sabato 25 settembre 2021
RECENSIONE: JESSE MALIN (Sad And Beautiful World)
domenica 19 settembre 2021
RECENSIONE: STEVE RUDIVELLI (Gasoline Beauty)
STEVE RUDIVELLI Gasoline Beauty (2021)
l'operaio del rock'n'roll
Nell'era in cui tutto viaggia smart e veloce attraverso applicazioni e bitcoin, Steve Rudivelli è ancora uno di quelli che sì, vi spedisce il suo nuovo disco ma per pagarlo dovete spedire a lui i soldi via posta, chiusi in una busta. Proprio come si faceva negli anni ottanta quando per ascoltare musica si era disposti a tutto e aspettare qualche giorno in più era un sacrificio sempre ben ricompensato. Un contratto di fiducia tra artista e fan. Un piccolo particolare che basta per raccontarvi lo spirito punk, (e po' anarchico) che vive annidato dentro a Steve. Proprio come quella copertina che mi ha subito riportato a Give 'Em Enough Rope dei Clash, i corvi sono gli stessi ma Steve ci mette la faccia e si immola nel nome del rock'n'roll. Ci lascia un po' del suo sangue contaminato di alcool.
Gasoline Beauty è il fratello del precedente Metropolitan Chewingum, nato in piena pandemia. Qui però si torna finalmente a viaggiare a fari accesi, country rock, nero e da notte fonda, chitarra acustica, armonica dylaniana e qualche bel taglio di elettrica (Handy D.) come succede nell'apertura 'Gasnevada' e nel quadro in stile Hopper musicato in 'Giù Le Mani Dal Banco'. Atmosfere giuste per il suo personale Oh Mercy.
Si esce di casa anche se tutto sembra ancora avvolto in una nebbia da notte fonda, invernale e brianzola, con strade presidiate da corvi neri che "giocano" da un lato della strada grigia e il Lambro che scorre dall'altro ('Lambro River'), un'utilitaria da pochi soldi sotto il sedere come fosse una Cadillac lanciata a tutto gas verso Lecco ('Gasoline Road') e personaggi poco raccomandabili come Frankie che ti superano lungo l'autostrada Bergamo Nevada magari facendoti pure il dito.
E visto che " in fabbrica sono un numero, fuori devo tornare Steve Rudivelli, al più presto", così Steve mi raccontava il suo desiderio di riprendersi la sua vita artistica dopo questi due anni passati lontano dai palchi del suo personale Texas (a proposito ecco 'Coca Jack Jet' texana fino all'ultima goccia), dove le serate scorrevano scivolose tra il bancone, una ballerina di tango jazz e il sogno bagnato Mary con la sua maglietta bianca dei Rolling Stones. L'augurio migliore è quello di trovarsi questo inverno davanti a un bicchiere in qualche bar sperduto della Brianza per riprenderci la nostra vita migliore.
lunedì 13 settembre 2021
RECENSIONE: DANKO JONES (Power Trio)
domenica 5 settembre 2021
RECENSIONE: STURGILL SIMPSON (The Ballad Of Dood & Juanita)
STURGILL SIMPSON The Ballad Of Dood & Juanita (High Top Mountain, 2021)
Ormai da Sturgill Simpson possiamo aspettarci di tutto. Salutato come il salvatore della country music di Nashville (lui è nativo del Kentucky) nei suoi primissimi dischi, dove cercava di svecchiare il genere con colpi ad effetto, ci aveva spiazzato con Sound & Fury, un disco carico di synth e chitarre elettriche in piena sbornia da anni ottanta e novanta (echi industrial rimbombavano di qua e di là), poi durante il lockdown se n'è uscito con due dischi che ritornavano al passato, riprendendo vecchie canzoni in stile bluegrass presentate da due copertine tanto orribili quanto autoironiche, e proprio dal bluegrass riparte con questo The Ballad Of Dood & Juanita. Un concept album, scritto e registrato in tempi brevissimi, che in meno di mezz'ora ci racconta l'epopea da vecchio West del tiratore scelto Dood, figlio di una cameriera e di un minatore di montagna, che in piena guerra di secessione parte alla ricerca della sua amata Juanita, sottratta al suo amore da un bandito che la rapisce. Il viaggio di Dood insieme al fedele cane e "miglior amico" Sam (cantato nel gospel 'Sam') e al cavallo Shamrock (anche a lui è dedicata una canzone) - eccoli disegnati in copertina - parte con gli spari di un fucile e una marcia militare ('Prologue') e si sviluppa in una sarabanda di country bluegrass che sanno di fieno e letame, spazi infiniti, strade, montagne e polvere, dove violino, banjo e scacciapensieri si rincorrono ora veloci ('Go in Peace'), ora minacciosi ('Ol' Dood'), ora a trotto lento ('One In The Saddle, One On The Ground'). Dood cerca la sua rivincita, la avrà anche se perderà per strada qualche pezzo della sua vita.
Il tutto con la benedizione di una vecchia volpe: il valzer 'Juanita' è arricchito dalla presenza dell'irriducibile Willie Nelson, qui completamente a suo agio.
"Volevo solo scrivere una storia, non una collezione di canzoni che raccontassero una storia. Una storia attuale, da cima a fondo. Una semplice storia di redenzione e vendetta, una corsa su un rollercoaster attraverso tutti gli stili del country e del bluegrass tradizionale, inclusi gospel e canto a cappella" racconta Simpson.
C'è poca innovazione in questi solchi, solo tanto devoto amore. Pura Americana a sua firma.
domenica 29 agosto 2021
RECENSIONE: JAMES McMURTRY (The Horses And The Hounds)
occhi e penna
lunedì 23 agosto 2021
RECENSIONE: SON VOLT (Electro Melodier)
SON VOLT Electro Melodier (Thirty Tigers, 2021)
tra pubblico e privato
Nemmeno il tempo di domare per bene i fantasmi di Woody Guthrie che si aggiravano nel precedente Union uscito solo due anni fa, un disco dal deciso carattere folk, di denuncia, politico, che voleva fare da megafono ai problemi dell'amata terra, che i fantasmi, molto più terreni della pandemia costringono Jay Farrar e soci, come tutto il mondo musicale, a un forzato stop. Tanto tempo da dedicare alla meditazione, per scrivere nuove canzoni, ritrovarsi come i tempi impongono e provare. "Ci siamo ritrovati insieme, io e i ragazzi della sezione ritmica in uno studio qui a St Louis con le maschere e facendo molte registrazioni. Poi Mark Spencer, che ha il suo studio a New York, ha aggiunto le sue parti da lì e ho pensato che fosse un bel approccio equilibrato e misto, credo". Ecco uscire canzoni come il country rock 'These Are The Times' (il titolo dice tutto) e la morbida 'Sweet Refrain' dove sono scanditi i giorni della pandemia e quel "un altro eroe se n'è andato" non è altro che il nostro caro John Prine.
Quello che ne è uscito è uno dei dischi più equilibrati della loro carriera, o almeno il migliore dell'ultima fase.I Son Volt tagliano il traguardo dei trent'anni e il nome di Jay Farrar è scolpito nella roccia dei migliori songwriter americani (fin dai tempi degli Uncle Tupelo) e lo si capisce dal suo continuo entrare ed uscire da temi pubblici e privati. A una 'The Globe' ispirata dall'uccisione di George Floyd e il movimento Black Lives Matter risponde una 'Diamonds And Cigarettes' (con la voce ospite di Laura Cantrell) dedicata alla moglie e al loro matrimonio lungo 25 anni. A una 'Livin In The USA' che lo stesso Farrar dice essere figlia diretta di canzoni come 'Born In The USA' e 'Rockin In The Free World' di voi sapete chi, inni ai tempi mal interpretati, ma qui il grido è più pacato e folk, risponde una decisa ed elettrica 'Arkey Blue', un miscuglio di pensieri su viaggi personali e altri rubati da un discorso di Papa Francesco.
Piacciono anche il lento valzer di 'Lucky Ones' tra R&B e country, lo spoglio blues di 'War On Misery' che Farrar dice essere ispirata da Lightnin' Hopkins, l'atipicità di quel avanzare quasi hard, di stampo Led Zeppelin di 'Someday Is Now', il lento e crepuscolare country "on the road" di 'The Lee e On Down', sulle tracce dei Cherokee. Le canzoni sono tante e pur viaggiando tra toni malinconici e profondi non ci si annoia mai e quel titolo preso da due vecchi amplificatori degli anni '40 e ' 50 sembrano rappresentare bene il carattere di queste 14 canzoni: "Electro" perché i Son Volt rispetto al recente passato suonano più elettrici e muscolosi, "Melodier" perché la melodia di fondo è sempre presente e fa da buon collante.
lunedì 16 agosto 2021
RECENSIONE: WILLIE NILE (The Day The Earth Stood Still)
WILLIE NILE The Day The Earth Stood Still (River House Records, 2021)
anni duri
I dischi di Willie Nile sono diventati come i dischi dei Ramones. Quando uscivano sapevi già cosa trovarci, ma c'era sempre quel qualcosa di attraente che ti convinceva per portartelo ancora una volta a casa. A volte bastava la copertina per goderne comunque. Non è di certo una critica ma un complimento e un dato di fatto. E poi a Willie piacerebbe un sacco essere accomunato ai suoi amici, concittadini newyorchesi: ascoltate 'Off My Dedication' da questo suo nuovo album (il quattordicesimo in carriera) e ditemi se non ci starebbe bene dentro a End Of The Century?
The Day The Earth Stood Still come tanti dischi usciti in questi mesi è figlio del lockdown (il secondo per Willie dopo New York At Night dell'anno scorso) e se negli ultimi quindici anni Willie è stato discograficamente prolifico all'inverosimile, figuriamoci se in un periodo senza altri impegni e concerti in mezzo poteva starsene senza penna, taccuino e occhi curiosi seduto in un dinner o camminando per le strade. Lo ha raccontato bene in questi mesi come è nato il titolo dell'album: da una foto che lui stesso scattò tra le vie deserte di New York all'ora di punta. Vie sempre trafficate di auto e gente che all'improvviso divennero il fotogramma di un film di fantascienza e proprio quel film degli anni 50 ha dato il titolo all'album e alla canzone che apre l'album in modo energico, alla sua maniera.
Le canzoni di Nile sono le stesse di sempre, riflettono il mondo che gli gira intorno, per questo poi sono sempre uguali ma diverse. Noi non siamo più quelli del 1980, il mondo lì fuori, con o senza pandemia è cambiato, a volte in meglio, spesso in peggio, ma tutte le canzoni hanno sempre quel retrogusto di speranza e non è un caso che l'album si chiuda con una canzone come 'Way Of Heart'.
"Le mie canzoni riflettono il mondo che vedo intorno a me, in cui mi imbatto in qualsiasi tipo di giorno o ora" ha detto Willie. Allora ecco 'The Justice Bell' dedicata all'attivista per i diritti civili John Lewis, ballata che si apre al pianoforte per poi crescere nel coro, oppure una combattente e politica 'Blood On Your Hands' cantata insieme all' amico Steve Earle, uno che di battaglie se ne intende. "È una grande, grande, icona americana. Un grande songwriter, non si tira indietro mai" dice. Come non essere d'accordo?
Ci sono le inconfondibili chitarre di sempre nell'incedere epico di 'Sanctuary' e nel rock'n'roll ironico ma trascinante di 'Where There's A Willie There's A Way'. La sezione ritmica pulsante guidata dal basso del fedele Johnny Pisano nelle andature funky di 'Expect Change' e di 'Time To Be Great'. La melodia tutta americana nel country folk di 'I Don' t Remember You' e della ballata 'I Will Stand'.
Un disco dai tratti urbani, come sempre, anche se questa volta i marciapiedi sono deserti, le strade silenziose e quell'artista di strada ritratto dalla foto di Cristina Arrigoni in copertina spera che presto tutto ritorni alla normalità di sempre (la gente in qualche modo lo tiene in vita) che non sarà perfetta ma almeno più conciliante di questi mesi strani, violenti e divisivi, alla faccia di chi diceva "ne usciremo migliori".
mercoledì 11 agosto 2021
RECENSIONE: VELVET INSANE (Rock'n'Roll Glitter Suit)
VELVET INSANE Rock'n'roll Glitter Suit (Wild Kingdom, 2021)
la continuità scandinava
Se siete in cerca di rock'n'roll, divertente, sguaiato, melodico e senza fronzoli puntare il dito sicuri sulla Svezia non delude mai. I Velvet Insane tagliano il traguardo del secondo disco con la disinvoltura dei fuoriclasse del genere aiutati da un amore incondizionato verso lo scan rock (come altrimenti?), il glam seventies, lo street rock, il power pop a cui sanno aggiungere almeno due dita, sporche il giusto, di sana personalità. L'accensione del motore dell'iniziale 'Driving Down The Mountain' ci trasporta direttamente indietro ai seventies, con un pianoforte battente rock'n'roll e tutta la leggerezza necessaria per far volare la canzone sotto i tre minuti. Nemmeno il tempo di togliere le chiavi dal cruscotto che 'Backstreet Liberace' parte decisa, si viaggia sulla stessa frequenza ma questa volta a ribadire una certa continuità con la scena svedese ecco apparire ospiti di peso come Nicke Anderson (Hellacopters) e Dregen (Backyard Babies).
"Non credo che oggi sia possibile suonare rock'n'roll in Scandinavia ignorando la carriera di gruppi come Hellacopters e Backyard Babies" dice il chitarrista Jesper Lindgren.
La presentazione è stata fatta. Ma continuando lungo i 38 minuti (per undici canzoni) non mancano una certa varietà e le sorprese che citano e passano dai T. Rex agli Slade, dai DAD ai Beatles, dagli Hanoi Rocks agli Stones, dai Faces ai Cheap Trick: 'Midnight Sunshine Serenade' è una ballata crepuscolare alla vecchia maniera, poco meno di tre minuti e il gioco è fatto, 'Space Age DJ' un boogie da tarda notte, di quelli che non passano mai di moda finché ci si diverte, 'Sailing On A Thunderstorm' e la conclusiva 'You' re The Revolution' sono puro classic rock che potrebbero essere state scritte in qualunque anno degli ultimi cinquant'anni, mentre la quieta 'Sound Of Sirens' strizza l'occhio ai 60 e al brit pop dei fratelli Gallagher, accompagnato da un video esplicito sulle influenze del trio svedese (Jesper Lindgren, Jonas Erikson, Ludving Andersson) "con il video vogliamo celebrare da dove veniamo: gli anni '70. Kiss, ABBA, Slade e il glam rock/pop in generale hanno significato molto per noi nella nostra educazione musicale. Influenze degli anni '70 nelle immagini e nella musica ma con il suono di oggi.”
Ecco i Velvet Insane sono questo. Rock'n'roll e nulla di più, nulla di meno. A volte può bastare, no?
venerdì 6 agosto 2021
RECENSIONE: LOS LOBOS (Native Sons)
greetings from LA
Ecco servito il disco dell'estate. Nulla di nuovo sotto il caldo sole della corazzata Los Lobos. Anche loro si accodano ai tanti dischi di cover usciti quest'anno: alcuni belli, altri utili come la grandine di questi giorni dalle nostre parti. La differenza è che qui si balla e si suda meglio che altrove, le canzoni sono registrate bene e la varietà musicale sembra per una volta vincente e appropriata. Decidono di omaggiare i musicisti e la città di Los Angeles. Radici e gratificazione viaggiano sullo stesso pedalò in mare o se volete sfrecciano sullo stesso monopattino nei marciapiedi del lungomare di Venice Beach. Dimostrazione di quante anime musicali la band dei lupi è in grado di indossare, sempre comodamente senza mai fare brutte figure. Gli abiti anche stropicciati bisogna saperli indossare
Il divertimento e l'impegno, la gioia e il dolore sono sempre state componenti di casa.
Che si tratti della rumba chicana dell'amico Lalo Guerrero ('Los Chucos Suaves'), del funk barricadero con targa seventies dei War ('The World Is A Ghetto'), del rockabilly travolgente tra fifties e eighties dei Blasters guidati dai fratelli Alvin ('Flat Top Joint'), delle atmosfere sognanti della strumentale 'Where Lovers Go' (The Jaguars), del trascinante rock dei chicani Thee Midniters ('Love Special Delivery'), uno dei gruppi più importanti per la formazione dei Los Lobos, e ancora il country blues dei Buffalo Springfield (il medley 'Bluebird/For What It' s Worth'), le ballate di Jackson Browne ('Jamaica Say You Will') , i Beach Boys ('Sail On Sailor').
"Non potrei dire che ci sia un filo conduttore per tutti questi artisti, ma in un certo senso è proprio questo che rende grande LA. Hai R&B e punk rock e rock-and-roll e folk, e in qualche modo convivono insieme in questa strana città che tutti chiamiamo casa" dice Steve Berlin.
E allora ascoltando il disco e chiudendo gli occhi ci si immerge nelle mille e più facce di LA, un secondo prima sei sotto il sole e la polvere di Mulholland Drive, un secondo dopo tra le luci e lo shopping di Rodeo Drive. Un secondo prima tra il travolgente garage dei Premiers ('Farmer Jihn'), un secondo dopo tra le braccia latine e romantiche di Willie Bobo ('Dichoso'). È solo questione di tempo. Sempre prezioso.
I Los Lobos per ribadire il concetto di appartenenza ci aggiungono una canzone, 'Native Son', scritta di loro pugno, l'unica di queste tredici. Buona estate.
domenica 1 agosto 2021
RECENSIONE: RODNEY CROWELL (Triage)
RODNEY CROWELL - Triage (Thirty Tigers, 2021)
esperienza
Difficilmente uno come Rodney Crowell sbaglia un disco: ha sempre qualcosa di buono da raccontare. È uno degli ultimi songwriter di razza rimasti, quella della vecchia scuola, quelli che sanno ancora incastrare bene pensieri, parole e note. Uno che ha scritto per tanti e l'elenco sarebbe veramente lungo e prestigioso. Un precursore che, nonostante stima e riconoscimenti, non ha mai ricevuto in toto i meriti per una carriera lunga e ricca, al traguardo dei settant'anni lo meriterebbe.
Triage, il suo diciottesimo disco prodotto insieme a Dan Knobler, è pregno di belle canzoni (e tanti musicisti), tanto cariche di redenzione e introspezione ma che, nonostante escano dopo il periodo a tinte grigie della pandemia, cercano con forza il conforto nell'amore universale (il ritmato blues elettrico di 'I' m All Aboout Love') e nel possibile cambiamento ('Something Has To Change' con il trombone a disegnare scie nella notte). L'ideale prosecuzione degli ultimi due album: il personale e autobiografico Close Ties (2017) e Texas uscito nel 2019, dedicato ai suoi luoghi di nascita.
Alcune canzoni come il (quasi) talkin' di 'Transient Global Amnesia Blues' (dove nel testo è citato pure Bob Dylan) e l'iniziale 'Don' t Leave Me Now' che parte come un folkie in solitaria per trasformarsi in un ritmato Irish rock, sono così penetranti da rimanere in testa fin dal primo ascolto. Una scrittura che oscilla tra il country di 'One Little Bird' (con l'armonica di Rory Hoffman), il R&B di 'Triage', il folk di Hymn #43' (dove compare pure l'ex moglie di Crowell, Rosanne Cash e scritta con l'attuale marito di lei, John Leventhal), il soft rock di 'This Body Isn't All There Is To Who I Am' che si addentra nell'immortalità, ma che non abbandona mai quel suono americana che lui stesso contribuì a forgiare a Nashville nei settanta con la buona compagnia di altri texani come lui (Townes Van Zandt, Guy Clark).
Con Triage, Rodney Crowell vuole portarci a riflettere sul nostro percorso di vita e in una recente intervista ha pure svelato cosa vorrebbe far provare all'ascoltatore con la sua musica: "un senso di piacere, un senso di armonia, e in particolare vorrei si avvicinasse di più a una sorta di armonia con la natura e con il pianeta". Allora: proviamoci!
lunedì 26 luglio 2021
RECENSIONE: ANDREA VAN CLEEF & DIEGO DEADMAN POTRON (Safari Station)
ANDREA VAN CLEEF & DIEGO DEADMAN POTRON Safari Station (Rivertale, 2021)
next stop...
In adolescenza l'estate aveva due facce nello stesso luogo. C'era quella sudaticcia da tormentone estivo, chiassosa e disordinata, a tratti invivibile, ubicata tra un campeggio affollato, sempre sold out, e il centro città caotico al sopraggiungere della sera, poi bastava mettersi nelle sapienti mani di un Caronte dai capelli lunghi e ancora neri nonostante l'età, che di notte faceva il pescatore, con i suoi jeans arrotolati fino al ginocchio, la camicia aperta che lasciava intravedere i peli bianchi del petto e la pelle bruciata dal sole: con il suo motoscafo ti accompagnava verso l'altra facciata. Quella dove il sole picchiava ancora più duro, ma il silenzio richiamava la libertà: di spogliarsi, mettersi a nudo senza temere i giudizi altrui, vivere il caldo del sole all'ombra e l'oscurità della notte con un fuoco a fare luce abbracciato alla sorella luna. Ecco, l'ascolto di questo disco mi ha riportato verso quella seconda facciata esotica delle mie lontane estati. Mi pare che Andrea Van Cleef e Diego Potron siano arrivati a questo disco senza rincorrere nulla se non la loro folle voglia di fare musica in un'epoca non facile per cantare canzoni scritte di proprio pugno (avete notato quanti dischi di cover stanno uscendo?): non sono stati fermi a lucidare le loro chitarre con il block notes chiuso accanto, forse chissà, aspettando tempi migliori, mentre là fuori qualcosa si muoveva ma non ancora come ci piaceva una volta (sono solo due anni…paiono un'eternità). E inseguendo la stessa bandiera di libertà creativa, a loro volta Andrea e Diego percorrono ognuno la propria strada, simile ma diversa: quella del bresciano Andrea sembra più sperimentale, a tratti psichedelica (i blues del deserto 'Spiderweb Blues' e 'You and I Were Born For Better Things') e aperta ai suoni del mondo (la liquida 'Mozuela', la cover 'In Zaire" del cantautore britannico Johnny Wakelin, annata 1976), quella del brianzolo Diego più radicata nel folk (' 500 Miles Away') a tratti acido e straniante ('Gang Of Boyz'), esotico ('Kay Zanset') ma è anche sua la più orecchiabile delle dieci tracce: il gospel 'Rise Above All Gods' che apre il disco catturando al primo ascolto.
Si incontrano nel finale desertico, riverberato e sentito di 'Safari Station'.
Un progetto che ha visto nell'instancabile e passionale Paolo Paggetti, patron della Rivertale Records, il gran cerimoniere mentre dalle mani esperte di Antonio Gramentieri (Don Antonio) è arrivata la benedizione in produzione, laggiù nascosti e isolati tra le campagne romagnole.
Andrea e Diego suggellano un'amicizia e un percorso artistico e musicale che spesso si è incrociato come quando nell'autunno del 2020 hanno girato insieme per qualche concerto (ho assistito a quello svoltosi al Bloom, fu il mio primo dopo tanti mesi). Sembrava ci fosse la strada libera per ripartire, fu solo un abbaglio che in qualche modo continua ma che speriamo finisca presto. Intanto ora c'è un disco in più.
mercoledì 21 luglio 2021
RECENSIONE: ROBERT FINLEY (Sharecropper's Son)
sabato 17 luglio 2021
RECENSIONE: THE WALLFLOWERS (Exit Wounds)
THE WALLFLOWERS Exit Wounds (New West Records, 2021)
ali e radici
Un peso enorme. Solo Jakob sa quanto quel cognome sia in grado di piegare una schiena e far perdere la vista dalla strada maestra. E bisogna dirla tutta: Jakob Dylan ha sempre cercato di metterci del suo per non farsi schiacciare da quel macigno di cinque lettere, carne, sangue e ossa. Si è smarcato da un'ombra che solo a pensarla può trasformare in notte anche i raggi più luminosi, fin da quella accoppiata di dischi che fecero partire la carriera dei suoi Wallflowers tra il debutto del 1992 e lo splendido Bringing Down The Horse uscito nel 1996, al tramonto del grunge ma in grado di raccogliere quel che rimaneva.
Poi quando la luce sulla band sembrò veramente affievolirsi ci provò da solo con due dischi cantautorali, acustici, molto personali e prodotti da pezzi da novanta come Rick Rubin e T-Bone Burnett, belli, autentici ma passati un po' in sordina lungo quel suono americana che lui stesso contribuì a svecchiare. I suoi Wallflowers di fatto però non sono mai stati accantonati anche se non hanno mai più brillato così bene in popolarità come ai vecchi tempi quando il loro nome era affiancato ad altri di un certo peso. Almeno fino ad oggi, perché questo Exit Wounds seppur con al fianco nuovi compagni (tra cui Val McCallum, già chitarra di Jackson Browne), nessun componente dell'ultimo Glad All Over uscito nel 2012 è qui presente (perché poi: nessuna formazione della band ha registrato due dischi consecutivi e di fatto Dylan è i Wallflowers), Jakob Dylan si rimette in corsia e viaggia in tutta sicurezza su quelle vecchie strade battute trent'anni fa ma con tutta la consapevolezza, la maturità e il piede leggero sull'acceleratore di oggi.
I Wallflowers non cercano i colpi ad effetto, preferendo l'andatura morbida e sicura della rock ballad costruita su buone melodie, anche pop (la doppietta in apertura formata dalla dylaniana, intesa come padre, 'Maybe Your Heart' s Not In It No More' e 'Roots And Wings' ne è un buon esempio) su cui Dylan canta di nuove speranze all'orizzonte dopo periodi bui che hanno lasciato in ricordo solo cicatrici.
"Voglio cantare canzoni che abbiano un po' di speranza" ha lasciato detto in una recente intervista e le canzoni sono pure nate prima della pandemia, immediatamente dopo la colonna sonora per il documentario Echo in the Canyon.
Un disco, prodotto dall'amico e collega cantautore Butch Walker, che fila splendidamente dall'inizio alla fine (con qualche buona accelerazione come il funky di 'Move The River' o il rock'n'roll di 'Who's That Man Walking' Round My Garden') dove le tastiere di Aaron Embry fanno da morbido tappeto, la slide apre ampi spazi, la seconda voce femminile della cantautrice Shelby Lynne, fortemente voluta da Dylan, è spesso presente dietro a doppiare o duettare, dove la buona stella di Tom Petty illumina sovente la strada indicando la via per scrivere buone canzoni. E queste dieci canzoni, buone lo sono veramente: 'I Hear The Ocean' con quel connubio pianoforte hammond dal forte accento springsteeniano, mentre 'The Daylight Between Us' conclude il disco alla Mark Knopfler con una patina di ricordi e malinconia che vorresti togliere con un colpo di spugna ma poi ti accorgi che sta bene proprio lì dov'è.
Canzoni che non entreranno nella storia, intanto 'The Dive Bar In My Heart' non fa troppa fatica ad entrare nella testa. " Un posto dove vuoi andare ed essere lasciato solo. Non puoi sfuggire ai tuoi pensieri. Saranno sempre con te alla fine, e dovrai affrontarli, ma ci sono momenti della tua giornata in cui vuoi essere lasciato solo con loro e non avere la pressione di risolverli" dice Dylan a proposito di questa canzone. In questi giorni mi sono ritagliato frequentemente un momento della giornata per questo disco. Non è una cosa così scontata e da sottovalutare di questi tempi.
giovedì 8 luglio 2021
RECENSIONE: STÖNER (Stoners Rule)
STÖNER Stoners Rule (Heavy Psych Sounds, 2021)
un buon compito, ora fuori le palle
Bene, non benissimo. Forse benino. Non di più. Fa un caldo tropicale in questi giorni, la copertina sembra promettere la brezza dei deserti del Mojave durante il calare del sole. Macché. Quella che si percepisce durante il Live In The Mojave Desert: Vol IV uscito qualche settimana fa e che fece da presentazione a questa nuova band dal nome non proprio originale.
Metto su il CD comprato sulla fiducia: 2/4 dei vecchi KYUSS vorranno pur dire qualcosa. Lo ascolto, con gli occhi che sbirciano un campo da calcio sfocato in TV. Fuori non vola una mosca, come da tradizione estiva quando ci sono partite di calcio, il basso di Nick Oliveri fa tremare le persiane aperte, la chitarra di Brant Bjork non si inventa nulla di troppo originale dentro a giri blues pesanti e circolari ('Own Yer Blues'), la sua voce ha poche sfumature come già la conosciamo, la batteria di Ryan Gut accompagna ma non fa certo la differenza in un suono dalla produzione volutamente lo fi, monocorde e non esaltante.
Solo 'Evel Never Dies' cantata da Oliveri che si getta a capofitto sul punk affondato sulla sabbia, una 'Stand Down' bella dinamica, psichedelica e carica di feedback (la track migliore per me) e i tredici minuti della finale 'Tribe/Fly Girl' con la sua lunga coda jammata sembrano dare qualche scossa a un disco di fin troppo mestiere di un gruppo che sceglie di chiamarsi come il genere musicale suonato ma che in qualche modo hanno contribuito a inventare, trent'anni fa però. Infatti, quando 'The Older Kids', 'Nothin', e 'Rad Stays Rad' partono ti aspetti l'entrata fumosa dei fuoriclasse che non arriva quasi mai.
Un disco carico di aspettative che manca però di quel dinamismo, quel tocco groove, dei riff e di fantasia che solo un Josh Homme o un John Garcia dei vecchi tempi (ma anche di oggi) potevano regalare.
Quest'anno Blues For The Red Sun compie esattamente 29 anni. L'ho ascoltato subito dopo. Voi non fatelo se volete godervi un po' questo disco.
giovedì 1 luglio 2021
RECENSIONE: GUY DAVIS (Be Ready When I Call You)
lunedì 21 giugno 2021
RECENSIONE: LUKAS NELSON & PROMISE OF THE REAL (A Few Stars Apart)
sabato 19 giugno 2021
RECENSIONE: RYAN ADAMS (Big Colors)
RYAN ADAMS - Big Colors (PAX AM Records, 2021)
gattini, sole e pioggia
"Farò uscire tre dischi in un anno", lo aveva promesso due anni fa quasi fosse una minaccia, prima che tutto iniziasse e lo travolgesse, e non sto parlando della fottuta pandemia. Accantonato (forse) lo scandalo che lo ha coinvolto (inutile ritornarci su viste le tante parole spese, buone e cattive) Ryan Adams si appresta a mantenere la parola e guardando al suo passato sappiamo che sarà proprio così: due dischi su tre sono già usciti in questi primi sei mesi del 2021. Il terzo arriverà a fine anno.
La cosa bella per ora è che sono tutti e due ottimi, pure diversi tra loro, anche se il velo di malinconia che li permea è lo stesso. Wednesdays era un campionario delle sue fragilità incollato su canzoni piene di sofferenza, acustiche e scarne, dai toni grigio scuro, Big Colors invece è un'esplosione di varietà, sia nei temi che musicalmente. "La colonna sonora di un film del 1984 che esiste solo nella mia anima", così l'ha presentato Adams. Il sole della California incontra la pioggia di New York, gli eighties musicali nel basso battente di 'Do Not Disturb' spettinati dal vento new wave, il rock'n'roll psychobilly in tinte dark della graffiante 'Power', una mosca fuor d'acqua che spezza e funziona lì in mezzo, il rock della pettyana 'Middle Of The Line' e di 'I Surrender' con il suo grido esistenziale, gli archi che accompagnano 'Showtime', l'omaggio a una città come Manchester che gli ha fatto conoscere tantissima musica, la componente acustica ancora ben presente in 'What Am I?' e 'In It For The Pleasure'. Gli ospiti Benmont Tench e John Mayer in 'Fuck The Rain'. La chitarra di Bob Mould in 'Summer Rain'.
Al mondo esistono quelli che di Ryan Adams si prendono tutto, pacchetto completo (pure l'introvabile Orion), quelli che lo hanno abbandonato dopo i primissimi dischi ("ah quel debutto ineguagliato!"), quelli che non lo sopportano da sempre ("un personaggio spocchioso!"), quelli che non lo hanno perdonato ("l'ha fatta troppo grossa questa volta!. Basta, l'uomo arriva prima dell'artista!"). Quelli che forse lo perdoneranno o l'hanno già fatto (" in fondo la legge non lo ha condannato! "). L'unica cosa certa è che Ryan Adams con questa doppietta ci dimostra che sta vivendo un momento di alta ispirazione. Perché non goderne?
"Big Colors vuole essere come un sogno ad occhi aperti, un disco che mi è arrivato più di quanto io l'abbia voluto". E allora è bello entrare ancora in questo sogno in sua compagnia. A parte il prezzo del disco non costa nulla.
domenica 13 giugno 2021
RECENSIONE: CEK FRANCESCHETTI (Sarneghera Stomp)
CEK FRANCESCHETTI Sarneghera Stomp (Slang Records, 2021)
incroci sul lago
Con un po' di immaginazione lo si può vedere il piccolo e curioso Andrea Franceschetti mentre in piedi davanti alle sponde del suo lago, sotto un cielo nero, tanti anni fa, attende l'arrivo della Sarneghera, nome dato alla forte tempesta proveniente da sud che si abbatte sul lago soprattutto nelle calde giornate estive, mentre da lontano una voce famigliare gli intima di rientrare presto in casa: potrebbe essere pericoloso. Siamo a Pisogne, l'ultimo dei paesi sul lago di Iseo salendo verso la bassa Valcamonica. Come la più violenta delle tempeste, il nuovo disco del bluesman bresciano irrompe in un momento che sa di rinascita, anche se dentro si porta dietro tutte le ansie, le paure, le perdite (il disco è dedicato al padre scomparso a inizio pandemia) e poi le speranze di un anno di lockdown che lo ha comunque visto nascere.
"All this world have been set on fire, I'm locked down in my room, I keep on punchin' my own hangin' bag I'm Spittin' out all my blood" canta nell'apertura 'Moanin' Rain'.
Dieci canzoni pure e genuine, violente e distese come la caduta dei chicchi di grandine sull'acqua, registrate in soli quattro giorni negli studi di registrazione dell'amico Carlo Poddighe a Brescia e masterizzato da David Farrel a New Orleans (USA), usando solo chitarra resophonica, voce e stomp. Non serve altro al Cek per farci capire con quanta naturalezza sa maneggiare il verbo del blues. Chi lo conosce lo sa bene, tutti gli altri dovrebbero cercare la data più vicina per farsene un'idea e lui è uno che non si formalizza troppo, potreste trovarlo anche sopra al tetto della casa adiacente alla vostra appena aprite la finestra al canto del gallo nelle prime ore del mattino, a qualunque ora del giorno o meglio della notte.
Non c'è il rischio di rimanere delusi ma di innamorarsene sì. Ma è un rischio che vale la pena di affrontare. Se togliamo le presenze "pesanti" di Andy J Forest (armonica in un paio di tracce), Luca Manenti (acustica in 'Maybe Tomorrow') e Roberto Luti, chitarra ospite in tre canzoni tra cui 'I Don’t Live Today' di Jimi Hendrix (una delle due cover presenti insieme a una sorprendente 'Maybe Tomorrow' degli Stereophonics che lo stesso Cek dice essere "un blues camuffato" già nella versione originale) qui dentro c'è la sua vera essenza primordiale. E come la Sarneghera, la cui nascita è avvolta nella leggenda di due innamorati morti sui fondali del lago d'Iseo, il Cek sa essere prima seducente ('Lady Lake'), poi minaccioso ('Chicks And Wine') e infine impetuoso nel gioco di squadra di 'Horny Dog'. Canta dei suoi affetti ('Home Lake Blues'), di un amico diavolo sempre dietro l'angolo ('Breakin' Deal') conclude il disco con una bellissima e sorprendente 'Nothin 'At All', acustica con voce fantasticamente impostata.
Passata la bufera, ritorna la calma. Ma attenzione tutto si ripete ciclicamente e quando meno te lo aspetti. Un occhio al cielo, uno alle acque del lago…e uno ai tetti se potete.
lunedì 7 giugno 2021
RECENSIONE: BILLY GIBBONS (Hardware)
BILLY GIBBONS Hardware (Concord REcords, 2021)
Un, dos, tres
Dopo la sbornia cubana di Perfectamundo, l'omaggio al blues di The Big Bad Blues, il terzo album solista di BILLY GIBBONS pare quello uscito meglio, sicuramente il più vario e divertente. C'è tutto il suo universo lungo più di cinquant'anni di onorata presenza lungo l'autostrada della musica. Modellato su blues polverosi in pieno ZZ Top style (lo shuffle di 'Shuffle, Stop & Slide' è esplicito all'inverosimile), possenti rock ('My Lucky Card' e 'S-G-L-M-B-B-R'), tuffi nei sixties in salsa surfer ('West Coast Junkie') che farebbero innamorare Quentin Tarantino, dove auto lucidate a nuovo e donne da amare e conquistare (il rock stonesiano 'She' s On Fire', 'More More More' con il suo riff in piena regola industrial anni novanta) viaggiano spesso insieme come avviene nella zztopiana 'I Was The Highway' dove si consuma pure un delitto, mentre la lenta e riflessiva 'Vagabond Man' si carica sul portapacchi migliaia di chilometri on the road, consumati di città in città, di tour in tour.
L' immagine dei deserti è predominante come ama ripetere nelle interviste: il disco è stato registrato a Palm Springs e nel misterioso spoken 'Desert High' compaiono pure i fantasmi di Gram Parsons e Jim Morrison, due le cui impronte nella sabbia paiono ancora visibili. Mentre nella straniante e psichedelica 'Spanish Fly' è inevitabile volare sulle ali delle sostanze stupefacenti.
C'è la sua inconfondibile chitarra che sparge assoli, la voce roca e consumata, una band formata da Matt Sorum (batteria) e Austin Hanks (chitarre) ormai super oliata che partecipa attivamente alla stesura dei brani (a parte la cover della latineggiante 'Hey Baby, Que Paso') e le giovani amiche Larkin Poe che rendono più sbarazzino e leggero il tosto blues 'Stackin' Bones'.
Potrebbe già essere il disco dell'estate con qualche settimana in anticipo. La temperatura è sicuramente quella giusta.
mercoledì 2 giugno 2021
RECENSIONE: BLACKBERRY SMOKE (You Hear Georgia)
greetings from Georgia
Pur reggendosi sulla leadership del cantante e chitarrista Charlie Starr, chi ha visto almeno una volta dal vivo la band sa quanto il lavoro di squadra sia il loro vero punto di forza. I loro concerti non deludono. Questo nuovo album, registrato in soli dieci giorni e già pronto da circa un anno ("ci siamo chiesti se era il caso di farlo uscire senza presentarlo dal vivo" dice Starr, la risposta è ora nelle nostre orecchie) sembra enfatizzare la loro forza da live band, anche grazie al lavoro in produzione, alla vecchia maniera analogica, dell'esperto Dave Cobb dentro agli storici RCA Studios A di Nashville. Al passato guarda anche il disegno di copertina, una cartolina dalla loro Georgia, terra di grandi band (dai Black Crowes andando indietro) ma anche di ingombranti luoghi comuni che proprio la title track vuole sfatare e portare a galla. Dentro a queste dieci canzoni c'è tutto ciò che è necessario per confermare quanto Gregg Allman lasciò detto qualche anno fa prima di morire, predicendo un roseo futuro, una cosa tipo "riporteranno il southern rock sulla giusta strada" che suonava un po' come una benedizione o un battesimo dentro alle acque del fiume Chattahoochee.
Una strada fatta di canzoni rock, solide, epiche e pesanti ('Morninside'), funky ('Live It Down'), tirate come 'All Rise Again' con la chitarra e la voce ospite di Warren Haynes, prima di una serie di pezzi che Haynes e Starr sembra abbiano scritto insieme. Ma anche di limpide e ariose camminate West Coast come 'Ain' t the Shame' anche se nel testo si narra dei problemi di un veterano di guerra, saltellanti funky colorati di nero che chiamano in causa i Little Feat ('Hey Delilah'), boogie da asfalto e polvere come 'All Over The Road' che ha il primigenio tiro dei concittadini Black Crowes, poi la loro immancabile country side che esce prepotente nell'acustica pennellata old style di 'Old Enough To Know' che guarda a Willie Nelson e in 'Lonesome For a Livin' un lento walzer insieme a Jamey Johnson, un omaggio a George Jones, leggenda della country music, scomparso nel 2013. 'Old Scarecrow' chiude con le chitarre di Starr e Paul Jackson in bella evidenza in una canzone caratterizzata da continue esplosioni elettriche.
Fa un po' sorridere leggere ancora in giro che i Blackberry Smoke siano considerati il futuro del southern rock vista l'ormai ventennale carriera, certamente rappresentano bene il presente di un genere che periodicamente, tra iella, disgrazie e grandi perdite, sa comunque come rigenerarsi. E nel genere, guardare al passato è fondamentale.
sabato 29 maggio 2021
RECENSIONE: JOHN HIATT With The JERRY DOUGLAS Band (Leftover Feelings)
ritorno a Nashville
Avevamo lasciato John Hiatt a farsi ispirare all'ombra di un'eclissi lunare, lo ritroviamo tre anni dopo chiuso dentro agli storici RCA Studio B a Nashville insieme a Jerry Douglas e la sua band a registrare un disco che esce fuori perfettamente riuscito e che in qualche modo chiude il lungo cerchio della sua carriera che proprio da Nashville prese il via. "Sono stato immediatamente catapultato al 1970, quando sono arrivato a Nashville" ha scritto nel suo sito. Stanze insonorizzate impregnate di storia che avvolgono Hiatt e Douglas in un abbraccio che pare quanto più famigliare. Certamente caldo e ispirato.
"Tutta la musica che è stata fatta lì, la puoi sentire uscire dai muri" racconta Hiatt.
Un reciproco rispetto tra i due nato lontano nel tempo ma che solo ora ha preso forme concrete "ho molto rispetto per lui, anche prima che avessimo mai fatto qualcosa insieme" spiega Douglas.
Si suona tutti uniti, con una classica strumentazione da bluegrass band: niente batteria ma violino, basso, chitarre elettriche e acustiche, su cui svetta la dobro di Douglas (anche un mago con la lap steel e produttore del disco) sono i soli ingredienti di queste undici canzoni elettro acustiche che come sempre abbracciano forte l'amore, la strada, la vita fino ad arrivare a toccare il suicidio del fratello Michael, avvenuto quando lui aveva solo undici anni nella crepuscolare 'Light of the Burning Sun', vero punto focale del progetto.
L'inconfondibile voce di Hiatt, che il tempo, (68 anni) ha reso solo un po' più roca, fa il resto. Un lavoro di sottrazione che tende ad arricchire, messo in piedi in sole quattro sedute di registrazione, buon esempio da seguire per chi è invece abituato ad aggiungere sempre e comunque, fino ad esagerare. Qualche buon up tempo rock'n'roll blues infarcito di groove come 'Long Black Electric Cadillac,' Little Goodnight e 'Keen Rambler', il country sbuffante di 'All The Lilacs in Ohio' e ballate country folk come 'The Music Is Hot', un vero atto di fede, e 'I'm in Asheville', fanno di Leftover Feelings l'ennesimo disco riuscito di una carriera tanto prolifica quanto tarata quasi sempre verso i livelli dell'eccellenza. Una continuità con l'intera carriera confermata anche dalla copertina, con quella tazza di caffè (o the?) che, pure con qualche capello bianco in più, sembra riportare al retro copertina di Bring The Family, certamente tra i suoi vertici di sempre.
domenica 23 maggio 2021
RECENSIONE: THE REVEREND PEYTON'S BIG DAMN BAND (Dance Songs For Hard Times)
THE REVEREND PEYTON'S BIG DAMN BAND Dance Songs For Hard Times (Family Owned Records,2021)
Torna quel "canotta a tutta chitarra" di Reverend Peyton, naturalmente insieme alla moglie Breezy sempre impegnata con la sua instancabile washboard e Max Senteney alla batteria: uno dei più bizzarri e genuini personaggi che popolano la roots music americana, talento innato di fingerpicking che negli anni si è guadagnato tante prime pagine nelle riviste specializzate di chitarre.
Un disco nato in piena pandemia che ha dovuto lottare duramente con il Covid e le sue conseguenze che hanno colpito da vicino la moglie, alcuni suoi famigliari e tanti amici, a volte anche in maniera durissima. Canzoni dai testi non troppo sereni (dalle pessime condizioni finanziarie eredità della pandemia cantate nel blues alla Bo Diddley d'apertura ' Ways And Means', all'aiuto dall'alto invocato in 'Come Down Angels' un gospel sui generis) ma che "surfano" su questi tempi difficili con la consueta irruenza e vivacità di sempre.
"Mi piacciono le canzoni che suonano felici ma in realtà sono molto tristi" dice lui.
Country blues innaffiato di rockabilly (la veloce 'Rattle Can'), l'irresistibile invito a cogliere l'attimo della ballabile 'Too Cool To Dance' ("sembra quasi una canzone degli anni '50 andata perduta" dice) , il blues di 'No Tellin' When' e 'Sad Songs', lo swamp boogie di 'Nothing Easy But You And Me' sono state registrate senza troppe sovraincisioni, cantate in presa diretta come se fossimo tutti seduti lì, intorno all'aia, circondati da porci, galline e fieno svolazzante. Naturalmente tutti vicini, abbracciati e con un bicchiere in mano perché la pandemia nel frattempo è svanita.