mercoledì 6 giugno 2012

RECENSIONE: ALEJANDRO ESCOVEDO ( Big Station)

ALEJANDRO ESCOVEDO  Big Station ( Concord Music Group, 2012)

Big Station è il disco delle tappe. Quelle segnate con una bandierina sopra ad una carta geografica degli Stati Uniti del sud, ma anche quelle di una vita ripresa per i capelli e con volontà, ricondotta  verso l'eccellenza artistica, dopo un cammino di sofferenza che negli ultimi vent'anni ne ha segnato la vita (la morte della moglie a cui dedicò i primi album solisti Gravity-1992 e 13 Years-1994 e la vittoria sull'epatite C negli anni duemila). Soprattutto, è l'ultima e provvisoria tappa musicale di un artista che non osa fermarsi, a cui piace anche stupire.
Real Animal e Street Songs Of Love, gli ultimi due dischi hanno trovato in Tony Visconti, un produttore capace di canalizzare tutte le esperienze musicali di Escovedo verso un suono grintoso, fedele in egual misura al rock chitarristico degli esordi, quanto al folk delle radici della sua terra,senza disdegnare la scena glam britannica degli anni settanta, di cui Visconti fu gran protagonista, lavorando nelle retrovie e lasciando le paillettes alle primedonne. Due dischi che furono un ritorno per restare, sospinto anche dal grande amore/incoraggiamento dei musicisti "amici".
Alejandro Escovedo questa volta ha sentito la necessità di cambiare qualcosina senza snaturarsi troppo, sostenuto ancora una volta, in fase di scrittura, da Chuck Prophet. Uno sguardo verso le sue origini messicane e un altro verso altre tappe musicali che Visconti conosce alla perfezione. Non sorprendano quindi alcune reminescenze, già accennate nei due precedenti dischi, che qui trovano compimento e sembrano portare al David Bowie americano e quello berlinese-che anticipò la scena new vawe prossima a venire- dei seventies, il largo uso di cori femminili (Gina Lopez Holton e Karla Manzur), alcune venature pop più marcate del solito. 
Il racconto di frontiera di Sally Was a Cop, tra loop e tronbe, lo sfrontato e vincente connubio tra Bowie e Dylan di Headstrong Crazy Fools con il testo che sembra citare il sommo poeta di Duluth-sarà veramente lui?- ("You See Dylan dropped acid in the limelight..."), Common Mistake, Big Station (con le vocals di Kristeen Young), il pulsante basso di Can't Make Me Run che guida il punto massimo di questo disco, dove compare ancora la tromba suonata da Ephraim Owensn su un testo che sembra raccontare tutto:

"You can break the wheels of a Cadillac/You can break the bank in two/Smash the windows on a new guitar/If that's what you want to do.../You can't make me run/Make me run/Make me run"

Anche se l'inizio è puro rock/punk con la sua band The Sensitive Boys sugli scudi: Man of The World è un forte grido di esistenza e bilancio di vita suonato con la spavalderia dei Ramones, come faceva più di trent'anni fa con i suoi Nuns. Rimane l'unico episodio di puro rock chitarristico del disco insieme alla spassosa Party People che però batte già verso altre sfumature. Ci troviamo sempre dentro al CBGB di fine anni settanta, ma sembra di ascoltare una canzone uscita dalla penna schizofrenica di David Byrne.
Dall'alto dei i suoi sessant'anni, Escovedo può permettersi di sedersi e guardare-con velata nostalgia- i cambiamenti della sua Austin nel corso degli anni in Bottom Of The World, una ballata folk riflessiva come lo sonola texana  San Antonio Rain e la stupenda, malinconica Never Stood A Chance, fino ad arrivare alle troppe lacrime che bagnano un rapporto d'amore nell'incedere teso e primitivo di Too Many Tears. 
La finale Sabor A Mi, canzone di Alvaro Carillo, un classico messicano datato 1959, ed interpretato in lingua madre spagnola su un leggero tappeto elettronico è curiosa e anomala.
Un disco che vuole soddisfare le ambizioni artistiche del suo compositore. Allo spiazzante ascolto iniziale si sostituiscono tutte le sfumature che Escovedo riesce a dare alle sue canzoni, forte di una scrittura mai così attenta, piena, ricercata e avventurosa. Una tranquillità riconquistata e pienamente palpabile ascoltando il disco.La giusta chiusura alla trilogia iniziata con Real Animal.




 



 

lunedì 4 giugno 2012

RECENSIONE: THE WHITE BUFFALO ( Once Upon A Time In the West )

THE WHITE BUFFALO  Once Upon A Time In The West ( Unison Music, 2012 )


 

Una delle sorprese più fresche ed accattivanti di quest'anno arriva da un personaggio che titola il suo secondo disco, poco originalmente: c'era una volta nel west.
Il suo aspetto fisico, un mix perfetto tra Warren Haynes e Jeff Bridges che recita la parte del grande Lebowski e quello nei panni di Bad Blake il cantante country di Crazy Heart, solo più giovane e prestante, può bastare a farsi un'idea della musica che Jake Smith, in arte The White Buffalo, suona. Quando poi arriva la voce, un pensiero corre subito all' Eddie Vedder solista e al "premio oscar" Ryan Bingham. Il quadro si completa mostrando anche l'animo da outsider e il paesaggio inquietantemente solitario in cui si muove, popolato da pochi di buono, poeti solitari, madri disperate, accecanti ritorni di memoria verso un' infanzia che "ha segnato", vecchi ex combattenti di un'America che da qualche parte sopravvive in questa antica e mitica  incarnazione. Voglia e ricerca di vera libertà.
Scusate se vi ho anticipato e tolto i piaceri dei paragoni. Ma non sono nemmeno gli unici.
Once Upon A Time In The West (omaggio a Sergio Leone?) è il secondo album dopo Hoghtide Revisited(2008) ed alcuni Ep. I White Buffallo, nome che oltre a rievocare il sacro bisonte dei nativi americani , ricorda vecchi western con Charles Bronson, comprendono oltre a Jake Smith, Tommy Andrews al basso e Matt Lynott alla batteria, e sono una vera e propria band proveniente dalla California.
La voce di Jake Smith è l'elemento catalizzante delle canzoni che, obiettivamente, non hanno nulla di veramente originale: americana che staziona in perfetto equilibrio tra le ombre crepuscolari di desolate ballate folk, oppure up-tempos trascinanti e sporcate sul polveroso ritmo di un country/rock viscerale che ripercorre i sentieri tracciati da vecchi fuorilegge come Waylon Jennings o lo Steve Earle di Copperhead Road, perdendone la parte più elettrica.
Ma un qualcosa di magico sembra sempre prevalere. Uno storytellers, quasi d'altri tempi, che affascina e seduce con il divino dono di una profonda voce da rocker che contrasta con il carattere intimo, nostalgico e doloroso delle sue liriche. Il contrasto è una delle armi di questo disco. 
I suoi testi raccontano di una vecchia America sonnolenta che sopravvive osservando il panorama di una piccola città di periferia accompagnati dal lento incedere di una carezzevole ninna nanna (Sleepy Little Town); la luce abbagliante di una luna che in poche ore lascia il posto a quella del sole senza modificare le pesanti e scure ombre di una lettera che non sarebbe mai dovuta arrivare (Ballad of a Dead Man); il crepuscolo di una notte in solitaria (One Lone Night) che diventa struggente (Wish It Was True) e grido d'indipendenza (I Am the Light).
Ma anche il treno in corsa che semina pistole e libertà nel country/rock veloce di How the West Was Won guidato da banjo (Cooper McBean), dobro e lap steel (Joey Malone); l'antico west in assetto da guerra-tra Cash e Morricone- (Good Ol' Day to Die); i sogni e le speranze che sembrano ricalcati su The Passenger di Iggy Pop (The pilot); malinconici ricordi d'infanzia (BB Guns and Dirt Bikes) e vecchie ferite dure da rimarginare (The Bowery). C'è perfino una divertente ma oscura filastrocca con tanto di fiati (The Witch) che sembra uscita da una festa gitana dentro a qualche sperduto campo nomade costruito nella Central Valley californiana.

sabato 2 giugno 2012

RECENSIONE: DANIELE TENCA ( Blues For The Working Class/Live For The Working Class)

DANIELE TENCA Blues For The Working Class ( Ultratempo, 2010 )

L'ennesimo suicidio. Oggi sul giornale, un altro quarto di pagina è dedicato a chi, strozzato da una crisi che solo pochi mesi fa ci dicevano essere passata, se non-addirittura-inesistente, si toglie la vita. Vittima di un lavoro che non c'è più. Notizie che passano quotidianamente (con la stampa non immune da colpe nel calcare la mano, diffondendo terrore più del dovuto), così veloci che sembrano diventate pericolosa routine, in una società che sembra non volersi fermare un solo secondo. Una pausa per riflettere è quello che ci vorrebbe in mezzo a continue discussioni su proposte di legge, cancellazione di articoli, violazione di diritti acquisiti negli anni con tanta fatica e salari fermi e stagnanti alla prima repubblica.
Uno stato che non ascolta, impegnato solamente a chiedere, e banche che guardano dall'alto di una piramide conquistata senza troppa fatica. Il lavoro è diventato campo di battaglia da difendere con i denti, ma anche luogo dove la velocità si è impadronita di tutto. Tagli di personale, imprenditori alle corde, leggi per la sicurezza dribblate per ottimizzare i costi, dignità operaia cancellata in favore della competizione più sfrenata, non ultimo: fabbriche che si accartocciano come castelli di carte sopra agli operai e sotto le infernali scosse del terremoto di questo Maggio 2012, da dimenticare.
Qualunquismo, retorica, populismo? Se chiamassimo il tutto con il suo vero nome? Realtà (scomoda)? Chi si nasconde ancora dietro a questi aggettivi non conosce i fatti. Non ha mai calpestato il campo, continua a guardare il tutto da una tribuna, lassù in alto, che l'onore non sa cosa sia. Non ha mai varcato i cancelli di una fabbrica alle 5 e 30 di mattina, con gli occhi stropicciati che ancora bruciano, aspettando il suono di una sirena che ora rimane solamente appesa ad un sottile filo elettrico; timbrato un cartellino e sporcato i suoi arti di olio e grasso, aspettando-e sperando- che quella sirena, a penzoloni, suoni una seconda volta.
Daniele Tenca, solo due anni fa, con grande coraggio e dedizione, alla classe operaia ha dedicato un intero disco, che in questi tempi di vuoto assoluto, dovrebbe e meriterebbe di riempire quei vuoti che la musica italiana ha su certi argomenti, relegati a sporadiche canzoni cantautoriali o sotto la sempre scomoda etichetta di canzoni di protesta, che vengono rispolverate quando fa comodo, nelle date delle solite ricorrenze, per venire immediatamente dimenticate il giorno dopo.
Concetti ribaditi e sottolineati l'anno scorso con un live, Live For The Working Class(2011), che attraverso la ruvidezza di un concerto dava una seconda vita ai suoi testi, amplificandone il significato.
Undici piccole storie dove Tenca trasporta le lezioni cantautorali del folk/rock dentro al suo blues: quelle americane di Guthrie, Seeger, Phil Ochs, Dylan e Springsteen; quelle del proletariato inglese di Billy Bragg e Joe Strummer, e quelle italiane degli anni settanta e di certi gruppi, come i Gang, mai elogiati a dovere (scomodi pure loro?).
Carriera ventennale segnata e legata prima alla tribute band di Springsteen, i Badlands, poi dal primo disco solista in italiano "Guarda Il Sole", ora dal passaggio all'inglese e questo album dedicato-interamente- ad un tema scottante e sempre d'attualità. Tenca si immerge completamente, armato di penna, chitarra e cuore, con cognizione di causa e conoscenza (quando non suona è impegnato nel campo della sicurezza sul lavoro ) in liriche che non hanno paura di affrontare argomenti  dimenticati negli impolverati e scomodi spartiti degli anni settanta, almeno qui in Italia. Un concept sulle condizioni lavorative che riesce a toccare il nervo scoperto: le difficoltà nel portare avanti una famiglia e l'amore in tempi di profonda crisi (Cold Comfort), gli infotuni sul lavoro (nel martellante e ripetitivo ritmo da fabbrica nel blues di The Plant), i pericoli di chi lavora nell'oscurità in mezzo ad una autostrada nel blues acustico di Spare Parts, il banjo che accompagna le storie di chi in fabbrica ha perso i propri cari e si trova solo davanti ad una vita ancora tutta da vivere (He's working). Ancora: le fabbriche che chiudono (The Mills are closing down), la gente che perde il proprio lavoro (My work no longer fits for you) e avvenimenti di cronaca recente da non dimenticare, raccontati nella tesa ed elettrica 49 People, ispirata dalla vicenda degli operai della INNSE di Lambrate.
Un campionario poco edificante, raccontato con vero trasporto e dovizia di particolari, riscontrabile nei curati testi a cui si aggiungono il traditional folk Eyes on the prize insieme agli ospiti Cesare Basile e Marino Severini dei Gang., già rifatta da tanti, tra cui mi piace ricordare la bella reinterpretazione di Mavis Staples insieme a Ry Cooder, contenuta in  We'll Never Turn Back(2007) e la rilettura in chiave blues dell'immancabile Factory di Springsteen.
Il finale scelto da Tenca è di speranza. Nel blues elettrico di This working day will be fine, con "l'armonica ospite" di Andy J. Forest e l'auspicio che un giorno, tutti possano ripetere questa frase a inizio turno: "Questa giornata di lavoro sarà fantastica" e uscire dai cancelli della propria fabbrica, a fine giornata con un sorriso che conferma quelle parole.


DANIELE TENCA  Live for the working class (Route61 music, 2011)

Live for the working Class è l'appendice ideale di Blues for the working class. Registrato al Amigdala Theatre di Trezzo sull'Adda (MI), completa e rinvigorisce il messaggio delle canzoni. La band che lo accompagna: Pablo Leoni alla batteria, Luca Tonani al basso, Heggy Vezzano alle chitarre, a cui si aggiunge la chitarra di Leo Ghiringhelli, irrobustisce il blues di Tenca. Le vibrazioni si fanno più tese, appesantendo le denunce che i testi vogliono portare a galla. Tutto è amplificato. Il Live riprende otto delle undici canzoni del disco in studio, dalla robusta e trascinante 49 People, alla sofferta Flowers at the gates, passando ai momenti acustici di Spare Parts, e aggiungendo le proprie riletture in chiave blues di Johhny 99, della più leggera Red Headed Woman sempre di Springsteen, scritta per la moglie Patti Scialfa e apparsa per la prima volta nel disco unplugged, Breach in the Levee di Andy J. Forest e il finale affidato al traditional John Henry. Da segnalare, infine, anche il buon lavoro fatto in coppia con Francsco Piu, sull'ultimo album del bluesman sardo.

vedi anche RECENSIONE: DANIELE TENCA-Wake Up Nation (2013)















mercoledì 30 maggio 2012

RECENSIONE: NEIL YOUNG & CRAZY HORSE (Americana)

                                                                   
NEIL YOUNG & CRAZY HORSE   Americana ( Reprise Records, 2012)

L'ultima istantanea dall'universo younghiano.
Di archivi, Neil Young è un intenditore. Un navigato topastro d'archivio. Non pago di sguazzare in mezzo a nastri e bobine delle sue composizioni archiviate nel fantomatico museo personale che è il suo Broken Arrow Ranch, il buon canadese ha pensato di dare una spolverata anche agli archivi del musichiere della tradizione americana, lui nato a Toronto in Canada. Per dare più sale ad un'altra delle sue bizzarre idee, ha richiamato in studio i Crazy Horse al completo, cosa che non accadeva dall'incisione di Broken Arrow(1996). Ecco che l'attenzione su un disco di semplici cover è catalizzata e assicurata. C'è chi adora Young ma non sente un suo disco da un decennio (qualcuno sicuramente anche da più tempo), c'è chi lo adora, non si perde un'uscita, colleziona i suoi dischi ma difficilmente riesce a digerirli tutti, e chi fagocita tutto in preda a devozione maniacale.
L'ultimo e minimale Le Noise(2010) insieme a Daniel Lanois aveva stupito e brillato, A Treasure(2011) ha riportato lustro, attraverso il recupero di esibizioni live, ad un periodo non propriamente memorabile della sua carriera negli anni ottanta, l'idea bizzarra dietro ad Americana, incuriosisce, cattura e alla lunga convince, e porta  l'ultimo periodo musicale di Young dalla parte del segno positivo dopo alcuni dischi non  entusiasmanti come il pretenzioso Greendale, le istantanee affrettate di Living with War e Fork in the Road.
Neil Young come un ragazzino alle prime armi si butta brutalmente su standard della musica americana con spietata irruenza, avvicinandosi in alcuni frangenti all'intemperanza di Ragged Glory (1990) e continuando a portare avanti la sua idea di catturare l'immediato e darlo in pasto a tutti.
Oh Susanna è una canzone di Spephen Foster datata 1948 che anche in Italia abbiamo imparato a conoscere fin da bambini attraverso i "film dei cowboy americani" che uscivano giornalmente dalle televisioni in bianco e nero. Questa versione si ispira, come tutto il disco (parole di Neil), alla versione fatta da Tim Rose nel 1963 e uscita nel 1964 sotto il nome Tim Rose and the Thorns. Tim Rose in quel periodo diede vigore rock'n'roll a molte vecchie canzoni folk e i Crazy Horse ne seguono indubbiamente l'esempio. Quando si sentono i primi feedback di chitarra, capisci che i Crazy Horse sono tornati.
Neil Young era ritornato a suonare con Ralph Molina (batteria), Frank Sanpedro (chitarre) e Billy Talbot (basso) in occasione del gran galà in onore di Paul MacCartney nel febbraio di quest'anno, annunciando i nuovi progetti, tra cui Americana, appunto. Young e i Crazy Horse non suonavano insieme, sopra ad un palco dal 2004, mentre per ritrovare le ultime incisioni in sala di registrazione bisogna arretrare a Broken Arrow del 1996 (su Greendale-2003, mancava "Poncho" Sanpedro)
"Un collegamento fra le canzoni che rappresentano un America che non esiste più. Le emozioni e gli scenari che stanno dietro queste canzoni risuonano ancora oggi in quello che sta succedendo nel nostro paese. I testi riflettono uguali preoccupazioni e sono ancora significativi per una società che sta passando all’interno di sconvolgimenti economici e culturali. Queste canzoni sono struggenti e potenti, oggi come il giorno che sono state scritte".
Capita così di imbattersi in una corazzata Clementine, in origine Oh my Darling,Clementine, una ballata folk della seconda metà dell'ottocento, che diventa pericoloso strumento di guerra. Canzone per un perduto amore: fidanzata o figlia non si è mai capito. Dalla storia e testo un po' controversi che nel tempo si trasformò in una canzone per bambini. La versione è pesante e tosta con la batteria di Molina che picchia duro ed i cori ficcanti (molto presenti su tutto il disco). Tambureggiante e tribale discesa in campo dei nativi americani.
Tom Dula, più conosciuta come Ton Dooley e portata  al successo dal Kingston Trio negli anni '50 è in verità una canzone di metà '800 basata sui racconti di Laura Foster ispirati dal suo amore per Tom Dula, veterano di guerra. Musicalmente riprende la versione dei The Squires, tra le primissime band in cui militò Neil Young. Difficile riconoscere la nenia country dell'originale, surcalassata dalle chitarre e da un coro ossessivo che ripete all'infinito"Tom Dula". Penalizzata dall'eccesiva lunghezza monocorde: otto minuti.
La versione più famosa di Gallow Pole, vecchia folk song (The Maid freed from the Gallows) che narra di una donna condannata a morte, l'hanno rifatta i Led Zeppelin in Led Zeppelin III, rifacendosi a Leadbelly. Ma Young si basa sullla versione interpretata da Odetta. Chitarre elettriche duellanti che accompagnano l'andatura sbilenca.
Get a Job è più recente, racconta di un uomo costretto a mentire alla moglie perchè non riesce a trovare un lavoro. Fu registrata da The Silhouettes nel 1957, canzone doo-wop che mantiene sostanzialmente le caratteristiche dell'originale. Il momento più divertente e rilassato del disco con bizzarri cori e contro cori.
Travel on (in orgine Gotta travel on), dalle lontane origine britanniche, si basa sulla versione del 1958 fatta da Billy Grammer, storia di un uomo costretto dalle vicissitudini a viaggiare in lungo e in largo per l'America. Ruvido country/rock chitarristico da bettola, viaggio e ritorno in bettola per la nottata.
High Flyin' Bird, canzone di vita, libertà e morte. Scritta da Billy Edd Wheels e suonata dai The Company, uno dei primi gruppi di Stephen Stills e dai The Squires nel 1964. Young si ispira a quest'ultima versione del suo vecchio gruppo. Canzone tesa, dove esce il lato migliore dei Crazy Horse: garage rock chitarristico ed incalzante con una splendida chiusura. Vecchie intese ritrovate e mai andate in soffitta. 
Ancora i Crazy Horse sugli scudi nella terremotante versione di  Jesus Charlot ( in origine Jesus Charlot-She'll be comin' round the mountain), feedback e batteria in assetto da guerra. La migliore canzone del disco per chi scrive. Nata come canto spirituale nero con il tempo si è trasformata in una filastrocca per bambini. Diverse le interpretazioni del testo: la seconda discesa di Cristo in terra o l'arrivo della fine del mondo? Risposta: il ritorno dei Crazy Horse!
This Land is your Land di Woody Ghutrie non ha bisogno di troppe presentazioni. Datata 1944 è una delle canzoni folk più eseguite di tutti i tempi. Lo stesso Ghutrie ne cambiava spesso il testo. In questa versione viene recuperato il primo manoscritto. Ospiti alla voce la moglie Pegi e Stephen Stills. Nessuna grande sorpresa per una canzone che viaggia nella sicurezza della coralità.
Wayfairing Stranger, conosciutissima e ripresa da tantissimi ( da Johnny Cash a Jack White) è una vecchia folk song del diciannovesimo secolo. Questa versione si basa su quella del 1944 di Burl Ives ed è eseguita quasi in solitaria da Neil Young. Corta ed intensa, con una sentita e grande interpretazione di Neil. 
A chiudere God Save the Queen, inno britannico con qualche radice americana, incalzante come una marcia militare, chitarre ad eseguire il famosissimo riff ed un coro di tantissimi elementi (tra cui bambini) in grande evidenza.   
Curiosa anche la storia dietro alla copertina: vecchissima foto dei primi del novecento che ritraeva Geronimo ed una vecchia automobile. Nel 1975 fu modificata, sostituendo le facce originali con quelle di Young ed i Crazy Horse. Non fu mai usata. Ora è rispuntata. Eccola qua (accompagnata da un piccolo ed esaustivo libretto con tutti i testi). 
Brusii, risate e voci prima e dopo le canzoni, riportano i tempi indietro, alla primaria genuinità, quando Neil Young ed i suoi Crazy Horse si identificavano con la miglior musica prodotta dentro ad un garage e di fianco ad un fienile, con tutte le sue imperfezioni. Watts che trasportati sopra ad un palco erano terremoto. A parte la spavalda giovinezza, i ragazzi non hanno perso nulla per strada e Americana (prodotto dallo stesso Young insieme a John Hanlen e Mark Humphreys) potrebbe essere solo il preludio a qualcosa di veramente nuovo. Another Year of the Horse? Sempre dura ed impegnata la vita per i biografi di Neil Young.









lunedì 28 maggio 2012

RECENSIONE: JOEY RAMONE (...Ya Know?)

JOEY RAMONE  ...Ya Know? (  BMG, 2012)

"I miei momenti di maggior creatività sono alle cinque del mattino quando sono ancora a letto, mentre sono al bagno a defecare e in tutti quei momenti in cui sto facendo qualcos'altro".

Chissà cosa starà facendo in questo istante Joey Ramone? Quaggiù, il fratello Mickey Leigh ha pensato di fare uscire, a undici anni dalla sua scomparsa, il secondo disco postumo. Sì perchè, purtroppo, anche il primo Don't Worry About Me uscì quando Joey aveva abbandonato definitivamente le scene già da un anno, sconfitto dalla malattia (un linfoma lo portò via il 15 Aprile 2001), per fare qualcos'altro lassù, e Don't Worry About Me fu un grande momento di creatività. L'ultimo.
Joey Ramone iniziò le registrazioni di quell'album immediatamente dopo l'ultimo concerto che la band fece per salutare le scene nell'Agosto del 1996. I Ramones abbandonarono, come quei pochi grandi calciatori che hanno le palle per farlo, al top della carriera. Si sciolsero in un momento artistico felice. Avevano appena rilasciato uno dei loro migliori dischi in carriera, forse il più completo: Adios Amigos! Pochi se ne accorsero. Furono di parola.
4,3,2,...1...Ya Know? riporta per un attimo tutto indietro al 1996. Ya know? raccoglie demos e canzoni scritte da Joey che vanno dalla fine degli anni settanta fin dopo lo scioglimento dei Ramones. Il fratello Mickey le ha raccolte, spinto dai fans e intuendo l'enorme potenziale che potevano ancora avere. Poi affidate, in gran parte, al produttore storico dei Ramones, Ed Stasium (tecnico del suono dietro a Ramones leave Home,Rocket to Russia, Road to Ruin...), a Jean Beauvoir produttore del loro Animal boy(1986) e Daniel Rey.
Ascoltando le canzoni, a sorprendere ancora una volta, è la totale mancanza di spazio divisorio tra la rockstar e l'essere umano: quella voglia di non crescere che si prolunga in maniera infinitesimale e che magicamente attraversa la vita e lo spirito. Joey Ramone (...e i Ramones tutti) erano veri, puri e tanto bambini. Nessun abito di scena ha mai vestito la loro vita, eppure il loro look fece scuola. Attratti come i bambini da tutte quelle cose belle e divertenti che le brave mamme ti nascondono e ti proibiscono.
Ironia, nonsense, disimpegno, scherzo, dissacrazione e qualche stoccata ben assestata al perbenismo di massa animano il loro bizzarro mondo. In più, soprattutto nelle canzoni di  Joey Ramone, traspare tutta la malinconia e la parte più riflessiva, la sua sofferenza ed i suoi periodi bui.
La voce originale di Joey viene circondata da una schiera di ospiti che ne hanno risuonato e creato la musica: da  Joan Jett a Richie Ramone (batterista dei Ramones nella seconda metà degli anni ottanta), Bun E. Carlos(Cheap Trick), Lenny Kaye(Patti Smith group), Holly Beth Vincent, Pat Carpenter; a volte con una sovraproduzione, naturalmente moderna, che potrebbe aver rovinato il carattere originale delle canzoni. Ma non dimentichiamoci che siamo nel 2012 ed i produttori, pur cercando di mantenere lo spirito che fu dei Ramones, hanno dovuto calarsi nel presente. 
La sua voce, anche se difficilmente scindibile dalla musica dei fratelli, con il tempo migliorò, avventurandosi anche in qualcosa di diverso e in territori più introspettivi, e nella ballata folk/country Waiting for the Railroad ed in altri episodi curiosi come Cabin Fever che parte con uno strano effetto elettronico di synth per proseguire diretta, o in Make Me Tremble con i suoi accenni latini scritta insieme a Andy Shernoff (Dictators), lo possiamo constatare.
Rock'n'Roll is The Answer, scritta insieme a Richie Stotts dei Plasmatics, è un (già)classico che potrebbe essere stata scritta dai Ramones in un qualsiasi momento della loro carriera compreso tra il 1976 e il 1996, così come il punkabilly-semplice semplice- di I Couldn't Sleep, e le più classiche dei classici Going Nowhere Fast, 21st Century Girl (con Joan Jett), le chitarre possenti di Seven Days of Gloom.
New York è un testamento d'amore verso la sua città che dice tutto nel titolo. 
Merry Christmas(I don't want to fight tonight), già conosciuta in Brain Drain(1989), è qui riproposta in una versione casalinga e spartana, rivista e corretta con una strana drum-machine non propriamente esaltante.  
Party line con le vocals della vecchia amica Holly Beth Vincent ( i due incisero insieme I Got You Babe nel 1982) e la chitarra di Little Steven è puro doo-wop '60, quello "stile Ronettes" che ai Ramones è sempre piaciuto tanto. Joey partecipò al progetto Sun City contro l'apartheid, organizzato dal chitarrista di Springsteen che ha modo e privilegio di ricordare Joey nelle note introduttive al disco:
"Ya know è solo un altra sorpresa da un uomo che amava sorprendere tutti regolarmente..." 
What did I do to deserve you con il suo appeal pop '50 è tra le cose migliori. Sembra un estratto di End of the Century(1980), disco che cambiò il corso della loro carriera sotto "il muro del suono" di Phil Spector. Molti storsero il naso ma servì alla loro crescita musicale.
Per vent'anni dai Ramones ci siamo aspettattai i tre accordi tre dei Ramones. Sarebbe sciocco e pretenzioso ora, aspettarsi sorprese da una raccolta di pezzi dimenticati per strada, raccolti e fatti risuonare da musicisti amici. Forse il tutto risuonerà poco punk e Don't worry about Me era ben altra cosa, ma riascoltare ancora una volta la voce di Joey Ramone ripaga di tutto.
Non sarà questo disco ad ingiallire la foto che ritrae due gambe divaricate davanti ad un microfono ed un pugno roteato in aria. Un' icona entrata nella cultura popolare.
La conclusiva ballad Life's Gas (che appariva -in diversa forma-già in Adios Amigos-1995) racchiude in poche e sintetiche parole tutto il Ramones-pensiero. Un testamento ancora valido: "Life's a gas, life's a gas/So don't be sad cause i'll be there/Don't be sad at all". Io ci aggiungo: "...ya know?".

domenica 27 maggio 2012

RECENSIONE: The CULT ( Choice Of Weapon )

The CULT  Choice Of Weapon ( Cooking Vinyl , 2012)

Se c'è un aggettivo che è possibile associare da sempre ai The Cult quello è: camaleontici. Come la faccia, il look e l'animo di Ian Astbury, sciamano (la copertina non è un caso) in grado di curare se stesso con la musica, folgorato sulla via dei nativi americani ( a cui dedicò l'intero Ceremony-1991), incontrati lungo il "salvifico" viaggio-soggiorno in Canada fatto nell'adolescenza, che segnò definitivamente la carriera musicale e il testamento lirico del suo gruppo (senza dimenticare l'ispirazione spirituale dell'icona Jim Morrison, di cui fece anche la parodia  nella tristissima reunion "farsa" live dei Doors nei primi anni duemila).
Astbury, la mente sotto continuo attacco dei demoni ed in perenne viaggio verso la ricerca della pace interiore, Billy Duffy, la chitarra che tramuta in musica i pensieri del capotribù. L'ultimo duo cantante-chitarrista sopravvissuto e riconoscibile che riesce a reggere il confronto con i grandi degli anni settanta e che i gruppi delle ultime generazioni non hanno più.
I Cult sono sempre riusciti a cavalcare le epoche musicali che si sono succedute dal 1983, anno in cui i primordiali Southern Death Cult divennero Death Cult, fino ad oggi. A volte giocando d'opportunismo, a volte anticipando le mode, altre ancora, compiendo tonanti buchi nell'acqua. Come quando il voler cavalcare le mode, a tutti i costi, li portò ad incidere dischi dalla debole ispirazione, da dimenticare in fretta (il simil-grunge di The Cult-1994 è ancora lì, in qualche scaffale, a testimoniare).
Nonostante tutto, sono sempre riusciti ad imprimere il loro tocco personale e distinguibile, nel bene e nel male.
Cambiar pelle, rimanendo sempre credibili e riconoscibili è pregio di pochi e i The Cult nel 2012 lo sono ancora, difendendosi con i denti dai continui attacchi di chi li taccia di "solo" opportunismo (di cui sopra). 
Tra la dichiarazione di non voler più far dischi, avvenuta non meno di tre anni fa, al verso "My Wild indian Heart was pounding...I was running so fast" contenuto nella canzone che apre il disco, è racchiuso tutto l'animo/pensiero disturbato ed artistico di Ian Asbury, portavoce assoluto dei suoi spiriti interiori.
Il grande ritorno con il solidissimo e sottovalutato Beyond Good and Evil (2001) aveva  lasciato il campo al "pasticciato" Born into This (2007), ma questo nuovo disco si presenta subito con una struttura ben precisa, solida, uniforme e più che credibile. Merito anche del duo di produttori: l'ormai affezionato Bob Rock e il guru del movimento "stoner" Chris Goss che sono riusciti a bilanciare in modo assolutamente opportuno le due anime della band, quella viscerale e hard e quella introspettiva e spirituale figlia degli esordi. E poi, il resto della band che ha trovato in John Tempesta e Chris Wyse la continuità, mancante in gran parte della carriera. 
Choice Of Weapon sembra essere il compendio ideale di tutte le sfumature che i Cult hanno raccolto nei trent'anni di carriera. C'è il dark-rock di inizio carriera senza parodiarne i suoni '80, il rock'n'roll di Electric(1987), le chitarre zeppeliniane di Sonic Temple(1989) ed, infine, l'hard rock modernista di Beyond Good and Evil che unisce il tutto.
L'album si apre con la fin troppo sbarazzina Honey From a Knife, un incrocio tra l'intemperanza di una Hey Hey My My  di Neil Young con i suoi Crazy Horse e la spavalderia di una Beat on the brat di ramonesiana memoria nei chorus. Un inizio un po' fuorviante e poco in linea con il resto del disco.
Per ritrovare la profonda intensità della voce di Iastbury bastano pochi minuti. La successiva Elemental Light discende nel dramma, disturbato solamente dalle scosse hard della chitarra di Duffy, ma l'aspetto drammatico è innalzato all'ennesima potenza in Life>Death, struggente, dove gli arrangiamenti orchestrali e il pianoforte di Jamie Edwards elevano la canzone a vero capolavoro del disco che Duffy impreziosisce con l'assolo finale. La ritrovata goticità di Wilderness Now e la conclusiva This Night in The City Forever, dedica ad un amico suicida, seguono la lenta catarsi della fenice. Rinascere dopo le cadute. L'animo di Astbury si specchia in quello dei Cult.   
The Wolf è un bastardo incrocio, figlio del periodo "Love"- "Electric", For the Animals, ruffiano e primo singolo, entra subito in circolo e compie il suo dovere. La  chitarra Gretsch di Duffy graffia come deve. Lucifer è ancora la via psichedelica della rinascita dopo il buio: liberazione di tutti i mali.
In Pale Horse esce tutto il Morrison che c'è in Astbury, un hard/blues oscuro e contagioso, non distante dal miglior Danzig, dove anche il resto della band ( John Tempesta-già White Zombie,Testament, Exodus, Helmet- alla batteria e Chris Wyse al basso), soffocato dalla leadership mediatica della coppia Astbury-Duffy, esce allo scoperto. Una formazione solida, forse la migliore mai avuta, che sembra poter resistere anche nel tempo.
Qui, nei solchi dei Cult targati 2012, non troveremo le hits (Rain, She Sells Sanctuary, Fire Woman) che ne hanno già segnato la carriera, ma Choice Of Weapon, nel suo suonare vero e genuino, è quanto di meglio possiate far ascoltare a chi vi chiede chi sono i The Cult.
Per i completisti, la deluxe edition presenta altre quattro canzoni, già conosciute, risalenti al progetto Capsule del 2010: la modernista Every Man and Woman is a Star figlia del precedente "Born Into This", Embers con la splendida interpretazione di Astbury, l'incedere quasi industriale, in stile Killing Joke, di Until The Light Take Us e Siberia con il basso che guida le atmosfere in odor di eighties.


mercoledì 23 maggio 2012

RECENSIONE: OVERKILL ( The Electric Age )

OVERKILL The Electric Age (Nuclear Blast, 2012)

La coerenza degli Overkill dal New Jersey è quasi spaventosa. Pochi gruppi in campo thrash metal possono vantare una carriera che rasenta la perfezione-forse solo gli Slayer. Poche sbavature ed una fedeltà totale al  genere musicale. Anche quando hanno cercato di battere nuove strade (I Hear Black-1993 e From the Underground and below-1997) il livello compositivo si è mantenuto al di sopra della sufficienza, ed il trademark della band riconoscibile ed onesto. Consapevolezza delle proprie possibilità? Fedeltà alla propria musica, marchiata a ferro e fuoco? Rispetto assoluto verso i fans? Nella loro discografia nessun Load, Re-load, St.Anger o Lulu, nessuna parola sputata per rinnegare il passato, salvo poi tornare sui propri passi a tempo scaduto e idee azzerate. Nessuna voglia di provare a fare quello che non si è in grado di fare. Niente di tutto questo. Un esempio da seguire.
Sicuramente Bobby "Blitz" Ellsworth, un patto con il diavolo deve averlo stipulato. Sconfitto il peggiore dei mali (un cancro al setto nasale nel 1998 ed un "ictus" sopra al palco nel 2002), il cantante rimane integralmente il tratto distintivo di una band, spesso relegata dietro ai famosi "big-four" ma che sulla lunga distanza, dall'alto di una carriera trentennale senza pecche, una medaglia di bronzo ed uno scalino sul podio potrebbe meritarli. Ellsworth sta vivendo una seconda giovinezza e la sua partnership con il bassista D.D. Verni va al di là della musica. Quasi due gemelli separati alla nascita, che hanno ben chiaro in testa quale sia la loro onesta missione. I Lennon/McCartney del Thrash metal, artisticamente molto più longevi. Nessun compromesso.
The Electric Age esce a soli due anni di distanza dal precedente Ironbound(2010) che non aveva mancato di raccogliere elogi, riportando la band a livelli più che ottimali. Electric Age è un buon successore, forse un gradino sotto a livello di songwriting. Gli Overkill hanno scelto l'intransigenza e l'aggressività sonora dall'inizio alla fine delle dieci tracce, a scapito della varietà. Le canzoni, sostanzialmente, viaggiano quasi tutte ad alta velocità, riportando le nostre orecchie ai danni subiti dai loro primissimi lavori, ma soprattutto mi ricordano l'ostinazione di Horrorscope(1991), lavoro di metà carriera. Dove una volta c'era la belluina giovinezza, figlia del retaggio hardcore/punk Newyorchese, ora c'è una calcolata e micidiale maturità che fa leva su testi che mai cadono sulla banalità ma che, soprattutto in questo album, si impregnano di triste attualità. 
Dall'apertura di Come And Get It, vero invito e proclama di (r)esistenza alla finale Good Night, introdotta da un arpeggio come ai vecchi tempi e figlia della vecchia E.N.D., manifesto e presa di coscenza della fine del "sogno americano" così come lo intendevano i vecchi e l'avanzare della nuova economia, l'intensità non cala mai. 
In mezzo:  l'anthem di 21st Century Man, critica poco velata alla tecnologia e le sue insidie; i cambi di tempo e gli assoli sparsi di Electric Rattlesnake; lo stridente treno in corsa di Wish you Were Dead; il cadenzato incedere di Black Daze, mid-tempo che concede una pausa ed un minimo di melodia; la fine del mondo imminente nella velocità hardcore di Save YourselfOld Wounds, New Scars e Drop The Hammer Down dove la voce "carta vetrata", acida ed inconfondibile di "Blitz" ribadisce la sua unicità; l'old-school thrash di All Over but the Shouting che riporta ai tempi di The Years of Decay(1989). 
La band sembra aver trovato in  Dave Linsk e Derek Tailer  la coppia di chitarristi ideale, solidi e con i guizzi ficcanti negli assoli e in Ron Lipnicki il batterista da affiancare al basso mastodontico di D.D. Verni, da sempre vero propulsore e motore del sound Overkill.
Cos'altro dire?
There's a nightmare don'y you know, it's time to say good night
Good Night Kiss
Good Night

lunedì 21 maggio 2012

RECENSIONE: UFO ( The Chrysalis Years-1980/1986 )

UFO The Chrysalis Years (1980-1986) (box 5 cd,Chrysalis/EMI, 2012)

Con The Chrysalis Years (1980-1986) si completa l'intera discografia degli Ufo con la nota casa discografica. Come avvenuto nella precedente raccolta, in 5 cd sono raggruppati i cinque album registrati tra il 1980 e il 1986, più numerose registrazioni live (tra cui BBC in Concert -4th February 1980), b-sides ed inediti mai apparsi prima su disco.
Certo, artisticamente, la parte migliore del gruppo riposa negli anni settanta, ma qualcosina di buono si può trovare anche in questa prima metà degli anni ottanta.
L'abbandono di Michael Schenker è un colpo durissimo da mandare giù che si materializza all'indomani del concerto tenuto a Palo Alto in California nel 1978. Il live Strangers in the Night che ne conseguì è ancora adesso tra i migliori live album rock di sempre e lasciava intravedere ancora una band in gran forma, pronta ad affrontare l'arrivo degli anni ottanta.
La scena musicale britannica è in gran fermento e anche un gruppo come gli UFO, tra gli ispiratori della nascente NWOBHM, deve mettersi in riga con i nuovi idoli : Iron Maiden, Saxon, Def Leppard, tutti gruppi che non negheranno mai la grande influenza che il gruppo di Mogg ebbe nella loro formazione musicale e che in quel preciso momento mostravano, però, una freschezza compositiva che metteranno a dura prova il songwriting degli UFO.
Reclutato l'ex Lone Star, Paul "Tonka" Chapman in sostituzione di Schenker, che nel frattempo ricompare per un brevissimo tempo negli Scorpions per formare successivamente il suo gruppo personale MSG e che ritroveremo insieme agli UFO nella reunion degli anni novanta, ma queste sono altre storie.
Il primo album post -Schenker è No Place To Run(1980)**1/2, prodotto dal celebre George Martin. Un disco che accanto a pesanti hard/heavy song come Lettin'Go, Money Money e la bella e conclusiva Anyday, apriva le porte al rock/blues con la cover di Mystery Train portata al successo da Elvis , alle più cadenzate e
rockeggianti Young Blood, non lontana da quanto prodotto dagli AC/DC all'epoca, alla title track No place to Run e a canzoni più melodiche come Gone In the Night, Take It Or Leave It, dove la voce di Phil Mogg si dimostrava ancora efficace ed ispirata e dimostrava un Chapman comunque in vena negli assoli. Il successo non arrivò e il disco passò inosservato al grande pubblico rapito dalla nascente nuova ondata di Metal britannico.
Passa un solo anno e gli UFO, che nel frattempo continuano una intensa attività live, registrano The Wild, The Willing and The Innocent (1981)****, album più centrato rispetto al precedente. Gran merito va forse al completo controllo che la band ebbe sul lavoro, producendosi il disco ed a un Paul Chapman, perfettamente integrato e coinvolto maggiormente nella stesura dei pezzi. Chains Chains e Long Gone aprono il disco in modo superbo, ritrovando quella ispirazione che sembrava persa con l'uscita di Schenker.
Long Gone, soprattutto, stupisce, anche grazie al suo finale sinfonico con una orchestra d'archi perfettamente integrata con il roccioso hard. Mid-tempo come la title track, il fascino oscuro e notturno di It's Killing Me, il pesante hard di Makin' Moves, la presenza del sax di Neil Carter in Lonely Heart e la ballad finale Profession Of Violence con Chapman che sale in cattedra con assoli pieni di blues, rendono l'album un concentrato di ottime canzoni, scritte in un periodo di ottima forma, che non avranno mai la meritata ribalta. Un album assolutamente da riscoprire.
Mechanix (1982)***, ricordato più per essere stato l'ultimo disco registrato prima che il bassista Pete Way, finito il tour di supporto, abbandonasse gli Ufo per fomare i Fastway insieme a "Fast"Eddie Clarke dei Motorhead e l'allora sconosciuto Dave King, futuro cantante dei Flogging Molly. Mechanix prosegue il discorso del precedente disco, aumentando i campi di esplorazione. Dal classico hard di apertura The
Writer
, si passa al rock'n'roll di Somethin'Else (cover di Eddie Cochran), ai cori west coast in stile Eagles di Back Into My Life, che ottenne giustamente un buon successo negli States. I vecchi fans rimasero disorientati. A rimettere tutto a posto ci pensano il feeling hard '70 di You'll Get Love, Feel It, Dreaming e Doing It All For You, il taglio fast e heavy di We Belong to the Night e la splendida ballad in odor di AOR Terri, con le tastiere di Neil Carter in primo piano, futura palestra per gli appena nati Europe.
Making Contact(1983)** può essere considerato insieme al suo successore, tra i punti più bassi toccati dalla formazione inglese. La febbre degli anni ottanta tocca anche i rocker come gli UFO. Le tastiere di Neil Carter si impossessano della scena e il nome del tastierista compare in quasi
tutti i credits delle canzoni. Diesel in the Dust offre ancora buoni spunti, When It's Time To Rock, The Way the Wild Wind Blows e All Over You cercano di colpire ancora a suon di hard rock, la finale Push, It's Love è veloce e incisiva. Ma i cori di Fool For Love sono imbarazzanti, e ballad come You and Me guidate dalle tastiere eccessivamente mielose. Molto meglio la b-side Everybody Knows.
In generale fu accolto tiepidamente , tanto da indurre gli UFO ad un temporaneo scioglimento, o meglio ad una dipartita di massa, con il solo Mogg a cercare di ricucire i pezzi e mantenere in vita il nome della band.
Nel frattempo gli UFO continuano la loro attività live e da segnalare è la temporanea presenza di Billy Sheenan al basso durante alcune date.
Difficile riconoscere gli UFO da un disco come Misdemeanor(1986)*, uscito a tre anni di distanza da Making Contact, ultimo registrato per la Chrysalis e a tutti gli effetti si potrebbe addebitare al solo Phil Mogg, rimasto l'unico componente originale a guida del gruppo.
Alla chitarra, poco incisiva e nascosta, troviamo Atomik Tommy M., al basso Paul Gray e alla batteria Jim Simpson. Le tastiere di Paul Raymond assumono il comando delle canzoni e poco si salva.
Il suono strizza l'occhio all'AOR melodico americano, lasciando veramente pochi ricordi. Uniche menzioni per le ballads The Only Ones e Wreckless.


vedi anche RECENSIONE: UFO-The Chrysalis Years (1973-1979)

venerdì 18 maggio 2012

RECENSIONE: DEAD FINGERS ( Dead Fingers)

DEAD FINGERS  Dead Fingers ( Big Legal Mess,Fat Possum Records , 2012)

Come si dice? Tra moglie e marito, non mettere il dito? Se poi la coppia è giovane e bella, io ci aggiungo brava, l'indice possiamo usarlo solamente per azionare il tasto play dell'autoradio sul cruscotto della macchina. I Dead Fingers (toh..."dita morte"-sembra che il nome derivi da un innocente giochetto per bambini, fatto con le mani-) ti accolgono in modo carezzevole e gentile in un parcheggio in quel di Birmingham-Alabama- e ti stupiscono con l'avanzare dei chilometri, quando salito in macchina, hai dato loro la confidenza necessaria per lasciarti guidare, con fiducia, per le strade del sud.
I Dead Fingers sono Taylor Hollingsworth, appena trentenne, già con alcuni dischi solisti alle spalle e conosciuto più per essere il chitarrista nel primo omonimo e bel disco solista di Conor Oberst (2008) e nel progetto, sempre di Conor Oberst con the Mystic Valley Band, culminato con l'abum-meno riuscito- Outher South (2009), e freschi di uscita con la raccolta di inediti One of my Kind; e sua moglie Kate Taylor Hollingsworth, sorella della cantante, poco più grande ma più conosciuta, Maria Taylor, per la quale Taylor (il marito) suonò e già apprezzata con i Bright Eyes e il duo Azure Ray. Kate, cantante e polistrumentista, è cresciuta in una famiglia di musicisti, normale per lei trovarsi a girare per casa e scontrarsi con batteristi e chitarristi. Uno di questi, un giorno, fu Taylor.
Taylor e Kate si conosco fin da ragazzini, ma ora che sono anche una coppia di fatto è stato quasi inevitabile unire le esperienze e le passioni musicali.
Sul palco, si presentano spesso da soli, oppure due chitarre più un batterista, con Kate che tiene il tempo battendo le mani sul lato della chitarra."Sul palco siamo in grado di cavarcela da soli. Solo noi due"
Detto così, sembrerebbe molto semplicistico, e dal vivo molto probabilmente lo sarà quando si presentano on stage come duo, ma su disco una nutrita schiera di ospiti collaborano e aiutano.
La prima cosa che colpisce appena partono le prime note di Closet Full of Bones, è l'armonia vocale tra i due: l'aggraziata voce di Kate che contrasta e si scontra con quella sgraziata, buffa e nasale di Taylor, non così lontana da una delle innumerevoli voci-scegliete a caso-di un giovane Bob Dylan.
I quaranta minuti di questo loro debutto hanno due marce ben distinte. La prima (metà del disco) viaggia su un tranquillo tappeto di folk/country music, crepuscolare ed intimista: il primo singolo Another Planet non così lontano dalle girandole acustiche degli scozzesi Vaselines, Hold on to guidata dalle lap steel, la riflessiva 4 Stone Coaches e il blues acustico di Ring Around Saturn. 
La seconda parte vira su altri territori: a partire da Please don't let me Go, psichedelica e inquietante in odor di '60 con tanto di arrangiamenti orchestrali ad opera di Jonathan Kirkscey; vira su blues/doo wop disossati e divertenti come Lost in mississippi con l'armonica di 'Uncle' Randy Wyatt e il wurlitzer di Macey Taylor Sr.; il  trascinante honky tonk rock'n'roll di Against the River con l'aggiunta dei fiati di Jeff Callaway e assoli di elettrica, con il puzzo di sud che si sente a distanza; il country trascinante di On my Way e il blues scarnificato, squassante ed elettrico per sola chitarra e battiti di Never be my Man, per finire come tutto era iniziato: sulle tranquille, acustiche e arpeggiate note di Wheels and Gasoline, lento ritorno a casa all'alba di un nuovo giorno.
In questo debutto dei Dead Fingers traspare tutto l'amore che il duo riversa per la musica americana "tutta". Scarno, divertente, a volte spettrale, senza nessun punto di riferimento ma assolutamente scorrevole, godibile e genuino. Una coppia talentuosa che vive di musica-si sente-lo si percepisce e lo si vive insieme a loro. Nessuna pretesa se non fare musica in modo affiatato, lontano dai grandi circuiti. Sperando sia solo l'inizio del loro viaggio di vita e musicale insieme. Aspetto il secondo giretto in loro compagnia.