lunedì 29 giugno 2020

RECENSIONE: RAY LAMONTAGNE (Monovision)

RAY LAMONTAGNE  Monovision (RCA Records, 2020)




nudo, puro, libero e solitario
Ultimamente ci aveva abituato ad album sempre più coraggiosi con produttori dal nome importante, ricchi e sfaccettati che si spingevano in territori psichedelici e sperimentali (prima Supernova poi il culmine in Ouroboros del 2016), quasi pinkfloydiani e con la voce spesso sacrificata, ma questa volta Ray Lamontagne per il suo ottavo album sembra veramente essersi stancato di tutti i contorni che girano intorno alla musica. Si sveste completamente, ritorna in terra e in qualche modo riparte da Trouble (forse irraggiungibile per l'intensità delle canzoni), il suo primo album uscito nel 2004 quando l'età bussava già ai trenta e lavorare in una fabbrica di scarpe prima e da carpentiere poi erano stati i suo maggior impegni fino a quel momento.
È un ritorno all'essenzialità primordiale della folk music bagnata dal soul e per farlo sembra fidarsi solo di una persona che conosce meglio di tante altre: sé stesso. Qualcosa lo aveva già anticipato nel precedente Part Of Light uscito nel 2018 ma qui estremizza ancor di più la sua voglia di libertà compositiva. Scrive, canta - con quella voce inconfondibile tanto profonda quanto inarrivabile - suona tutti gli strumenti e si produce. Un dialogo con sé stesso senza interferenze esterne.
"È stato un processo di apprendimento, ma è stato stimolante, divertente, tutto allo stesso tempo. Essere colui che sceglie il microfono e lo posiziona nel punto desiderato per ottenere quel suono. Mi piace lavorare sulle cose" ha raccontato al sito americansongwriter.
Inizia con l'arpeggio di 'Roll Me Mama, Roll Me' che sembra addirittura chiamare in causa i fantasmi dei Led Zeppelin più bucolici mentre la sua voce si inerpica su tonalità black. Non ci sono trucchi e inganni da studio di registrazione (a parte che fa tutto lui, naturalmente), tutto esce limpido e puro come il trascorrere dei giorni della sua vita nella fattoria nel Massachusetts insieme alla compagna di sempre. Come in 'I Was Born To Love You', ballata acustica in puro stile west coast con una elettrica a ricamare dietro e richiamare il suo primo idolo Stephen Stills e quel disco Still Alone che lo fece correre al primo negozio di strumenti musicali per acquistare la prima chitarra, come nella delicata 'Summer Clouds' che dietro alle nubi pare di intravedere gli illuminati sixties di Tim Buckley, mentre in 'Weeping Willow' con la voce doppiata con un multitraccia gli anni sessanta sono quelli dei grandi gruppi vocali come Everly Brothers e Simon And Garfunkel, mentre l'armonica potrebbe fare di 'We'll Make It Through' una delle tante canzoni perdute di Neil Young degli anni giusti. 'Rocky Mountain Healin' è un omaggio a John Denver già dal titolo, country arioso e malinconico che fa pace con la natura del Colorado.
Il ritmo, ereditato da John Fogerty, aumenta in 'Strong Enough' quasi autobiografica nel raccontare la forza di una madre single che cresce da sola i propri figli (sua madre lo era dopo che il padre alcolizzato li abbandonò, cambia solo il luogo: il Maine), in 'Misty Morning Rain' invece c'è tutto il Van Morrison, tanto, che si nasconde dentro di lui. Il disco si chiude nel dolce amaro e malinconico viaggio di 'Highway To The Sun' dove canta "voglio solo provare qualcosa di reale prima di morire".
Intanto lo fa provare a noi: qui tutto è reale, nessun trucco, nessun inganno. Lunga vita a lui e a noi tutti. Ben tornato sulla terra.









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