lunedì 31 ottobre 2022

RECENSIONE: JOHN NORUM (Gone To Stay)

JOHN NORUM  Gone To Stay (Gain, 2022)


c'è vita fuori dalla band

Un talento mai troppo lodato. I dischi solisti di JOHN NORUM sono un riassunto della musica con la quale è cresciuto da ragazzo: in testa certamente i Thin Lizzy (spesso si cimenta in cover del gruppo irlandese), gli UFO targati Michael Schenker, Gary Moore, Frank Marino, i Deep Purple con Glenn Hughes in formazione e non è un caso che proprio "the voice" sia il cantante su tutto l'album Face The Truth (1990), infine i Black Sabbath. Una chitarra ispirata ma sempre al servizio della canzone. Se i primi dischi viaggiavano su un hard rock/metal cromato figlio degli anni ottanta, ricordiamoci che lasciò gli Europe all'apice del successo perché quella strada non era più la sua ("dopo il successo di "The Final Countdown" mi sono sentito come se fossi con i New Kids On The Block. Ma volevo essere un musicista" raccontò in una intervista) con il passare del tempo la sua chitarra si è fatta via via più pesante (l'ottimo Optimus del 2005) e blues (Play Yard Blues del 2010) tanto efficace da ridare nuovi stimoli e aprire nuove strade agli Europe mai così prolifici, duri e puri come dopo la reunion del 2004. Peccato che pochi lo sappiano.

Ora, anticipato da tre nuove canzoni uscite nel corso dell'anno, è uscito il nuovo album Gone To Stay a dodici anni dall'ultimo.

Ancora una volta Norum si conferma autore di vecchia scuola,  basti l'uno-due iniziale per capirlo: quando il suono di un carrilion lascia spazio a 'Voices Of Silence', hard blues in stile Whitesnaske mentre la successiva 'Sail On' (con il compagno di band Mic Michaeli alle tadtiere)  mette in mostra tutte le influenze Black Sabbath nei suoni e Soundgarden nel cantato, confermate anche dalle parole dello stesso Norum.

"Ero sdraiato sul divano in studio e non avevo idea di cosa fare con la voce. Avevo già registrato la musica e all'improvviso mi ha colpito: ho un'idea. Fammi entrare.' Non ho testi o altro, quindi ho appena borbottato qualcosa, ed è quello che è venuto fuori, e poi dopo, ho detto: mi ricorda davvero Cris Cornell. Ma non era intenzionale".

Un disco intenso e solido (suonato insieme a Peer Stappe alla batteria e Frederick Bergensstrahle al basso) che si fa veloce nei riff che dominano 'What Do You Want', funky nell'andamento che accompagna il rock blues della title track e misterioso nelle chitarre che costruiscono la melodia di  'Calling'.

Anche in questo album non manca un'ospite alla voce: in tre brani c'è Age Stein Nilsen cantante dei norvegesi Wig Wam. Nilsen canta nella ballata 'One By One', il brano più accessibile e radiofonico, nel quadrato hard rock molto Ac/Dc 'Terror Over Me' (a cui si aggiungono anche lo stesso Norum e Kelly Keeling) e nella aggressiva e heavy  'Norma' arricchita dalla Stockholm Philharmonic Orchestra. 

Infine due chicche del disco: la cover di 'Lady Grinning Soul' di David Bowie, in origine su Alladin Sane del 1973, e la finale  'Face The Truth', rilettura di un suo vecchio brano che da hard (c'era la voce di Hughes) si fa jazzato.

Ancora una volta John Norum non  delude le aspettative di chi da lui si aspetta del buon hard rock heavy alla vecchia maniera. "Quello che oggi chiamano Classic Rock o Classic Hardrock è ed è sempre stato il mio genere". 





mercoledì 26 ottobre 2022

THE AFGHAN WHIGS live@Santeria, Milano, 25 Ottobre 2022


Gli Afghan Whigs di Greg Dulli sono uno di quei rari esempi di band che dopo la reunion hanno mantenuto lo stesso peso specifico degli anni d'oro. Basta scorrere la scaletta: ben quattordici brani sono estrapolati dagli ultimi tre dischi post reunion. (In Spades rimane il mio preferito). Tanti: non si vive solo aggrappati al passato, benché canzoni come la triade 'What Jail Is Like', 'Gentlemen' e 'Fountain And Fairfax' estrapolate da Gentlemen, disco prossimo ai trent'anni, stasera sono state accolte con entusiasmo. Ci mancherebbe! Che il presente sia importante lo si capisce subito dall'uno due iniziale: 'Jyja' e 'I'll Make  You See God'  (una botta stoner ) dall'ultimo e ancora fresco How Do You Burn? hanno la forza e il potere di stendere e mettere subito in chiaro le cose. Da qui in avanti sarà tutto in discesa con Greg Dulli, presenza sempre "importante", in grande forma vocale (lo disturbano solo i flash "fate tutte le foto che volete ma senza") la chitarra del "Blind Melon" Christopher Thorn sempre ficcante e ispiratissima, il rullo compressore di Patrick Keeler alla batteria, la fedele compostezza unita alla solidità di John Curley al basso e la preziosa presenza di Rick G.Nelson terza chitarra, violino e pianoforte all'occorrenza. 

Gli Afghan Whigs dal vivo non deludono mai e il concerto non ha soste e per intensità ha pochi eguali sulla piazza tra le band loro coetanee. Una botta di adrenalina che spezza la settimana e carica per ciò che resta.

Piace anche la sana voglia di giocare con la musica, calandosi nella mischia della storia da fan del rock'n'roll. Ecco così arrivare omaggi a Bo Diddley ('Who Do You Love?'), Rolling Stones ('Angie'),  una 'Heaven on Their Minds' da Jesus Christ Superstar di Andrew Lloyd Webber  e  l'ntensa e palpabile 'There Is a Light That Never Goes Out' degli Smiths degna conclusione (senza bis, uscite e rientri) di una serata  dove  il loro  'wall of sound" è stato composto e distrutto all'occorrenza seguendo intensità , luci e ombre dei testi scritti da Dulli. Dove  chitarre  ciniche e spietate hanno amoreggiato con  il calore soul. Ipnotici, compatti, cupi ed esaltanti, romantici e spietati come la migliore delle vite. Tutto in una sola serata d'amore.




setlist:

Jyja

I'll Make You See God

Matamoros

Light as a Feather

Oriole

Toy Automatic

Gentlemen

What Jail Is Like

Who Do You Love?(Bo Diddley)

Fountain and Fairfax

Angie (The Rolling Stones)

Algiers

Catch a Colt

I Am Fire

Heaven on Their Minds (Andrew Lloyd Webber)

Somethin' Hot

Please, Baby, Please

It Kills

Demon In Profile

A Line of Shots

John the Baptist

Summer's Kiss

Into the Floor

There Is a Light That Never Goes Out (The Smiths)



sabato 22 ottobre 2022

RECENSIONE: THE CULT (Under The Midnight Sun)

THE CULT   Under The Midnight Sun  (Black Hill, 2022)



visioni a mezzanotte

Ho questa scena estrapolata da A Year and a Half in the Life of Metallica, il documentario sulla realizzazione del Black Album dei Metallica: la band e il produttore Bob Rock sono in studio di registrazione quando iniziano a bersagliare con le freccette un poster dei Cult, periodo Sonic Temple, scimmiottando la voce di Ian Astbury. A parte il legame tra Bob Rock e la band britannica , non ho mai capito quello sberleffo. Sarà perché a me la voce di Astbury, quel caratteristico modo di cantare, ha sempre dato sicurezza e calore. Ancor di più oggi con un disco che sembra giocare più di sfumature che di spigolosita rock'n'roll. Under The Midnight Sun è un album che non fa dell'immediatezza la sua forza ma gioca di contrasti e esce alla distanza. No, un ascolto superficiale non basterà per farvelo piacere. Bisognerà insistere se ne avrete voglia. Anche se non garantisco il risultato. A me nella finale title track, numero acustico con crescendo d'archi che nella sua profondità può ricordare da vicino qualcosa di Mark Lanegan, ascoltata in cuffia in una nebbiosa mattinata autunnale è venuta la pelle d'oca ad esempio.

Ammaliante, visionario e pieno di ombre come solo un sole a mezzanotte nelle regioni polari. Cosa realmente vissuta dal gruppo a un festival a Provinssirock in Finlandia a metà anni ottanta, ispirazione per questi soli ma intensi 35 minuti (otto canzoni) che Astbury ha cercato di raccontare con la profondità e lo spiritualismo che lo hanno sempre contraddistinto.

"La gente è sdraiata sull'erba, pomiciando, bevendo , fumando. C'erano file di fiori nella parte anteriore del palco delle esibizioni, quella sera. È stato un momento incredibile

C'è un ritorno a certe sonorità eighties (il disco è stato registrato anche negli Rockfield Studios in Galles dove fu registrato Dreamland) con l'aiuto del produttore Tom Dalgety, con la chitarra di Billy Duffy che si inventa riff suggestivi e seducenti, assoli e riverberi certamente più vicini alla new wave dei primissimi album (Dreamtime, Love) piuttosto che all'hard rock di fine anni ottanta (Electric, Sonic Temple). 

"Stavamo cercando un suono più contemporaneo, meno rock n' roll. Meno blues rock. Penso che l'abbiamo raggiunto. Direi che è più un disco dal suono europeo" ha raccontato recentemente Billy Duffy.

Trantacinque minuti da prendere in blocco, senza pause: oscuri ('Mirror'), malinconici (il singolo 'Give Me Mercy'), psichedelici (gli archi di 'Outer Heaven'), darkeggianti 'Vendetta X'. Canzoni come 'A Cut Inside' e 'Impermanence' invece racchiudono bene le due anime della band, quella degli esordi con quella più hard di metà carriera. La bossanova iniziale di 'Knife Through Butterfly Heart' che cresce fino ad esplodere all'assolo di Duffy e alla lunga coda strumentale è certamente tra i vertici del disco.

Manca forse l'inno rock, la canzone da ricordare e associare al disco, forse pure la produzione a volte grida vendetta, ma poco importa.

I Cult, completati su disco dal batterista Ian Matthews, il tastierista  Damon Fox, il bassista Charlie Jones e dallo stesso produttore Tom Dalgety anche seconda chitarra, suonano compatti e uniti.

A mio parere i Cult non hanno mai inciso dischi realmente brutti. Per anni hanno cavalcato le mode musicali mettendovi sempre la loro inconfondibile impronta. Ora che le mode musicali non esistono più possono ritornare al loro passato, saccheggiarlo e riproporcelo con tutta la maturità di quarant'anni di carriera alla spalle.






domenica 16 ottobre 2022

THE BLACK CROWES live@Alcatraz, Milano, 13 Ottobre 2002

No, Rich Robinson non sorride mai. Lo posso confermare dopo averlo visto davanti a me a pochi metri per un'ora e mezza. Qualche smorfia e qualche occhiata al tecnico del suono. Basta. Nemmeno dopo aver ricevuto i bisbigliati complimenti e una pacca sulla spalla del fratello Chris che gli ha lasciato il microfono per una versione di Oh! Sweet Nuthin dei Velvet Underground che si piazza certamente tra i vertici della serata. Niente. Imperturbabile. A mosse, passi di danza, sorrisi e ammiccamenti ci pensa quindi Chris Robinson, in buona forma e reduce da un non ancora svelato malanno che due giorni fa ha fatto saltare la data di Amburgo poche ore prima dell'evento. Mistero: attendiamo ancora il comunicato ufficiale che mai arriverà.


C'era quindi timore per la data milanese. Timore spazzato via immediatamente dall'inconfondibile schitarrata che mette a tacere James Brown (non si dovrebbe mai fare in effetti) e da inizio a Twice As Hard. 

Devo confessare che i concerti celebrativi per un album mi piacciono poco, tolgono un po' di sorpresa e phatos alla serata. Sai già quel che arriva e quando arriva. Se però quel che arriva si chiamano Seeing Things (altro punto altissimo del concerto) e Thick 'n Thin, che mettono in mostra le due anime della band, allora lo si accetta di buon grado e poi Shake Your Money Maker è un disco perfetto dall'inizio alla fine. Un debutto che pochi possono vantare. Anche se poi il meglio la band l'ha dato nei dischi successivi. Di quel che è venuto dopo però stasera c'è solo un piccolo assaggio: Thorn In My Pride e Remedy da The Southern Harmony and Musical Companion e Wiser Time da Amorica, una inaspettata e divertita Soul Singing (qui si balla come su Hard To Handle) che Chris Robinson deve aver inserito all'ultimo momento visto che prima di suonarla va a parlare in un orecchio a tutti i musicisti e una Good Morning Captain da Before The Frost...Until The Breeze posta in chiusura come bis, in verità poco generoso. Però potrebbe essere un segno di continuità per il futuro...chissà?

Una batteria troppo invadente (certo Steve Gorman manca tanto) e suoni a volumi troppo elevati, chissà forse per compiacere Isaiah Mitchell, seconda chitarra, già abituato negli Earthless, tolgono un po' di fascino alla componente soul del gruppo, rinforzata da due coriste che spesso sono inghiottite dal tutto. Un peccato.


Una parola per gli olandesi DeWolff è d'obbligo. Concerto di apertura sontuoso il loro, tanto che io sarei già andato a casa dopo i loro 45 minuti di hard blues che si fanno bastare un Hammond, una batteria e una chitarra. Da rivedere assolutamente se capiterà.

Sì, l'unica nota negativa se la becca autostrade italiane che mi chiude tutte uscite verso casa: a Milano trovare l'imbocco per Torino è impossibile (di notte c'è chi lavora) e io insieme a tanti giriamo in una gimcana per una buona mezz'ora. In A4 anche la chiusura dell'uscita Carisio mi costringe ad attraversare le risaie vercellesi nel buio più pesto. Solo l'adrenalina post concerto mi è stata d'aiuto. Potere salvifico della musica.



setlist

Twice As Hard

Jealous Again                                             

Sister Luck

Could I've Been So Blind

Seeing Things

Hard To Handle

Thick 'n Thin

She Talks To Angels

Struttin Blues

Stare It Cold

Soul Singing

Oh! Sweet Nothin'

Wiser Time

Thorn In My Pride

Remedy

Good Morning Captain





venerdì 7 ottobre 2022

RECENSIONE: BUDDY GUY (The Blues Don't Lie)

BUDDY GUY - The Blues Don't Lie (2022)



last (blues)man standing

Quando le leggende decidono di scendere in campo, bisogna togliersi di mezzo e lasciar loro spazio. Il blues è vivo e in buona forma, ce lo diceva solo quattro anni fa dopo l'uscita di The Blues Is Alive And Well.

Oggi gli anni sono 86 e Buddy Guy, una delle ultime leggende del blues di Chicago (l'ultima?) è ancora in forma smagliante: le date fissate dei suoi tour, la sua musica, la sua voce, il suo bel faccione sorridente in copertina, la sua chitarra a pois parlano chiaro. Chiarissimo: il blues non mente. Fedele a una promessa fatta a sé stesso e ai tanti amici già persi per strada "lo prometto fino al giorno della mia morte, terrò in vita il blues" e questo nuovo album è l'ennesima autobiografia di un uomo che 60 anni fa lasciò i campi della Louisiana per cercare il suo sogno in città. Lo ha acciuffato quel sogno e che lo stia ancora vivendo in pieno lo si capisce appena parte 'I Let My Guitar Do The Talking' che  attacca al muro qualunque aspirante bluesman che tenti di scalzarlo dal trono. Sontuoso. 

In mezzo a blues più malinconici con la chitarra che piange alla ricerca disperata d'amore ('The World Needs Love', 'Sweet Thing') o il pianoforte della jazzata 'Rabbit Blood', c'è ancora molto  fuoco che arde ('Well Enough Alone', 'Back Door Scratchin').

E poi ecco apparire alcuni ospiti di spicco come la tradizione degli ultimi dischi, prodotti dal fedelissimo Tom Hambridge, vuole: una meravigliosa Mavis Staples che duetta tornando indietro ai sixties in 'We Go Back', Elvis Costello che ringhia nella minacciosa 'Symptoms Of Love', James Taylor in 'Follow The Money', Jason Isbell nel soul 'Gunsmoke Blues', una presa di posizione convinta contro le armi da fuoco, l'ottantottenne Bobby Rush nel funky 'What's Wrong With That', la cantante Wendy Moten nel classico blues di 'House Party'.

Un disco come sempre per nulla nostalgico o fermo al passato come natura di Buddy Guy.

"Ne parlavamo con Muddy Waters, Howlin' Wolf, Little Walter e tutti quei ragazzi. Allora erano ancora in salute, e parlavamo di questo giorno, 'chi sarebbe rimasto... per favore, non lasci che il blues muoia".

Ancora una volta la promessa è mantenuta.





sabato 1 ottobre 2022

RECENSIONE: SUPERDOWNHOME (Blues Pyromaniacs)

 

SUPERDOWNHOME   Blues Pyromaniacs (Dixiefrog, 2022)


Quante band italiane oggi possono vantare collaborazioni con gente come Popa Chubby, Charlie Musselwhite, i Nine Below Zero, e poi ancora Mike Zito, Bombino, Andy J. Forrest e Anders Osborne come avviene in questo ultimo disco? Io posso considerarmi  pure un privilegiato per aver assistito da vicino alla crescita esponenziale del duo bresciano formato da Enrico Sauda (voce e chitarre) e Beppe Facchetti (batteria), partito veramente dal basso per trovarsi oggi a guidare la fila del rock blues moderno europeo. 

Dai piccoli circoli che i due però continuano a frequentare assiduamente, tenendo saldamento unito il legame con il passato, ai grandi club e festival europei il passo è stato relativamente breve ma cercato con convinzione e dedizione. Un successo meritato e perseguito con ammirevole devozione, le conoscenze giuste, anche un po' di fortuna chissà (ma si sa, bisogna far combaciare tutto per bene per arrivare al top) tanto più che  non  parliamo di ventenni in erba ma di musicisti con già una certa esperienza alle spalle.

E questo Blues Pyromaniacs  assume un significato importante per come è nato, è stato registrato e come è progredito nel lungo tempo di gestazione. Tutte cose che loro  raccontano bene nei dodici minuti del video documentario che si può trovare in rete. Sì insomma, un disco registrato negli States con Anders Osborne (un fuoriclasse visto recentemente in Italia al Buscadero Day) in cabina di regia e un'esperienza  che loro stessi denominano "magnifico disastro, disastrosa meraviglia" per via delle tante vicissitudini che hanno dovuto attraversare per vedere l'album fatto e finito oggi. 

Tutto nasce nel Gennaio del 2020 quando il duo, forte di tre album in progressiva crescita artistica (e un paio di raccolte tattiche), parte per Memphis per presenziare all'IBC (International Blues Challenge). Durante il viaggio si presentano occasioni ghiotte per aumentare esperienza, auto stima e programmare il futuro. Prima il Cigar Box  Festival a New Orleans messo in piedi da Samantha Fish e poi l'ncontro con Anders Osborne a New Orleans grazie all'intercedere del manager Giancarlo Trenti. Al musicista svedese da anni di casa negli States gli si chiede l'impossibile: lui accetta di produrre il disco. Prende forma qui Blues Pyromaniacs, tra gli Esplanade Studio e lo Studio mobile a casa di Osborne. In pochi giorni vengono affinate nuove canzoni, aggiunte parti e strumenti. Il disco viene pure missato ai Dockside Studio in Lousiana. 

Sembrava veramente tutto bello, tutto troppo perfetto. Tutto facile. Un american dream concretizzato in poco tempo. Arriva l'imprevisto. Un grande imprevisto, totalmente inaspettato. È la pandemia a bloccare sogni e più o meno tutto il mondo. Ma anche il "tempo perso" del lockdown viene sfruttato per rimettere mano alle canzoni e cercare nuovi contatti. Arriviamo ai giorni nostri con in mano un prestigioso contratto con l'etichetta francese Dixiefrog e ben due versioni dello stesso disco. Quello americano "nudo e crudo" con il trattamento di Osborne che uscirà più avanti (fine Ottobre) in formato vinile e questo, forte di nuovi mix, nuovi ospiti, nuove canzoni aggiunte e la presenza di Brian Lucey (già al lavoro con i Black Keys) al missaggio.

È un disco che alza notevolmente l'asticella della loro musica: rimane la loro idea di rural blues 2.0 tutto batteria e chitarre (le tante rudimentali e artigianali suonate da Sauda) ma che spesso si indirizza verso nuove strade, meno grezze e impervie, a volte molto più melodiche. Nuovi orizzonti sonori si aprono immediatamente dopo la sventagliata blues dell'iniziale 'Utter Daze': dall'inaspettato soul gospel di 'Living Disgrace', al fascino tutto americano e da radio FM di 'Motorway Son', arricchita dai fiati e dall'ospite Mike Zito (presente anche nella distorta e già conosciuta 'I'm Broke'). Dalle atmosfere desertiche e polverose portate in dote dalla chitarra "sahariana" di  Bombino in 'Like A Rag In The Sea' alle atmosfere lente e stonate della narcotica 'A Wandering Wino', che a me pare la loro 'Planet Caravan' di sabbathiana memoria. Ma si muove spesso anche il culo seguenfo il groove grazie agli  up-tempo 'Nobody's Twist', il blues rockabilly di 'Ambition Craze' dai sentori vagamente psichedelici, con il boogie 'Disaster Noon' e con il twist bluesy 'My Girl C'Est Bon'.

Più due cover suonate alla loro maniera: 'New York City' di John Lennon e 'Don't Bring Me Down' degli Electric Light Orchestra.

Un disco che visti i personaggi coinvolti per qualcuno potrebbe essere un traguardo ma sono certo che per Beppe Facchetti e Henry Sauda sarà un nuovo stimolo in futuro per alzare di un'altra tacca l'asticella della loro musica e fare ancora meglio. Nuovamente.




RECENSIONE: SUPERDOWNHOME - Twenty Four Days (2017)

RECENSIONE: SUPERDOWNHOME - Get My Demons Straight (2019)


martedì 27 settembre 2022

RECENSIONE: JONATHAN JEREMIAH (Horsepower For The Streets)

JONATHAN JEREMIAH   Horsepower For The Streets (PIAS, 2022)



heart and soul

L'arrivo dell'autunno chiama calore domestico, abbracci e protezione. Un riparo sicuro. Tutte cose che si possono trovare anche in musica. Lasciando da parte i grandi classici, bello è cercare qualcuno che sappia donare tutte queste cose tra le nuove uscite. Perché buoni dischi continuano ad uscire eh, lo dico per chi è  fermo al 1979 e non ne vuole sapere per troppa pigrizia. Da alcuni giorni sono in botta con questo quinto album del cantautore Jonathan Jeremiah, londinese di padre anglo-indiano e madre irlandese. A una domanda per descrivere la sua musica, lui stesso risponde: "troppo soul per il folk, troppo folk per il pop e troppo pop per il soul". Tutto chiaro? Forse non tanto. Meglio sarebbe passare all'ascolto. Il disco, scritto in buona parte in Francia, nelle campagne intorno a Bordeaux, durante uno dei suoi tour e registrato a Bethlehemkerk, una chiesa ristrutturata a nord di Amsterdam, mette bene in mostra la cifra stilistica di Jeremiah, dall'inizio alla fine: voce brumosa e baritonale che si staglia spesso su arrangiamenti d'archi sontuosi ('Horsepower For The Streets'), cinematografici ('Cut A Black Diamonds'), è stata pure impiegata un'orchestra di venti elementi (la Amsterdam Sinfonietta), dove il soul, con cori femminili presenti, regna sovrano ('Small Mercies', 'Youngblood', 'Restless Heart') ma ben si amalgama con il folk britannico ('The Rope'). Proprio come dice lui. Pur avendo come punti di riferimento Terry Callier, Bill Whithers, Nick Drake, Scott  Walker, John Martin, Burt Bacharach, Ennio Morricone, Glen Campbell, l'ultimo Michael Kiwanuka per rimanere a un suo contemporaneo, Jonathan Jeremiah riesce a dare un'impronta personale alle sue composizioni, inseguendo il  pensiero di libertà, cercando la positività nella difficile quotidianità e nelle pieghe dei sentimenti e dei rapporti umani (il crescendo piano, voce di 'Early Warning Sign'). E l'isolamento di questi due ultimi anni influisce tantissimo nella sua scrittura ('You Make Me Feel This Way').

Un disco che ha negli anni sessanta e settanta la propria culla ideale, del presente ha le parole, nel "senza tempo" ci troviamo la melodia e il calore. Benvenuto autunno.





domenica 25 settembre 2022

RECENSIONE: CREEDENCE CLEARWATER REVIVAL (At The Royal Albert Hall, April, 1970)

CREEDENCE CLEARWATER REVIVAL  At The Royal Albert Hall, April 14, 1970 (Craft Recordings, 2022)



quello giusto!

Nella primavera del 1970, i Creedence sbarcano in Europa all'apice delle loro forze, in piena vena creativa e con quattro dischi incisi in due anni (ben tre solo nel 1969), un crescendo che sembrava non avere ancora fine, ed in effetti Cosmo' s Factory e il più bistrattato Pendulum dovevano ancora venire. Eppure anche la loro fine era lì, imminente dietro un angolo, ma ancora nessuno lo sapeva. O chissà, forse Tom Fogerty sì. Le due date sold out alla Royal Albert Hall di Londra vengono finalmente alla luce nella loro bellezza e l'occasione è di quelle ghiotte per farci su un film documentario Travelin'Band (per Netflix), con la voce narrante di Jeff Bridges, che si chiude proprio con le immagini del concerto  e un disco con la data del 14 Aprile 1970 incisa nei solchi. Questa volta però il concerto è quello giusto. Perché, le canzoni che uscirono nel 1980 furono un falso ben congegnato o una svista imperdonabile dalla Fantasy: non erano i concerti di Londra ma quelle di una data a Oakland. Un falso d'autore rimediato in fretta con un  generico titolo The Concert.

Inutile dirvi che il live spacca. La band guidata da John Fogerty è un treno in corsa, inarrestabile, decisa, concreta: dodici canzoni suonate con piglio sicuro che riprendono esattamente ciò che la band aveva sempre fatto in studio, l'unione personale tra blues e rock, masticato e rilasciato con freschezza nuova e adatta ai tempi ma senza cadere nelle tentazioni psichedeliche imperanti. Si andava al sodo e alle radici del suono americano. Era swamp rock frizzante e diretto ma c'erano anche il country e il bluegrass dietro. Totalizzanti.

 "Essenziale, pulito e blues" come indicava il cartello perso nella copertina di Cosmo's Factory.

Si parte dalla paludosa 'Born On The Bayou' che la storia vuole scritta da Fogerty senza mai essere stato in una bayou prima di allora, i CCR erano di San Francisco ma la fascinazione per il sud, la Louisiana, li avvolse completamente fino al collo. Ci nuotavano bene dentro come nessuno mai.


'Green River' scritta da Fogerty ricordando le acque del Putah Creek in California dove trascorreva le giornate in adolescenza tra ragazze nude che dimenavano i loro corpi e rane saltellanti, 'Tombstone Shadow' venuta in ispirazione dopo aver fatto visita a un indovino che predisse a Fogerty tredici mesi di sfortuna (un po' ci andò vicino visto i guai discografici che arriveranno in seguito per riuscire a entrare in possesso del suo catalogo). 'Travelin Band' che uscirà solo poco dopo su Cosmo's Factory pur scippando molto a Little Richard (di cui fanno invece 'Good Molly Miss Molly') è il manifesto di una band inarrestabile e sempre on the road, quella 'Fortunate Son' che di schierava apertamente dalla parte della classe operaia (la camicia di Fogerty resiste nel tempo) e contro la guerra del Vietnam (i fratelli Fogerty l'avevano scampata), 'Commotion' combatteva la frenesia della vita moderna (avercela ora quella frenesia), 'Bad Moon Rising' annunciava una imminente apocalisse a ritmo funky rockabilly, 'Proud Mary' "la mia prima canzone buona" come la definì John Fogerty era già un classico allora nella versione originale e nelle tante cover che verranno, quella di Ike e Tina Turner su tutte.

Un paio di "classici" veri come 'The Night Time Is The Right Time' e 'The Midnight Special', solo qualche "thank you", "thank you very much" tra una canzone e l'altra e la presentazione dell'ultima e sfrenata  'Keep On Chooglin', un finale a tutto groove completano un' esibizione tirata e vincente. Quasi fosse punk dell'american roots.

Roy Carr sul New Musical Express dopo i concerti londinesi fu chiaro e conciso:" la più grande rock'n'roll band del mondo". I Beatles avevano appena annunciato lo scioglimento. Il trono era vacante. Un caso?

Tom Fogerty dirà: "per anni ho avuto un poster dei Beatles alla Royal , ma mai avrei pensato che un giorno ci avrei suonato anch'io qui".

E bello è vedere alcune vecchie foto di John e Tom Fogerty, Doug Clifford, Stu Cook in giro per Londra con le loro macchine fotografiche al collo come turisti qualsiasi e curiosi, ancora ignari di quale pezzo di storia andranno a scrivere. In questi solchi ce n'è un po'.





venerdì 23 settembre 2022

RECENSIONE: CLUTCH (Sunrise On Slaughter Beach)

CLUTCH  Sunrise On Slaughter Beach (Weathermaker Music, 2022)




mai domi

"Il naturale culmine di ciò che i Clutch hanno iniziato da adolescenti nei primi anni '90” così la band del Maryland  ha presentato il tredicesimo album di una carriera ormai lunga trent'anni. E mettere tutti quegli anni in poco più di mezz'ora non è impresa semplice ma in qualche modo ci sono riusciti ancora una volta. Mai chini e piegati a mode e correnti, i Clutch hanno sempre portato avanti la loro idea musicale dove stoner, heavy blues e svaghi psichedelici sono accompagnati dalla voce da orco mai doma di Neil Fallon che declama i suoi testi bizzarri, sarcastici ma sempre pieni di vissuto e ficcanti. Uno che sa scrivere testi. Si potrebbe affermare che è sempre lo stesso album dei Clutch dove la furia di 'Red Alert (Boss Metal Zone)' si scontra con i rallentamenti  psichedelici della cadenzata dai grassi riff  'Slaughter Beach', dove le urla e l’epicità di 'Mountain Of Bone' costruita sui dettami di Dungeons & Dragons corre a pari passo con il carrarmato di nome 'We Strive For Excellence', che già immagino presentata a dovere dal vivo.

Ma poi ecco i particolari che fanno di questo disco, della misera durata di un ep, l'ennesimo capitolo da non perdere: i cori femminili (le voci sono di Deborah Bond e Frenchie Davis) che compaiono in 'Mercy Brown', la lunga coda strumentale di  'Skeletons On Mars' dominata dal singolare uso del theremin, e la finale 'Jackhammer Our Names', marziale e minacciosa che pare uscita da un disco di Nick Cave. Trentatré minuti di certezza inossidabile da una band che in tanti anni di carriera non ha mai cambiato la line up: oltre a Fallon alla voce ecco la chitarra di Tim Sult, il basso di Dan Maines e la batteria di Jean-Paul Gaster.

Una formazione inalterata, unica e inimitabile, che non sembra toccata minimamente dal trascorrere del tempo. Per gli scettici ci sarà la possibilità di toccare tutto con mano il 26 Novembre 2022 al Fabrique di Milano.






sabato 17 settembre 2022

RECENSIONE: THE SWEET THINGS (Brown Leather)

 

THE SWEET THINGS  Brown Leather (Wendigo, 2022)




il miglior rock’n’roll dell'anno from NYC

"Qualcuno ha detto che era come se i New York Dolls avessero provato a registrare Beggars Banquet e avessero fallito miseramente" così il bassista Sam Harris fondatore dei newyorchesi Sweet Things (insieme al chitarrista e vocalist Dave Tierney, i due si sono incontrati per la prima volta al mitico bar Manitoba's di New York) spiega come li accolse la critica dopo l'uscita del debutto In Borrowed Shoes, On Borrowed Time del 2019. Ci aggiunse "devo farla stampare su una maglietta".

Occhio, perché questo secondo parto a titolo Brown Leather per me si candida a diventare uno dei dischi di classic rock americano più caldi e scoppiettanti di questo 2022. Vi dico subito cosa ci troverete dentro: tutto il vecchio rock stradaiolo a cavallo tra Rolling Stones e Faces ma che ingloba dentro la carica anni ottanta di Georgia Satellites, Izzy Stradlin And Ju Ju Hounds e certo sleazy rock losangelino degli anni ottanta/novanta. Senza tralasciare alcune puntate verso il sud degli States, il soul e il southern rock.

All' Honky tonk selvaggio bagnato dal peggior alcol in circolazione il compito di aprire il disco: 'Brown Leather' (accompagnato da un video divertente e fracassone) è tutta pianoforte, chitarre slide e con quel tiro alla Rolling Stones anni settanta ma come se la voce di Mick Jagger fosse caduta nel turbine punk trasformandosi in David Johansen. Ancora pesanti tracce di Exile in 'I Know I Don't Mind' un country che sa di malattia.

'Ride It Home' è pura danza rock'n'roll tra Jerry Lee Lewis e Chuck Berry ma, anche qui, imbrattato dal tiro punk, sostenuto anche dai due nuovi entrati in formazione Tobin Dale (chitarra e voce) e Hector Lopez (batteria).

'Keepin On Movin' e 'Familiar Face'sono dei country boogie movimentati e divertenti buoni per ogni occasione spensierata.  Come anticipato si scende a sud con 'Ain't Got Enough Room' e con 'Cold Feet' un' honky tonk boogie che i fiati portano dalle parti del r&b. Sale in cattedra l'armonica nei blues di 'It Hurts Me Too' e 'Mentholated Blues' più elettrica e rumorosa. Si finisce con la calma della ballata 'Problematic Life' e con la parentesi slide strumentale 'Ride The River'.

Suggella il tutto la registrazione avvenuta ai Fame Recordings Studios a Muscle Shoals in Alabama con il produttore Matt Chiaravalle e la presenza di alcuni ospiti tra cui il fondamentale Rob Clores, già tastierista di Jesse Malin, Black Crowes e Little Steven and Disciples Of Soul.

Derivativi ma con attitudine, ironia e carattere.

"La canzone 'Brown Leather' in pratica dice che non ce ne frega un cazzo di quello che pensano gli altri, faremo solo quello che ci piace e quello che pensiamo sia bello".

Dategli un ascolto e fatemi sapere.




domenica 11 settembre 2022

RECENSIONE: OZZY OSBOURNE (Patient Number 9)

 

OZZY OSBOURNE   Patient Number 9(Epic/Sony Music, 2022)



sette vite più una

Ricordo bene quel "No More Tour" del 1991, Ozzy aveva quarantre anni e l'annuncio dell'ultimo tour sembrava uno scherzo. Lo era in effetti: una diagnosi sbagliata lo aveva messo in allarme per nulla. E noi dietro. Fu il primo degli infiniti "ultimi tour" che seguiranno per malanni molto più seri. Ora lo vedo mentre si è  esibito nell'intervallo della prima partita della stagione di NFL al SoFi Stadium di Inglewood in California: canta Patient Number 9, canzone che apre e da il titolo a questo disco e Crazy Train insieme a Zakk Wylde.

È successo solo due giorni fa. È immobile con le mani fisse al microfono, le alza ogni tanto cercando gli applausi ma non credo possa sostenere concerti interi o tour in quelle condizioni. Se Sharon glielo permettesse sarebbe veramente crudele. L'avrà pure salvato decine di volte ma a volte lo è stata. Crudele. Se vuole veramente bene a Ozzy non glielo permetterà. Vogliamo ricordarlo mentre con le mani ci tirava secchiate d'acqua fredda.

Insomma Ozzy ci canta e ci annuncia la sua fine da almeno trent'anni salvo poi dirci che è "immortale" come canta in  in questo ultimo disco, uscito a due anni di distanza da Ordinary Man, che  già era  stato annunciato come ultimo disco. Quindi, regola numero uno: Ozzy, fottiti, io non ti credo più. Regola numero due: in qualunque condizioni abbia registrato queste ultime canzoni (tanti aiuti alla voce presumo) godetevele. Più heavy,  moderno e compatto del precedente Ordinary Man, che giocava con il pop. In produzione (ma anche musicista presentissimo) sempre Andrew Watt che secondo me si diverte un mondo. Comunque ci si diverte tutti. 

I motivi? Sono tanti. 

Perché i testi giocano in continuazione con la morte, la invocano, la perculano, la allontanano. Tanto prima o poi arriverà per tutti. Guardate la regina.

Perché fa suonare Eric Clapton come fosse ancora nei Cream in One Of These Days. Perché ospita per la prima volta Tony Iommi in un suo disco solista e si ricrea la magia dei Sabbath (No Escape From Now), pure quelli più vecchi e blues in Degradation Blues con quell'armonica che porta direttamente a The Wizard.

Perché Zakk Wylde ritorna a casa e impazza in più di metà disco. Perché Jeff Beck impreziosisce A Thousand Shades e Mike McCready Immortal. Perché troviamo ancora una volta Taylor Hawkins alla batteria in un paio di pezzi. A lui è dedicato il disco. Perché ci sono infiniti rimandi al passato, a Ozzmosis (Nothing Feels Right), addirittura agli anni ottanta di The Ultimate Sin in Dead And Gone.

Perché God Only Knows ruba il titolo ai Beach Boys ma suona come The Beatles meets Black Sabbath.

Perché ci suonano Chad Smith, Duff McKagan e Robert Trujllo

Perché se fosse veramente l'ultimo disco di Ozzy si conclude con un blues antico da palude, slide, armonica e risata finale (Darkside Blues) proprio come forse tutto iniziò tanti anni fa in quel di Birmingham.





sabato 10 settembre 2022

RECENSIONE: THE AFGHAN WHIGS (How Do You Burn?)

THE AFGHAN WHIGS  
How Do You Burn? (BMG, 2022) 





 un sole che brucia ancora 

 E mentre sono ancora qui ad aspettare di ricevere indietro i soldi pagati per un concerto di Greg Dulli a Amsterdam in occasione del suo album Random Desire di due anni fa che il covid ha cancellato (no non è vero, non penso più a quei soldi, mi sono rassegnato), il tempo passa inesorabile come quel volo aereo mai partito, e tanti altri arrivati a destinazione. Va tutto avanti con più incertezze di prima e tanti vuoti da riempire ma con una certa aria di menefreghismo che si diffonde velocemente e ti fa tirare avanti con più leggerezza. Una pandemia di mezzo, questo disco è nato e cresciuto proprio in quei giorni, e tante perdite umane: dopo Dave Rosser nel 2017, Mark Lanegan quest'anno, che di questo nuovo disco degli Afghan Whigs ha inventato pure il titolo e lasciato alcune delle sue ultime impronte. Non c'è più ma si aggira come un fantasma tra le pieghe della ipnotica e inquietante 'Jyja' e sui ritmi elettronici di 'Take Me There'. Quasi un sussurro basso e perpetuo il suo. Leggendo alcune recenti interviste di Dulli traspare tutto l'amore tra i due cresciuto sempre più nel tempo e nelle collaborazioni. E qualche lacrima scende e si insinua tra la mia barba. Queste sono le mie regine. 
How Do You Burn? è il terzo album dopo la reunion e prosegue in qualche modo il percorso dei due dischi precedenti Do To The Beast e In Spades, un grande disco che se la gioca con questo. Una delle poche reunion con un senso la loro, anche se oggi della vecchia band a far compagnia a Dulli rimane solo il bassista John Curley . C'è ancora tutto l'affascinante universo di Dulli creato intorno alle contaminazioni, che però si apre a noi solamente dopo aver superato 'I'll Make You See God', una botta rock, in stile Queens Of The Stone Age, nata per caso dopo un cazzeggio alla chitarra in studio di registrazione. Il suo posto era lì all'inizio dice Dulli e lì al suo posto come un'ariete scardinaporte sembra rimanere anche durante i nuovi live che la band sta portando in giro. Passata la bufera gli echi beatlesiani di 'The Gateway' iniziano a condurre il disco in una conturbante e ipnotica strada che porta alla circolare e seducente 'Catch A Colt', al carezzevole soul di 'Please, Baby, Please' (tra le mie preferite) costruito su un tappeto di organo, al respiro leggero di 'Concealer', al duetto con Marcy Mays in 'Domino And Jimmy', la cantante ritorna dopo la sua presenza su Gentlemen a distanza di trent'anni (c'è anche il ritorno di Susan Marshall già presente su 1965 e che tutti, o quasi, ricordiamo nei Mother Station). Greg Dulli tocca la mortalità, la fragilità, l'amore con la stessa mano di sempre, sicuramente con meno impeto, irruenza e forza rispetto agli anni d'oro di Congregation, Gentlemen e Black Love ma il tatto è sempre quello sensuale, conturbante e graffiante di sempre. La voce pure. 
E visto che il concerto degli Afghan Whigs a Bologna nel 2017 è stato uno dei più belli visti negli ultimi anni, impossibile non replicare in Ottobre a Milano. Ho già il biglietto ma questa volta nessun aereo da prendere.




domenica 4 settembre 2022

RECENSIONE: KING'S X (Three Sides Of One)

KING'S X  Three Sides Of One (Insideout/Sony, 2022)


Tre!!!

È la seconda volta consecutiva che i King's X annullano il loro ritorno in Italia: successe nel 2019, è successo anche quest'anno. Avrebbero dovuto suonare proprio l'altra sera, 2 Settembre 2022 (giorno d'uscita di questo disco), a Veruno nell'ambito del Festival 2 Days Prog+1. Li aspetto da 23 anni, da quando nel 1999 li vidi per la prima e ultima volta in quel del Babylonia a cinque minuti da casa. Se non sbaglio fu il loro debutto in Italia.  Rimane uno dei miei concerti della vita.

Una delle più complete band che abbia mai visto live. (Non sto vaneggiando, cercate in rete quante persone dicono la stessa cosa. O siamo tutti impazziti o qualcosa di vero c'è veramente).

Tre musicisti che  mi impressionarono. Tre personalità  che della loro diversità  fanno una virtù comune: il basso funky e tuonante, la voce bluesy di Doug Pinnick, uno che si fa beffa dei suoi 71 anni, la chitarra versatile di Ty Tabor, capace di pennate hard e pesanti quanto di ricami melodici, la voce e la dinamicità della batteria di Jerry Gaskill. Insieme, uniti, capaci di ottime armonie vocali che spesso li ha avvicinati ai Beatles e con grandi colpi di bravura e magia sanno unire in un tutt'uno micidiale hard rock, blues, punk, metal, funk, progressive, pop e soul. 

Una volta sposati, i King's X non li abbandoni più. In 40 anni di carriera  sono stati osannati, sottovalutati, a volte dimenticati e ingiustamente ignorati. Ancora sconosciuti e da scoprire dai più. Non a caso la parola più comune legata al loro nome è spesso “underrated”. Che peccato. Anche se come tutte le cose più preziose continui a sentirle ancora più  tue. Poi magari ci saranno dei validi e buoni motivi che a me sfuggono. Verrà  il loro tempo? Anche oggi che i dischi si intrufolano  subdolamente tra i nostri ascolti? Potrebbe essere questo tredicesimo disco in carriera quello della volta buona? Del grande salto? Dubito, ma per chi volesse avvicinarsi al trio mi sembra una buona occasione.

Mancavano discograficamente dal lontano 2008 quando uscì XV, in mezzo tanti problemi di salute (soprattutto per il batterista Gaskill), problemi con le case discografiche, parecchi progetti solisti, una pandemia.

Ma ora che abbiamo finalmente queste dodici canzoni tra le mani, possiamo dirlo:  i King's X sono sempre loro. Capaci di unire dissonanze quasi heavy noise ("alla Meshuggah" come ha dichiarato Pinnick) con armonie vocali melodiche in 'Flood, Pt.1'. Colpire con hard blues elettrici come 'Let It Rain', un invito a lasciare che la pioggia spazi via la paura di questi tempi bui, oppure accarezzare con blues notturni come in 'Nothing But The Truth' con la voce blacky di Pinnick in primo piano e un bel assolo finale di Tabor ("ho pensato a Prince e Curtis Mayfield" dice sempre Pinnick). Uno dei vertici di questo disco. 'Give It Up' è una cavalcata hard bluesy dal chorus contagioso, adatta per i live,  'All God' s Children', una ballata dai toni dark psichedelici, molto sabbathiana, così come 'Take The Time', cantata da Gaskill, è ariosa, psichedelica, pop. È un gioco di contrasti che alla band americana è sempre riuscito bene. 'Festival' è un rock scritto da Tabor dall'influenza quasi garage, veloce e diretta, 'Swipe Up' ha il groove pesante dei loro anni novanta, si ferma e riparte (e ancora una volta tornano in mente i Meshuggah, che cosa incredibile!), così come 'Watcher' riporta ai tempi di Dogman e anche più indietro.

Poi nel finale ecco tutto l'amore per la coppia Lennon-McCartney che esce dalla soffice 'Holidays' cantata da Gaskill, così come in 'She Called Me Home' con l'orchestra dietro e nella finale 

 'Every Everywhere' con i suoi giochi di voce. Una canzone di speranza in mezzo a un disco dai toni prevalentemente cupi.

Se dopo quarant'anni riescono a incidere ancora dischi così freschi, piacevoli, a tratti spiazzanti un motivo ci sarà. A voi scoprirlo. Io lo so già.

Bentornati!




giovedì 1 settembre 2022

RECENSIONE: MARCUS KING (Young Blood)

MARCUS KING  Young Blood (American Records, 2022)


the king of rock and roll

Molto probabilmente se Marcus King  avesse vissuto i suoi 25 anni nel pieno degli anni settanta, avrebbe cavalcato con estrema difficoltà quella linea che separa la notorietà  dal precipizio più marcio e buio. Troppe le tentazioni, troppi sarebbero stati i  compagni di viaggio nella stessa situazione che lo avrebbero accolto con simpatia nel club della disperazione. Benvenuto tra noi. Fortunatamente gli anni settanta sono lontanissimi, anche se musicalmente non sono mai stati così vicini come oggi. 

E visto che King a 26 anni è un giovane "nato vecchio" catapultato fortunatamente nel 2022, le sue ancore di salvezza hanno dei nomi, a volte pure dei cognomi: la musica stessa, i Free, Dan Auerbach e l'attuale fidanzata ("mi ha tirato fuori da un posto davvero oscuro").

Sì perché proprio dopo una rottura amorosa iniziò un breve calvario segnato da depressione e dalle dipendenze e a un certo punto a forza di ascoltare i Free (pare gli piovessero addosso da ogni parte) si era quasi immedesimato nel povero Paul Kossof tanto da non riuscire più a vedere una via di uscita. Una strada senza scampo.

"Stavo davvero esagerando in tutti gli aspetti. Quindi è stato un bene per quanto riguarda la creatività...Davvero non pensavo che sarei stato in giro abbastanza a lungo per fare un altro disco".

Dopo El Dorado, primo disco solista prodotto da Dan Auerbach che lo vedeva allontanarsi dal classico stile da jam band della Marcus King Band per avvicinarsi maggiormente alle ballate country e soul, questa volta Marcus King incide il suo disco rock definitivo dove mette in fila tutto il suo smisurato amore per Jimi Hendrix, gli ZZ Top, i Free (di rimando i Bad Company), i Cream, i CCR,  i Black Sabbath, i Grand Funk Railroad, la Steve Miller Band, i Gov't Mule ma anche i Badlands periodo Voodoo Highway di Jake E. Lee, chissà.

Dove le chitarre (la sua Le Paul del 59) sono protagoniste dall'inizio alla fine: riff torrenziali (ascoltate la quasi sabbathiana 'Aim High'), assoli e fuzz abbondano, strabordano a volte, mettendo a frutto tutto il tempo in cui ha tenuto in mano una chitarra da quando aveva solo tre anni giù nella sua Carolina del Sud.

Dentro alle canzoni lascia tanto di se. Dalle relazioni finite (l'impetuosa 'It's Too Late') traboccanti di bugie ("sono il fuoco piccola, sai di essere la mia benzina" canta nella incalzante 'Lie, Lie, Lie'),  alle perdite importanti (la paludosa 'Blues Worse Than I Ever Had' che termina il disco). Chiede aiuto, la mano di qualcuno che lo tiri fuori dall'abisso dentro il quale era finito dove l'alcol ("Coca e Whisky") era divenuto l'amico più fidato (lo swamp alla John Fogerty 'Rescue Me'), e le nuvole nere che incombevano minacciose erano un sipario calato davanti al futuro ('Dark Cloud'). Le maschere per nascondere il tutto erano all'ordine del giorno (nel blues contagioso alla Free 'Pain') " ora sono solo una banconota da un dollaro arrotolata...Se vai e mi lasci, allora ho finito" canta . Ma fortunatamente canta anche di rinascita in 'Hard Working Man', dove l'amore sembra trionfare.

Questo disco è una seduta psicoanalitica, sincera, profonda, amara, ma anche carica di speranza. Entusiasmante per come suona, per come è cantata. Il sentimento davanti a tutto.

Accompagnato dal batterista Chris St. Hilaire, il bassista Nick Movshon e il secondo chitarrista Andy Gabbard che assecondano senza troppi fronzoli intorno. Rock blues della miglior specie, hard, ruvido, diretto ma anche melodico e ipnotico.

Marcus King si mette a nudo costruendo intorno a dei testi duri e crudi (nella sinuosa 'Blood On The Tracks' -non un titolo a caso credo- ad aiutarlo c'è pure una vecchia volpe come Desmond Child) un impianto rock muscoloso che sa di antico, di assi di palco, di amplificatori, di live music. Di anni settanta sicuramente. 

Marcus King è uno dei più grandi talenti usciti negli ultimi anni dagli States e questo disco una delle più belle uscite dell'anno in ambito...chiamiamolo semplicemente rock'n'roll? Oggi, pochi come lui sanno  unire così bene anima, tecnica e vigore.





domenica 28 agosto 2022

RECENSIONE: PAOLO NUTINI (Last Night In The Bittersweet)

PAOLO NUTINI   Last Night In The Bittersweet (Atlantic, 2022)



quando un disco è bello non ha bisogno di etichette. E Last Night In The Bittersweet è bello!

Paolo Nutini ha sempre avuto tutto dalla sua parte: una voce incredibilmente soul (ah quelle voci bluesy scozzesi!), una rara capacità di scrittura pop, l'indole e il carisma per arrivare all'ascoltatore più distratto. La presenza. Nonostante tutto, partendo dalle cose più facili ottenute con il minimo sforzo in gioventù, negli anni non ha mai smesso di crescere, sperimentare, imboccare nuove strade che partendo da una buona base pop potessero raggiungere altri generi. Il percorso inverso di tanti altri. Last Night In Bittersweet esce a ben otto anni dal suo ultimo disco Caustic Love (che fu una dichiarazione d'amore per il soul) e tocca il vertice di questa sua instancabile, preziosa ricerca -e crescita- che  se volessimo delimitare da due punti fermi dentro a questo disco si potrebbero visualizzare concretamente nel crescendo soul di 'Through The Echoes' al battito elettro di kraut rock in 'Lose It'. Il passato e il futuro. Tutto il presente dentro.

In mezzo 70 minuti di canzoni scritte in modo sublime che non danno troppi punti di riferimento ma ottengono punti al valore. Scritte e suonate in modo impeccabile nuotando con disinvoltura dentto una vasta gamma di emozioni e turbolenze che ha raccolto negli otto anni di assenza discografica: gli anni settanta di 'Everywhere' e 'Children Of The Stars' con belle chitarre e tutta quella brezza West coast che ci soffia sopra, una 'Radio' che non dispiacerebbe al canzoniere di Ryan Adams, il country folk alla Johnny Cash di 'Abigail', un inno alla felicità da (ri)trovare, la psichedelia di 'Heart Filled Up', la marzialità indie rock di  'Shine A Light', la ballata al pianoforte 'Julienne', una piccola gemma, che potrebbe essere il vero anello di congiunzione tra Paul McCartney e John Lennon più introspettivi, il tranquillo folk finale di 'Writer' che va a cozzare con 'Afterneath' il modo quasi violento e disturbato, con i suoi gorgheggi alla Robert Plant, con il quale il disco si apre e che contiene  un dialogo rubato al film True Romance (Una Vita Al Massimo) sceneggiato da Quentin Tarantino.

Un disco in movimento, ricco di spunti, certamente ambizioso, che non contiene tormentoni (come lo furono in passato 'New Shoes' e 'Candy') che potrebbe insegnare molto a tanti nomi più blasonati e sulla breccia da decenni su come si possano portare a termine  settanta minuti di musica senza perdersi per strada. Certo ci sono voluti otto anni ma ne è valsa la pena.





giovedì 25 agosto 2022

RECENSIONE: NAZARETH (Surviving The Law)

NAZARETH  Surviving The Law (Frontiers Records, 2022)



verso il futuro

Quando hai un cantante dalla voce unica e caratteristica come fu quella di Dan McCafferty, che però ad un certo punto della carriera (più di cinquant'anni) è costretto a lasciare per motivi di salute, hai una mazzo di scelte per proseguire la strada: ti ritiri perché il meglio lo hai già dato e quel cantante è insostituibile, continui con un altro cantante che cerca di scopiazzare l'ugola altrui, oppure continui con un altro cantante dal timbro diverso e cambi il sound pur mantenendo continuità con il passato. Gli scozzesi Nazareth hanno optato per la terza via, hanno rischiato ma in qualche modo stanno avendo ragione. Guidati dal veterano e unico superstite della formazione storica, il bassista Pete Agnew, Surviving The Law è un album solido e compatto di hard rock con puntate metal e blues racchiuso in una orribile e anonima copertina che non fa il suo dovere. E qui un giorno qualcuno ci racconterà perché nessuno investe più nella nobile arte delle copertine. Carl Sentance (già Krokus, Don Airey Band) è un cantante esperto e formato, con caratteristiche tutte sue. Dopo il rodaggio del precedente Tattooed In My Brain, qui riesce a prendere in mano le redini del gruppo e trasportarlo verso una nuova fase di carriera, il tutto registrando le sue parti vocali lontano dalla band in piena pandemia. Un disco quadrato che fin dall'apertura 'Strange Days' mostra muscoli e dinamicità. 

Un suono sempre fresco sia quando accelerano in 'Runaway', dai vaghi sentori NWOBHM, nel blues pesante 'Sweet Kiss', nel grido d'indipendenza scozzese che esce chiaro e forte nella sincopata 'Let The Whisky Flow', nel blues finale 'You Made Me' con Agnew che si impadronisce del microfono. Quattordici canzoni che non fanno gridare al miracolo ma mantengono in vita un gruppo onesto e dalla scorza dura e forte come lo stomaco di chi accompagna un piatto di Angus con il migliore dei Whisky invecchiati.





sabato 20 agosto 2022

DISCHI in BREVE: BEN HARPER (Bloodline Maintenance)

BEN HARPER  Bloodline Maintenance (Chrysalis, 2022)


ritorno al passato

Che bello Bloodline Maintenance il nuovo album di BEN HARPER. Un disco quasi ostico (nessun singolone acchiappa masse) che si apre con un gospel a cappella ('Below Sea Level'), personale (già dalla copertina che lo ritrae in una vecchia e bella foto in compagnia del padre Leonard, molto assente nella sua vita, nel testo di 'Problem Child' con i fiati di Geoff Burke) e combattivo il giusto: in 'We Need To Talk About It' tratta il razzismo con frasi dure (" immagino che chiunque dica che il tempo guarisce tutte le ferite non fosse uno schiavo"), in 'Where Did We Go Wrong' denuncia e da una voce a chi non vuole farsi piegare dalle direzioni sbagliate che la sua America e più in generale il mondo stanno prendendo.

Un disco che solo i grandi possono permettersi a una certa età ma che non tutti hanno il coraggio di fare. Un ritorno forte alle radici. Tutte le radici.

Guarda al Blues dei padri ('Knew The Day Was Comin') e alla black music dall'inizio alla fine (bello il soul di 'Honey Honey'), con Harper che suona quasi tutto da solo e l'anima gentile del compianto Juan Nelson che gira intorno e fa da ispirazione. Un gran bel ritorno. 



mercoledì 17 agosto 2022

NEBULA: disco (Transmission From Mother Earth) e concerto Live@Blah Blah, Torino, 4 Agosto 2022

 

NEBULA  Transmission From Mother Earth (Heavy Pych Sounds, 2022)

Transmission From Mother Earth è il settimo album dei californiani NEBULA, il secondo dopo la reunion del 2019. Registrato nel deserto del Mojave, la band guidata da Eddie Glass sembra aver ritrovato l'antica forma. Certo, meno irruenza rispetto agli anni d'oro di To The Center (disco imprescindibile dello stoner anni novanta) ma tutta la maturità che permette di costruire canzoni stratificate, cangianti ('Transmission from the Mothership' alterna riff giganteschi alla melodia) che fluttuano tra psichedelia ('Wilted Flowers'), space rock ('Highwired') e stoner blues ('Existential Blues'), pure rileggendo a modo loro lo spaghetti western (la conclusiva 'The Four Horseman') con l'apice raggiunto nei sette minuti di 'Warzone Speedwulf' che riassume lo status operandi dei Nebula annata 2022, alternanza tra scosse elettriche cariche di fuzz e morbidi trip sopra a tappeti psych che volano alti da terra. Stooges meets Hawkwind. Tra i migliori viaggi lisergici di questa torrida estate (forse dell'anno, chissà chi farà meglio?) che lì vedrà protagonisti in Italia tra pochi giorni per una serie di date certamente da non perdere.


CONCERTO: NEBULA live@Blah Blah, Torino, 4 Agosto 2022

Eddie Glass si presenta sul palco con occhiali da sole e kefiah tirata su fino al naso, come se stesse surfando di notte attraverso la terra e la sabbia del suo deserto del Mojave in California, una tazza di the sul pavimento fa bella mostra di sé accanto alla pedaliera, il batterista Mike Amster indossa la stessa t shirt di Paranoid dei Black Sabbath vista proprio qui quando accompagnò i Mondo Generator di Nick Oliveri e picchia sempre come un fabbro sul ferro, mentre Tom Davies è imponente come il suo basso.

Siamo invece in pieno centro a Torino città, il caldo interminabile di questi mesi è stemperato dall'aria condizionata e dentro al Blah Blah, nonostante le piccole dimensioni, si sta sempre da dio. Ci ho visto tanti concerti in questi mesi. Un set che dura poco più di un'ora per dimostrare quanto l'ultimo album fresco di pochi giorni Transmission From Mother Earth, abbia ridato al gruppo californiano quella centralità che compete loro tra le band stoner più legate al blues psichedelico dei seventies. La copertina del loro primo disco To The Center, invece, in venticinque anni ha guadagnato la vetrina della storia. Difficile scalzarla o solo dimenticarla.

Poche parole, il cantato di Glass non è certamente la loro arma forte, a parlare è sempre la musica. 

Glass guida sempre le danze, la ritmica lo segue con fedeltà anche nelle improvvisazioni e divagazioni.


Si intrecciano riff pesanti, carichi di fuzz e si ondeggia con la testa, con divagazioni space psichedeliche, fumose, acide, si chiudono gli occhi cercando di immaginarsi con una kefiah sulla bocca, surfando tra la sabbia, le rocce, il cielo blu e le stelle sopra. Blue Cheer, Black Sabbath, Hawkwind, Jimi Hendrix e Stooges giocano la loro partita a poker. Glass incassa. 

Forse dieci minuti in più avrebbero fatto la felicità di tutti ma agli artisti va sempre l'ultima parola. Il banchetto del merchandise è ricco, i prezzi ragionevoli (il nuovo disco in cd a dieci euro): si paga anche per uscire, anche se dentro, tra fresco e musica, si sta molto meglio. Però realizzo che domani è venerdì, ed è pure l'ultimo giorno prima delle ferie...




sabato 13 agosto 2022

RECENSIONE: ZZ TOP (That Little Ol' Band From Texas- Original Soundtrack)

 

ZZ TOP  That Little Ol' Band From Texas- Original Soundtrack (BMG, 2022)




l'ultima suonata di Dusty Hill

Nudi e crudi come papà Texas li aveva cresciuti. Poi vabbè hanno deviato alcune strade durante il percorso verso la notorietà mondiale. Però se il cerchio doveva chiudersi, bello ritrovarli così, in un disco pulito senza colpi di straccio, grezzo e imperfetto il giusto.

"Un ritorno alle nostre radici" scrivono nelle note al disco "solo noi e la musica". Nemmeno il pubblico in queste registrazioni live avvenute al Gruene Hall, la più vecchia sala da ballo del Texas. Solo i "tre uomini": Billy Gibbons, Dusty Hill e Frank Beard. Sembra che i tre fossero li per altre cose ma non vuoi mica non suonare quando trovi gli strumenti già sul palco?

Sono le ultime registrazioni di Dusty Hill (naturalmente il disco è a lui dedicato) e vengono alla luce sottoforma di colonna sonora per il documentario Netflix That Little Ol' Band From Texas andato in onda nel 2019 ma ancora assente in Italia. Si parte dalla vecchia 'Brown Sugar' e si toccano le immancabili 'La Grange', 'Tush' fino alla sensuale e notturna 'Blue Jean Blues'. E anche quando negli anni ottanta le luci di Las Vegas sembravano offuscare e avere la meglio sulla polvere texana, qui 'Gimme All Your Lovin' diventa calda e torrida come a inizio carriera. Domani sarà passato un anno esatto dalla scomparsa di Dusty Hill e l'omaggio mi sembra puntuale e perfetto.