domenica 27 settembre 2020

RECENSIONE: ZAKK SABBATH (Vertigo)

 

ZAKK SABBATH   Vertigo  (Magnetic Eye Records, 2020)


rileggere la storia

Sì ok: l'utilità di questo disco è pari a zero, un po' come l'utilità di tutte le cover band sparse nel pianeta d'altronde. È solo intrattenimento. Se fatto bene, piace pure. Eppure Zakk Wylde, il bassista Blasko (Ozzy Osbourne, Rob Zombie) e il batterista Joey Castillo (Danzig, Queens Of The Stone Age ) riescono in qualche modo ad omaggiare un disco con cinquanta nere candeline sul groppone a loro modo, lasciando intravedere la loro firma. Lo fanno ormai da qualche anno con spettacoli live ma l'occasione del mezzo secolo di vita di uno dei dischi seminali del rock era troppo ghiotta per non approfittarne. Zakk Wylde ci mette la sua strabordante chitarra (tanto amata quanto odiata dai chitarristi), i suoi assoli, la sua voce imbastita a whisky e Ozzy Osbourne e l'esperienza raccolta sul campo (anche con questo repertorio suonato migliaia di volte), in più la sezione ritmica non è esattamente l'ultima arrivata. In scaletta quaranta minuti con la scaletta originale USA e la licenza di uscire fuori dal seminato con due lunghe jam ('Wasp / Behind the Wall of Sleep / N.I.B'  e 'A Bit of Finger / Sleeping Village / Warning'). Il tutto registrato in analogico e suonato in presa diretta tanto per mantenere quella grezza attitudine che ben si addice all'originale registrazione, tanto da decidere di non farlo uscire in digitale ma solo in supporto fisico. Se accettiamo le centinaia di band che pur componendo brani propri pescano a piene mani dal campionario di riff seminati negli anni da Tony Iommi, non vedo perché non possa esistere questo dichiarato omaggio: potente, doom ('Black Sabbath') e  bluesy ('The Wizard'). È un venerdì 13 del 1970 che si ripete sempre volentieri.



venerdì 18 settembre 2020

RECENSIONE: NEIL YOUNG (The Times)



NEIL YOUNG 
 The Times (Reprise Records, 2020)


canti di protesta

Washington, 17 Giugno 2015, Donald Trump è candidato alla presidenza degli Stati Uniti. Durante un comizio della sua campagna elettorale decide di usare 'Rockin' In The Free World' di Neil Young, canzone uscita nel 1989 nell'album Freedom, ispirata dalla protesta cinese in piazza Tiennanmen e che nel testo punzecchiava pure l'allora presidente George HW Bush. La risposta di Neil Young non tarda ad arrivare. Il canadese attraverso il suo manager  Elliot Roberts interviene prontamente e lo cazzia: "non è stata autorizzata". È l'inizio di una disputa tra Young e Trump che nel frattempo alla faccia di tutti dentro alla Casa Bianca ha trovato dimora per almeno quattro anni. 

Estate 2020, con Donald Trump ai minimi storici di consensi, l'effetto gestione Covid pesa, tanto da indurlo a ipotizzare un rinvio delle prossime elezioni presidenziali (lui ci ha provato, inutilmente) , NEIL YOUNG non si lascia sfuggire l'occasione per cantargliene ancora altre quattro. Perché del canadese possiamo dire tante cose ma è rimasto l'unico della vecchia guardia a metterci ancora la faccia, vivere nel presente, a suo modo lottare per ciò in cui crede, spesso anche a scapito del risultato, facendo uscire instant album duri e spigolosi, raffazzonati, poco curati ma marchiati con il sangue. Spesso amaro. 

Questo EP di 27 minuti intitolato THE TIMES (in copertina riprende i caratteri del New York Times) contiene una versione riuscitissima, riveduta e corretta della sua vecchia 'Looking For A Leader' (uscita nel 2006 nell'album Living With War). Nei versi cambiati YOUNG canta:" non abbiamo bisogno di un leader  che costruisce muri intorno alle nostre case, che non conosce Black Lives Matter, è ora di mandarlo a casa". Trump go home in poche parole. 


Il resto è una piccola raccolta di sue canzoni di protesta estrapolate dalle Fireside Sessions (Porch Episode) con le quali Neil Young ha cercato di allietarci il lockdown. Tra le cose più rustiche, belle e riuscite  viste in quei mesi di reclusione forzata. Ci ha accompagnato nel suo ranch immerso nella natura, ripreso dalla telecamera della  compagna Daryl Hannah: una volta davanti a un falò in giardino o a un camino all'interno, sulle rive del lago della sua tenuta, dentro al pollaio, sotto alla neve o sotto il sole, in compagnia di una chitarra acustica, un'armonica o un pianoforte ha pescato vecchie e nuove canzoni dal suo passato. Per questo mini album ha scelto canzoni a tema:  le registrazioni pure e grezze, con sbagli e rumori di sottofondo, di 'Ohio' (scritta di getto dopo la morte di quattro giovani durante gli scontri tra manifestanti e polizia il 4 maggio 1970 a Kent, in Ohio), 'Alabama' e 'Southern Man' (atti d'accusa verso il razzismo degli stati del sud a cui i Lynyrd Skynyrd risposero con 'Sweet Home Alabama'), 'Campaigner' (uscita all'epoca su Decade e che molti lessero come parole di simpatia verso Nixon), la malinconica 'Little Wing' (sentita di recente in Homegrown) e di quella 'The Times They Are A-Changin' dell'amico Bob Dylan, che oltre a starci sempre bene sembra essere l'unico raggio di speranza sempre valido per il futuro. E per lui, cittadino americano da pochi mesi ma abbastanza per definire Trump "una disgrazia per il mio paese", e per milioni di americani il voto di Novembre potrebbe essere il vero preludio verso un altro avvenire.







sabato 12 settembre 2020

RECENSIONE: GRANT - LEE PHILLIPS (Lightning, Show Us Your Stuff)

 

GRANT - LEE PHILLIPS  Lightning, Show Us Your Stuff (Yep Roc Records, 2020)



"parlando con me stesso" 

Difficilmente Grant - Lee Phillips sbaglia un disco e questo, il decimo da solista, inizialmente potrebbe sembrare un primo passo falso. Ma è solo un grande abbaglio. Un po' come il fulmine che ha fatto pronunciare a sua figlia la frase diventata poi titolo del disco. Mostraci cosa sai fare. Forse tra le canzoni scorre meno impeto del solito ma no, è difficile poter dire che è un brutto disco, soprattutto dopo averlo ascoltato più volte. Assimilato. Grant -Lee Phillips sembra scegliere la ballata morbida, sfumata, tenue, come supporto alla sua ricerca tra le fragilità dell'esistenza. Un viaggio tra "le vite tranquille di persone che lottano per resistere, cercando di mantenere la dignità" dice. Lui è compreso lì dentro. Noi pure. Gran parte di noi. 

Canzoni riflessive che sembrano sbirciare più all'interno che all'esterno come invece faceva nel precedente Widdershins che si aggirava tra le brutture del mondo, quelle facili da indicare con il dito. Naturalmente è ancora pieno di gente che vede solo il dito. Confermano le sue parole: "se faccio un disco con un taglio più duro, la prossima volta voglio farne uno più morbido. Il disco che ho fatto prima di questo era davvero più un'espressione esteriore. Riguardava le cose che ci riguardano tutti nella piazza del paese. In questo album, sono andato dentro, ma sono disposto a portare tutti con me". Allora, solo due anni fa, sì chiedeva dove "stiamo andando?", qui sembra chiedersi "a che punto sono?".  Esclusa la battente 'Gather  Up', blues elettrico e trascinante con un crescendo nero e gospel venuta in dono pensando alla sua infanzia, tutte le canzoni viaggiano a mesta velocità seguendo i tasti di un pianoforte ('Mourning Dove', le immagini di 'Sometimes You Wake Up In Charleston' sono tra le più nitide, 'Coming To').  

Ci sono l'inconfondibile tocco di batteria di Jay Bellerose e il basso di Jennifer Condos ad accompagnare, lasciando ai fiati di Danny T. Levin il compito di soffiare ogni tanto sul fuoco (l'apertura 'Ain't Done Yet'  e l'altro up tempo ma nemmeno troppo), procedendo pigramente ('Straight To The Ground') e con la finale 'Walking In My Sleep' che si perde nell'infinità disegnata dalla pedal steel di Eric Heywood, e sembra un po'  riassumere il concetto base di un disco registrato in brevissimo tempo a Los Angeles, mantenendo tutto il calore della presa diretta con l'essenzialità della band: "parlando con me stesso, camminando nel mio sonno" canta in un'atmosfera riflessiva che si cala a perfezione in questi tempi incerti, costruiti su tante domande che attendono altrettante risposte.  

Intimo e rarefatto con il prezioso dono di creare immagini (scattate dalla sua mente) in cui identificarsi. Qui ci mette il cuore come sempre, lo si sente battere e camminare in ogni strofa, sicuro che dovunque ti porti la vita ci sarà sempre un'affetto ad accoglierti come canta in 'Leave A Light On', tra le migliori tracce del disco. La casa è un rifugio sicuro, un po' come lo sono diventati i dischi di Grant Lee Phillips.





martedì 8 settembre 2020

RECENSIONE: TENNESSEE JET (The Country)

TENNESSEE JET  
The Country (Thirty Tigers, 2020)
 



one man band in cerca di compagnia 

L'adolescenza di Tennessee Jet potrebbe essere uguale a quella di tanti altri ragazzini americani che grazie al lavoro dei genitori hanno potuto girare in lungo e in largo gli Stati Uniti. Sua madre e suo padre bazzicavano per rodei con un pick up Ford e i cavalli al seguito mentre ad accompagnare il susseguirsi dei paesaggi c'era sempre una radio accesa che passava Bob Dylan, Willie Nelson, Waylon Jennings e se si cambiava canale uscivano pure le chitarre '90 del grunge. Ecco che quegli ascolti hanno lasciato un segno indelebile venuto utile quando il giovane ha iniziato a imbracciare una chitarra seguendo le orme di quelli che nel frattempo erano diventati per lui importanti quanto e più dei cavalli dei rodei. 
"Una volta che ho iniziato a fare la mia musica, ho capito che anche se avessi imparato quei suoni, avrei comunque emulato qualcun altro. Ho dovuto fare musica tutta mia. Per sapere cosa puoi apportare a un genere, a volte è bene fare l'opposto di quel genere, così puoi provare quei vestiti e vedere come ti stanno. Le cose che sono autentiche per te, le conservi. Le cose che non vanno, le scarti. " racconta. 
THE COUNTRY è il suo terzo disco, il più completo musicalmente, il più country certamente. Se i primi due erano scarni e con frequenti puntate rock (TJ McFarland, ecco il suo vero nome, si esibisce come one man band dove Steve Earle sembra amoreggiare con i Black Keys), questa volta sembra guardare maggiormente al lato bucolico della sua arte, a quegli ascolti adolescenziali che lo hanno accompagnato per tanti chilometri, anche se non mancano alcune scosse elettriche: nel grunge alla Nirvana, pure un po' troppo, di 'Johnny', dedicata alla leggenda country degli anni 50 Johnny Horton, scomparso nel 1960 in un incidente stradale, investito da un ubriaco, e in 'Hands On You', tra Tom Petty e Bruce Springsteen, soprattutto. Tolte le due cover 'Pancho & Lefty', un classico di Townes Van Zandt che abbiamo sentito rifatto mille e una volta, qui con gli ospiti Elizabeth Cook, Cody Jinks e Paul Cauthen alle voci e la tromba di Brian Newman e una 'She Talks To Angels' dei Black Crowes in una versione totalmente bluegrass, altrove troviamo una buona gamma di tracce country rock. Rotolanti come l'autobiografico honky tonk d'apertura 'Stray Dogs', che sembra nascere là dove finiva 'I Want You" di Bob Dylan o ballate dall' umore nostalgico guidate da pedal steel ('Sparklin Burnin Fuse' 'The Raven & The Dove', 'Someone To You') e violini ('The Country', 'la sitaria' Off To War') accompagnate dalla stessa band che accompagna Dwight Yoakam in tour. 
Non sono sicuro che Tennessee Jet sia riuscito a dare nuova linfa al country rock come lui stesso sostiene, sicuramente il disco gira bene e senza cali di tensione. Fresco. Al giorno d'oggi sembra già una buona vittoria per non affogare dentro a cliché triti e ritriti.





venerdì 4 settembre 2020

RECENSIONE: ROSE CITY BAND (Summerlong)

ROSE CITY BAND
  Summerlong (Thrill Jockey, 2020) 





l'estate sta finendo
I Rose City Band nascono come puro divertimento, senza pretese, per riempire le pigre, a tratti noiose, serate infrasettimanali giù al locale sottocasa, ma con questa seconda uscita dal titolo Summerlong (ecco il disco colonna sonora per questa strana e folle estate) il progetto di Ripley Johnson, conosciuto per i suoi Moon Duo e i Wooden Shjips, rischia di diventare una cosa seria e compiuta, andando a tappare la fame di tutti gli orfani della scena country rock psichedelica che ha colorato la seconda metà degli anni sessanta. "Musica della mia giovinezza che è sempre stata con me e ha avuto un'enorme influenza su di me, su come penso alla musica" dice Johnson. 
Possiamo ascoltare gli originali, oppure mettere su questo sunto dei nostri giorni che sa di devoto omaggio ma che riesce a ritagliarsi anche un buon spazio di originalità, cosa rara quando si è di fronte a un periodo musicale irripetibile e non replicabile come quello. Echi di Grateful Dead (periodo American Beauty), Quicksilver Messenger, Byrds, Velvet Underground, CCR, The Band continuano a benedire queste otto canzoni per un viaggio della giusta durata di quaranta minuti che sa di gioiosa libertà creativa, dove il country imbastito di lap steel si espande nell'infinito cosmo di trame chitarristiche e linee melodiche tessute dalla fantasia compositiva di Johnson. Bastano pochi minuti per ritrovarsi a guidare nel paesaggio di copertina illuminati dalla 'Morning Light' e con una montagna davanti che ci pare la più dolce e sinuosa delle colline da accarezzare...Sveglia! Il lavoro vi aspetta!




lunedì 24 agosto 2020

RECENSIONE: ONDARA (Folk N'Roll Vol. 1: Tales Of Isolation)

ONDARA 
Folk N'Roll Vol. 1: Tales Of Isolation (Verve Forecast Records, 2020)  





racconti dal lockdown

Tre giorni per scriverle, tre giorni per registrarle, e un intero lockdown come sfogo ultimo di di ansie, paure e fonte di ispirazione. È nato così Folk N'Roll Vol. 1, Tales Of Isolation, il secondo album di JS Ondara. Già con l'esordio Tales Of America, uscito l'anno scorso aveva fatto parlare di sé, prenotando un posto tra i più interessanti giovani folk singer d'America, meritandosi una nomination al Grammy Award. Se fossimo negli anni settanta un bel "nuovo Dylan" non glielo avrebbe tolto nessuno.
Peccato che JS Ondara sia nato a Nairobi, Kenya, ventisette anni fa e la sua America sia letteralmente andato a conquistarsela con caparbietà d'altri tempi. Folgorato dall'ascolto di Freewheelin' di Bob Dylan e dalle canzoni di Jeff Buckley, Ondara iniziò a scrivere testi in inglese (non la sua lingua madre) in un foglio e disegnare melodie dentro alla sua testa, sognando di avere tra le mani quella chitarra che i suoi genitori non potevano permettersi. Nasce qui la voglia di lasciare l'Africa e coltivare il suo sogno. Vola in America per studiare musicoterapia, ma i suoi video amatoriali caricati su Youtube vengono notati. Lascia lo studio, sì trasferisce a Minneapolis, Minnesota (mica una città a caso), impara a strimpellare una chitarra e scrive testi, a centinaia, solo undici finiranno nel suo debutto, abbastanza per impressionare la critica. I risultati potete ascoltarli con facilità. 
Questo secondo disco è nato invece come forma di terapia "come sono sicuro che sia successo a tutti noi, ho scoperto che il periodo di isolamento stava logorando l'equilibrio della mia sanità mentale" racconta. A un primo periodo di blocco mentale hanno fatto seguito una valanga di parole. 
"Sono storie sulle ramificazioni di un'intera popolazione che si isola; sulle cicatrici personali, politiche ed economiche che permarranno per il resto della nostra vita per molto tempo, dopo che avremo trovato la nostra strada oltre questo"
Folk minimale: chitarra acustica, armonica ('in' Shower Song' canta a cappella con il solo battito di mani), la benedizione del primo Bob Dylan, dello Springsteen più folkie, del Paul Simon meno etnico e più urbano e di Jeff Buckley dietro e Ondara, che si lascia andare anche al falsetto, da sfogo alle sue paure cantando di disoccupati ('Pulled Out Of The Market') e lavoratori ('From Six Feet Away'), delle sempre maggiori difficoltà di tirare avanti, ampliate dalla pandemia ('Mr. Landlord'), di ingiustizie sociali ('Pyramid Justice'), finendo il disco con una serie di canzoni legate all'isolamento e a quella particolare onda emotiva che sembrava presentarsi quasi a scadenze regolari e che ci ha fatto passare dall'euforia all'esaurimento nel giro di un battito di grafici giornalieri. 
Questo disco è un piccolo documento da tramandare alle prossime generazioni: nel 2020 abbiamo vissuto il lockdown con il pesante carico di incertezze legate dietro, qualcuno è riuscito a mettere tutto in musica molto bene.





mercoledì 19 agosto 2020

RECENSIONE: MO PITNEY (Ain't Lookin' Back)

MO PITNEY
   Ain't Lookin' Back (Curb Records, 2020) 




sempre avanti

"Non guardare indietro" canta Mo Pitney, giovane cantautore dell'Illinois di casa a Nashville, classe 1993, nella title track del suo secondo disco in carriera. 
 "È una canzone sul lasciar andare il passato e trovare la capacità di guardare a un futuro luminoso attraverso la ricerca del perdono e della redenzione" dice in una intervista. 
E allora guardiamolo in faccia questo futuro. Pitney lo affronta con un disco motivazionale dove libertà, positività e redenzione ( la sua fede cristiana esce prepotente) incrociano sovente le loro strade. Il suo è un country folk, pulito e moderno ma che sa guardare al passato con rispetto e devozione, con alcuni buoni graffi elettrici. Gli ospiti presenti sono il sigillo sul suo futuro. Un disco che parte e si chiude in modo malinconico però: con 'A Music Man', riflessione folk autoconfessionale sulla musica (sembra che la sua chitarra sia una missione divina) dove spicca la presenza di Jamey Johnson e si chiude con il cupo folk con aperture gospel 'Jonas' che mette in mostra la sua visione cristiana sul mondo attraverso gli occhi di di chi affondò i chiodi sulla carne di Gesù. In mezzo ci sono belle sorprese come il bluegrass 'Old Home Place' che vede l'intervento di una fantomatica His All Star Band tra cui spiccano il mitico Marty Stuart e Ricky Skaggs, oppure il southern rock di 'Ain' t Bad For A Good Ol' Boy', il RnB di 'Local Honey', la più ammiccante e pop 'Boy Gets The Girl', la bella 'Old Stuff Better' country folk disteso su lap steel e armonica dove confessa di "essere nato vecchio". Gli si crede. Mo Pitney ha una bella penna che se lasciasse giù solo un poco di sbavatura in più sarebbe quasi perfetto. 
Certo: bisogna essere di larghe vedute e accettare la sua fede e la sua visione sul mondo.



venerdì 14 agosto 2020

RECENSIONE: DEEP PURPLE (Whoosh)

DEEP PURPLE   Whoosh (Ear Music, 2020)


liberi e felici

E quando arriva il momento  dell'acuto tu parti (anche solo con la mente per non ricevere una botta in testa dal vicino) ma quell'uomo là a centro palco non ti segue. È un po' quello che è successo qualche anno fa ad un concerto dei Deep Purple, Ian Gillan non mi veniva dietro, si fermava lì, come se la strada verso l'acuto fosse interrotta. Ma come? Questo per dire che i Deep Purple non sono più quelli di una volta ma da quando Bob Ezrin ha iniziato a prendersene cura (questa volta li ha portati a registrare a Nashville) stanno tirando fuori degli album freschi, rilassanti, a tratti scoppiettanti, ma in totale libertà musicale e stilistica, senza rincorrere il passato. 

"Semplicemente ci mettiamo a suonare, non abbiamo piani prestabiliti. Non scriviamo le canzoni dall’inizio alla fine: le suoniamo finché non si evolvono in qualcosa che sorprende noi stessi. Non ci interessa essere all’altezza delle aspettative di nessuno se non di noi stessi. Con una grande storia come la nostra, forse l’unica cosa che cerchiamo di far è non essere una parodia di noi stessi." così Roger Glover sulle pagine di Billboard Italia.

INFINITE, uscito nel 2018,con il suo tour The Long Goodbye doveva essere il canto del cigno e invece…eccoli di nuovo qua. Dopo 52 anni di carriera nessuno può permettersi di dire loro qualcosa. Questo Whoosh si presenta bene fin dalla copertina, finalmente! È tutto oliato alla perfezione nella formazione che ormai sta diventando la più longeva di sempre: Ian Gillan, Roger Glover, Ian Paice, Steve Morse e Don Airey. Le fughe barocche di Don Airey in 'Nothing At All', l'hard rock di 'No Need To Shout', 'The Long Way Round' e dell'apertura 'Throw My Bones', l'omaggio al rock'n'roll di 'What The What', la strumentale 'And The Address' piccola lezione di buon gusto pescata addirittura dall'esordio del 1968, le fughe progressive di 'Step By Step', la misteriosa 'The Power Of The Moon' sono tutte canzoni nate con gran spontaneità e con l'ancora ben lanciata nel presente. Certo, manca la hit trainante ma le tredici canzoni vanno prese tutte insieme, un calibrato mix di rock e sperimentazione che da un gruppo con più di cinquant'anni sulle spalle non ti aspetteresti più.


giovedì 6 agosto 2020

RECENSIONE: JOHN CRAIGIE (Asterisk The Universe)

JOHN CRAIGIE   Asterisk The Universe (Zabriskie Point Records & Thity Tigers, 2020)

folk senza tempo
"La mia ispirazione viene dall'interazione umana". Così John Craigie, 40 anni, cerca di spiegare la sua innata capacità di scrivere canzoni. Questo è il suo settimo disco anche se pochi lo sanno. Potrebbe essere il disco del grande salto ma penso che a Craigie interessi poco la fama quanto la libertà di espressione e movimento, lui nato a Los Angeles e cresciuto a Santa Cruz: salire sopra un palco e interagire con il pubblico, coinvolgere le persone con sarcasmo, arguzia e intelligenza. Per questo è spesso accostato al compianto John Prine. I grandi palchi li ha calpestati seguendo in tour Jack Johnson, quelli a lui più consoni aprendo per Todd Snider. Due che hanno creduto in lui prima di tutti. 
 Queste canzoni sono l'esempio del suo modo di scrivere dove umorismo, filosofia e vita di strada trovano un unico comune denominatore nel folk intriso di umori soul di marchio Motown, nei limpidi e leggeri lampi di psichedelia, sempre con l'accento sudista ben in evidenza. Asterisk The Universe, titolo che tradisce i suoi vecchi studi matematici impressi in una laurea e una copertina top - particolare da non trascurare - potrebbe essere datato 1966 come 1975, non ha importanza perché i suoi temi sono in qualche modo sempre di moda: il saper rimanere a galla tra le intemperie ('Hustle') scuotendo la voglia di rinascita ('Part Wolf'), rapporti d'amore complicati (la corale 'Don' t Ask'), stili di vita a lui consoni (la ballata dylaniana 'Nomads', semplice, pura come acqua di sorgente), la sempre carente giustizia (il soffuso funky di 'Climb Up') e storie perse nel secolo scorso come quella raccontata in una magistrale, cupa, lisergica, misteriosa e piena di riverberi 'Vallecito'. "Stavo leggendo alcune storie di sopravvivenza di esseri umani catturati in situazioni meteorologiche estreme. Una storia ebbe luogo in Colorado nei primi anni del 1900…" due viaggiatori colti da una bufera di neve si dividono i viveri di una cabina trovata per puro caso. Una convivenza che nessuno dei due aveva messo in preventivo. Riuscita. Poi fa sua la 'Crazy Mama' di J. J. Cale, avvolta in una atmosfera da piccolo pub fumoso senza la necessità di tagliare qualche parola da studio prima dell'esecuzione. Mentre in 'Don' t Deny' esce tutto il Bob Dylan che ha dentro, tanto da sembrare una buona outtake dei Basement Tapes con il fiato di tutta la Band dietro. Per portare a termine la sua opera si avvale di pochi ma fidati amici come le Rainbow Girls (il disco è stato registrato a casa loro in Nord California e in 'Used It All Up' si impossessato della scena per qualche minuto), Jamie Coffis dei Coffis Brothers con il suo presente Wurlitzer, Lorenzo Loera dei California Honeydrops e Ben Barry della Old Soul Orchestra. 
 Folk senza tempo, così come dev'essere. John Craigie ci vive immerso, comodamente a proprio agio.




domenica 2 agosto 2020

DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA # 84: NEIL YOUNG + CRAZY HORSE (Ragged Glory)

NEIL YOUNG + CRAZY HORSE  Ragged Glory (Reprise, 1990)





love and only love
"Attaccavo la Old Black, accendevo gli amplificatori e una canna, poi iniziavo a suonare e scrivere". Così Neil Young racconta la genesi di Ragged Glory tra le pagine della sua autobiografia e vi giuro io dentro a quella foto di copertina con effetto fish eye avrei voluto starci durante le poche settimane nelle quali prese forma questo ritorno elettrico con i Crazy Horse (Frank Sampedro, Ralph Molina, Billy Talbot). Mi sarei messo in un angolo, seduto con le gambe incrociate sopra a un tappeto, con tutta la consapevolezza di sottoporre le mie orecchie a un grande rischio. Sì proprio quel tappeto a destra che si vede in copertina. Non avrei disturbato nessuno. Giuro. 
Il fienile del ranch fu adibito da studio di registrazione con assi di compensato e attrezzature analogiche anche se David Briggs chiese e ottenne anche uno studio mobile da mettere in cortile. I Crazy Horse furono sottoposti a un tour de force tremendo. Non ci si fermava mai, le canzoni fluivano in continuazione e solo alla fine vennero ascoltate. Era lo spirito da vecchia garage band a prevalere e guidare le sedute e in quel campo i Crazy Horse avevano pochi rivali. Il paragone con Everybody Knows This Is Nowhere e sempre lì dietro l'angolo. 
"Ragged Glory è l'unico disco in cui suonammo tutta la scaletta due volte al giorno senza mai riascoltare le registrazioni, ma sempre prendendo nota di come ci sembrava la musica". 
Anche se Neil Young dice di aver scritto canzoni, come sempre alcune le pesca dal suo cassetto eternamente traboccante del passato: dall'annata 1975 tira fuori l'uno due iniziale formato da 'Country Home' e una superba 'White Line' che avanza come un carrarmato ( così diversa dalla prima versione uscita recentemente su Homegrown) dai canzonieri altrui ruba una cialtronesca 'Farmer John' scritta da Dewey Terry e Don Harris a metà anni sessanta per i Premiers, a conclusione del disco piazza una registrazione live di 'Mother Earth (Natural Anthem)' nata sulla melodia di un vecchio traditional britannico, eseguita al Farm Aid come "un trip", tanto per ricordare il suo impegno ecologista. 

Ma qui dentro non sono importanti tanto le parole quanto la musica e le chitarre elettriche ti imprigionano in un continuo e incessante assalto dominato da feedback e assoli. Tanto forti da confondere il tremolio dei feedback con un vero terremoto che si abbatté sulla California in quei giorni di registrazione, "stavamo facendo surf sul terremoto" dirà. 
I Crazy Horse non guardano l'orologio e tre canzoni vanno oltre gli otto minuti ('Love To Burn', 'Over And Over' e 'Love And Only Love') e 'Fuckin' Up' ( o 'F*! # in' Up' come venne stampata per non incorrere nella censura) rimane il migliore dei biglietti da visita per presentarsi al nuovo decennio alle porte. Tanto che Kurt Loder nella sua recensione per Rolling Stone del 20 Settembre 1990 scrisse:"Fuckin' Up farebbe strinare i ricci di una qualunque combriccola di metallari correntemente in classifica". Tutti avvertiti! 

"Finito l’album andammo in tour con i Sonic Youth e i Social Distortion. Era un gran cartellone, la gente vedeva un vero spettacolo. Era potente”, ecco la chiusura del cerchio. 
In 'Days That Used To Be' cita, ruba, omaggia (ma poi chi se ne frega) 'My Back Pages' di Dylan e una generazione tutta (irripetibile aggiungo io), in 'Mansion On The Hill' canta "una musica psichedelica riempie l'aria, pace e amore vivono ancora là", rendendo bene l'idea di come questo disco sia nato, un mix di aria agreste su tonnellate di ampli caldi e fumanti.
"Un giorno stavamo ascoltando i brani e arrivò ‘Mansion On The Hill’. Era un brano sporco, ma aveva tiro. Chiesi a David di farmelo ascoltare ancora. David disse a Hanlon: ascoltiamolo in tutta la sua Ragged Glory, la sua gloria stracciona". 
Così arrivò anche il titolo di un disco che anticipò la vera esplosione del grunge di pochi mesi. Non fu certamente un caso. 
Le session furono talmente  prolifiche che canzoni straordinarie come 'Don' t Spoke The Horse' (uscita come b side dell'unico singolo 'Mansion On The Hill'), una "versione condensata dell'album" dirà Neil, 
'Born To Run' e 'Interstate' furono lasciate fuori. Intanto stiamo aspettando la  più volte annunciata ristampa ampliata con inediti. Tra i miei dischi top di Neil Young, Ragged Glory c'è sempre. Ora ho le orecchie che sanguinano e il tappeto è tutto macchiato.




martedì 28 luglio 2020

RECENSIONE: SEASICK STEVE (Love&Peace)

SEASICK STEVE  Love & Peace (Countagious Records, 2020)





summer of love
Se fino a qualche anno fa la sua vita era ancora avvolta da un denso e affascinante fumo di mistero (date di nascita, vecchi lavori, amori e collaborazioni), ora di lui sappiamo vita e miracoli, la morte lasciamola ancora da parte per ora, altrimenti quelle dita in copertina potrebbe trasformarsi velocemente in un dito medio alzato al mio indirizzo. E avrebbe tutte le ragioni, altro che pace e amore. Con i suoi 69 anni, Seasick Steve questa volta sembra volgere lo sguardo indietro a un'epoca che lo vide protagonista per trovare la giusta e semplice soluzione a questo mondo che corre al rovescio: l'apertura 'Love & Peace' è subito lì anticipata da un discorso distorto del nostro, pace e amore per tutti, citando perfino 'Come Togheter' dei Beatles in un passaggio e cantando: "dobbiamo fermare l'odio adesso, restituire l'amore e la pace". Tutto molto chiaro e limpido come il personaggio. Poca filosofia e tanta strada di vita vissuta sotto gli stivali e sulle ruote di un sempre affidabile trattore John Deere.
 Un ritorno ai figli dei fiori e alla Summer Of Love. Che il buon Steve dopo dieci album non si sia ancora montato la testa lo dimostra un blues autobiografico che sbuffa, con tanto di armonica, alla vecchia maniera come 'Regular Man' e il modo con il quale sono state registrate queste dodici canzoni: su nastro analogico 2 pollici, grezze e pure con il solito aiuto del fidato batterista Dan Magnusson e un paio di ospiti come Luther Dickinson (chitarra dei North Mississippi Allstars) e dell'armonicista Malcolm Arison (BossHoss). Grezzo e ruvido sì ('Toes In The Mud') ma ormai conosciamo bene anche il suo cuore romantico (le lente e notturne 'I Will Do For You' e 'My Woman'), i dipinti country e rurali ancorati nel suo passato ricamati dalla slide che sembrano uscire da altre epoche in 'Carni Days', il forte e chiaro messaggio di indipendenza di ' Church Of Me' con la sua esplosione, il boogie polveroso di 'Ain' t Like The Boogie', la mappa on the road tracciata con 'Travelling Man', finendo con una 'Mercy', acustica e confidenziale.
 In 'Church Of Me' canta " devi essere solo te stesso, è tutto quello che devi fare". Un consiglio semplice semplice ma che spesso dimentichiamo inseguendo aspettative a volte fin troppo alte che ci distolgono dal vivere al meglio il presente. Lo sa bene Seasick Steve che arrivato al decimo album in carriera continua a fare la sua vecchia musica di sempre, che non stupirà più come qualche anno fa ma la sua attitudine e la sua generosità sopperiscono ancora molto bene a tutto quel poco che non troverete più.
Love & Peace a tutti.






RECENSIONE: SEASICK STEVE- Sonic Soul Surfer (2015)
RECENSIONE: SEASICK STEVE - Hubcap Music (2013)
RECENSIONE: SEASICK STEVE - You Can't Teach An Old Dog New Tricks (2011)



giovedì 23 luglio 2020

RECENSIONE: THE TEXAS GENTLEMEN (Floor It !!!)

 THE TEXAS GENTLEMEN  Floor It!!! (New West, 2020)







io scommetto su questi gentiluomini

"Non ci sono vincoli su ciò che facciamo".
E allora vi consiglio di prendervi un'oretta di svago con questi gentiluomini del Texas al loro secondo album: un elegante e ruspante miscuglio di american music, aperto, veramente senza vincoli, vintage e moderno allo stesso tempo. Canzoni che cambiano continuamente umore, un minuto prima sono da una parte, quello dopo dalla parte opposta pur tenendosi sempre sotto controllo con lo sguardo. A proposito di vista, occhio alla confezione che diventa gioco da tavolo.
Dal Dixieland con aperture jazzate che richiama gli anni trenta al cosmic country dei settanta, dal southern rock al gospel soul, dal country al pop beatlesiano di sponda McCartney, dal funky con tanto di fiati alle divagazioni di stampo progressive. Potrete incontrare i Little Feat che parlano con The Band, Sly Stone che discute con Elton John, i Meters che sussurrano qualcosa agli Steely Dan, a volte pure nella stessa canzone e nessuno sembra fare la voce grossa per prevalere. 
Sono invece due le voci che si alternano, quella di Nik Lee (chitarra) e quella di Daniel Creamer (tastiere), poi ci sono Ryan Ake (chitarra), Scott Edgar Lee (bassista) e il batterista Aaron Haynes. Tutta l'esperienza passata dei musicisti in altri e diversi progetti (qualcuno di loro ha suonato per Kris Kristofferson) è stata inglobata in mille direzioni imprevedibili in un album poco catalogabile ma in grado di farsi strada per originalità e pazzia compositiva.
"Siamo un gruppo di cinque persone e quando ci sentite suonare sentirete l'influenza di cinque diversi musicisti che lavorano insieme come un'unica unità".
Una colonna sonora (molte sono le parti strumentali) per un film musicale che solo delle inguaribili teste "malate di musica" riuscirebbero a produrre. I Texas Gentlemen sono dei campioni: si meriterebbero il ricovero immediato per questo. Qui butto la mia scommessa: potrebbero presto guadagnarsi un posto tra i migliori (e più folli) musicisti americani sulla piazza oggi. A meno che già non lo siano.






lunedì 20 luglio 2020

RECENSIONE: LUCA ROVINI (10 Canzoni Per Dipingere Il Cielo)


LUCA ROVINI 10 Canzoni Per Dipingere Il Cielo (2020)




lockdown blues

"Ho cercato di fare del mio meglio con i mezzi che avevo", così Luca Rovini ha risposto con somma umiltà ai miei complimenti in privato. Avevo scaricato il file che mi aveva spedito ma ho aspettato di avere in mano qualcosa come il più inguaribile e vecchio romantico degli ascoltatori di musica. Siamo o non siamo anziani aggrappati alle nostre vecchie e sane abitudini? Luca non ha stampato molte copie di questo album, forse ha fatto male, perché queste dieci canzoni, queste dieci ballate acustiche sono pure, genuine, sincere, romantiche, evocative, suonate bene e senza fronzoli con le sue chitarre acustiche e il solo aiuto di Paolo Ercoli al mandolino e dobro, e hanno la potentissima forza di arrivare. Al cuore soprattutto.
Folk minimale con buoni intrecci di chitarre, che si sposta tra le rose romantiche e la polvere della strada dell'iniziale 'Dove Il Cielo Bacia Il Mare', passa attraverso un sentito omaggio al padre in 'Dipingere Il Cielo', tocca Blackie Farrell con la sua 'Sonora' s Death Row' (l'unica cover del disco che però il cantautore pisano ha trasformato in italiano naturalmente) e poi arriva pure al suo amato Dylan con i tanti personaggi che popolano '176esimo Sogno Di Luca Rovini' e con 'La Strada Di Una Gangster' portata a casa con sola chitarra e armonica.
"10 Canzoni Per Dipingere Il Cielo" è un album nato un po' per caso in pieno lockdown, Luca era chiuso in casa come tutti noi, lontano dalla sua band elettrica (i Companeros), lontano dal suo amore. Ecco, ascoltandolo più volte, mi si sono arrossati gli occhi. E Luca sa il perché.



martedì 14 luglio 2020

RECENSIONE: STEVE RUDIVELLI (Metropolitan Chewingum)

STEVE RUDIVELLI  Metropolitan Chewingum (autoproduzione, 2020)





"Ma io sono un tipo strano voglio fare la rockstar tra Vimercate e Monza e un vecchio bar o a Conco Beach…" 
In queste parole estrapolate dalla canzone 'Conco Beach' c'è un po' tutto l'immaginario ruspante e nostrano di Steve Rudivelli, il rocker brianzolo che sfugge a qualunque definizione e come dice lui stesso non sarebbe quello che è se lo portaste a New York, anche se masticando una gomma "sogna Brooklyn".
Ho conosciuto Steve un po' in ritardo con il precedente disco Brianza Texas Radio uscito due anni fa che faceva il punto della sua carriera.
Questo nuovo disco in qualche modo l'ho visto nascere durante i tre mesi di lockdown con scambi di messaggi e file, per questo suo coinvolgermi gli sono grato. Rudivelli come tanti ha scritto molto materiale e questo sembra solo il primo di una serie. 'Milano China Town' nasce lì, dentro alla sua camera in pieno lockdown con le porte chiuse a tutto.
Steve è un operaio del rock'n'roll, che sgobba di notte per diventare un cowboy di provincia di giorno ma è proprio quando il sole tramonta che prendono vita le sue storie, sopra al bancone di un bar, davanti a qualche bicchiere dove anche il più apparente non sense prende forme concrete, dove le figure femminili si materializzano con tutte le loro curve e i loro giochetti (nell'apertura 'Metropolitan Chewingum' presente anche in una seconda versione come bonus insieme a 'Ieri Un Lupo').
Voce, chitarra acustica, armonica, nessun ampli, nessun microfono, tutto diretto, qualche chitarra elettrica aggiunta da Andy D, una viola suonata da Bryan Kazzaniga, queste dieci ballate  mettono in fila il suo micromondo dove il giovane Bob Dylan sembra materializzarsi aldilà del "Lambro river" ('Lilly Montomery') oppure ricomparire in mezza età nella notturna 'Hotel La Principessa' che ci catapulta tra Desire e Oh Mercy, dove anche il primo Vinicio Capossella  in 'Pappagallo Blu' sembra apparire come in un sogno caraibico, dove i perdenti e i falliti ('Jolly Man') cavalcano la periferia di provincia come fosse la prateria del vecchio West, dove nel non sense di  'Din Don Dan' gioca a fare Lou Reed e 'Pandcat' è una filastrocca da ripetere prima di addormentarsi.
Quando le luci si spengono e anche la luna va a dormire, la voce di Steve ci saluta con un  "buona notte rockers".




RECENSIONE: STEVE RUDIVELLI- Brianza Texas Radio (2018)


venerdì 10 luglio 2020

RECENSIONE: THERAPY? (Greatest Hits-The Abbey Road Session)

THERAPY?   Greatest Hits - The Abbey Road Session (2020)





 welcome to the church of noise 
A parte un paio di stagioni trascorse con tutti gli onori e gli oneri della cronaca (il biennio 1994-1995, con TROUBLEGUM e INFERNAL LOVE sul podio non solo della loro carriera ma tra i dischi più influenti del decennio dei novanta per il rock alternativo), i nord irlandesi THERAPY? non hanno mai raccolto tutto quello che avrebbero meritato in popolarità. E quando penso a quegli anni e a certi gruppi britannici in cima al mondo, senza trovare i Therapy?, un po' mi incazzo. Troppo scomodi e inclassificabili. Oggi, però, a differenza di tanti altri compagni di viaggio persi per le tortuose strade degli anni trascorsi o magari alle prese con improbabili reunion, sono ancora qui a girare per i palchi di tutto il mondo, grandi e piccoli, guidati dalla inseparabile coppia-unita saldamente da una vera e palpabile amicizia- formata da Andy Cairns e Michael McKeegan, a proporre la loro carriera in musica che non si è mai fermata di fronte a nulla: più forti dei cambi di formazione (batteristi che vanno e vengono, formazione a tre che diventa a quattro e poi di nuovo trio), mode musicali passeggere, attentati, crisi economiche mondiali e pandemie incluse e la vita. Andy Cairns ne sa qualcosa. Una certezza, tanto che il punto interrogativo alla fine del loro nome andrebbe trasformato in esclamativo e sottolineato in neretto. Uno di quei gruppi a cui ti affezioni in giovane età e che non molli più, seguendo fedelmente la loro bizzarra vena creativa che si contorce come una montagna russa senza mai fine. Una band che avrebbe potuto costruire una carriera su hits come ‘Nowhere’, ‘Screamager’ o ‘Stories’ e che invece ha proseguito a testa bassa, andando spesso incontro alla cieca critica che li dava per morti quando invece di continuare a sfornare singoli, si avventurarono in percorsi musicali più ostici e meno immediati, voltando lo sguardo a ritroso verso i loro esordi industrial/noise rumoristi, scatenando pure le ire delle loro case discografiche. Spigolosi e accomodanti quando serve: dai dischi più melodici e rock'n'roll (SHAMELESS-2001, HIGH Anxiety-2003) ai quelli ostici e poco penetrabili (SUICIDE PACT YOU FIRST-1999, CROOKED Timber-2009 fino al buon CLEAVE di due anni fa) il tutto senza farsi influenzare da mode musicali e lontano da qualsiasi catalogazione. E forse sta lì la loro disgrazia: quando alternative rock, noise, post punk, grunge, industrial, metal si ritrovano in un solo gruppo, il rischio è quello di spiazzare e confondere.. L'uscita di questa atipica raccolta in un momento così nefasto per l'umanità sembra solo confermare il trend della loro carriera. Andy Cairns, Michael McKeegan e Neil Cooper prendono dodici canzoni del loro repertorio (da 'Teethgrinder' a 'Opal Mantra' passando per 'Loose', 'Church Of Noise' 'Diane' (la cover dei mentori Husker Du) fino a una 'Die Laughing' insieme a James Dean Bradfield dei Manic Street Preachers e le risuonano nude e crude live agli Abbey Road Studios insieme al fido produttore Chris Sheldon. Nulla di nuovo, solo un altro segnale che i Therapy? ci sono sempre e lottano insieme a noi. Esiste anche una versione con un CD in più che raccoglie altre canzoni registrate live tra il 1990 e il 2020.





sabato 4 luglio 2020

RECENSIONE: JOHNNY CASH (The Complete Mercury Recordings 1986-1991)





















JOHNNY CASH  The Complete Mercury Recordings 1986-1991 (Mercury, Box 7 CD, 2020)


THE COMPLETE MERCURY RECORDINGS, il periodo Mercury di JOHNNY CASH, dal 1986 al 1991: tutto da riscoprire

Scaricato a metà anni ottanta da una  Columbia delusa dalle scarse vendite di un personaggio che i loro occhi  consideravano ormai perso in un lento declino se non finito del tutto, anche lo stesso Johnny Cash non nascose delusione e stanchezza di fronte all'etichetta che da circa trent'anni pubblicava i suoi dischi, un odio reciproco: "ero stufo di sentirli parlare di statistiche, ricerche di mercato, di nuove evoluzioni del genere country e di tutta una serie di tendenze che remavano contro la mia musica…". Avevano ragione entrambi.
Ma in quegli anni le cose che andavano storte erano maggiori di quelle positive nella vita di Cash: scosso dalla morte del padre Ray a ottantotto anni con il quale dopotutto aveva dei rapporti non troppo idilliaci, Johnny Cash trova un tetto apparentemente sicuro sotto la Mercury Records che inizialmente sembra lasciargli l'illusione della migliore carta bianca su cui scrivere il proprio futuro. Sei dischi incisi, tanto freschi e ispirati quanto ignorati dal grande pubblico e dimenticati troppo in fretta, complice la scarsa promozione dell'etichetta (allora è un vizio!). Se ci mettiamo alcuni problemi di salute tra cui un ricovero per aritmia cardiaca nel 1987 che lo porterà all'inserimento di un bypass due anni dopo (Roy Orbison morì per lo stesso motivo in quei mesi) e anche la morte della madre avvenuta nel 1991, ne esce un quadro generale non troppo esaltante per un personaggio in cerca di riscatto in un mondo musicale che stava viaggiando veloce lontano dalle sue rotte.
Anche questa parentesi verrà archiviata velocemente e lo stesso Cash che nonostante tutto considerava questo periodo "il più felice della mia carriera discografica", sconfortato, dirà: "per un po' mi sentii sollevato ma i vertici della Mercury a New York cambiarono opinione  e scivolai lentamente nel dimenticatoio. I miei dischi non meritavano di essere promossi nel migliore dei modi. Jack (Clement) e io ci impegnammo a fondo in sala di registrazione  e abbiamo prodotto brani di cui sono molto orgoglioso ma era come se avessi cantato in un teatro vuoto. I miei singoli non passavano alla radio e non c'era nessun investimento pubblicitario per promuovere i miei album".
Un disco rotto che gira.
Questo cofanetto corredato da un bel libretto esaustivo ce li ripropone quei dischi (erano da tempo fuori catalogo) unitamente a un altro disco quasi inedito per un totale di sette dischi ad un prezzo abbordabile (almeno in versione CD): l'inedito  CLASSIC CASH: HALL OF FAME EARLY MIXES  include una versione grezza ritrovata recentemente dei brani di CLASSIC CASH: HALL OF FAME SERIES (1988) in cui rileggeva i suoi vecchi cavalli di battaglia con lo spirito e i suoni di quei metà anni ottanta.
C'è certamente voglia di revival: il ritorno ai Sun studio dopo ventisette anni con le registrazioni di CLASS OF '55: MEMPHIS ROCK & ROLL HOMECOMING (1986) un omaggio a Elvis e al primo rock'n'roll in compagnia di "vecchi amici" come Carl Perkins, Jerry Lee Lewis e Roy Orbison con l'inclusione di ' Big Train (From Memphis)' un inedito scritto per l' occasione da John Fogerty è un po' il seguito di Survivors e fratello di Highwayman, dischi di gruppo dove vecchi amici sembravano farsi coraggio l'un l'altro.
Gli anni Mercury includono JOHNNY CASH IS COMING TO TOWN (1987), il primo vero disco uscito per la Mercury, venduto (poco) come "l'album del ritorno" e prodotto da una vecchia conoscenza come Jack Clement che includeva pure 'The Big Light' di Elvis Costello da King Of America, 'Let Him Roll' di Guy Clark e due buoni inediti come 'The Ballad Of Barbara' e 'I'd Rather Have You', passando per i duetti di WATER FROM THE WELLS OF HOME (1988) insieme a June Carter, alla figlia Rosanne, al figlio John Carter ('Call Me The Breeze' di J. J. Cale), gli Everly Brothers, Paul McCartney ("è una splendida canzone" dirà CASH di 'New Moon Over Jamaica') Hank Williams Jr., Waylon Jennings, Glen Campbell, Emmylou Harris, tentativo di attirare l'attenzione con l'esca degli ospiti ma che naturalmente non riuscì nel suo nobile intento.
C'è poi il tentativo di tornare ai suoni delle origini con BOOM CHICKA BOOM (1990) e al suono dei Tennessee Two, prodotto da Bob Moore che inizia con la classica intro live "Hello, I'm Johnny Cash" a introdurre la giocosa 'A Backstage Pass', scherzosa rappresentazione del backstage di un concerto di Willie Nelson, con 'Hidden Shame'  scritta per l'occasione da Elvis Costello e 'Cat' s In The Cradle' di Harry Chapin, con alcune B-side aggiunte e la forte identità che lo porta a essere il suo miglior disco targato Mercury, infine THE MISTERY OF LIFE (1991) con in scaletta vecchi successi consolidati e alcune riletture tra cui 'The Hobo Dong' di John Prine, disco fresco e da rivalutare che chiude la parentesi Mercury e che include anche 'The Wanderer' insieme agli U2, "del mio ultimo album per la Mercury sono state realizzate solo cinquecento copie. Anche da parte loro mi sono sentito propinare le solite storie su statistiche e ricerche di mercato".
La solita vecchia storia.
Fortunatamente dietro l'angolo c'era già uno scalpitante Rick Rubin pronto a  dare inizio  all'ultima incredibile parte di carriera di Johnny Cash, questa volta sì baciata da successo e pubblico.






giovedì 2 luglio 2020

RECENSIONE: CEELO GREEN (Ceelo Green Is Thomas Callaway)

CEELO GREEN CeeLo Green is Thomas Callaway (Easy Eye Records, 2020)


incontri che svoltano la carriera? Dan Auerbach sembra inarrestabile. Sotto la tela del ragno costruita nei suoi studi Easy Eye Sound di Nashville (band e etichetta discografica sono incluse nel prezzo) questa volta ci finisce CeeLo Green, ossia Thomas Callaway, 46 anni, cantante R&B ma anche rapper (con i Goodie Mob) e pop star di Atlanta con diversi Grammy nel taschino ma anche giudice nei talent americani, anche se per i più rimane la metà dei Gnarls Barkley, duo formato con Danger Mouse. Era il 2006 e la loro canzone 'Crazy' usciva da ogni posto dove delle note avessero avuto la possibilità di uscire. Proprio Danger Mouse già produttore di un paio di lavori dei Black Keys fa da ponte tra Auerbach e Ceelo Green. L'intesa tra i due è stata immediata ed ha portato alla scrittura di una dozzina di pezzi Soul e R&B con piccole striature rock ('Doing It All Togheter'). "CeeLo è così incredibilmente audace con le sue parole e la sua gamma è fuori controllo, non abbiamo lavorato per scrivere un successo. Abbiamo finito per scrivere canzoni sulla famiglia, i propri cari, bambini, il Vangelo. È molto eccentrico, molto divertente. Ma è anche molto umile e molto dolce" racconta Aurbach. Ma è la voce di Green, in grande evidenza, a fare la differenza "è uno dei più grandi cantanti viventi" alza la posta sempre Auerbach. Green si è trovato a registrare per la prima volta davanti ad una vera e propria band che comprendeva anche mitici componenti dei Muscle Shoals Sound Studio di Sheffield, Alabama. Le dodici canzoni sono state registrate in due soli giorni, sei per giorno, mantenendo intatta la patina di autenticità: ad esempio il primo singolo 'Lead Me' è venuto fuori così alla prima. Il risultato è sorprendente, morbido e esplosivo pur ricalcando suoni in perfetto stile sixties di casa Motown e Stax ('la contagiosa' People Watching'), gospel, arrangiamenti orchestrali compresi ('I Wonder How Love Feels') e con il tipico Nashville sound bianco dietro l'angolo ('Little Mama'). Ecco se proprio un difetto bisogna trovarlo, forse qualche episodio "mosso" in più avrebbe giovato.
"Sento che insieme abbiamo catturato alcuni momenti molto speciali su nastro. Per me, questo disco parla di amore, guarigione e tranquillità" dice Green. Certo la mano di Auerbach è ormai riconoscibile e secondo me non ha mai sbagliato un intervento, alcune cose meglio di altre ma tutto è sempre stato fatto con classe invidiabile: l'abbiamo sentita sopra ai dischi di Dr. John, Early James, Yola, Robert Finley, Marcus King, John Anderson, Jimmy Duck Holmes. Dischi corposi, curati in ogni minimo dettaglio proprio come si faceva una volta. Ma qui secondo me siamo oltre perché dona a Ceelo Green la possibilità di reinventarsi completamente calcando territori vintage solo sfiorati in precedenza, diventare Thomas Callaway per un disco e se le cose andranno bene, chissà, forse per sempre.
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lunedì 29 giugno 2020

RECENSIONE: RAY LAMONTAGNE (Monovision)

RAY LAMONTAGNE  Monovision (RCA Records, 2020)




nudo, puro, libero e solitario
Ultimamente ci aveva abituato ad album sempre più coraggiosi con produttori dal nome importante, ricchi e sfaccettati che si spingevano in territori psichedelici e sperimentali (prima Supernova poi il culmine in Ouroboros del 2016), quasi pinkfloydiani e con la voce spesso sacrificata, ma questa volta Ray Lamontagne per il suo ottavo album sembra veramente essersi stancato di tutti i contorni che girano intorno alla musica. Si sveste completamente, ritorna in terra e in qualche modo riparte da Trouble (forse irraggiungibile per l'intensità delle canzoni), il suo primo album uscito nel 2004 quando l'età bussava già ai trenta e lavorare in una fabbrica di scarpe prima e da carpentiere poi erano stati i suo maggior impegni fino a quel momento.
È un ritorno all'essenzialità primordiale della folk music bagnata dal soul e per farlo sembra fidarsi solo di una persona che conosce meglio di tante altre: sé stesso. Qualcosa lo aveva già anticipato nel precedente Part Of Light uscito nel 2018 ma qui estremizza ancor di più la sua voglia di libertà compositiva. Scrive, canta - con quella voce inconfondibile tanto profonda quanto inarrivabile - suona tutti gli strumenti e si produce. Un dialogo con sé stesso senza interferenze esterne.
"È stato un processo di apprendimento, ma è stato stimolante, divertente, tutto allo stesso tempo. Essere colui che sceglie il microfono e lo posiziona nel punto desiderato per ottenere quel suono. Mi piace lavorare sulle cose" ha raccontato al sito americansongwriter.
Inizia con l'arpeggio di 'Roll Me Mama, Roll Me' che sembra addirittura chiamare in causa i fantasmi dei Led Zeppelin più bucolici mentre la sua voce si inerpica su tonalità black. Non ci sono trucchi e inganni da studio di registrazione (a parte che fa tutto lui, naturalmente), tutto esce limpido e puro come il trascorrere dei giorni della sua vita nella fattoria nel Massachusetts insieme alla compagna di sempre. Come in 'I Was Born To Love You', ballata acustica in puro stile west coast con una elettrica a ricamare dietro e richiamare il suo primo idolo Stephen Stills e quel disco Still Alone che lo fece correre al primo negozio di strumenti musicali per acquistare la prima chitarra, come nella delicata 'Summer Clouds' che dietro alle nubi pare di intravedere gli illuminati sixties di Tim Buckley, mentre in 'Weeping Willow' con la voce doppiata con un multitraccia gli anni sessanta sono quelli dei grandi gruppi vocali come Everly Brothers e Simon And Garfunkel, mentre l'armonica potrebbe fare di 'We'll Make It Through' una delle tante canzoni perdute di Neil Young degli anni giusti. 'Rocky Mountain Healin' è un omaggio a John Denver già dal titolo, country arioso e malinconico che fa pace con la natura del Colorado.
Il ritmo, ereditato da John Fogerty, aumenta in 'Strong Enough' quasi autobiografica nel raccontare la forza di una madre single che cresce da sola i propri figli (sua madre lo era dopo che il padre alcolizzato li abbandonò, cambia solo il luogo: il Maine), in 'Misty Morning Rain' invece c'è tutto il Van Morrison, tanto, che si nasconde dentro di lui. Il disco si chiude nel dolce amaro e malinconico viaggio di 'Highway To The Sun' dove canta "voglio solo provare qualcosa di reale prima di morire".
Intanto lo fa provare a noi: qui tutto è reale, nessun trucco, nessun inganno. Lunga vita a lui e a noi tutti. Ben tornato sulla terra.









giovedì 25 giugno 2020

RECENSIONE: COUNTRY WESTERNS (Country Westerns)

COUNTRY WESTERNS 
 Country Westerns (Fat Possum Records, 2020)





l'ultima scommessa di David Berman

Non fatevi ingannare troppo dal nome, nel suono dei Country Westerns si nascondono le chitarre, i germi e l'influenza di gruppi come Replacements, Green On Red, Dream Syndicate o meglio ancora dei Drive By Truckers, the Bottle Rockets, dei Son Volt, o i Lucero più recenti, piuttosto che paglia, violini, banjo, mandolini e sterco da ranch di campagna.
Un suono minimale ereditato dal punk rock ma caldo e completo come sapeva essere certo indie rock americano degli anni ottanta. Come spiega bene il loro produttore Matt Sweeney "l'idea era di catturare l'urgenza del loro spettacolo dal vivo". La missione sembra riuscita molto bene.
Anche se nati proprio a Nashville nel 2016, dall' incontro tra il chitarrista Joseph Plunket dei The Weight (che nella città del country ci era andato per aprire un bar) e il batterista ma anche attore Brian Kotzur con un passato nei Silver Jews. Dopo mesi di prove dentro al garage di Kotzur, la vera svolta arrivò proprio grazie al l'intuizione del compianto David Berman che si innamorò di loro li spedì a New York dove incontrarono il produttore Matt Sweeney. Le canzoni iniziano a prendere forma fino a diventare realtà quando entra in formazione Sabrina Rush al basso, musicista che fino ad allora aveva sempre suonato il violino nei State Champion.
Il risultato sono queste dodici brevi canzoni, dirette e ruvide ma anche evocative nei testi dove lo spirito dell'indie rock americano, il paisley sound e l'americana trovano una via comune tra l'asperità di chitarre tarate in stile Crazy Horse (riff e assoli), il calore delle radici americane strappate come i Old 97's sapevano fare e la voce ruvida ma calda di Plunket che spesso mi ricorda il miglior Ben Nichols dei Lucero. L'iniziale 'Anytime' è un buon lasciapassare che detta l'anima di questo debutto, passando per 'Times To Tunnels' e una 'I' m Not Ready' che il cantante presenta così "nessuno ci accuserà mai di essere una band Kraut rock, ma i dischi dei Can, Neu, Harmonia e Amon Duul II ecc. Sono sempre vicini al mio giradischi. Il nostro batterista Brian Kotzur è in grado di fare un perfetto motorik tutto il giorno. Volevamo solo un po' di quella sensazione per questa traccia", anche se poi il tutto si conclude quasi ironicamente con 'Two Characters In Search Of A Country Song'.
Una band da tenere d'occhio e certamente uno dei debutti dell'anno a certe latitudini rock.





martedì 23 giugno 2020

RECENSIONE: ANDREA VAN CLEEF (Q Sessions Vol.2, Johhny Cash Tribute)

ANDREA VAN CLEEF   Q Sessions Vol. 2, Johnny Cash Tribute (2020)



Durante il lockdown dai nostri bollenti schermi abbiamo visto e assistito di tutto da parte di cantanti solitari, imbonitori, band, rockstar e cantanti improvvisati.
Alcune cose sono capitate davanti ai nostri occhi a sorpresa (le scenette di Robert Fripp e consorte), altre stavano avvenendo di nascosto (registrazione di nuovi interi album). Abbiamo visto i Rolling Stones suonare separatamente ognuno dalla propria casa (anche un nuovo singolo per loro), Bob Dylan regalarci alcune canzoni inedite piovute dal nulla dopo otto anni di silenzio (ecco un nuovo disco nelle nostre mani!), Neil Young suonare antiche canzoni alla vecchia maniera in mezzo al fienile del suo ranch con cani e galline come unici spettatori, artisti di tutti i generi improvvisare concerti in diretta streaming. Quelli di Jesse Malin li ho apprezzati più di altri. Nel frattempo c'era anche modo da parte loro di raccimolare qualche soldo donato dai fan. Il loro settore è stato, e lo è ancora-lo sappiamo tutti o quasi, il più colpito.
Il bresciano Andrea Van Cleef ha vinto una iniziale riluttanza e si è prestato alle dirette streaming con molta parsimonia e la consueta dedizione, proponendo set a tema e assecondando anche richieste. Il set dedicato a Johnny Cash è stato certamente uno dei più riusciti. Da qui, credo, l'idea di farne un vero e proprio disco  di ben dodici canzoni pescate dallo sterminato repertorio di Johnny Cash. Si va da 'I`m An Old Cowhand' alle American Recordings di 'Rusty Cage', 'Hurt', '13' e 'Personal Jesus' passando per le immancabili 'Ring Of Fire', 'I Walk The Line', 'Cry Cry Cry' e 'Folsom Prison Blues'.
Chi già conosce Andrea, sa quanto il suo timbro vocale ben si adatti al 'man in black' così come si adattava alla vocalità di Mark Sandman dei Morphine, gruppo che qualche anno fa "coverizzava" in modo sublime. Ecco proprio quel timbro lì, senza sforzarsi o cadere in ridicole parodie.
Ma c'è di più, perché allentato il lockdown, Andrea ha pensato di personalizzare e  colorare la sua performance registrata il 21 Maggio da casa sua nel bel pieno di un trasloco con alcuni overdub aggiunti da lui successivamente (percussioni, synth e chitarra elettrica) e gentilmente altri offerti da amici musicisti: Pietro Ettore Gozzini  ci ha messo il suo double bass, Marcello Milanese e Diego Potron  le loro chitarre elettriche, Ottavia Brown (voce) e Matteo Rossetti (piano) intervengono in una riuscitissima versione di 'Jackson'.
Per chi volesse ascoltare queste dodici tracce presentate da una copertina che più vintage non si può (vi ricordate la serie Linea tre?), potrà farlo acquistandole all'indirizzo PayPal qui sotto. Attenzione c'è tempo fino a fine mese di Giugno.  PayPal.me/andreavancleef
Naturalmente siete tutti invitati a scoprire Andrea Van Cleef attraverso i suoi dischi solisti (l'ultimo disco pre Covid che acquistai fu proprio il suo cofanetto con il nuovo progetto Fuzz Resistance) e a quelli con la band Humulus se amate anche sonorità più dure e stoner. La loro ultima fatica discografica  The Deep è una delle tante vittime del lockdown ma i ragazzi avranno modo di presentarla ugualmente come si deve nei prossimi mesi.



RECENSIONE: ANDREA VAN CLEEF- Tropic Of Nowhere (2018)
RECENSIONE: HUMULUS-The Deep (2020)