domenica 27 marzo 2022

RECENSIONE: IAN NOE (River Fools & Mountain Saints)

IAN NOE   River Fools & Mountain Saints (Thirty Tigers, 2022)


prova superata

"Il secondo album è sempre il più difficile nella carriera di un artista" canticchiava Caparezza molti anni fa, riprendendo un detto sempre in voga tra musicofili incalliti. 

A smentirlo ci pensa Ian Noe, folksinger trentunenne del Kentucky, nonostante proprio il debutto di tre anni fa si fosse aggiudicato  un podio tra le migliori uscite discografiche di folk (e dintorni) degli ultimissimi anni. Between The Country si distinse per il ficcato iper realismo dei testi che non ebbero bisogno di cercare storie andando troppo lontano. Testi a chilometro zero che si nutrivano di poetica vera, malinconica, a tratti disperata raccontando di avvenimenti e personaggi circoscritti alla sua città natale Beattyville (con il suo triste primato di città bianca più povera d'America) e camminando un po' più in là ma senza mai  uscire dai confini del Kentucky. Difficile fare meglio? 

Ian Noe dall'alto del suo ex lavoro come operaio in una piattaforma petrolifera (come accenna nel country di 'River Fool') , continua a camminare e vivere il suo mondo circoscritto nei confini, a presentarci una carrellata di personaggi che ha conosciuto e incontrato lungo la strada, tra le rive di un fiume (dove i giovani si divertono) e le strade di montagne dove c'è chi coltiva erba sui monti Appalachi ('Mountain Saint'). 

Spesso solitari in cerca di amore e riscatto (la triste e spoglia 'Ballad Of A Retired Man'), vecchi veterani del Vietnam, camionisti (nel lento trotto guidato dalla lap steel in 'Lonesome as It Gets' ), tanti infaticabili lavoratori degni di essere ricordati (nella ballata con violino 'Strip Job Blues 1984') e raccontati con la stessa facilità di narrazione, fluente e ricca di particolari, imparata dal suo grande mentore John Prine ('Tom Barrett').

Un disco di ritratti e ballate, spesso  dolenti ('In Road May Flood/It' s A Heartache' riprende anche  Bonnie Raitt) a volte  tristi ('Appalachia Haze') anche se  questa volta abbozza qualche accelerazione in più come nell'iniziale 'Pine Grove (Mad House)' con un accenno alla recente pandemia ("questa canzone parla di essere bloccati, di essere isolati, ma di trarne il massimo anche da queste situazioni" ha raccontato recentemente) e un paio di scatti elettrici come succede in  '' Pow Blues' e negli assoli di chitarra della dylaniana 'Burning Down The Prairie'. Sono proprio queste piccole ma fondamentali aperture strumentali (al disco partecipano ospiti come  Jack Lawrence dei  Raconteurs al basso e Derry deBorja  dei The 400 Unit di Jason Isbell alle tastiere) a confermare la bontà del debutto lasciando aperte tante altre porte. Il ragazzo sembra avere ancora tante storie da raccontare.






giovedì 17 marzo 2022

RECENSIONE in pillole: JETHRO TULL - The Zealot Gene

JETHRO TULL
  The Zealot Gene (Sony Music, ,2022)





qualcosa c'è ancora

La copertina di The Zealot Gene è probabilmente una delle più brutte dell'intera discografia, asettica e fredda come solo quelle di A e Under Wraps lo erano (qui niente elettronica però), Ian Anderson non ha più la voce dei bei tempi (dal vivo si fa aiutare spesso e volentieri) ma ci mette ancora la faccia, pure i Metallica stiano tranquilli perché le chitarre elettriche qua dentro ogni tanto ci sono ('Barren Beth, Wild Desert John', 'The Zealot Gene') ma non graffiano come vorrebbero le webzine e le riviste hard rock che lo hanno recensito tiepidamente. Tanto il Grammy Award categoria hard metal non lo vinceranno più nemmeno loro. I Metallica intendo. JETHRO TULL senza Martin Barre? Non è un'eresia, "si può fare" deve aver pensato Anderson (i fan oltranzizsti sono sul piede di guerra): Ian Anderson tramuta una sua vecchia idea, (composta da dodici canzoni basate su dodici emozioni che contraddistinguono l'essere umano, intersecandosi con attualità e sacre scritture), in un disco a nome Jethro Tull che non usciva da ventitre anni ( Dot Com) e diciannove dall'album di "Natale". A suonarlo ci mette la band che lo accompagna dal vivo da anni. Questi sono i nuovi Jethro Tull almeno sulla carta. Eppure: eppure, nonostante tutto, ogni volta che ascolto Ian Anderson, la sua voce, quel flauto, quelle atmosfere bucoliche ('Sad City Sisters'), il folk prog ('Mine Is The Mountain', alleggerito in 'In Brief Visitation') anche il blues della prima ora dissotterrato ('Jacob' s Tales') , io mi commuovo sempre un po' e ci sto bene. Tutto il resto rimane fuori e poco m'importa.





lunedì 7 marzo 2022

RECENSIONE: MIKE CAMPBELL & THE DIRTY KNOBS (External Combustion)

MIKE CAMPBELL & THE DIRTY KNOBS  External Combustion (BMG, 2022)



la leggenda continua

Partendo dal presupposto che Tom Petty a questo mondo manca tantissimo, tanto che riusciamo a ritrovarlo perfino nell'ultimo disco di Eddie Vedder, non c'è nessuno al mondo che possa fare Tom Petty come Mike Campbell. Ma non si tratta di mero scimmiottamento, i due viaggiavano nello stesso vagone della vita uno accanto all'altro. Lo hanno fatto per quarant'anni, inevitabile si siano contagiati reciprocamente. 

"Tutto quello che ho fatto da quando Tom è morto, incluso nell'album con i The Dirty Knobs, è nello spirito di onorare ciò che abbiamo fatto insieme" raccontò Mike Campbell all'uscita del debutto della band che mise in piedi quindici anni fa, tra un tour degli Heartbreakers e l'altro. Era puro divertimento allora, lo è ancora  anche se ora è diventata priorità. Vita. Ossigeno.

"Ho fatto abbastanza soldi per vivere comodamente. Non ho bisogno di uscire e fare un tour. Non ho più bisogno di registrare. Ma mi piace davvero farlo e voglio migliorare. Questo è ciò che mi fa andare avanti" ha dichiarato recentemente. 

Nasce come tanti dischi durante la pandemia, frutto di quel  tempo che doveva essere regalato al tour per promuovere il debutto Wreckless Abandon e che invece si è tramutato in attesa. Lunga ed estenuante. Per uno come Campbell abituato da sempre a vivere in tour, stare con le mani in mano è impossibile, il passo verso il secondo disco dei Dirty Knobs è stato brevissimo: il tempo di scrivere alcune  canzoni  durante il lockdown, e la volontà di ridare forma e sostanza a vecchi demo dormienti nel cassetto. Ha radunato i compagni Lance Morrison (basso), Matt Laug (batteria) e Jason Sinay (chitarre) in studio e senza troppi fronzoli e sovraincisioni External Combustion è nato in un paio di settimane insieme al produttore George Drakoulias. Una combustione spontanea. Ecco trovato il titolo. 

C'è voglia di suonare. Di divertimento. Lo si capisce fin dall'apertura 'Wicked Mind', un rock'n'roll inconfondibilmente da cuori spezzati con la chitarra di Campbell a tirare la fila. 

Lo si capisce dalla presenza di una leggenda come Ian Hunter che presta la sua voce da ultraottantenne (che prodigio! ) e le sue mani su un pianoforte in 'Dirty Job'. "È stato un brivido per me. Perché sono un grande fan dei Mott the Hoople. Penso solo che sia uno dei migliori scrittori in circolazione. Quindi era solo un regalo caduto dal cielo" racconta Campbell. 

C'è la gioia di suonare senza barriere e steccati: dal tirato country di ' Brigitte Bardot', alla tensione creata dagli archi in 'Cheap Talk', dal blues con finale acido della title track, dallo stomp di 'Rat City', dalla voce di Margo Price che regala a 'State Of Mind' tutta la calma di una canzone d'amore con la A maiuscola. Le atmosfere orientali e meditative di 'In This Lifetime' sono un inaspettato svicolo dalla vecchia strada del rock che catturano al primo ascolto. 

In 'Lightning Boogie', ritorna la vecchia magia degli Heartbreakers con il piano ospite di Benmont Tech: rock'n'roll, solo puro e semplice rock'n'roll da gente che sa come trattare la materia. Si gioca. C'è solo da imparare. Nel country 'It Is Written' c'è un chiaro riferimento a Tom Petty, alla loro amicizia, al sud, alla California come se The Band suonasse ancora una volta l'ultimo degli infiniti valzer che la musica ogni tanto sa regalarci. 

"You were born in California, I was born in FLA, I went out there, with a rock and roll band". La mente vaga, rilegge, rivede con nostalgia. 

E dopo la finale 'Electric Gypsy' non si può ribadire ancora una volta quanto solo Mike Campbell sia concesso di fare Tom Petty. Un legame che va oltre. E questa volta la strada che porta verso il tour sembra essere libera perché come lo stesso Campbell ha rilasciato in una intervista: "è così divertente suonare in una band. Non c'è niente di simile. È il miglior lavoro del mondo".




domenica 27 febbraio 2022

RECENSIONE: JAIME DOLCE'S INNERSOLE (Love Generator)

JAIME DOLCE'S INNERSOLE   Love Generator (lo Stran Palato, 2022)


amore per la musica

Jaime Dolce è un bluesman che come tutti i buoni bluesmen  assorbe: luoghi, amicizie, situazioni, temperature, generi musicali. Un viaggiatore partito dalla lontana New York che ha trovato in Italia, a Parma, la sua comfort zone. Chitarrista per Mason Casey nei primi anni novanta, arrivato in Italia ha partecipato e suonato per molti progetti ma quando ha da parte abbastanza canzoni per un disco tutto suo esce allo scoperto con il progetto Jaime Dolce's Innersole, accompagnato da Filippo Buccianelli alle tastiere, Matteo Sodini alla batteria, Andrea Mr. Tibia Tiberti al basso. 

La sua chitarra guida canzoni trasversali, mai scontate che si abbeverano tra i generi, così che il passo dal blues al dub reggae di 'God Love If You Want It' (di Slim Harpo, una delle due cover, l'altra è 'Fire' del suo mentore Jimi Hendrix), dal RnB al funky di 'Bad Gone Blues' sembrano di una facilità disarmante. Ma si chiama bravura, stile e attitudine. Così come la chitarra che straborda nel finale di 'Money Ain't Nothing', la solarità quasi pop che circonda 'Zinfandel Blues', il blues sincopato 'Losing Me' portato a termine con la voce sporca il giusto, la classe della band che esce  nella strumentale 'TTF (Lust Generator'), il southern funky travolgente di 'Holy Sole', il soul spartano e avvolgente di 'Time (Pietrasanta Blues)', il blues acustico di 'The Wind Cries Mississippi John Hurt', la ballata 'Love Generator' e l'arrivederci della finale  'Il Bacio Della Buona Notte' confermano la bontà del chitarrista americano, ma se lo chiamate italiano, credo non si offenda. Fa da buon sigillo di qualità blues la produzione e distribuzione da parte de Lo Stran Palato di Brescia.

                                                          Foto: Gianfilippo Masserano





martedì 22 febbraio 2022

RECENSIONE dischi in pillole: EDDIE VEDDER (Earthling)

EDDIE VEDDER  Earthling (Seattle Surf/Republic Records, 2022)


divertimento assicurato

Ho letto tante cose sull'ultimo di EDDIE VEDDER: alcune lo dipingevano come una ciofeca immonda, altre lo osannavano quasi fosse il disco in grado di salvare il rock'n'roll. Naturalmente bisogna alzare e abbassare i livelli e arrivare al centro dove forse siede pacifica e annoiata la verità, troppo democratica (parolona che fa sempre paura) per far rumore e troppo dimenticata per far litigare le opposte fazioni nei social. 

È un disco pasticciato EARTHLING, questo sì, ma nel senso buono del termine, che potrebbe anche voler dire: essere spassoso, incatalogabile, vario, paraculo il giusto. A tratti chiassoso e sopra le righe come il suo produttore Andrew Watt. Uno che ha ricordato a Ozzy Osbourne di fare Ozzy almeno ancora una volta. Non ha un mood  intimista piantato al centro dell'opera come i precedenti due dischi di Vedder, gli scarni e acustici Into The Wild e Ukulele Songs (i fan oltranzisti quello volevano) ma bensì raccoglie per strada canzoni presumibilmente scritte nel tempo che quindi ondeggiano a seconda dell'umore e del momento nei quali sono state scritte. 

Certo, l'apertura secondo me non è delle più incoraggianti: l'epicità di 'Invicible' mi sembra tronfia come le cose peggiori di Vasco Rossi. Eppure per molti è tra le migliori. Ma dalla seconda traccia in avanti le montagne russe che percorrono l'intero disco funzionano alla grande senza attimi di noia. No, non ci si annoia nell'ultimo disco di Vedder. Passare dalla solarità di 'Fallout Today', all'intimità di 'The Haves', al rock'n'roll tirato che pare Danko Jones di 'Rose Of Jericho' è un attimo. 

Certo, manca la fame della gioventù che bruciava il terreno intorno (ma quella manca da anni ormai, vent'anni si hanno una volta sola) sostituita dalla maturità che si nutre di mainstream. L'intervista con Bruce Springsteen uscita in contemporanea  è un lancio mediatico opportunista e furbo. La maturità porta ad avere anche amici di peso. Ma si deve arrivare lì. 

E a conferma di quanto Vedder abbia voglia di divertirsi ci sono i tre duetti che: fanno suonare l'armonica di Stevie Wonder (che assolo pazzesco) dentro a un pezzo dal tiro punk ('Try'), fanno fare ad Elton John se stesso come fosse ancora negli anni settanta ('Picture'), fanno suonare Ringo Starr in una canzone dei Beatles che non è dei Beatles ('Mrs. Mills'). Sono "cose" anche queste. 

E poi una 'Long Way' che profuma di Tom Petty e 'Brother THe Cloud' che sembra rifarsi ai Talking Heads come alcune delle ultime cose firmate Pearl Jam.Un omaggio alla musica. Da fan. 

Ah, per me  è comunque meglio dell'ultimo Gigaton firmato Peal Jam. E che ci vuole direte voi?





sabato 12 febbraio 2022

RECENSIONE, dischi in pillole: MADRUGADA (Chimes At Midnight)

 


MADRUGADA  Chimes At Midnight (Madrugada Music/ Warner, 2022)




tornati per restare

Il concerto alla Latteria Molloy di Brescia per il tour del 2019, nato per festeggiare i vent'anni dall'uscita del loro strepitoso esordio Industrial Silence rimane, per intensità, uno dei migliori concerti visti negli ultimi anni. Ora che la band si è riformata, a quattordici anni dall'ultimo album, che fu registrato durante e dopo la morte del chitarrista Robert Buras, i MADRUGADA ritornano con CHIMES AT MIDNIGHT. Dicono di averlo registrato per suonare nuove canzoni ai prossimi concerti, anche se due le pescano dal passato. Tornati per restare quindi. Intanto io dico che questo album registrato in parte nei mitici Sunset Sound Studio di Los Angeles, ha tutte le carte in regola per far proseguire la band norvegese sugli stessi binari di sempre come se il tempo non fosse mai passato, dove tensione, atmosfere romantiche e notturne, rarefatte e scatti elettrici sono come al solito guidati dalla inconfondibile e baritonale voce di Sivert Høyem come sempre l'arma in più. I loro paesaggi sonori sono inconfondibili, ed è un piacere lasciarsi trasportare senza fretta e con lòa voglia di non finire mai il viaggio. L'unico limite è forse la troppa perfezione dei Madrugada che fanno i Madrugada, dall'inizio alla fine, ma per un ritorno dopo tanti anni mi sembra il minimo che si possa concedere loro. Un trademark ormai consolidato. Ancora un caldo abbraccio dalla sempre fredda Norvegia. 





martedì 1 febbraio 2022

RECENSIONE, dischi in pillole: EELS (Extreme Witchcraft)

 

EELS   Extreme Witchcraft (E Works Records, 2022)


mi voglio divertire!

Ho ancora negli occhi l'arsenale di chitarre che Mr. E si portò dietro durante il tour  che passò all'Alcatraz di Milano nel 2010. Cambiò quasi una chitarra ad ogni pezzo in preda ad una bulimica voglia di rock'n'roll, arrotolato dentro a una tuta da meccanico bianca e candida e una bandana che finiva dove iniziava la sua lunga barba ascetica dell'epoca. 

La stessa voglia di divertirsi che sembra esplodere nei primi quattro pezzi e poi ancora più avanti in questo nuovo album dopo il per me poco riuscito ed ombroso Earth To Dora del 2020.

Schitarrate beat garage ('Amateur Hour', 'Good Night On Earth') che sembrano riportare ai tempi di Souljacker (ed ecco di nuovo John Parish in produzione, mica un caso) e Hombre Lobo. È un disco spassoso dall'inizio alla fine, uno dei più  divertenti della sua carriera. Perché vario: quando le chitarre incontrano l'elettronica ('The Magic') quando si lancia nel giro funky di 'Grandfather Clock Strikes Twelve', nel riff blues di 'Better Living Through Desperation' e quando torna al passato, agli inizi, in 'Learning While I Lose'. 

Anche l'umore sembra essere up (i tempi sono cambiati) nonostante la pandemia e le sue "strane abitudini alimentari" acquisite per inerzia ('Strawberries & Popcorn'), le ore che sembrano non passare e qualche disavventura d'amore ('Stumbling Bee') che però sembra non preoccupare così tanto come una volta perché nella soffice 'So Anyway' c'è una dichiarazione d'amore sincera e romantica. Sarà la stessa persona? Mr. E si è nuovamente accasato e bambini e cani scandiscono i suoi giorni. 

Certamente l'uscita più varia e divertente dei suoi ultimi anni. Bentornato Mr. E. 

Recentemente ha detto: "sono costantemente stupito di essere una delle poche persone fortunate al mondo che riesce a fare quello che vuole fare per lavoro". E questa volta è proprio un buon lavoro.





venerdì 21 gennaio 2022

RECENSIONE: JOHN MELLENCAMP (Strictly A One-Eyed Jack)

 

JOHN MELLENCAMP  Strictly A One-Eyed Jack (Republic Records, 2022)



quello che vedo non mi piace

A pochi giorni dall'uscita del nuovo disco di John Mellencamp, la notizia che innalza Bruce Springsteen  come artista musicale che ha guadagnato di più nel corso del 2021 (la cessione del catalogo ha fatto effetto) può stridere con l'ultimo tratto di carriera del "Little Bastard" dell'Indiana: nel corso della sua carriera Mellencamp ha piano piano scelto un basso profilo musicale, e la coerenza artistica come  punto fermo, senza mai cedere al facile compiacimento (ricordate il concerto di Vigevano?) e uscendo ultimamente con un "non mi piace suonare nelle grandi arene" che sembra confermare il tutto, se non fosse che Springsteen lascia la sua voce e chitarra in ben tre canzoni qua dentro. In quella 'Wasted Years' uscita a sorpresa dopo l'estate a confermare la collaborazione tra i due dopo alcune foto sibilline comparse in rete, amara riflessione sul tascorrere del tempo e la vecchiaia che bussa alle porte, concludendosi con "la fine sta arrivando, è quasi arrivata" che sembra lasciare ben poche speranze nel futuro dietro l'angolo, una più movimentata 'Did You Say Such a Thing' che si ricollega alla metà carriera di Mellencamp, e la finale 'A Life Full of Rain', ballata al pianoforte condotta in porto da vero crooner, con il suo testo da "una vita piena di pioggia, senza un posto asciutto dove stare" che conferma una certa disillusione di fondo. Nuovamente. 

L'incontro tra i due era però scritto dal destino e recentemente Mellencamp ne ha raccontato la genesi. 

"L'incontro con Bruce è stato del tutto casuale. Per tutta la mia carriera sono sempre stato indicato come il Bruce Springsteen dei poveri. E io e Bruce ci conosciamo da anni. Ci siamo conosciuti anni fa, ci conoscevamo abbastanza per salutarci. Ma abbiamo fatto una cosa nella foresta pluviale per Sting e abbiamo suonato insieme. E all'improvviso è diventato come il mio fratello maggiore, e mi trattava come se fossi suo fratello, e io lo trattavo con rispetto. Poi siamo diventati davvero buoni amici, ed è semplicemente successo. È venuto in Indiana, è rimasto a casa mia… ". 



Ma sarebbe veramente un delitto far passare questo nuovo album solo per "il disco con Springsteen" perché ancora una volta Mellencamp ci dimostra d'essere uno dei migliori songwriter impressionisti che calpestano le terre americane e qui viene pure fuori il pittore che ha dentro. Un'analisi di quello che gli occhi vedono intorno ma anche, spesso, un'autoanalisi sincera e profonda. Consapevolezza o forse rassegnazione davanti alle "estati migliori" che non torneranno più.  

Nel crescendo di 'I Am A Man To Worries' canta: "sono preoccupato per le parole che sento, sono preoccupato per tutte queste brutte notizie, so che è una maledizione che  non andrà più via".

E da tempo ha scelto di camminare dentro i solchi delle radici, lasciando la via del rock ad altri (anche se in 'Lie To me' ci ritorna con accenni quasi dylaniani), accontentandosi di suoni roots, nudi, acustici, minimali, intimi, caldi, mai over prodotti (chi ha detto Springsteen?) dando alla sua voce sempre più sporca e roca (recentemente ci ha pure scherzato su: "finalmente le tante sigarette fanno il loro effetto") la possibilità di mettersi in evidenza cantando di bugie e bugiardi (la dimessa 'I Always Lie to Strangers' che apre il disco con il violino piangente, 'Lie To Me'), e calpestando insoliti territori jazz come succede in 'Gone So Soon', notturna gita dalle parti del primo Tom Waits con la tromba di Joey Turtell a soffiare nel buio . Una bella sorpresa.

È un disco che segue la scia delle ultime produzioni, dai toni generali spesso dimessi, dettati da una pandemia che ha lasciato troppi dubbi, poche certezze, tanti rimpianti e pochi sprazzi di luce vera, se non presenti in 'Chasing Rainbows' se si vuole cercare tra le righe. 

Dove la fisarmonica guida a fari spenti 'Driving In The Rain', il pianoforte e l'acustica la spoglia 'Streets Of Galilee', gli stacchi funky si impossessano di una magnifica 'Sweet Honey Brown' e il lavoro dei fidi Andy York e Mike Wanchic alle chitarre, Dane Clark (batteria), Troye Kinnett (piano e fisarmonica), John Gunnell (basso), Merritt Liar (violino) e Miriam Sturm (violino) è una certezza su cui contare sempre. 

Certo, la presenza di Springsteen potrebbe riportare Mellencamp sulle prime pagine dopo molto tempo ma questo album non ha nessuna caratteristica dei dischi che si fanno comprare, ascoltare e amare con troppa facilità dal mainstream. La scelta di non segnalare la presenza di Springsteen con nessun adesivo e nemmeno con un semplice "feauturing" dopo le canzoni la dice lunga: nessuna scorciatoia. Questo è un grande disco e Mellencamp ha sbagliato poche volte in carriera.

D'altronde Mellencamp lo dice spiegando il significato della canzone che da il titolo all'album: "non sono per tutti".







lunedì 10 gennaio 2022

RECENSIONE: NEAL FRANCIS (In Plain Sight)

NEAL FRANCIS 
 In Plain Sight (Pias, 2021)


il pianista visionario 

Neal Francis tappa i tanti buchi della sua esistenza, affettivi ed esistenziali, giocando con la musica e tutto gli riesce dannatamente bene. L'apertura in pieno stile seventies (alla Elton John o Billy Joel) con 'Alameda Apartments' è significativa ed esplicita nel raccontarci un buon pezzo della sua cifra stilistica e del suo umore ma c'è molto di più. Se il debutto Changes tradiva la sua provenienza, Chicago, con spesse dosi di funky e soul in stile New Orleans, questa volta dentro a quegli anfratti riesce a metterci veramente di tutto: colate di colori pop ('Problems', l'easy listening molto eighties di 'BNYLV' in stile Joe Jackson), sintetizzatori usati in modo fantasioso (ancora i settanta di 'Prometheus', funk con una chitarra acida il giusto), funky cosmico ('Say Your Prayers') e gran verniciate di psichedelia che spesso sfociano in lunghe jam ('Sentimental Garbage'). In 'Can't Stop The Rain' sembra bagnarsi dentro le stesse acque frequentate dalla Allman Brothers Band e la presenza di un vivace Derek Trucks alla chitarra innalza la canzone tra quelle da sottolineare in rosso nella lista delle migliori di  2021 appena concluso. Francis imperversa con il suo pianoforte, lo fa da quando aveva quattro anni, quando venne perfino definito un piccolo genio, dentro a queste nove canzoni nate e suonate dentro a una chiesa di Chicago, St. Peter's UCC. "Pensavo che sarei rimasto solo pochi mesi, ma è diventato più di un anno e sapevo che dovevo fare qualcosa per approfittare di questo dono miracoloso di questa situazione". Lo ha fatto. Un disco dalle mille sfumature che piacerà a chi si approccia alla musica senza troppi paraocchi.






martedì 4 gennaio 2022

RECENSIONE: MDOU MOCTAR (Afrique Victime)

 

MDOU MOCTAR   Afrique Victime (Matador, 2021)



libertà

Non più di due anni fa sorpresero le parole scritte da Mario Balotelli nei suoi canali social (rimbalzate dalle mie parti in questi giorni, non si sa bene come), uno a cui le cose attaccate alle parole non sono riuscite sempre benissimo: "non pensate che se non aveste messo prima e ora le mani sulle ricchezze in Africa non ci sarebbe mai stata nessuna immigrazione dal continente? Nel mio paese nativo, l'Italia, si sente dire: 'l'Italia agli italiani'. Sarebbe giusto se anche l'Africa fosse degli africani...". 

Parole sagge quella volta e verità inconfutabile. Nel brano che da il titolo al nuovo album di Mdou Moctar, la travolgente 'Afrique Victime' (una delle tracce più rock con la sua lunga coda noise), si dicono esattamente le stesse cose, questa volta cantate anche in francese (il resto del disco è cantato in Tamasheq) per far arrivare il messaggio a più persone possibili. 

Nonostante i contatti sempre più frequenti con la musica occidentale, "libertà" è la parola che meglio si addice alle canzoni di Mdou Moctar, il chitarrista del Tuareg di casa in Niger, che con il suo quinto disco conferma a pieno titolo di essere tra i musicisti più dotati e innovativi della scena desert blues africana sempre più numerosa e agguerrita. Uno stile di chitarra tutto suo (è mancino, adora Hendrix ma ancor di più Van Halen) in grado di far convivere il folk tradizionale delle sue terre ('Tala Tannam'), il blues, il rock'n'roll e la psichedelia, riff ipnotici ('Bismilahi Atagah'), assoli ('Chismiten') e code jam. Si viaggia alti conquistati dai ritmi magnetici e persuasivi tra gioia e consapevolezza, triste realtà e radiosa speranza. Ed è forse quest'ultima, che spesso manca alle nostre latitudini, a rendere tutto così fresco.





domenica 26 dicembre 2021

IL MIO 2021

24 dischi per ricordare il mio 2021




ISRAEL NASH - Topaz (Recensione)
THE DIVORCEES - Drop Of Blood
THE COLD STARES - Heavy Shoes (Recensione)
ANDERS OSBORNE - Orpheus And The Mermaids (Recensione)
JAMES MCMURTRY - The Horses And The Hounds (Recensione)
BILLY BRAGG - The Million Things That Never Happened (Recensione)
GUY DAVIS - Be Ready When I Call You (Recensione)
JERRY CANTRELL - Brighten (Recensione)
SAMY IAFFA - The Innermost Journey To Your Outermost Mind (Recensione)
SON VOLT - Electro Melodier (Recensione)
WILLIE NELSON - That's Life
JESSE MALIN - Sad And Beautiful World (Recensione)
VELVET INSANE - Rock'n'roll Glitter Suit (Recensione)
RODNEY CROWELL - Triage (Recensione)
MALCOLM HOLCOMBE - Tricks Of The Trade
LUKAS NELSON & PROMISE OF THE REAL - A Few Stars Apart (Recensione)
THE WALLFLOWERS - Exit Wounds (Recensione)
ROBERT FINLEY - Sharecropper's Son (Recensione)
MDOU MOCTAR - Afrique Victime (Recensione)
HOWLIN RAIN - The Dharma Wheel (Recensione)
SWEET CRISIS - Tricks On My Mind (Recensione)
DAVID OLNEY and ANANA KAYE - Whispers And Sighs (Recensione)
STEVE EARLE AND THE JUKES - J. T. (Recensione)
NEIL YOUNG - Barn (Recensione)

12 Dischi "very (H)eavy very umble" per ricordare il mio 2021

COUNT RAVEN - The Sixth Storm
ALICE COOPER - Detroit Stories (Recensione) DEE SNIDER - Leave A Scar ROB ZOMBIE - The Lunar Injection Kool Aid Eclipse Conspiracy GREEN LUNG - Black Harvest BLACK LABEL SOCIETY - Doom Crew Inc. (Recensione) CARCASS - Torn Arteries ADRIAN SMITH/RICHIE KOTZEN - Smith/Kotzen (Recensione) MASTODON - Hushed And Grim THE VINTAGE CARAVAN - Monuments (Recensione) MONSTER MAGNET - A Better Dystopia MELVINS - Working With God





12 Dischi Italiani

CEK FRANCESCHETTI - Sarneghera Stomp (Recensione)
MASSIMO PRIVIERO - Essenziale GANG - Ritorno Al Fuoco EXTRALISCIO - È Bello Perdersi STEVE RUDIVELLI - Gasoline Beauty (Recensione) LUCA ROVINI & COMPANEROS - L'ora Del Vero (Recensione) VASCO ROSSI - Siamo Qui FRANZONI/ZAMBONI - La Signora Marron ANDREA VAN CLEEF/DIEGO POTRON - Safari Station (Recensione) DAVIDE VAN DE SFROOS - Maader Folk



12 Ristampe, Live e Amenità varie

ROLLING STONES - Tattoo You-40th Anniversary (Recensione)
BLACK CROWES - Shake Your Money Maker BRUCE SPRINGSTEEN E STREET BAND - The Legendary 1979 No Nukes Concerts NEIL YOUNG - Carnegie Hall 1970 NEIL YOUNG - Way Down In The Rust Bucket (Recensione) BOB DYLAN - Springtime In New York - The Bootleg Series Vol. 16, 1980-1985 ROCKETS - Alienation (Recensione) NICK CAVE & THE BAD SEEDS - B-Sides & Rarities II SCRUFFY DUFFY - Duffy GARY MOORE - How Blue Can You Get (Recensione) JOHN MELLENCAMP - The Good Samaritan Tour 2000 DAVID CROSBY - If I Could Remember My Name… 50th Anniversary


Libri Musicali


Confesso, l'autobiografia- Rob Halford Blackness - Carlo Badando Memoir - Stevie Van Zandt The Allman Brothers Band, i Ribelli del Southern RocK - Mauro Zambellini L'altra Metà del Pop - Paolo Mazzucchelli (il mio Metti il Disco Che Sto Arrivando!, se non altro perchè è uscito





sabato 18 dicembre 2021

RECENSIONE: THE COLD STARES (Heavy Shoes)

THE COLD STARES 
Heavy Shoes (Mascot Records, 2021) 


in due è meglio

Tra i dischi più torridi e bollenti ascoltati nell' estate del 2021, c'è certamente il quinto album dei Cold Stares, duo dell'Indiana formato da Chris Tapp (chitarra e voce) e Brian Mullins (batteria), dediti a un hard blues bello tosto, dal piglio heavy che ama spesso sconfinare nello stoner. Niente Black Keys o White Stripes, qui si pesta giù duro, riuscendo comunque a tenere dritta la barra della melodia. Chi non ha mai dovuto indossare delle "scarpe pesanti" durante alcuni periodi della propria vita? Il cantante e chitarrista Chris Tapp le indossa fin da quando a dieci anni scopre di essere stato adottato, un bel colpo bissato poco dopo quando il nonno a cui era molto affezionato si suicidò non prima di avergli raccontato la storia del bisnonno, assassino di due sceriffi per legittima difesa. Ma la battaglia più grande Tapp l'ha vinta recentemente sconfiggendo il cancro che gli fu diagnosticato nel 2009. "Heavy Shoes è quella sensazione di ogni passo più pesante del precedente e di non essere in grado di portare oltre il bagaglio" dice. Ecco che tutta la rivalsa verso la vita si riversa nei testi e nel mood, gotico, scuro, a tratti violento di queste dodici canzoni. A parte qualche raro rallentamento come nella desertica 'Dust In My Hands', è una continua lava di riff e ritmi pesanti, dalla potente accoppiata iniziale con 'Heavy Shoes', carica di fuzz e '40 Dead Men' debitrice dei Black Sabbath con i suoi rallentamenti e le ripartenze, 'Take This Body From Me' suona come suonerebbero i Free se fossero arrivati intatti agli anni duemila (naturalmente senza Paul Rodgers), 'Prosecution Blues' è hard blues devoto al verbo di sua maestà Jimi Hendrix, nella cadenzata in 'The Night Time' ci si toglie qualche peso dalle scarpe ma è solo questione di minuti. Su tutto il disco divampa l'hard blues da vecchio power trio anche se poi sono solo in due ma con le scarpe ben piantate sul terreno.





giovedì 9 dicembre 2021

RECENSIONE: NEIL YOUNG & CRAZY HORSE (Barn)

NEIL YOUNG & CRAZY HORSE   Barn (Reprise, 2021)


too old to rock'n'roll, too young to die

Guardando spezzoni del documentario girato da Daryl Hannah che racconta come è nato Barn si è colti immediatamente da uno strano effetto di amarcord che sembra riportare indietro le lancette al retro copertina di Harvest: siamo nel 1972, la foto dai toni seppia scattata da Joel Bernstein ritrae Neil Young e i suoi musicisti, in quell'occasione erano gli Stray Gators, dentro al fienile del suo ranch dove il disco fu imbastito. Una rapida fuga nel presente ci mostra quattro ultra settantenni a colori (Neil Young 76, Billy Talbot e Ralph Molina 78, Nils Lofgren, il più giovane con i suoi 70) che invece di ritrovarsi dopocena al bar sotto casa per una briscola e un bianchetto, si ritrovano in una stalla dispersa tra le Montagne Rocciose del Colorado insieme al co-produttore Niko Bolas (che insieme a Young forma l'accoppiata Volume Dealers) per lasciarci l'ennesima testimonianza della loro consolidata unione artistica.

"Un fienile costruito per replicare il fienile del 1850 che era crollato esattamente nello stesso posto, in alto tra le montagne del Colorado. È una replica esatta dell'originale, costruita con pini Ponderosa da Ted Moews e dal suo grande equipaggio di artigiani” fa sapere un convinto e orgoglioso Neil Young. 

Sembrano divertirsi ancora tanto con gli strumenti in mano, suonando sotto l'influsso di una luna piena già alta e abbagliati dai tramonti da cartolina che appaiono all'orizzonte tra i lineamenti delle montagne. E poco importa se le grandi canzoni le hanno già scritte e suonate trent'anni fa, quaranta o anche di più, lo spirito sembra essere sempre lo stesso: il ciclo della natura che li circonda e la strana umanità che cerca di impossessarsene nei modi peggiori che ha a disposizione. 



"Questi sono tempi nuovi, con nuove canzoni e sentimenti dopo quello che il nostro mondo ha passato e continua ad affrontare. Questa musica la stiamo facendo per le nostre anime. È come l'acqua dolce in un deserto. La vita va avanti"racconta Young.


E non è passato molto tempo dal precedente Colorado, il primo disco con i Crazy Horse senza la chitarra di  Poncho Sampedro da molti anni (il vecchio Poncho ha dignitosamente scelto la pensione alle Hawaii), sostituito per l'occasione dal sempre duttile Nils Lofgren, un ritorno, quasi una staffetta, che però ha portato nuove soluzioni musicali all'interno della band. 

Nonostante il disco sembri rilasciare odore di paglia, sterco e fumo, lo sguardo di Neil Young è spesso proiettato fuori verso la strada, a questi due anni di pandemia. Nell'iniziale 'Song Of The Seasons' lo si capisce bene ("guardando attraverso questa finestra di vinile trasparente, la città e le sue luci, persone mascherate che camminano ovunque"), una canzone acustica rafforzata dalla fisarmonica di Lofgren e che troverebbe la sua collocazione ideale in album come Comes A Time o Harvest Moon. Invece è qui, testimonianza di una delle due facce musicali su cui Young ha costruito tutta la carriera. Quella acustica, replicata dalla finale 'Don' t Forget Love' al pianoforte e da un coro quasi sussurato e dal ciondolante country a ritmo di valzer 'They Might Be Lost', amara riflessione sul tempo che passa portandosi via dei pezzi importanti  e quella elettrica che qui culmina negli otto minuti di 'Welcome Back', palestra per tutta la band ma con le due chitarre a dialogare in un' atmosfera di costante tensione, quasi mistica, ma in tutta rilassatezza. Effetto delle pillole psichedeliche? 

Non sono da meno l'assalto rumoroso di 'Human Race', consueta e immancabile canzone ecologista, l' honky tonk sbilenco e zoppicante con fisarmonica e pianoforte di 'Change Ain't Never Gonna' e il garage rock di  'Canerican' dove Young sostiene con forza la sua seconda cittadinanza, quella statunitense, avuta alla faccia dell'allora odiato presidente Donald Trump. 

Ma ci sono anche cose più intime e personali come l'altro honky tonk blues 'Shape Of You', lettera d'amore rivolta alla compagna Daryl Hannah, il pianoforte saltellante che accompagna la vita che passa in 'Thumblin Thru The Years' e uno sguardo malinconico verso l'adolescenza cercando i "bei vecchi tempi" nascosto tra le sferraglianti chitarre di 'Heading West' "una canzone su di me e mia madre e quei tempi di crescita. È così bello ricordarla in questo modo!” e dove canta "ero quasi adolescente, mamma e papà si separarono, mio fratello rimase quando partimmo quel giorno, dirigendosi a ovest per trovare i bei vecchi tempi". 

Barn è un disco che non aggiunge nulla alla storia musicale di Neil Young  ma è una testimonianza vitale di un artista instancabile che vive con passione il presente, alla sua maniera, con semplicità, a volte con disarmante ingenuità, in maniera raffazzonata (molte canzoni sembrano tranciato sul più bello), immerso nella natura, circondato da animali, caminetti scoppiettanti (ricordate le sue suonate in pieno lockdown?) ma sempre proiettato nel futuro anche se i suoi infiniti archivi che ci sta donando a più riprese (in verità costosi per le tasche dei fan) potrebbero far pensare il contrario. 

Anche il 2021 passerà alla storia come un altro "anno del cavallo". E a noi, in fondo, va bene così, vero'? È sempre bello ritrovare un vecchio amico.







sabato 4 dicembre 2021

RECENSIONE: BLACK LABEL SOCIETY (Doom Crew Inc.)

BLACK LABEL SOCIETY   Doom Crew Inc. (eOne, 2021)


Zakk Bloody Sabbath

Ormai sembra chiaro: la creatura Black Label Society non è più quel masso pesante e monolitico dietro cui Zakk Wylde celava la sua anima più greve e animalesca, fatta di riff heavy e intransigenza sonora, a volte portata allo spasimo. Dentro ai Black Label Society odierni c'è concentrato l'intero universo musicale dell'ex ragazzone del New Jersey che durante l'ultra trentennale carriera aveva sempre cercato di dividere le sue tante sfaccettature musicali in progetti diversi: ricordiamo il southern rock dei Pride And Glory inseguendo gli amati Lynyrd Skynyrd e Allman Brothers (con i quali suonò pure in concerto nei primi anni novanta, alla sua maniera ovviamente), e poi gli anfratti acustici, tra ballate country e folk dei due Book Of Shadows. 

Dentro al vario Doom Crew Inc., l'undicesimo disco uscito a nome BLS convivono bene il sempre ben ostentato amore per i Black Sabbath (ah quella voce che ricorda sempre l'amico Ozzy Osbourne), quelli più groove nell'apertura 'Set You Free', accompagnato da un video in cui ci si prende poco sul serio, e quelli doom come si può ascoltare nella sulfurea 'Gospel Of Lies', più Sabbath di così solo Tony Iommi potrebbe fare. 

C'è l'heavy  blues di 'Gather All My Sins' con la sua coda finale di assolo, il southern rock duro e pesante di 'Ruins' che riporta alla mente proprio il progetto Pride And Glory, durato lo spazio di un solo disco, ma poi  si aggiungono ben tre momenti acustici ad abbassare il volume: la ballata dall'accento beatlesiano 'Forever And A Day', il piano e voce di 'Forsaken' e il lento blues finale 'Farewell Ballad', chitarra e pianoforte, ennesima dimostrazione della sua accentuata vena cantautorale intimista che qualche anno fa lo portò a girare pure i teatri in solitaria. 

L'album è dedicato alla "crew", gente che lavora in seconda linea ma indispensabile e che in questi anni di pandemia ha risentito maggiormente della situazione di stallo su cui hanno cercato di navigare gli eventi live.





giovedì 25 novembre 2021

RECENSIONE: HANDSOME JACK (Get Humble)

HANDSOME JACK  Get Humble (Alive NaturalSound, 2021)


il groove nelle ossa

Sono in giro dal 2004 ma solo in tempi recenti la band di Lockport (stato di New York) sembra riscuotere elogi e apprezzamenti. Loro hanno sempre fatto poco per attirare la gente dalla loro parte. Sono ancora di quelli che l'immagine non conta poi molto: se ti piacciamo è perché ti facciamo muovere il culo e passare un'ora diversa dal tuo quotidiano sembrano ribadire dagli sguardi nella foto di copertina. Questo è il quarto album ufficiale che non si allontana troppo dal precedente Everything's Gonna Be Alright Uscito nel 2018, disco che li vedeva per la prima volta nella ormai consolidata formazione a tre composta da Jamison Passuite (chitarra, voce), Joey Verdonselli (basso voce) e Bennie Hayes (batteria, voce). 

E loro continuano a suonare con convinzione la loro musica come se il tempo si fosse fermato all'ultimo disco buono dei Creedence Clearwater Revival  in quei primi anni settanta: c'è  tutto quello straordinario e ipnotico swamp rock ereditato da zio John Fogerty. Ma attenzione perché la loro proposta è tutto fuorché vintage. Il dono di arricchire ogni traccia è la loro carta vincente. Si parte da lì si arriva da altre parti, spesso nelle zone dii Chicago : dal trascinante groove soul di 'Old Familiar Places' o della corale 'Roll It' (i cori qui presenti sono una prerogativa del disco), i fiati che aprono il disco con 'Got You Where I Want You' o quelli della sontuosa 'Shoulder To Lean On', il boogie di 'Hard Luck Karma', la suadente 'High Class Man', il R&B di 'Servin'Somebody', il gospel della title track ("una melodia gospel a tre accordi davvero semplice che avevo registrato sui miei memo vocali una sera tardi e che aveva l'atmosfera perfetta per il messaggio", racconta Passuite), il blues di 'New Home In The Sky', lo stomp 'Let Me Know' che chiude il disco. 

Gli Handsome Jack tengono in vita il rock’n’roll senza uso di trucchi e inganni. Fidatevi di quelle facce all'apparenza poco raccomandabili: melodie e suoni caldi vi stringeranno in un forte abbraccio in questo inverno alle porte.





sabato 20 novembre 2021

RECENSIONE: HOWLIN RAIN (The Dharma Wheel)

 

HOWLIN RAIN  The Dharma Wheel (Silver Current Records, 2021)

visionari

Il primo strumento che si sente quando parte 'Prelude' è il violino di Scarlet Rivera, iconica violinista del Bob Dylan che fu dentro a Desire (1976) e a quel fantastico carrozzone denominato Rolling Thunder Revue. Un tour colorato, sgangherato, pieno di comparse ma estremamente eccitante e tentacolare. Proprio come la musica disegnata dalla penna del visionario Ethan Miller, un fromboliere che con questo nuovo album porta la sua ispirazione ai massimi livelli di libertà, estremizzando ancor di più le vedute già ampie del precedente The Alligator Bride. 

Sì, libertà è la parola d'ordine che ha caratterizzato fin dall'inizio la band di San Francisco (The Russian Wilds del 2012, il loro picco) e verrà rispettata anche durante le sole sei tracce che dividono i 52 minuti di flussi musicali dove visioni psichedeliche, la  calda brezza della West Coast music datata seventies, divagazioni prog, ritmi di funky cosmico, lunghe jammate e country si baciano e amoreggiano in un'orgia di suoni dove non è difficile tirare fuori dal cilindro nomi importanti come Grateful Dead, Little Feat, Allman Brothers Band, Doobie Brothers, CSN, Eagles come spunti, fonti di ispirazione e mete d'arrivo. 

Dopo il lungo "preludio" strumentale si parte dallo straniante synth dell'ospite Adam MacDougall (già con Chris Robinson Brotherhood) in 'Don' t Let The Tears', porta principale che conduce nella  personale rappresentazione del loro decennio preferito: i settanta. Le canzoni sono lunghe: 'Under The Wheels' è un lento viaggio di melodia west coast che esplode nel finale, 'Rotoscope' un honky tonk sui generis, 'Annabelle' una ballata dove compare ancora il violino di  Scarlet Rivera, i sedici lunghi minuti di 'Dharma Wheel' si concludono in una sarabanda di feedback e cori gospel. 

"Siamo riusciti a fare un disco che contiene molta gioia: la gioia di suonare musica, la gioia di sperimentare con la musica, la gioia della narrazione e della poesia" racconta Miller, un tipo  sicuro, determinato e visionario.






domenica 14 novembre 2021

RECENSIONE: JERRY CANTRELL (Brighten)

JERRY CANTRELL  Brighten (Warner Bros, 2021)


giochi di luce al buio

Brighten è un album alla vecchia maniera: nove canzoni, essenziali, registrate proprio come si faceva quando il rock "tirava" ancora e gli album si ascoltavano dall'inizio alla fine. Di queste nove canzoni, l'ultima dura solo un minuto e quaranta ed è la cover di 'Goodbye' di Elton John, estrapolata dal fresco cinquantenne Madman Across The Water (anche lì chiudeva l'album), uno dei dischi più ascoltati e amati da Cantrell sin dai tempi dell'adolescenza  quando ancora il suo futuro era un sogno tutto da imbastire. 

Dopo aver ridato una nuova e dignitosa vita alla sua creatura più importante, a quasi vent'anni dal secondo disco solista Degradation Trip (2002), Cantrell si ritaglia nuovamente del tempo tutto per lui accompagnato da musicisti come Duff McKagan, Michael Rozon, Abe Laboriel Jr., Jordan Lewis, e Tyler Bates. 

Come sempre, a dispetto di un titolo che pare più "luminoso" del solito, dentro a Brighten ci lascia ancora alcune zone d'ombra. Lì le luci, se ci sono, si vedono di più. Un gioco di contrasti vincente. 

Con la voce di Greg Pucciato (ex Dillinger Escape Plan) a fare le veci di Stanley o William DuVall dietro. Un disco malinconico dove certamente spiccano i due omaggi al maestro Ennio Morricone: l'apertura 'Atone', un blues elettrico, marziale e desertico e 'Siren Song' con le sue atmosfere western. 

"Da fan delle colonne sonore di Ennio Morricone e dei film di Sergio Leone, ha un po' di quell'atmosfera da fuorilegge, con un bel passo da hillbilly psicopatico" ha raccontato. 

I suoni scelti sono un chiaro omaggio agli anni settanta, lo si sente nelle acustiche 'Prism Of Doubt' e nel country 'Black Hearts And Evil Done' dove gioca le sue carte dalle parti di Neil Young. Lascia i momenti più elettrici alla sola 'Had To Know', mentre 'Dismembered' è a tutti gli effetti una figlia degli anni novanta e del grunge. Un marchio di fabbrica. 

Forse non c'è l'intensità e la disperazione del suo esordio Boggy Depot (1998) quando la vita era ancora dura con un piede nelle sabbie mobili e gli Alice In Chains in attesa di qualche segnale di vita da parte di Layne Staley, segnali che non arrivereranno più, ma di Cantrell, serio, eclettico ed ispirato, ci si può sempre fidare. Uno dei maggiori talenti di quella generazione che ha tenuto in vita gli anni novanta (anche se per qualcuno è l'esatto contrario) segnando in modo indelebile una parentesi importante della musica rock.






sabato 6 novembre 2021

RECENSIONE: BILLY BRAGG (The Million Things That Never Happened)

BILLY BRAGG
  The Million Things That Never Happened (Coocking Vinyl, 2021) 




lo sguardo della maturità

È  difficile voler male a Billy Bragg ,soprattutto quando ascoltando a ripetizione quel suo "difficile terzo disco" sei diventato un po' più grande, anche quando, ormai da anni, non alza troppo la voce, la chitarra non è più manovrata come una baionetta tagliente puntata verso i nemici e gli slogan non si possono più usare per strada per manifestare con un megafono in mano. Le strade ci sono sempre, spesso portano in America (la riflessiva 'The Buck Doesn't Stop Here No More') e ora in mano c'è una tazza di thè inglese, sorseggiato con paciosa calma. Siamo diventati tutti più grandi.  
THE MILLION THINGS THAT NEVER HAPPENED è uno dei suoi dischi più riflessivi e personali di sempre, eppure dentro a queste canzoni dal retrogusto country soul, dominate da Hammond, pianoforte, un vecchio mellotron degli anni 60, archi, lap e pedal steel, la presenza di suo figlio Jack Valero, anche co-autore della finale e musicalmente giocosa 'Ten Mysterious Photos That Can' t Be Explained' ("è bello avere qualcosa in comune con i tuoi figli. Non è mai stato interessato al calcio, quindi deve essere così") c'è ancora tutta la forza sconquassante delle parole che si mescolano in quel binomio politico - personale che ce lo fece conoscere negli anni ottanta e che continua a battere forte e pompare sangue sano. 
L'uomo di Barking continua a tirare avanti per la propria strada senza troppi ripensamenti ma con la consapevolezza dei tanti cambiamenti avvenuti da allora. Come una bussola del tempo ci dà le coordinate del suo essere uomo in 'Mid-Century Modern'. "La mia linea di fondo è comunicare, sia che scriva una canzone o un libro o un articolo o un lungo post della domenica pomeriggio per i social media" ha detto recentemente in un'intervista. 
 Capelli e barba sono imbiancati così come sono cambiate prospettive e abitudini durante questi due anni di pandemia. Proprio lì dentro si va a cercare, portando in superficie empatia ('Will Be Your Shield') e condivisione come nuove armi per sconfiggere l'arrivismo e certe scelte egoiste (ridicole e imbarazzanti se viste dall'altro lato. Quello giusto?) che dominano questi strani giorni raccontati in 'Good Days and Bad Days'. La vera libertà è impossibile senza responsabilità, dice. Tocca a noi fare la mossa più appropriata per il bene della collettività, se i risultati non sono a breve termine, arriveranno. È sempre solo una questione di tempo.








martedì 26 ottobre 2021

RECENSIONE: TAYLOR McCALL (Black Powder Soul)

TAYLOR McCALL   Black Powder Soul  (Black Powder Soul/Thirty Tigers, 2021)


un debuttante da tenere d'occhio

Il giovane Taylor McCall, faccia pulita e un baseball cap calato in testa, sembra inciampato dentro alla musica per puro caso, quasi fosse stato trasportato da un oscuro incantesimo. Ma ci sta da dio. Il passo  dalla cameretta di casa nel Carolina del Sud dove viveva con i genitori e strimpellava le sue prime canzoni  a questo primo album, dopo due EP già editi, è stato breve ma senza moderne scorciatoie. Un ragazzino timido e riservato che viveva con difficoltà l'approccio con il prossimo ma che improvvisamente scopre di avere così tanto talento per la musica, così gli dicevano quelli che lo ascoltavano, che lasciare morire quelle canzoni dentro a quattro mura sarebbe stato imperdonabile. Per tutti. 

La musica diventa terapia, forza, sogno. La sua vita. 

"Considero la mia arte e la mia musica prima di tutto la mia terapia" ha raccontato recentemente in un'intervista. Gli si crede e si va avanti. 


Insieme a lui ha sempre la fida chitarra, la prima gliela regalò il nonno materno quando aveva solo sette anni. Il nonno è quello che si sente, doppiato dalla voce dell'allora giovane madre di McCall nel breve gospel di introduzione al disco 'Old Ship Of Zion Prelude', una vecchia registrazione che McCall ha pensato di mettere all'inizio (ma, anche alla fine) per rendere omaggio al suo primo vero fan. 

McCall è un autodidatta della chitarra ma in queste dodici canzoni di folk blues oscuro e country arcano, a tratti minaccioso e inquisitorio, riesce a fare un lavoro che sa di straordinario. Una prima opera  matura, prodotta da Sean McConnell, in grado di proiettarlo tra le figure più promettenti del cantautorato americano. In una continua lotta tra il bene e il male, il diavolo e l'acqua santa, le sue canzoni cantate con voce giovane ma tenebrosa e rauca il giusto, alternano i momenti elettrici del gospel sporco 'Black Powder Soul' con le traiettorie desertiche e misteriose di 'White Wine', i blues minacciosi e neri ('Surrender Blues', Hell's Half Acre') con sipari di folk acustico, con sola voce e chitarra ('Man Out Of Time', 'So Damn Lucky'), il passo lento di 'South Of Broadway' con la più movimentata 'Cooked Lanes, fino ad arrivare ai nove minuti di 'Lucifer' con i suoi riverberi carichi di nuvole pesanti pronte ad esplodere da un momento all'altro. 

Un viaggio spigoloso ma intenso. La meta è estremamente appagante anche se nelle atmosfere western da ultimo duello della bella 'Highway Will' canta "If The Devil Don't Kill Me Then The Highway Will". Non c'è via di scampo, insomma.