‘Woodstock’ grida vendetta. Tra la versione da urlo di ‘Almost Cut My Hair’ con un lisergico Crosby e l’improvvisata ‘Goodbye Dick’ di Young, stoccata contro Nixon, a confermare l’ impegno politico per nulla affievolito, ci sono tre ore ad alta intensità. Il cofanetto è composto da tre CD (40 canzoni, molte estratte dalle rispettive carriere soliste), un debole DVD con sole 8 tracce, ma con un esauriente libretto: 188 pagine, foto e note biografiche. Da avere. (Enzo Curelli) da Classix! #40




LA PAROLA AI PROTAGONISTI
“…quando ci venne proposta una tournée da tenersi nell’estate del 1974, accettai. Accettammo tutti. Altroché…Era un po’ che non andavamo in tour e tutti noi avevamo stili di vita dispendiosi. C’era di sicuro l’incentivo finanziario. E, da quel punto di vista , devo dire che ci svendemmo…La musica era tutta un’altra faccenda. Svolgevamo i nostri riti pre concerto: sniffavamo una riga e salivamo sul palco. A volte eravamo fantastici, altre no. In un paio di sere fummo sfilacciati, stonati, lisergici. Nessuno di noi era al meglio delle proprie potenzialità. Semplicemente girava troppa cocaina…Sul palco, Neil stava da una parte, Stephen dall’altra, con Croz e me nel mezzo, una collisione di ego pazzeschi simile a una fusione nucleare, ma, non appena le luci si accendevano…nel momento in cui la musica e le luci ci illuminavano, andava bene tutto…Eravamo bravi a far sembrare tutto organico. Sul palco, la nostra immagine era quella dei Quattro Moschettieri…Furono un paio di mesi selvaggi, sfrenati, orgiastici, licenziosi, ricchi di scene assurde e , spesso, di musica meravigliosa.” GRAHAM NASH da ‘Wild Tales’ (2013)
“…non prendo in giro la gente quando sto sul palco. Stavano urlando tutti, per cui ho chiesto di sedersi, di calmarsi e di fare un po’ di silenzio. Ma c’era davvero troppo rumore ed ero in difficoltà, per cui, una volta interrotto, non avevo più la spinta emotiva per ricominciare daccapo quella canzone. Così ho attaccato ‘Guinnevere’ e l’ho fatta anche fottutamente bene!” DAVID CROSBY a Rolling Stone (1974) dopo l’interruzione di ‘For Free’ nella data di Vancouver.
“…potrebbe darsi anche che dal tour dell’estate venga fuori un disco dal vivo, so che ci sono almeno venticinque minuti di canzoni mie decisamente pubblicabili. Per quel tour avevamo messo insieme materiale buono, veramente interessante…dopo ogni concerto me ne andavo con mio figlio, il cane e due amici. Così potevo essere fresco ed essere pronto per ogni spettacolo” NEIL YOUNG, 1975
© Joel Bernstein
“…ovviamente i soldi sono parecchi. Voglio dire, posso costruirmi il tipo di studio che voglio e non ho scuse. Non credo che stiamo derubando nessuno, se alla gente non interessasse non verrebbe ai concerti. Questa è la differenza tra business e arte e noi quattro siamo tutti estremamente dediti alla nostra forma d’arte.” STEPHEN STILLS, 1974
"Ogni cosa sarebbe stata di prima classe. I viaggi si sarebbero svolti a bordo di aerei privati, elicotteri e limousine scortate dalla polizia. In tutti gli alberghi, federe ricamate a mano con il disegno che Joni (Mitchell) aveva realizzato di noi quattro, serigrafato in cinque tinte sulla parte anteriore. Il medesimo logo era impresso a fuoco su vassoi di tek che utilizzavamo in tutti i concerti. Dormivamo ogni notte in enormi suite , nei migliori alberghi, con il cibo più incredibile: sushi, champagne, aragosta, caviale a non finire. Avevamo un tizio che ci riforniva di un grammo di coca al giorno. Una volta, chiamai il mio amico Mac e chiesi:" Che ti succede se mandi giù un intero grammo di coca, perché credo di aver appena assunto una capsula di coca insieme alle mie vitamine?". Disse: "Non preoccuparti, guarda la tv e basta. Non ti succederà nulla". Incredibilmente decadente." GRAHAM NASH
"Furono un paio di mesi selvaggi, sfrenati, orgiastici, licenziosi, ricchi di scene assurde e, spesso, di musica meravigliosa" GRAHAM NASH

vedi anche
RECENSIONE: DAVID CROSBY-Croz (2014)
COVER ART: NEIL YOUNG (On The Beach, 1974)
RECENSIONE: NEIL YOUNG-Storytone (2014)
RECENSIONE LIBRO: GRAHAM NASH (Wild Tales)




venerdì 29 maggio 2015

RECENSIONE: BANDITOS (Banditos)

BANDITOS  Banditos (Bloodshot/IRD, 2015)



Tre voci soliste che si alternano, due maschili (i chitarristi Timothy Steven Corey Parsons e Stephen Alan Pierce II anche al banjo) e una femminile (Mary Beth Richardson alle prese con  kazoo-Long Gone, Anyway- e tamburello), e tanti input musicali presi dalla vecchia tradizione americana con banjo e contrabbasso che riescono a rendere la proposta del gruppo proveniente dall'Alabama, ma di casa a Nashville, fresca, variegata e personale. A dispetto di un look che potrebbe far pensare ad una Southern rock band arcigna e cazzuta, i Banditos sono un sestetto (completano la formazione l'altro chitarrista Jeffrey David Salter, il bassista e contrabassista Jeffrey "Danny" Vines e il batterista Randy Taylor Wade) a cui piace scavare molto indietro nel tempo, facendo partire ogni cosa dal vecchio rock'n'roll '50 (Cry Baby Cry), aggiungendo di volta in volta qualcosa di diverso per far virare le canzoni verso strade suggestive, a volte impervie, ma sempre rassicuranti nel loro mantenere i piedi nel territorio americano più polveroso e umidiccio di alcol appena rovesciato: dal vigore del boogie/blues quasi zz topiano dell'apertura The Breeze, alle dissonanze elettriche di Golden Grease, all'evocativo blues di Old Ways, al fervore rockabilly/garage di Still Sober (After All These Beer), all' hillybilly di Waitin'  con la voce della Richardson che inizia ad impossessarsi della scena risultando, a fine disco, la vera arma in più: all'occorrenza sa indossare i vestiti dell'innocenza irriverente alla Wanda Jackson, per poi trasformarsi in una affamata e sanguigna Janis Joplin in No Good.
In questo disco tutto parla l'antica lingua della tradizione americana. La vera sorpresa è il piglio con cui viene presentato il tutto: non c'è tempo per far posare troppa polvere  sugli strumenti. "La maggior parte dell'album è stata registrata dal vivo e l'energia si sente sicuramente" dice il chitarrista Salter. I Banditos viaggiano che è un piacere anche quando ciondolano in ballate come Blue Mosey #2 e la finale Preachin' To The Choir, una perfetta chiosa soul. Impatto sporco, attitudine sudata e presenza scenica genuina bastano a formare il carattere vincente di una band che bada al sodo e che ha portato a casa la partita alla prima uscita discografica.
I Banditos sono una delle sorprese più interessanti di questa prima metà dell' anno.





mercoledì 27 maggio 2015

RECENSIONE: HAYSEED DIXIE (Hair Down To My Grass & live@Spazio 211, Torino, 13 Febbraio 2015)



HAYSEED DIXIE
‘HAIR DOWN TO MY GRASS’
(Hayseed Dixie Records)
 
Veniam giù dai monti...
Usciti di scena i due fratelli Reno, da sempre pilastri musicali della band, sostituiti dai nuovi entrati Johnny Butten (banjo) e Hippy Joe Hymas (mandolino), la strana e vivace creatura di John Wheeler, nata tra i monti Appalachi, continua imperterrita a portare avanti la formula che li ha visti nascere: reinterpretare la storia del (hard) rock sotto la veste country/ bluegrass. Se in principio c’era il repertorio degli AC/DC, dei Kiss, e poi arrivarono le prime canzoni autografe e persino dischi cantati in lingua scandinava, questa volta a farne le spese sono canzoni più leggere legate al glam e all’hard rock melodico anni ottanta: Twisted Sister, Def Leppard, Survivor, Europe, Bryan Adams, Scorpions, Bon Jovi e Journey entrano nel calderone. Una formula che pur sembrando ripetitiva rimane accattivante e divertente, in particolar modo quando tutto si trasferisce sopra ad un palco. Lì potreste essere catturati definitivamente. (Enzo Curelli) da CLASSIX! # 43 (Marzo/Aprile 2015)
 

 
live @ Spazio 211, Torino, 13 Febbraio 2015
Appalachian rockgrass
La serata è di quelle rigide e grigie. Dentro al piccolo club di Torino però, la visione di due enormi figure vestite di bermuda mimetiche e grossi anfibi sembra dare un caloroso benvenuto: l’irsuto bassista Jake Bakesnake Byers e il cantante e leader John Wheeler, i due veterani della formazione americana scesa dai monti Appalachi  alla conquista del mondo a suon di brani hard rock rivisitati in salsa country/bluegrass (rockgrass è il loro trademark), si aggirano indisturbati e sorridenti tra il pubblico. I due integratissimi nuovi elementi della formazione, invece, si intravedono dalla porta socchiusa del camerino: Johnny Butten, di diritto nei Guinness dei Primati come le dita più veloci al mondo se si tratta di suonare le corde di un banjo e Hippy Joe Hymas al mandolino, personaggio eccentrico, vero spasso per gli occhi, una babilonia di smorfie che cattura gli sguardi  e accende sorrisi durante tutto il concerto. Ad aprire, il contagioso country and roll dei padroni di casa FJM, un trio dal tiro punk che il pubblico amico apprezza e gradisce. Serata portata a casa tra gli applausi. Gli Hayseed Dixie, invece, hanno un nuovo album da presentare HAIR DOWN TO MY GRASS, il loro tributo al glam/street rock degli anni ottanta (We’re Gonna Take It, Pour Some Sugar On Me e Eye Of The Tiger sono uno spasso così stravolte), ma in apertura di concerto vogliono giocare  sul sicuro con due brani della band australiana da cui hanno preso il nome. Hells Bells e You Shook Me All Night Long sono un biglietto da visita vincente che li traghetterà senza cedimenti fino alla fine, quando si aggiungerà l’immancabile e spianata “autostrada per l’inferno”.
I loro concerti sono una sarabanda ben assortita di traditional bluegrass suonato con piglio da veri metallari tanto che su Ace Of Spades si scatena l’inevitabile pogo nelle prime file, musica classica (Eine Keine Trinkemusic di un certo Mozart),  tecnica strumentale invidiabile (Bohemian Rhapsody è sempre un piacere, una”killing song” come dicono loro) e gag divertenti. A centro palco a fare da scenografia, dove tutte le band normali terrebbero una batteria, campeggia un frigorifero stipato di birre. Gli Hayseed Dixie, infatti, di normale hanno ben poco e John Weeler è un cerimoniere che tra un elogio ai vini italiani, snocciolati uno dopo l’altro da vero ed esperto sommelier, giochi di parole che legano insieme il compianto R.J. Dio  con alcune bestemmie italiane imparate con nonchalance dal defunto Germano Mosconi, quando imbraccia il violino incanta e la pinkfloydiana Comfortably Numb si candida a miglior brano della serata. Il meglio arriva nel finale quando la lunga esecuzione di Hotel California diventa un contenitore pieno di sorprese e citazioni tra cui emergono un inaspettato e bizzarro omaggio a Tiziano Ferro e una coinvolgente Clandestino di Manu Chao. Finito il concerto, come la loro ironica canzone Merchandise Table invita a fare: tutti al banco merchandise per lo shopping, foto di rito...e l’ultimo brindisi. (Enzo Curelli) da CLASSIC ROCK # 29 (Aprile 2015)
altre foto e scaletta QUI


 

lunedì 11 maggio 2015

GOAT live@Latteria Molloy, Brescia, 9 Maggio 2015




SETLIST
1. Words 2. The Light Within 3. Let It Bleed 4. Disco Fever 5. Hide from the Sun 6. Talk to God 7. Goatlord 8. Goatman 9. Run to Your Mama 10. Gathering of Ancient Tribes 11. Golden Dawn 12. Goatslaves 13. Goatchild 14. Goathead 15. Det som aldrig förändras



 

venerdì 8 maggio 2015

RECENSIONE: WILLIAM ELLIOTT WHITMORE (Radium Death)

WILLIAM  ELLIOTT WHITMORE Radium Death (ANTI)


Il giovane vecchio
I tatuaggi nascosti sotto la camicia tradiscono la gioventù passata ascoltando i dischi dei Minor Threat e i trascorsi musicali suonando in una punk rock band; lo scenario sul retro è, invece, un dipinto rurale che ritrae trattori, fattorie e i campi arati del suo Iowa.
Mai come in questo ottavo disco le due anime del trentasettenne folksinger si sono mescolate così bene: la voce allenata con i vecchi dischi di Leadbelly posati sul giradischi è sempre una lama che raschia sul vetro, sia quando le chitarre elettriche ed una full band si prendono la scena (Healing To Do, Don’t Strike Me Down), sia quando lo scarno folk blues tenuto in piedi da soli banjo e chitarra acustica riportano alle atmosfere agresti dei precedenti dischi (Have Mercy, Civilizations). Whitmore si conferma tra i più credibili narratori americani dei nostri tempi: la vicenda delle povere operaie morte intossicate a Orange (New Jersey) conosciute come “radium girls” diventa lo spunto per costruire un sorta di concept album su una delle più grandi menzogne umane della storia del Novecento.

Enzo Curelli,
7 da Classic Rock #30 (Maggio 2015)

vedi anche
RECENSIONE: SEASICK STEVE-Sonic Soul Surfer (2015)
RECENSIONE: STEVE EARLE-Terraplane (2015)

martedì 5 maggio 2015

RECENSIONE/REPORT: SOCIAL DISTORTION live @ Live Club, Trezzo sull'Adda (MI), 23 Aprile 2015




 
Esco dal Live Club di Trezzo, stracolmo e sold out (pare), mentre un gruppetto di skin, neri o rossi non lo so-ma non ha importanza-si scaglia meschinamente su un povero malcapitato, riempendolo di pugni e calci. Cose brutte da vedere ad un concerto, soprattutto dopo aver la certezza che, stasera, la differenza l'ha fatta proprio il pubblico presente. Le  stesse persone che durante Ring Of Fire di Johnny Cash, il pezzo più osannato e cantato della serata, hanno portato in trionfo la band di Mike Ness, Jonny Two Bags (chitarre), Brent Harding (basso) e del "figlio dei Los Lobos" David Hidalgo Jr. (batteria) . Mi chiedo anche quanto sia singolare e curioso che, dopo più di trent'anni di carriera, il pezzo più conosciuto rimanga una canzone che non porta la loro firma. Eppure si stava celebrando il venticinquennale di quell'album omonimo uscito nel 1990 che racchiude bene tutte le anime musicali di Mike Ness (punk, hardcore, rockabilly, blues e country) e  contenente pure tanti inni come Story Of My Life e Sick Boys (sulle cui note si scatena, comunque, il finimondo). Una prima parte di concerto tirata e senza cedimenti- e senza sorprese visto che la scaletta segue l'ordine dei brani nel disco- anche se Ness sembra tenuto in piedi più dal forte carisma e un po' meno dalla voce che arriva poco. A deludere, invece, è la seconda parte di concerto, più stanca e povera di sostanza, con lo storico debutto Mommy's Little Monster incredibilmente ignorato, ma non sarà il solo: il riuscito Sex, Love And Rock'n'Roll (2004), dedicato allo scomparso Dennis Danell dov'era? L'ultimo sforzo di una discografia parsimoniosa, Hard Times And Nursey Rhymes, è invece fresco di memoria e ricordato grazie a Machine Gun Blues e Gimme The Sweet And Lowdown.
Non bastano una ben accolta Cold Feelings dal sempre sottovalutato Somewhere Between Heaven And Hell (1992) e la già citata Ring Of Fire a non far nascere alcuni dubbi su quante canzoni in più potessero essere presenti in scaletta, visto le poche date da headliner nel nostro paese nel corso degli anni. Anche se poi gioca tutto a favore dell'integrità artistica di Mike Ness: uno che non è mai sceso a compromessi con niente e nessuno. Diritto per la sua strada, anche quando decide di sacrificare le canzoni autografe a favore di cover come Wild Horses degli Stones-non roba da poco comunque-che tradisce anche le sue vere e vecchie radici musicali.
 
SETLIST
So Far Away/Lei It Be Me/Story Of My Life/Sick Boys/Ball And Chain/I Coulda Been Me/She's A Knockout/A Place In My Heart/Drug Train/Cold Feelings/Machine Gun Blues/Wild Horses/I Won't Run No More/99 To Life/Gimme The Sweet And Lowdown/Ring Of Fire/Don't Drag Me Down
     
     

sabato 2 maggio 2015

RECENSIONE:THERAPY? (Disquiet)

THERAPY? Disquiet (Amazing Records)


Coerenza
Per i più distratti, i nord irlandesi Therapy? sono quelli di TROUBLEGUM (1994), album monumento dell’alternative rock anni novanta appena festeggiato in tour per il ventennale. Al massimo quelli ancora più grezzi del precedente NURSE(1992) o quelli più accessibili di INFERNAL LOVE (1995). Poi? Per molti il nulla. Invece la band di Andy Cairs e Michael McKeegan ha continuato a produrre dischi a cadenza regolare, seguendo un percorso che li ha portati a sperimentare, mostrando una libertà di movimento che ha toccato tutte le sfumature: dai dischi più melodici e rock'n'roll (SHAMELESS-2001, HIGH ANXIETY-2003) ai quelli ostici e poco penetrabili (SUICIDE PACT YOU FIRST-1999, CROOKED TIMBER-2009), il tutto senza farsi influenzare da mode musicali e lontano da qualsiasi catalogazione. Anche questo quattordicesimo album segue la filosofia di sempre.
La collaudata formazione a tre (con Neil Cooper alla batteria) sa ancora scrivere buone melodie pop (Tides) e picchiare all’occorenza (Insecurity) senza dimenticare di far pensare. Tutto convincente in quello che potrebbe essere il loro best seller del nuovo millennio. Enzo Curelli 8 da Classic Rock #29 (Aprile 2015)

vedi anche
RECENSIONE/REPORT: THERAPY? live @ Rock'n'Roll arena, Romagnano sesia (NO), 9 Novembre 2012


lunedì 27 aprile 2015

RECENSIONI: SEASICK STEVE (Sonic Soul Surfer) STEVE EARLE & THE DUKES (Terraplane)

SEASICK STEVE ‘SONIC SOUL SURFER’ (Caroline International/Universal)

Il vecchio e il mare
Steve parcheggia il verde trattore John Deere sul lungomare e si catapulta in spiaggia. Si tuffa in acqua con una tavola da surf, esorcizzando la paura che gli ha procurato il soprannome, gridando a tutti quanto è bella la vita in California (‘Summertime Boy’) mentre uno schiacciapensieri suonato da Ben Miller saltella tra le ormai mitiche chitarre artigianali. Ma non bisogna farsi ingannare dal singolo, dopo il più addomesticato e prodotto ‘Hubcap Music’ è un ritorno al suono blues, anche contaminato, ma puro e grezzo dei primissimi dischi. “L’intero disco è stato registrato da me e Dan Magnusson mentre eravamo seduti a bere e suonare”. Improvvisato interamente nella sua fattoria con il fedele batterista e compagno di sbronze, ‘Sonic Soul Surfer’ è un disco di riflessione sul tempo che passa, costruito tra assalti boogie (‘Sonic Soul Boogie’), oscuri blues (‘Dog Gonna Play’), hillbilly (‘In Peaceful Dream’) e amare ballate acustiche (‘Heart Full Of Scars’). (Enzo Curelli) da CLASSIX! #43(Marzo/Aprile)



STEVE EARLE &THE DUKES ‘TERRAPLANE’ (New West Records)


Omaggio blues
“…un giorno quando sarebbe arrivato il momento, avrei fatto un disco blues”. Così Steve Earle, nelle note di copertina, presenta il nuovo album: undici inediti che vogliono essere un’ode ai grandi, da Robert Johnson a Howlin’ Wolf, da Lightnin’ Hopkins a Freddie King e ZZ Top, e che aspettavano il momento giusto per farsi strada tra la lunga discografia. Un disco essenzialmente di blues elettrico con il chitarrista dei Dukes, Chris Masterson, a fare lo sporco lavoro in prima linea. Canzoni d’amore e sesso (‘Baby Baby Baby’, ‘You’re The Best Lover That I Ever Had’), d’abbandono (‘Better Off Alone’), redenzione (‘King Of The Blues’) e crocicchi diabolici (‘Tennessee Kid’) con la varietà musicale assicurata dai violini e dalla seconda voce femminile in ‘Baby ‘s Just As Mean As Me’. Un buco tappato nella discografia che però lascia entrare qualche spiffero. Earle ci ha sempre abituati al meglio, ma qui sembra giocare troppo con gli stereotipi. Un peccato che comunque gli perdoniamo. (Enzo Curelli) da CLASSIX!#43 (Marzo/Aprile)


vedi anche
RECENSIONE: SEASICK STEVE-Hubcap Music (2013)
RECENSIONE: STEVE EARLE-The Low Highway (2013)



giovedì 16 aprile 2015

RECORD STORE DAY 2015 revisited

RECORD STORE DAY 2015 revisited (ossia: l'articolo dello scorso anno ampliato con nuovi artisti, dischi e racconti)
Un ringraziamento collettivo a tutti i musicisti (quelli dello scorso anno e nuovi) che hanno riaperto lo scrigno dei ricordi, rovistato tra i dischi della loro memoria, soffiato tra la polvere del tempo, estratto la nostalgia dalla busta, posato la puntina tra un sogno e una canzone; condividendo le loro primissime emozioni legate alla musica, ad un vinile che girava, una copertina che li ammaliava, un testo che li rapiva. A tutti quelli che hanno varcato nuovamente la porta di quel vecchio negozio di dischi, quello che esiste ancora e tiene duro e quello che nel frattempo è diventato un dispersivo e freddo centro commerciale.
Leggendo questi racconti si possono trovare tracce del proprio passato: cambiano gli anni, cambia il disco, cambia la copertina, cambia il negozio...la passione è la stessa per tutti. Intanto, il disco continua a girare...

fai girare i dischi: clicca QUI




lunedì 13 aprile 2015

RECENSIONE: DUKE GARWOOD (Heavy Love)


DUKE GARWOOD  Heavy Love (Heavenly, 2015)
 
“Uno dei miei artisti preferiti e una delle migliori esperienze di registrazione della mia vita”. Il miglior ritratto di Duke Garwood, cantautore e polistrumentista britannico, lo dipinge un generoso Mark Lanegan all’indomani dell’uscita di ‘Black Pudding’ nel 2013, album che vide la collaborazione tra i due. Garwood ringrazia: “ora sono più vecchio, sì, ma mi sento a mio agio. Lavorando con Mark ho trovato una marcia in più nel mio corpo, nella mia mente. Penso che si senta su ‘Heavy Love’. Complimenti meritati che si vanno ad aggiungere a quelli di tanti altri personaggi che contano: da Kurt Vile, a Greg Dulli, fino a Seasick Steve e Josh T Pearson. Tutti sembrano avere una buona parola per lui. Nato nel Kent rurale da una povera famiglia, a soli quattro anni riceve la prima chitarra, a cinque impara a suonare piano e violino, a diciassette inizia il suo viaggio, non ancora terminato. Garwood è un vagabondo della musica, un musicista che è stato in grado di assorbire input da ogni luogo che ha visitato: dalla Thailandia al Marocco a Parigi, fino alla deludente esperienza a Cuba sulle orme di Compay Segundo, Omara Portuondo  e "il sogno di Che Guevara. Ma non ho trovato niente di tutto ciò. E’ stato tutto molto deprimente, e sono tornato con qualche grave malattia della giungla, quasi morto. " Il suo blues è un concentrato di strade impervie, mai troppo comode ma permeate di magia e magnetismo d’altri tempi, in grado di catturare l’attenzione pur mantenendo sempre toni sommessi che sfiorano la più abissale profondità dei sentimenti umani. Più ombre che luci.
Un lento crescendo, minimale, costruito su una chitarra ondeggiante ed ipnotica e una voce quasi sussurrata ma che scava prepotentemente. In ‘Heavy Love’, il quinto album solista registrato nei Pink Duck Studio di Josh Homme a L.A., vi convivono le atmosfere desertiche degli amici Tinariwen nella ipnotica title track (con Jehnny Beth delle Savages alla seconda voce), quelle contemplative (‘Disco Lights’), confessionali  (‘Sweet Wine’) e notturne “penso che la maggior parte delle mie cose sia musica notturna. ‘Heavy Love’ è principalmente registrato nel corso della giornata, ma scrivo durante la notte, fatta eccezione per la title track”. Per chi è rimasto orfano e deluso dalle ultime derive new wave toccate da Lanegan, Duke Garwood è una valida alternativa assolutamente da ascoltare. Il momento è quello giusto: uscire dalla pur lucente invisibilità che ne ha segnato la carriera è diventato un suo diritto. (Enzo Curelli) da CLASSIX! #43 (Marzo/Aprile)


vedi anche
MARK LANEGAN BAND live @ Alcatraz, Milano 5 Marzo 2015

 

giovedì 26 marzo 2015

RECENSIONE: LUCA ROVINI (La Barca Degli Stolti)

LUCA ROVINI  La Barca Degli Stolti (autoproduzione, 2015)



C'è una foto che dipinge bene le strade blu percorse (e quelle ancora da percorrere) dagli stivali di Luca Rovini: è stata scattata in Febbraio nel locale L'asino che Vola di Roma e ritrae il cantastorie toscano in mezzo ai due fratelli De Gregori: Francesco da una parte, Luigi Grechi dall'altra. Un gran colpo, e lo sarebbe per qualunque cantautore italiano. Due personaggi che sembrano racchiudere bene le caratteristiche principali della sua musica fatta in casa: le parole italiane impresse su un quaderno made in USA con tanti fogli di blues, folk e country che svolazzano, lasciando cadere, di volta in volta, politici, ballerine, amori, amanti, sognatori, illusi e ubriachi. Lui e noi. Dal primo e più famoso dei fratelli ha ereditato la forte passione per Dylan (ascoltate la dura Cappotto Di Vita, una meravigliosa narrazione che potrebbe essere uscita da Desire del Sommo per come è stata rivestita musicalmente), dal secondo, quello meno famoso, lo spirito artigianale e vagabondo che non gradisce troppo le spinte per farsi largo ma che può ancora fare la differenza in termini di sincerità, passione e onestà. Rovini ha percorso molti chilometri dal precedente Avanzi e Guai, tanto da arrivare addirittura a toccare l'acqua -il vino rimane da bere-trovandosi in pieno mare aperto dove la barca dipinta dal padre Umberto (stupenda anche la copertina) è una metafora di vita senza scadenza: cade a pezzi e va a fondo ma chi sta sopra non se ne cura e continua a far festa. Fottiamocene di un mondo che sta naufragando verso il basso e continuiamo a fare quello che più ci piace, sembra il messaggio, e Rovini nuota bene in quelle acque.
Sulla strada ha perso qualche amore, si è trascinato con forza gli affetti più cari e ha raccolto intorno a sè tanti amici musicisti pronti ad aiutarlo, sì perché, oltre a mantenere una scrittura limpida, ficcante e vissuta, La Barca Degli Stolti si differenzia da Avanzi E guai per le tante sfumature strumentali che gravitano intorno alle parole. Il presente violino di Chiara Giacobbe (Gocce Rosse Della Sera, Cappotto Di Vita), la presenza di un pianoforte (Francesco D'Acri) nell'apertura Dove Bevo Il Mio Cuore, la bizzarra andatura sbilenca di Il Quartiere Della Follia, incontro stralunato a tarda sera, sopra un marciapiede, tra Captain Beefheart, Tom Waits e uno sfuggente Dylan periodo Blonde On Blonde, dove l'amico-un po' di tutti dal suo ingresso in società in quel di Padova-Caterino "Washboard" Riccardi fa il bello e cattivo tempo con i suoi marchingegni da poche lire (che l'euro non ci piace). Scoppia La Testa è ormai il trademark, la sua sigla, già presente in Avanzi e Guai, qua viene trasformata nuovamente e funziona che è una meraviglia. Nuovamente.
Mentre le atmosfere desertiche, folk, agrodolci e solitarie di Verso Casa sono l'ulteriore conferma della buona qualità di scrittura. E poi, tante chitarre suonate dal fedele Claudio Bianchini e da Don Leady, l'armonica di Andrea Giannoni, la fisarmonica di Andrea Giromini (Incontro Al Tuo Viso). Ritroviamo perfino i fratelli De Gregori nelle due cover del disco, e non è un caso: traduttori dei testi di Powderfinger di Neil Young e The Angel Of Lyon (L'Angelo Di Lione) di Tom Russell.
Rimangono i difetti di chi è troppo sincero (spesso si chiamano pregi, quando va male anche guai), di chi manda avanti il cuore aperto, in avanscoperta tra le intemperie della vita: Dove Bevo Il Mio Cuore è il suo battito vitale, la cardiografia che disegna il percorso artistico ed umano. Poco importa se rimarrà anche questa volta Senza Una Lira. Le cose importanti, quelle che contano, sono tutte qua dentro.

vedi anche
RECENSIONE: LUCA ROVINI-Avanzi e Guai (2013)