mercoledì 6 gennaio 2021

RECENSIONE: STEVE EARLE AND THE DUKES (J.T.)

 

STEVE EARLE AND THE DUKES   J. T. (New West Records, 2021)



"Ho fatto il disco perché ne avevo bisogno". Basterebbero queste poche parole estrapolate dalla sentita lettera scritta con il cuore in mano da Steve Earle al figlio per capire quanto straziante sia stato registrare questo album. Una terapia. Uno dei primi dischi ad uscire in questo 2021 ma  qualcosa di cui avremmo fatto volentieri a meno. Tutti. Steve Earle nella sua carriera aveva già omaggiato amici  passati a miglior vita: era successo con Townes Van Zandt, poi con Guy Clark ma la morte di un figlio è qualcosa di troppo pesante e inspiegabile anche per uno come Earle che nella vita ne ha viste e vissute di tutti i colori. Justin Townes Earle aveva cercato di seguire le orme del padre nella buona sorte (la musica: partita in adolescenza inseguendo i Nirvana, passata poi da Ledbelly e gli insegnamenti del padre) e la  cattiva sorte (i vizi inseguendo falsi miti: "ho creduto che dovevo distruggermi per fare grande arte"). Ma mentre Steve Earle a 65 anni è un sopravvissuto, Justin il 20 Agosto del 2020 a 38 anni ha ceduto davanti a un' overdose di farmaci e cocaina. Era a Nashville dopo l'ennesimo ricovero in una clinica per disintossicarsi, i medici lo avevano pure messo in guardia dalla brutta e pericolosa strada che la sua vita stava imboccando. Tutto troppo tardi. Ma attenzione, non è tutto triste e straziante, ascoltando queste undici canzoni traspare chiaro un messaggio di forte speranza e fiducia, almeno nel futuro che arriverà. Lo si deve, almeno a chi resta: buona parte dei proventi andranno alla moglie di Justin, Jennifer e alla piccola figlia di tre anni Etta St. James. Il futuro sono loro. 

Steve Earle con i suoi Dukes hanno pescato dieci canzoni nella corta ma prolifica carriera di Justin (otto sono gli album registrati) rileggendole alla loro maniera, come abbiamo imparato ad ascoltarli in questi ultimi anni, dove strumenti a corda come violino, banjo e mandolino sono indiscussi protagonisti: nel country di Ain't Glad I'm Leaving' e 'They Killed John Henry', nel  bluegrass  di 'I Don' t Care' che apre il disco. 

"Ho fatto questo disco, come ogni altro disco che abbia mai fatto. Era l'unico modo che conoscevo per dire addio". 

Mentre 'Far Away In Another Town' è un folk con l'hammond dietro, 'The Saint Of Lost Causes' avanza scura, lenta e minacciosa, invece 'Lone Pine Hill' e 'Turn Out My Lights' accarezzano dolcemente l'anima. Il ritmo si scalda e si fa elettrico poche volte: nel rockabilly  di 'Champagne Corolla', nel country rock  'Maria' e nel crescendo gospel di 'Harlem River Blues'. 


Mentre la chiusura affidata al folk nudo e crudo di 'Last Words' è da groppo in gola, unica composizione firmata da Earle, scritta di getto dopo la morte di Justin. La  vita del figlio viene omaggiata dall'inizio quando in adolescenza veniva chiamato J. T. (ecco il titolo) alla fine quando a  rimbombare sono le ultime parole che i due si scambiarono al telefono poche ore prima della morte: "l'ultima cosa che ho detto è stata ti amo, le tue ultime parole per me erano anch'io ti amo". In mezzo ci sono stati anche tanti dissidi, ma di fronte a una cosa così grande, tutto sembra svanire. 

"Nel bene o nel male, giusto o sbagliato, ho amato Justin Townes Earle più di ogni altra cosa su questa terra". Così Steve Earle conclude la sua lettera al figlio nella presentazione del disco, uscito in rete il 4 Gennaio, giorno del trentanovesimo compleanno di Justin Townes. Per averlo fisicamente bisognerà invece aspettare Marzo.





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