lunedì 26 luglio 2021

RECENSIONE: ANDREA VAN CLEEF & DIEGO DEADMAN POTRON (Safari Station)

 

ANDREA VAN CLEEF & DIEGO DEADMAN POTRON  Safari Station (Rivertale, 2021)

next stop...

In adolescenza l'estate aveva due facce nello stesso luogo. C'era quella sudaticcia da tormentone estivo, chiassosa e disordinata, a tratti invivibile, ubicata tra un campeggio affollato, sempre sold out, e il centro città caotico al sopraggiungere della sera, poi bastava mettersi nelle sapienti mani di un Caronte dai capelli lunghi e ancora neri nonostante l'età, che di notte  faceva il pescatore, con i suoi jeans arrotolati fino al ginocchio, la camicia aperta che lasciava intravedere i peli bianchi del petto e la pelle bruciata dal sole: con il suo motoscafo ti accompagnava verso l'altra facciata. Quella dove il sole picchiava ancora più duro, ma il silenzio richiamava la libertà: di spogliarsi, mettersi a nudo senza temere i giudizi altrui, vivere il caldo del sole all'ombra e l'oscurità della notte con un fuoco a fare luce abbracciato alla sorella luna. Ecco, l'ascolto di questo disco mi ha riportato verso quella seconda facciata esotica delle mie lontane estati. Mi pare che Andrea Van Cleef e Diego Potron siano arrivati a questo disco senza rincorrere nulla se non la loro  folle voglia di fare musica in un'epoca non facile per cantare canzoni scritte di proprio pugno (avete notato quanti dischi di cover stanno uscendo?): non sono stati fermi a lucidare le loro chitarre con il block notes chiuso accanto, forse chissà, aspettando tempi migliori, mentre là fuori qualcosa si muoveva ma non ancora come ci piaceva una volta (sono solo due anni…paiono un'eternità). E inseguendo la stessa bandiera di libertà creativa, a loro volta Andrea e Diego percorrono ognuno la propria strada, simile ma diversa: quella del bresciano Andrea sembra più sperimentale, a tratti psichedelica (i blues del deserto 'Spiderweb Blues' e  'You and I Were Born For Better Things') e aperta ai suoni del mondo (la liquida 'Mozuela', la cover 'In Zaire" del cantautore britannico Johnny Wakelin, annata 1976), quella del brianzolo Diego più radicata nel folk (' 500 Miles Away') a tratti acido e straniante ('Gang Of Boyz'), esotico ('Kay Zanset')  ma è anche sua la più orecchiabile delle dieci tracce: il gospel  'Rise Above All Gods' che apre il disco catturando al primo ascolto. 

Si incontrano nel finale desertico, riverberato e sentito di  'Safari Station'. 

Un progetto che ha visto nell'instancabile e passionale Paolo Paggetti, patron della Rivertale Records, il gran cerimoniere mentre dalle mani esperte di Antonio Gramentieri (Don Antonio) è arrivata la benedizione in produzione, laggiù nascosti e isolati tra le campagne romagnole. 

Andrea e Diego suggellano un'amicizia e un percorso artistico e musicale che spesso si è incrociato come quando nell'autunno del 2020 hanno girato insieme per qualche concerto (ho assistito a quello svoltosi al Bloom, fu il mio primo dopo tanti mesi). Sembrava ci fosse la strada libera per ripartire, fu solo un abbaglio che in qualche modo continua ma che speriamo finisca presto. Intanto ora c'è un disco in più.








mercoledì 21 luglio 2021

RECENSIONE: ROBERT FINLEY (Sharecropper's Son)

ROBERT FINLEY 
 Sharecropper's Son (Easy Eye Sound, 2021) 




l'età giusta non esiste

"Eccomi qui alla mia età, solo ora sto realizzando il mio sogno d'infanzia… non permettere mai a nessuno di dirti cosa non puoi fare". A volte abbiamo bisogno delle favole a lieto fine per andare avanti e credere ancora in qualcosa. La musica non è esente, se ben setacciata, anzi, ne è fucina inesauribile. La storia di Robert Finley non è che una delle ultime favole a lieto fine infarcita di verità e leggende, ricordando da vicino quella (vera, falsa, ricamata?) di Seasick Steve per restare ai nostri tempi: un giovane della Louisiana, che a diciannove anni nel 1974 lascia i campi di cotone a Bernice e si arruola nell’esercito americano, unico modo sicuro per poter aiutare economicamente la madre. Con l’esercito arriva in una base americana in Germania e proprio in Europa, in mezzo al dovere (chiamiamolo così) ha modo di sviluppare la sua grande passione per la musica con la band dell’esercito: cresciuto a pane, acqua e gospel (a undici anni si comprò la prima chitarra con i soldi che il padre gli diede per un nuovo paio di scarpe), scalzo e con James Brown, B.B. King e i Temptations perennemente in testa, iniziò il suo lungo cammino. Tornato in Usa dopo il duro lavoro da carpentiere capisce però che la sua vera strada è la musica, complice la cecità che avanza mandandolo in pensione prima del previsto. La strada è però ancora dura e tutta in salita. Fino al 2015 girava vie secondarie e piccoli locali mentre a 64 anni si trovò a registrare un disco insieme a Gene Chrisman ( Elvis Presley band) e a mostri sacri come Duane Eddy, Bobby Woods e la Preservation Hall. Arriva alla musica che conta con GOIN’ PLATINUM! (dopo l’esordio Age Don't Mean a Thing del 2016), il primo disco a uscire per la nuova etichetta di Dan Auberbach, Easy Eye Sound. 
Già fu proprio “prezzemolo” Auberbach a prendere questo vecchio bluesman sotto la sua ala protettrice, invitarlo nel suo mondo, lo stesso che gravitava intorno al suo ultimo album solista (le canzoni furono scritte da lui, John Prine, Nick Love, Pat McLaughlin) e a fargli fare il grande salto. “Ho capito le capacità di Robert di andare oltre le canzoni blues. È un grande chitarrista blues, ma se posa la chitarra e si mette davanti ad un'orchestra può diventare come Ray Charles.” Così lo presenta Aurbach, sottolineando anche la cecità che lo ha colpito. Black Keys meets blues singer. 
Ora a tre anni di distanza, con gli States mainstream che lo conoscono attraverso America's Got Talent, la fama raggiunta (per chi invece è curioso di musica), esce questo Sharecropper's Son (figlio di un mezzadro) che diventa la sua autobiografia in canzoni (scritte con Auerbach e Bobby Wood), un vero concept dove la dura infanzia nei campi di cotone ('Country Child'), la speranza di una vita migliore ('Starting To See'), la fede ('All My Hope'), l'amore ('Sculed Out Of You' con i fiati dietro), i sogni legati alla musica si uniscono in dieci brani che bagnano letteralmente i piedi nelle acque stantie ma sempre fresche del blues (la languida 'My Story'), nel retro soul ('My Story'), nel gospel, nel R&B notturno ('I Can Feel Your Pain'), nel country, in quelle atmosfere calde e umide del sud così potenti da annebbiare i contorni e rinforzare il cuore. 
 Condotte dalla sua voce, che passa con facilità disarmante dal falsetto alle note gutturali, da trascinanti shuffle a famigliari abbracci soul resi possibili da una formazione di musicisti incredibili tra cui spiccano le chitarre di Kenny Brown, Billy Sanford e Russ Pahl, il batterista Gene Chrisman, le percussioni di Sam Bacco e il basso di Nick Movshon
 Robert Finley è l'uomo che vorremmo dentro a ognuno di noi, anche se ora, a differenza sua, siamo costretti a scappare in campagna per ritrovarci.






sabato 17 luglio 2021

RECENSIONE: THE WALLFLOWERS (Exit Wounds)

THE WALLFLOWERS   Exit Wounds (New West Records, 2021)



ali e radici

Un peso enorme. Solo Jakob sa quanto quel cognome sia in grado di piegare una schiena e far perdere la vista dalla strada maestra. E bisogna dirla tutta: Jakob Dylan ha sempre cercato di metterci del suo per non farsi schiacciare da quel macigno di cinque lettere, carne, sangue e ossa. Si è smarcato da un'ombra che solo a pensarla può trasformare in notte anche i raggi più luminosi, fin da quella accoppiata di dischi che fecero partire la carriera dei suoi Wallflowers tra il debutto del 1992 e lo splendido Bringing Down The Horse uscito nel 1996, al tramonto del grunge ma in grado di raccogliere quel che rimaneva. 

Poi quando la luce sulla band sembrò veramente affievolirsi ci provò da solo con due dischi cantautorali, acustici, molto personali e prodotti da pezzi da novanta come Rick Rubin e T-Bone Burnett, belli, autentici ma passati un po' in sordina lungo quel suono americana che lui stesso contribuì a svecchiare. I suoi Wallflowers di fatto però non sono mai stati accantonati anche se non hanno mai più brillato così bene in popolarità come ai vecchi tempi quando il loro nome era affiancato ad altri di un certo peso. Almeno fino ad oggi, perché questo Exit Wounds seppur con al fianco nuovi compagni (tra cui Val McCallum, già chitarra di Jackson Browne), nessun componente dell'ultimo Glad All Over uscito nel 2012 è qui presente (perché poi: nessuna formazione della band ha registrato due dischi consecutivi e di fatto Dylan è i Wallflowers), Jakob Dylan si rimette in corsia e viaggia in tutta sicurezza su quelle vecchie strade battute trent'anni fa ma con tutta la consapevolezza, la maturità e il piede leggero sull'acceleratore di oggi. 

I Wallflowers non cercano i colpi ad effetto, preferendo l'andatura morbida e sicura della rock ballad costruita su buone melodie, anche pop (la doppietta in apertura formata dalla dylaniana, intesa come padre, 'Maybe Your Heart' s Not In It No More' e 'Roots And Wings' ne è un buon esempio) su cui Dylan canta di nuove speranze all'orizzonte dopo periodi bui che hanno lasciato in ricordo solo cicatrici. 

"Voglio cantare canzoni che abbiano un po' di speranza" ha lasciato detto in una recente intervista e le canzoni sono pure nate prima della pandemia, immediatamente dopo la colonna sonora per il documentario Echo in the Canyon.  

Un disco, prodotto dall'amico e collega cantautore Butch Walker, che fila splendidamente dall'inizio alla fine (con qualche buona accelerazione come il funky di  'Move The River' o il rock'n'roll di 'Who's That Man Walking' Round My Garden') dove le tastiere di Aaron Embry fanno da morbido tappeto, la slide apre ampi spazi, la seconda voce femminile della cantautrice Shelby Lynne, fortemente voluta da Dylan, è spesso presente dietro a doppiare o duettare, dove la buona stella di Tom Petty illumina sovente la strada indicando la via per scrivere buone canzoni. E queste dieci canzoni, buone lo sono veramente: 'I Hear The Ocean' con quel connubio pianoforte hammond dal forte accento springsteeniano, mentre 'The Daylight Between Us' conclude il disco alla Mark Knopfler con una patina di ricordi e malinconia che vorresti togliere con un colpo di spugna ma poi ti accorgi che sta bene proprio lì dov'è. 

Canzoni che non entreranno nella storia, intanto 'The Dive Bar In My Heart' non fa troppa fatica  ad entrare nella testa. " Un posto dove vuoi andare ed essere lasciato solo. Non puoi sfuggire ai tuoi pensieri. Saranno sempre con te alla fine, e dovrai affrontarli, ma ci sono momenti della tua giornata in cui vuoi essere lasciato solo con loro e non avere la pressione di risolverli" dice Dylan a proposito di questa canzone. In questi giorni mi sono ritagliato frequentemente un momento della giornata per questo disco. Non è una cosa così scontata e da sottovalutare di questi tempi.






giovedì 8 luglio 2021

RECENSIONE: STÖNER (Stoners Rule)

STÖNER   Stoners Rule (Heavy Psych Sounds, 2021)



un buon compito, ora fuori le palle

Bene, non benissimo. Forse benino. Non di più. Fa un caldo tropicale in questi giorni, la copertina sembra promettere la brezza dei deserti del Mojave durante il calare del sole. Macché. Quella che si percepisce durante il Live In The Mojave Desert: Vol IV uscito qualche settimana fa e che fece da presentazione a questa nuova band  dal nome non proprio originale. 

Metto su il CD comprato sulla fiducia: 2/4 dei vecchi KYUSS vorranno pur dire qualcosa. Lo ascolto, con gli occhi che sbirciano un campo da calcio sfocato in TV. Fuori non vola una mosca, come da tradizione estiva quando ci sono partite di calcio, il basso di Nick Oliveri fa tremare le persiane aperte, la chitarra di Brant Bjork non si inventa nulla di troppo originale dentro a giri blues pesanti e circolari ('Own Yer Blues'), la sua voce ha poche sfumature come già la conosciamo, la batteria di Ryan Gut  accompagna ma non fa certo la differenza in un suono dalla produzione volutamente lo fi, monocorde e non esaltante. 

Solo 'Evel Never Dies' cantata da Oliveri che si getta a capofitto sul punk affondato sulla sabbia, una 'Stand Down' bella dinamica, psichedelica e carica di feedback (la track  migliore per me) e i tredici minuti della finale 'Tribe/Fly Girl' con la sua lunga coda jammata sembrano dare qualche scossa a un disco di fin troppo mestiere di un gruppo che sceglie di chiamarsi come il genere musicale suonato ma che in qualche modo hanno contribuito a inventare, trent'anni fa però. Infatti, quando 'The Older Kids', 'Nothin', e 'Rad Stays Rad'  partono ti aspetti l'entrata fumosa dei fuoriclasse che  non arriva quasi mai. 

Un disco carico di aspettative che manca però di quel dinamismo, quel tocco groove, dei riff e di fantasia che  solo un Josh Homme o un John Garcia dei vecchi tempi (ma anche di oggi) potevano regalare. 

Quest'anno Blues For The Red Sun compie esattamente 29 anni. L'ho ascoltato subito dopo. Voi non fatelo se volete godervi un po' questo disco.






giovedì 1 luglio 2021

RECENSIONE: GUY DAVIS (Be Ready When I Call You)

GUY DAVIS
  Be Ready When I Call You (M.C. Records, 2021) 



blues dentro
Guy Davis è uno dei migliori bluesman contemporanei e con questo album lo conferma in pieno: sa scrivere canzoni, sa raccontare storie, inserendosi nella tradizione ma rimanendo sempre al passo con i tempi nei suoi testi dove gli immigrati della zingaresca 'I've Looked Around' e i disoccupati del blues 'I Got A Job In The City' sono figli della stessa madre. E lui, invece, è un figlio d'arte che ha saputo mettere da parte, al sicuro, tutti gli insegnamenti dei genitori per crearsi una propria via tra recitazione e musica. E quando decide di salire sul palco con la chitarra ha pochi rivali. In queste tredici canzoni, tutte scritte di suo pugno, tranne 'Spoonful' di Willie Dixon naturalmente, unisce tutto partendo da lontano, dal "fatidico incontro" di Robert Johnson, riletto alla sua maniera in 'Be Ready When I Call You' fino ad arrivare ai giorni nostri con la finale 'Welcome To My World', legata agli ultimi anni politici del suo paese, in un pezzo dal cantato quasi hip hop, ma è veramente l'unica deviazione dal folk blues su cui ruota tutto l'album, in una continua e vincente alternanza che non stanca mai e conquista fin dal primo ascolto. Ci sono canzoni acustiche e canzoni a tutta band con l'Hammond di Professor Louie che fa una gran figura lì dietro. In mezzo tra la sbuffante locomotiva blues di 'Badonkadonk Train' che apre e i folk dylaniani di '200 Days' e di 'Got Your Letter In My Pocket', dove canta del triste massacro nel quartiere Greenwood a Tulsa avvenuto nel 1921, quando la comunità bianca attaccò la comunità afroamericana lasciando dietro di sé morti e feriti, ci mette l'acqua avvelenata che scorre tra gli abitanti di Flint, nel Michigan, nel ritmato e trascinante blues 'Flint River Blues' e il sempre attuale conflitto tra israeliani e palestinesi nel grido triste, antico e folkie di 'Palestine, Oh Palestine', sicuramente tra le più toccanti e significative. Nel retro copertina a confermare quanto sia radicato nel presente, nonostante tutto, impugna un cellulare, lo porta all'orecchio e ascolta se il diavolo che canta con voce da orco domiciliato a New Orleans in 'I Thought I Heard The Devil Call My Name' lo stia veramente chiamando. "Pronto alla chiamata" sembra la risposta. È già tra le mie uscite preferite di quest'anno: a volte basta avere radici profonde per fare bella figura in superficie. Davis possiede radici, canzoni, personalità e carisma.





lunedì 21 giugno 2021

RECENSIONE: LUKAS NELSON & PROMISE OF THE REAL (A Few Stars Apart)

LUKAS NELSON & PROMISE OF THE REAL
 A Few Stars Apart (Fantasy, 2021) 



guarda le stelle

Come tanti altri dischi che stanno uscendo in questi mesi, A Few Stars Apart lo troveremo tra qualche anno andando a cercare nei cassetti sotto l'etichetta "pandemia". Chissà se la scritta sarà sbiadita o ancora vivace? Un ricordo o qualcosa di perpetua attualità? Un disco pensato, nato e cresciuto durante lo stop forzato in casa e per Lukas Nelson era un po' come trovarsi in una gabbia, dorata ma pur sempre una prigione per uno nato praticamente "on the road" e che ha trascorso tutta la sua esistenza tra quattro ruote, l'asfalto, la polvere, le chitarre e i fili elettrici di un palco, prima insieme all'illustre padre quando era solo un ragazzino (allora aggiungiamoci pure i benefici della marijuana) ora con la sua band, senza dimenticare la parentesi ancora aperta con Neil Young. "Non riesco a ricordare l'ultima volta che abbiamo passato così tanto tempo insieme come famiglia" racconta nel suo sito. Già perché Willie Nelson, la moglie e i due figli Lukas e Micah hanno passato insieme quei mesi, superando anche la perdita di una cara amica di famiglia che ha ispirato la title track, una ballata al pianoforte (così come la splendida chiusura 'Smile') nata aspettando una buona stella che potesse invertire questi tempi bui. Un periodo che però è servito anche per riflettere in solitaria (è a tutti gli effetti più un album cantautorale che di squadra) e guardare al passato, rendendo omaggio alla famiglia e ai luoghi che lo hanno visto crescere: le isole Hawaii ma soprattutto il Texas. Registrato in analogico con Dave Cobb al RCA Studio A di Nashville, A Few Stars Apart è un disco che sembra accoglierti in un lungo e caloroso abbraccio: intimo e avvolgente. Fatto di ballate e pochissime scosse elettriche ('Wildest Dream' gioca nel campionato degli Heartbreakers di Tom Petty). Si apre con 'We' ll Be Alright' che ci ricorda, se qualcuno non lo avesse ancora capito chi è il padre di Lukas. La voce, il temperamento, l'andatura sono quelle. E tutto scivola tra una 'Leave'em Behind', western song condotta alla maniera di zio Neil, una 'No Reason', distesa e quasi caraibica e 'Perennial Bloom (Back To You)' che profuma di vecchia west coast anni settanta. Un disco di ballate, limpide e distese a cui manca forse qualche spigolo elettrico in più ma forse per osservare le stelle doveva andare tutto così. Lukas ha dovuto scegliere undici canzoni tra le circa quaranta scritte. E poi c'è quella copertina che sembra riprendere quella di Stardust, disco inciso dal padre nel 1978: un cielo infinito costruito sulle stesse stelle.






sabato 19 giugno 2021

RECENSIONE: RYAN ADAMS (Big Colors)

RYAN ADAMS - Big Colors (PAX AM Records, 2021)



gattini, sole e pioggia

"Farò uscire tre dischi in un anno", lo aveva promesso due anni fa quasi fosse una minaccia, prima che tutto iniziasse e lo travolgesse, e non sto parlando della fottuta pandemia. Accantonato (forse) lo scandalo che lo ha coinvolto (inutile ritornarci su viste le tante parole spese, buone e cattive) Ryan Adams si appresta a mantenere la parola e guardando al suo passato sappiamo che sarà proprio così: due dischi su tre sono già usciti in questi primi sei mesi del  2021. Il terzo arriverà a fine anno. 

La cosa bella per ora è che sono tutti e due ottimi, pure diversi tra loro, anche se il  velo di malinconia che li permea è lo stesso. Wednesdays era un campionario delle sue fragilità incollato su canzoni piene di sofferenza, acustiche e scarne, dai toni grigio scuro, Big Colors invece è un'esplosione di varietà, sia nei temi che musicalmente. "La colonna sonora di un film del 1984 che esiste solo nella mia anima", così l'ha presentato Adams. Il sole della California incontra la pioggia di New York, gli eighties musicali nel basso battente di 'Do Not Disturb' spettinati dal vento new wave, il rock'n'roll psychobilly in tinte dark della graffiante 'Power', una mosca fuor d'acqua che spezza e funziona lì in mezzo, il rock della pettyana 'Middle Of The Line' e di 'I Surrender' con il suo grido esistenziale, gli archi che accompagnano 'Showtime', l'omaggio a una città come Manchester che gli ha fatto conoscere tantissima musica, la componente acustica ancora ben  presente in 'What Am I?' e 'In It For The Pleasure'. Gli ospiti Benmont Tench e John Mayer in 'Fuck The Rain'. La chitarra di Bob Mould in 'Summer Rain'. 

Al mondo esistono quelli che di Ryan Adams si prendono tutto, pacchetto completo (pure l'introvabile Orion), quelli che lo hanno abbandonato dopo i primissimi dischi ("ah quel debutto ineguagliato!"), quelli che non lo sopportano da sempre ("un personaggio spocchioso!"), quelli che non lo hanno perdonato ("l'ha fatta troppo grossa questa volta!. Basta, l'uomo arriva prima dell'artista!"). Quelli che forse lo perdoneranno o l'hanno già fatto (" in fondo la legge non lo ha condannato! "). L'unica cosa certa è che Ryan Adams con questa doppietta ci dimostra che sta vivendo un momento di alta ispirazione. Perché non goderne? 

"Big Colors vuole essere come un sogno ad occhi aperti, un disco che mi è arrivato più di quanto io l'abbia voluto". E allora è bello entrare ancora in questo sogno in sua compagnia. A parte il prezzo del disco non costa nulla.








domenica 13 giugno 2021

RECENSIONE: CEK FRANCESCHETTI (Sarneghera Stomp)

CEK FRANCESCHETTI   Sarneghera Stomp (Slang Records, 2021)


incroci sul lago

Con un po' di immaginazione lo si può vedere il piccolo e curioso Andrea Franceschetti mentre in piedi davanti alle sponde del suo lago, sotto un cielo nero, tanti anni fa, attende l'arrivo della Sarneghera, nome dato alla forte tempesta proveniente da sud che si abbatte sul lago soprattutto nelle calde giornate estive, mentre da lontano una voce famigliare gli intima di rientrare presto in casa: potrebbe essere pericoloso. Siamo a Pisogne, l'ultimo dei paesi sul lago di Iseo salendo verso la bassa Valcamonica. Come la più violenta delle tempeste, il nuovo disco del bluesman bresciano irrompe in un momento che sa di rinascita, anche se dentro si porta dietro tutte le ansie, le paure, le perdite (il disco è dedicato al padre scomparso a inizio pandemia) e poi le speranze di un anno di lockdown che lo ha comunque  visto nascere. 

"All this world have been set on fire, I'm locked down in my room, I keep on punchin' my own hangin' bag I'm Spittin' out all my blood" canta nell'apertura 'Moanin' Rain'. 

Dieci canzoni pure e genuine, violente e distese come la caduta dei chicchi di grandine sull'acqua, registrate in soli quattro giorni negli studi di registrazione dell'amico Carlo Poddighe a Brescia e masterizzato da David Farrel a New Orleans (USA), usando solo chitarra resophonica, voce e stomp. Non serve altro al Cek per farci capire con quanta naturalezza sa maneggiare il verbo del blues. Chi lo conosce lo sa bene, tutti gli altri dovrebbero cercare la data più vicina per farsene un'idea e lui è uno che non si formalizza troppo, potreste trovarlo anche sopra al tetto della casa adiacente alla vostra appena aprite la finestra al canto del gallo nelle prime ore del mattino, a qualunque ora del giorno o meglio della notte. 


Non c'è il rischio di rimanere delusi ma di innamorarsene sì. Ma è un rischio che vale la pena di affrontare. Se togliamo le presenze "pesanti" di Andy J Forest (armonica in un paio di tracce), Luca Manenti (acustica in 'Maybe Tomorrow') e Roberto Luti, chitarra ospite in tre canzoni tra cui 'I Don’t Live Today' di Jimi Hendrix (una delle due cover presenti insieme a una sorprendente 'Maybe Tomorrow' degli Stereophonics che lo stesso Cek dice essere "un blues camuffato" già nella versione originale) qui dentro c'è la sua vera essenza primordiale. E come la Sarneghera, la cui nascita è avvolta nella leggenda di due innamorati morti sui fondali del lago d'Iseo, il Cek sa essere prima seducente ('Lady Lake'), poi minaccioso ('Chicks And Wine') e infine impetuoso nel gioco di squadra di 'Horny Dog'. Canta dei suoi affetti ('Home Lake Blues'), di un amico diavolo sempre dietro l'angolo ('Breakin' Deal') conclude il disco con una bellissima e sorprendente 'Nothin 'At All', acustica con voce fantasticamente impostata. 

Passata la bufera, ritorna la calma. Ma attenzione tutto si ripete ciclicamente e quando meno te lo aspetti. Un occhio al cielo, uno alle acque del lago…e uno ai tetti se potete.





lunedì 7 giugno 2021

RECENSIONE: BILLY GIBBONS (Hardware)

BILLY GIBBONS  Hardware (Concord REcords, 2021)



Un, dos, tres 

Dopo la sbornia cubana di Perfectamundo, l'omaggio al blues di The Big Bad Blues, il terzo album solista di BILLY  GIBBONS pare quello uscito meglio, sicuramente il più vario e divertente. C'è tutto il suo universo lungo più di cinquant'anni di onorata presenza lungo l'autostrada della musica. Modellato su blues polverosi in pieno ZZ Top style (lo shuffle di 'Shuffle, Stop & Slide' è esplicito all'inverosimile), possenti rock ('My Lucky Card' e 'S-G-L-M-B-B-R'), tuffi nei sixties in salsa surfer ('West Coast Junkie') che farebbero innamorare Quentin Tarantino, dove  auto lucidate a nuovo  e donne da amare e conquistare (il rock stonesiano 'She' s On Fire', 'More More More' con il suo riff in piena regola industrial anni novanta) viaggiano spesso  insieme come avviene nella zztopiana 'I Was The Highway' dove si consuma pure un delitto, mentre la lenta e riflessiva 'Vagabond Man' si carica sul portapacchi migliaia di chilometri on the road, consumati di città in città, di tour in tour. 

L' immagine dei deserti è predominante come ama ripetere nelle interviste: il disco è stato registrato a Palm Springs e nel misterioso spoken 'Desert High' compaiono pure i fantasmi di Gram Parsons e Jim Morrison, due le cui impronte nella sabbia paiono ancora visibili. Mentre nella straniante e psichedelica 'Spanish Fly' è inevitabile volare sulle ali delle sostanze stupefacenti. 

C'è la sua inconfondibile chitarra che sparge assoli, la voce roca e consumata, una band formata da Matt Sorum (batteria) e Austin Hanks (chitarre) ormai super oliata che partecipa attivamente alla stesura dei brani (a parte la cover della latineggiante 'Hey Baby, Que Paso') e le giovani amiche Larkin Poe che rendono più sbarazzino e leggero il tosto blues 'Stackin' Bones'. 

Potrebbe già essere il disco dell'estate con qualche settimana in anticipo. La temperatura è sicuramente quella giusta.







mercoledì 2 giugno 2021

RECENSIONE: BLACKBERRY SMOKE (You Hear Georgia)

BLACKBERRY SMOKE  You Hear Georgia (Thirty Tigers Records, 2021)


greetings from Georgia

Pur reggendosi sulla leadership del cantante e chitarrista Charlie Starr, chi ha visto almeno una volta dal vivo la band sa quanto il lavoro di squadra sia il loro vero punto di forza. I loro concerti non deludono. Questo nuovo album, registrato in soli dieci giorni e già pronto da circa un anno ("ci siamo chiesti se era il caso di farlo uscire senza presentarlo dal vivo" dice Starr, la risposta è ora nelle nostre orecchie) sembra enfatizzare la loro forza da live band, anche grazie al lavoro in produzione, alla vecchia maniera analogica, dell'esperto Dave Cobb dentro agli storici RCA Studios A di Nashville. Al passato guarda anche il disegno di copertina, una cartolina dalla loro Georgia, terra di grandi band (dai Black Crowes andando indietro) ma anche di ingombranti luoghi comuni che proprio la title track vuole sfatare e portare a galla. Dentro a queste dieci canzoni c'è tutto ciò che è necessario per confermare quanto Gregg Allman lasciò detto qualche anno fa prima di morire, predicendo un roseo futuro, una cosa tipo "riporteranno il southern rock sulla giusta strada" che suonava un po' come una benedizione o un battesimo dentro alle acque del fiume Chattahoochee. 

Una strada fatta di canzoni rock, solide, epiche e pesanti ('Morninside'), funky ('Live It Down'), tirate come 'All Rise Again' con la chitarra e la voce ospite di Warren Haynes, prima di una serie di pezzi che Haynes e Starr sembra abbiano scritto insieme. Ma anche di limpide e ariose camminate West Coast come 'Ain' t the Shame' anche se nel testo si narra dei problemi di un veterano di guerra, saltellanti funky colorati di nero che chiamano in causa i Little Feat ('Hey Delilah'), boogie da asfalto e polvere come 'All Over The Road' che ha  il primigenio tiro dei concittadini Black Crowes, poi la loro immancabile country side che esce prepotente nell'acustica pennellata old style di 'Old Enough To Know' che guarda a Willie Nelson e in  'Lonesome For a Livin' un lento walzer insieme a Jamey Johnson, un omaggio a George Jones, leggenda della country music, scomparso nel 2013. 'Old Scarecrow' chiude con le chitarre di Starr e Paul Jackson in bella evidenza in una canzone caratterizzata da continue esplosioni elettriche. 

Fa un po' sorridere leggere ancora in giro che i Blackberry Smoke siano considerati il futuro del southern rock vista l'ormai ventennale carriera, certamente rappresentano bene il presente di un genere che periodicamente, tra iella, disgrazie e grandi perdite, sa comunque come rigenerarsi. E nel genere, guardare al passato è fondamentale.




sabato 29 maggio 2021

RECENSIONE: JOHN HIATT With The JERRY DOUGLAS Band (Leftover Feelings)

JOHN HIATT With The JERRY DOUGLAS Band  Leftover Feelings (New West, 2021)


ritorno a Nashville

Avevamo lasciato John Hiatt a farsi ispirare all'ombra di un'eclissi lunare, lo ritroviamo tre anni dopo chiuso dentro agli storici RCA Studio B a Nashville insieme a Jerry Douglas e la sua band a registrare un disco che esce fuori perfettamente riuscito e che in qualche modo chiude il lungo cerchio della sua carriera che proprio da Nashville prese il via. "Sono stato immediatamente catapultato al 1970, quando sono arrivato a Nashville" ha scritto nel suo sito. Stanze insonorizzate  impregnate di storia che avvolgono Hiatt e Douglas in un abbraccio che pare quanto più famigliare. Certamente caldo e ispirato. 

"Tutta la musica che è stata fatta lì, la puoi sentire uscire dai muri" racconta Hiatt. 

 Un reciproco rispetto tra i due nato lontano nel tempo ma che solo ora ha preso forme concrete "ho molto rispetto per lui, anche prima che avessimo mai fatto qualcosa insieme" spiega Douglas. 

Si suona tutti uniti, con una classica strumentazione da bluegrass band: niente batteria ma violino, basso, chitarre elettriche e acustiche, su cui svetta la dobro di Douglas (anche un mago con la lap steel e produttore del disco) sono i soli ingredienti di queste undici canzoni elettro acustiche che come sempre abbracciano forte l'amore, la strada, la vita fino ad arrivare a toccare il suicidio del fratello Michael, avvenuto quando lui aveva solo undici anni nella crepuscolare 'Light of the Burning Sun', vero punto focale del progetto. 

L'inconfondibile voce di Hiatt, che il tempo, (68 anni) ha reso solo un po' più roca, fa il resto. Un lavoro di sottrazione che tende ad arricchire, messo in piedi in sole quattro sedute di registrazione, buon esempio da seguire per chi è invece abituato ad aggiungere sempre e comunque, fino ad esagerare. Qualche buon up tempo rock'n'roll blues infarcito di groove come 'Long Black Electric Cadillac,' Little Goodnight e 'Keen Rambler', il country sbuffante di 'All The Lilacs in Ohio' e ballate country folk come 'The Music Is Hot', un vero atto di fede, e 'I'm in Asheville', fanno di Leftover Feelings l'ennesimo disco riuscito di una carriera tanto prolifica quanto tarata quasi sempre verso i livelli dell'eccellenza. Una continuità con l'intera carriera confermata anche dalla copertina, con quella tazza di caffè (o the?) che, pure con qualche capello bianco in più, sembra riportare al retro copertina di Bring The Family, certamente tra i suoi vertici di sempre.





domenica 23 maggio 2021

RECENSIONE: THE REVEREND PEYTON'S BIG DAMN BAND (Dance Songs For Hard Times)

THE REVEREND PEYTON'S BIG DAMN BAND   Dance Songs For Hard Times (Family Owned Records,2021)



Torna quel "canotta a tutta chitarra"  di Reverend Peyton, naturalmente insieme alla moglie Breezy sempre impegnata con la sua instancabile washboard e Max Senteney alla batteria: uno dei più bizzarri e genuini personaggi che popolano la roots music americana, talento innato di fingerpicking che negli anni si è guadagnato  tante prime pagine nelle riviste specializzate di chitarre. 

Un disco nato in piena pandemia che ha dovuto lottare duramente con il Covid e le sue conseguenze che hanno colpito da vicino la moglie, alcuni suoi famigliari e tanti amici, a volte anche in maniera durissima. Canzoni dai testi non troppo sereni (dalle pessime condizioni finanziarie eredità della pandemia cantate nel blues alla Bo Diddley d'apertura ' Ways And Means', all'aiuto dall'alto invocato in 'Come Down Angels' un gospel sui generis) ma che "surfano" su questi tempi difficili con la consueta irruenza e vivacità di sempre. 

"Mi piacciono le canzoni che suonano felici ma in realtà sono molto tristi" dice lui. 

Country blues innaffiato di rockabilly (la veloce 'Rattle Can'), l'irresistibile invito a cogliere l'attimo della ballabile 'Too Cool To Dance' ("sembra quasi una canzone degli anni '50 andata perduta" dice) , il blues di 'No Tellin' When' e 'Sad Songs', lo swamp boogie di 'Nothing Easy But You And Me' sono state registrate senza troppe sovraincisioni, cantate in presa diretta come se fossimo tutti seduti lì, intorno all'aia, circondati da porci, galline e fieno svolazzante. Naturalmente tutti vicini, abbracciati e con un bicchiere in mano perché la pandemia nel frattempo è svanita.





domenica 16 maggio 2021

RECENSIONE: AMIGO THE DEVIL (Born Against)

AMIGO THE DEVIL  Born Against (Liars Club, 2021)


a tinte noir

Padre greco, madre spagnola, Danny Kiranos è un personaggio dai tratti inquietanti e gli occhi spiritati, ancora tutto da scoprire. Fisicamente mi ricorda il povero Bob Hite dei Canned Heat con meno grammi di panza in corpo. Arriva dal Texas, vicino ad Austin, questo è il suo secondo disco importante dopo Everything Is Fine del 2018 e avendo poco più di mezz'ora da dedicargli tra il monumentale box di Deja Vu e l'album di cover blues dei Black Keys, ne sono sicuro, qui dentro ho trovato alcune belle sorprese che valgono la pena d'essere ascoltate. Nulla di miracoloso e roboante ma canzoni scritte, costruite e suonate  bene che pescano su più fronti, tanto ciniche e dalla lunga ombra inquietante trascinata dietro da essere morbosamente invitanti e accattivanti. Che ti fanno dire a fine disco:"aspetta, aspetta che lo riascolto". 

Testi poco accomodanti i suoi, che narrano di sparatorie dentro a sale da gioco Bingo ('Murder At The Bingo Hall' è un racconto dal canovaccio teatrale che non sarebbe dispiaciuto ad Alice Cooper), di vendette ai danni di vecchi serial killer degli anni 30 ('Drop For Every Hour'), di ultime lettere dal braccio della morte ('Letter From The Death Row') , insomma popolate da gente poco raccomandabile, venuta al mondo con una missione da compiere che non sempre è quella più giusta e incanalata nelle vie della legalità. 

Del titolo, estrapolato dalla canzone 'Quiet As A Rat' dice: "per me non è ancora chiaro se nasciamo in una tabula rasa e poi troviamo la fede o ci viene insegnata la fede, o siamo nati con una sorta di fede e poi la perdiamo o la riscopriamo lungo la strada?". 

Una crocevia variegato e democratico dove il country folk alla John Prine ('Better Ways To Fry A Fish'), il Tom Waits sgangherato di Raindogs con tuba, chitarra e percussioni in stile New Orleans ( 'Quiet As A Rat'), i "cattivi semi" di Nick Cave sparpagliati qua e là, i crescendo orchestrali alla Glen Campbell ('Small Stone' è un'apertura sontuosa presentata da una voce non da meno), il country malinconicamente epico di 'Different Anymore', il bluegrass  di '24K Casket' e il blues cucinato quasi crudo di  'Shadow' (eccoli i "semi cattivi") si succedono in una incombente atmosfera dalle tinte noir che sa avvolgere, confondere ma farsi piacere.





domenica 9 maggio 2021

RECENSIONE: TONY JOE WHITE (Smoke From The Chimney)

 

TONY JOE WHITE  Smoke From The Chimney (Easy Eye Sound, 2021)



una voce da lontano

Io a Tony Joe White voglio un gran bene a prescindere: la sua voce potrebbe cantare qualsiasi cosa e sarei incantato davanti alla sua magnetica sagoma intagliata a suon di swamp rock. E anche oggi che  White non c'è più da tre anni, la sua musica emana la stessa magia di sempre, dove i fantasmi delle paludi della sua Lousiana si risvegliano e sembrano imbracciare gli strumenti e suonare l'ultimo dei valzer in terra. Poco prima di morire il 24 Ottobre del 2018, aveva fatto uscire un disco intimo e tenebroso che sembrava un temporale minaccioso e incombente sulla sua esistenza. Si chiuse nel fienile della sua casa con una Stratocaster, pochi amici e suonò il suo ultimo blues. Fu un disco quasi premonitore, ridotto all'osso, arricchito solamente da sussurri e battiti di piede sulle assi del pavimento a fare ancor più spavento. Così diverso da questo, frutto di alchimie (ma nemmeno troppe) da studio di registrazione, ma assolutamente credibile e lo dico subito: riuscito, nonostante operazioni come queste siano sempre un alto rischio per chi le mette in pratica e altissimo per la reputazione di chi non c'è più e non può nemmeno prendere provvedimenti se non le distanze. Tutto è in mano al buon gusto degli eredi. 

Ecco però spuntare quel prezzemolo di Dan Auerbach. Questa volta al buon Auerbach riesce pure di resuscitare i cari estinti: trasforma nove demo voce e chitarra, registrati da Tony Joe White durante gli ultimi quindici anni della sua esistenza (proprio come l'ultimo disco)  in nove canzoni finite (bene), e complete. L'idea di lavorare con uno dei padri dello swamp rock  risale a parecchi anni prima, quando i due si incontrarono ad un festival in Australia nel 2009 ma solo ora, grazie al l'intermediazione del figlio Jody White (ecco l'erede), è diventata reale e concreta. Meglio tardi che mai? Come al solito Auerbach ci mette i musicisti di Nashville, tra cui Billy Sanford alla chitarra, Paul Franklin alla pedal steel e Bobby Wood (Elvis Presley) al piano, in più un grande Marcus King alla chitarra elettrica a sostenere il groove di una circolare  'Bubba Jones', naturalmente l' etichetta Easy Eye Sound, la sua chitarra e la passione di sempre. 

"Non è stato usato nessun computer" sottolinea Auerbach. La band ha suonato in presa diretta seguendo le tracce grezze lasciate da White.

Del primo singolo uscito, la cavalcata acida a lento trotto 'Boot Money' Auerbach dice anche: "una specie di serpente che striscia fuori dalla palude". E nel video cartoon i due sono disegnati insieme in un ipotetico studio di registrazione, ciò che Auerbach sognava potesse concretizzarsi prima o poi. Per una 'Del Rio You're Making Me Cry' che accarezza l'anima a passo di flamenco sollevando polvere texana, una  'Over You' che segue a ruota dando l' imprinting al disco (pigrizia e distensione sono la regola), l'ariosa 'Listen To Your Song' con il suo assolo di chitarra finale, c'è il tenebroso blues di 'Scary Stories', la magniloquenza orchestrale di 'Someone Is Crying', la ballata ' Billy' a chiudere. In mezzo alle canzoni, immagini fumose di uomini che stanno in piedi nonostante tutto e una notte perenne con la luce della luna a fare da unica via di fuga. 

Operazioni delicate e sempre un po' discutibili queste, ma il risultato che si può ascoltare fin dalla prima canzone in scaletta, l'amabile country soul 'Smoke From The Chimney', non è affatto male. È tutta una questione di buon gusto e qui è stato usato con rispettosa devozione. Non conterà molto ma per me è un sì.







giovedì 6 maggio 2021

RECENSIONE: GARY MOORE (How Blue Can You Get)

GARY MOORE  How Blue Can You Get (Provogue, 2021)



aperti gli archivi!

Ricordo ancora con un certo rimpianto la mia rinuncia a quel concerto di Gary Moore a Milano nel Luglio del 2010. Non ricordo il motivo della mia assenza ma ricordo benissimo che volevo assolutamente andarci. Ma chi poteva saperlo che fu l'ultimo in Italia: pochi mesi dopo, il 6 Febbraio del 2011, il suo corpo fu trovato esamine dalla sua compagna in una stanza d'albergo nella Costa del Sol in Spagna.  Sono passati dieci anni, mentre io continuo a vangare tra i ricordi cercando una valida motivazione alla mia assenza, esce sul mercato quello che a tutti gli effetti si può considerare il primo disco postumo di inediti (nel 2012 uscì il live Blues For Jimi). Otto canzoni sono forse poche per questo primo evento ma la qualità è veramente buona e sicuramente ora che gli archivi sono stati aperti, questa uscita non rimarrà isolata per molto tempo. Il Gary Moore passato in rassegna è quello della svolta blues partita da Still Got The Blues (1990) e arrivata fino alla morte con l'ultimo disco inciso Bad For You Baby (2008). Ad accompagnare Moore ci sono il bassista Peter Rees, le tastiere di Vic Martin e le batterie di Darrin Mooney e Graham Walker. Un disco che ricalca le uscite di quel periodo, dove cover, riletture e brani inediti vengono assemblati insieme. Qui troviamo quattro cover: una torrenziale 'I'm Tore Down' di Freddie King dai toni quasi hard, canzone che Moore amava spesso presentare durante i suoi live, un'altra vivace, strumentale e travolgente 'Steppin' Out' di Memphis Slim, lo standard di BB King 'How Blue Can You Get' del 1964 che da il titolo al disco e una frizzante 'Done Somebody Wrong' di Elmore James. Le quattro canzoni firmate da Moore sono la notturna 'In My Dreams' ballata con Moore che fa piangere la sua chitarra, il quasi rural blues 'Looking At Your Picture' e poi due rivisitazioni di suoi vecchi brani: 'Love Can Make A Fool  Of You' ripescata da Da Corridors Of Power del 1982, ripulita dagli orpelli anni ottanta e trasformata in un blues malinconico con un grandissimo assolo, infine 'Living With The Blues', un'altra classica ballata dal tocco alla Gary Moore  a chiudere il disco. 

A Moore non importava troppo vendere dischi, l'importante era rimanere sempre onesto e in linea con le proprie idee musicali. Probabilmente, però, questo disco venderà di più rispetto agli ultimi dischi in vita, usciti un po' in sordina e dimenticati in fretta. Ne sono sicuro. 

In un'intervista rilasciata al Belfast Telepraph a proposito delle sue smorfie mentre suonava disse:" potrebbero essere di dolore o di piacere. La gente mi prende in giro per questo, ma non c'è nulla di artificioso. Quando suono mi perdo completamente e non sono nemmeno consapevole di quello che sto facendo con la mia faccia - sto solo suonando ".

E in questo disco suona ancora molto bene tanto da riuscire ad immaginare quelle smorfie sul suo volto.





martedì 27 aprile 2021

RECENSIONI: LUCA ROVINI & COMPANEROS (L'ora Del Vero), ANTHONY BASSO, STAGGERMAN (Eight Crows On A Wire)

tre modi italiani simili ma diversi di guardare alla grande America musicale 

LUCA ROVINI & COMPANEROS  L'ora Del Vero (2021) 

Lo avevamo lasciato con il suo disco solitario figlio del primo lockdown. Sono passati solo alcuni mesi e intorno a noi poche cose sembrano essere cambiate veramente: siamo ancora tutti qui a lottare per la nostra libertà. Luca Rovini però questa volta sbuca fuori ancora più minaccioso da un tramonto rosso fuoco, ha una chitarra elettrica in mano e richiama intorno a sé i suoi Companeros per fare un po' di casino e dirne quattro (il brutto sogno in salsa country rock di '176esimo Sogno Di Luca Rovini'), rivestendo le sue canzoni di elettricità. Il matrimonio celebrato da Luca tra il cantautorato italiano e il rock americano va ancora a gonfie vele e l'intesa sembra migliorare di disco in disco. Si avanza a suon di rock ('L'ora Del Vero'), con una tambureggiante e marziale 'Quasi Mezzanotte', quasi minacciosa alla Crazy Horse, con la chitarra di Peter Bonta in prima linea, un'arma sempre in più da giocare per il toscano Rovini, poi ecco 'Che Farà?' che potrebbe giocarsi le sue carte da singolo per arrivare a tutti. La bella ballata scandita dal pianoforte 'Angeli Ubriachi Sulla Via' ci mostra invece l'altra faccia più intima e delicata così come 'Dove Brillano Le Barche' e 'Aspettiamoci A Casa' quella folk, intimista e solitaria. Come sempre ci sono anche due cover che ben delimitano lo spazio d'azione di Luca, ribadendo anche la sua immutata passione da vero fan: 'La Pioggia Vien Giù' di Steve Earle e 'Billy' di Bob Dylan.





ANTHONY BASSO
  Anthony Basso (2020) 

Conosciuto per aver militato fin da giovanissimo come chitarrista (e voce) nei friulani W. I. N. D., trio di viscerale hard blues che da qualche anno pare essersi messo in pausa (almeno così voglio credere), per questo suo primo disco solista (anticipato da un EP uscito quattro anni prima) batte le strade polverose e bollenti di quelle ballate marchiate a fuoco dal southern rock spesso bagnato dalle acque mai stantie del soul. Canzoni che profumano fortemente di anni settanta, che potrebbero benissimo essere uscite nel 1973, quindi senza tempo, come 'Ridin With A Siren', 'Things Gonna Change', il country di 'Tracks', la bellissima 'We Will See What Tomorrow Brings' che chiude il disco evocando spazi infiniti dove poter ancora camminare e sognare. C'è spazio anche per un paio di episodi più energici, ma mai troppo, come l'iniziale 'Something's Goin Wrong' o il trascinante funky di 'Biscayne Blvd Funk (Miami)'. Un suono caldo, corale e corposo che mette in gioco tutte le sue influenze da grande ascoltatore di classic rock. Ma se dovessi scegliere un solo nome da accostare a Anthony Basso opterei per gli Allman Brothers con Gregg Allman al seguito, naturalmente. 





STAGGERMAN
 Eight Crows On A Wire (AR Recordings, 2021) 

Staggerman è il progetto ormai consolidato del musicista bresciano Matteo Crema (tra le sue esperienze ricordo gli inarrivabili The Union Freego e quelle più recenti con i camuni Thee Jones Bones e il duo Franzoni- Zamboni). Un progetto che sembra fare un deciso balzo in avanti a livelli di suono e produzione grazie all'esperienza di Marco Franzoni in produzione e come musicista impegnato su più strumenti. La musica di Matteo Stagger si conferma come un caldo e rassicurante abbraccio tra un lento e pigro blues di frontiera (ecco le tromba di Francesco Venturini in 'Spilling Lifeblood', ma non solo, il tex mex di 'Crow Song' che gioca la sua partita con gli amati Calexico) e l'alt country più vicino ai nostri giorni in stile Wilco. Ciondolanti ballate che rievocano "il raccolto" di Neil Young ('Astonished J.'), il vagabondaggio notturno di 'Cursed Monkey' in grado di riesumare gli antichi spiriti lontani del primissimo Tom Waits e le ombrose calate nella notte di 'As A Stone' che chiude un disco dal suono evocativo e avvolgente come le acque del suo lago nativo nelle ore del crepuscolo.





sabato 24 aprile 2021

RECENSIONE: TOM JONES (Surrounded By Time)

TOM JONES  Surrounded By Time (2021)



il lento passo degli anni

L'altra sera Ornella Vanoni, ospite in un programma televisivo, l'ha buttata giù dura e chiara: "sono l'unica che alla mia età incide un disco di inediti. Di solito si fanno solo dischi di vecchi successi". Chissà forse era una frecciatina indirizzata anche al buon Tom Jones. Negli ultimi dieci anni però il signor Jones si è rimesso completamente in gioco e ha fatto uscire tre dischi, tra gospel, folk, R&B, country e americana, uno più bello dell'altro: Praise & Blame nel 2010, Spirit in the Room nel 2012 e Long Lost Suitcase nel 2015. Oggi a ottant'anni, quasi 81, a sei anni dall'ultimo, torna con SURROUNDED BY TIME, un disco di cover (eccolo!) nuovamente sotto la produzione di Ethan Johns. Ascoltando il nuovo brano 'Talking Reality Television Blues' che aveva anticipato il disco, una spoken song scritta da Todd Snider che vaga in tutta libertà tra la storia della televisione e le tappe che l'hanno caratterizzata sembrava proprio che pur arrivato a quella età, il gallese non avesse ancora mollato la presa, non stanco di mettersi ancora una volta in gioco. E ora che abbiamo tutto l'album si può confermare, anche se le prime canzoni sono abbastanza spiazzanti rispetto a quanto ci aveva abituato nei precedenti dischi: 'I Won't With You If You Fall' di Bernice Johnson Reagon, 'The Windmills Of Your Mind' , 'PopStar' di Cat Stevens e 'No Hole In My Mind' diMalvina Reynolds (con il sitar suonato da Ethan Johns) hanno suoni sintetici, elettronici, lenti, cupi, spesso guidati da moog e tastiere, feedback e riverberi, sembrano giocare con l'inesorabile trascorrere del tempo, della vita, ma la voce di Jones si staglia prepotente e ipnotizzante su tutto.

Se in 'In Won't Lie' dell'astro nascente Michael Kiwanuka mette sul piatto la sua età e si avvicina a grandi passi alle American Recordings di Johnny Cash e con 'This is The Sea' dei Waterboys che ci dimostra tutta la sua grandezza: sono sette minuti di crescendo folk soul che pochi al mondo possono condurre con questa naturale autorevezza. Sicuramente il miglior pezzo del disco. Troviamo poi una rivisitazione di 'Ole Mother Earth' di Tony Joe White, una straordinaria 'One More Cup Of Coffee' dell'amato Bob Dylan, spogliata dei suoni di frontiera alla Desire e gettata in pasto voce, chitarra, basso, batteria e moog. 'Samson And Delilah', è un rock’n’roll ridotto all'osso che lascia una scia di freddo dietro di sé. Ma mentre 'I'm Growing Old', una cover di Bobby Cole del 1967, guidata dal pianoforte, mette sul tavolo tutto il peso dell'età, i nove minuti finali di 'Lazarus Man' di Terry Callie, la smentiscono immediatamente con una versione che vola verso la psichedelia e la vita.

Tom Jones continua a non dare limiti alle sue interpretazioni, è la sua storia che glielo permette e il capitolo finale è ancora lontano nonostante l'amara consapevolezza, dettata anche dalla perdita dell'adorata moglie Linda, scomparsa nel 2016 e dalla malattia degli ultimi anni, che il tempo rimasto là davanti non sia più molto:"stare sulla strada. Questa è la cosa che mi è mancata di più. Sto aspettando il mio tempo, ma non ho molto tempo da aspettare. Non voglio avere 90 anni prima di poter tornare di nuovo sulla strada! ".







mercoledì 21 aprile 2021

RECENSIONE: DAVID OLNEY and ANANA KAYE (Whispers And Sighs)

DAVID OLNEY and ANANA KAYE  Whispers And Sighs (Appaloosa Records, 2021)



l'ultimo saluto

"Mi dispiace": con queste parole David Olney, chitarra ben stretta in mano, si è accomiatato dal mondo. È successo il 18 Gennaio del 2020 durante un suo concerto al 30A Songwriters Festival a Santa Rosa Beach, in Florida. 

Non era ai saluti finali, non era un semplice "arrivederci alla prossima" dato in pasto al suo pubblico, era solo alla terza canzone quando il suo cuore non ha più retto. Era veramente un addio al mondo. Improvviso. Inaspettato. Sul palco. Dieci anni prima era stato operato a quel complicato organo che tiene in piedi tutto ma il peggio sembrava essere passato. Sembrava. Olney aveva 71 anni e sebbene non arrivò mai al grande successo di pubblico, è stato uno dei songwriter di Nashville più amati e saccheggiati: da Johnny Cash a Townes Van Zandt (che una volta disse "ogni volta che qualcuno mi chiede chi sono i miei autori musicali preferiti, dico Mozart, Lightnin 'Hopkins, Bob Dylan e Dave Olney") da Emmylou Harris a Steve Earle, in tanti hanno cantato le sue canzoni. Prima di morire, però, aveva portato a compimento un piccolo grande sogno, che lui stesso disse essere ambientato in un'epoca tra il 1890 e il 1920. Durante il sogno, ubicato in una città apparentemente non esistente (ma che Olney indica simile a Parigi o Vienna), era in corso una guerra (nella dolente  'My Last Dream Of You' ci sono gli ultimi ricordi di un soldato in punto di morte)  ma tutto intorno però fioriscono e svaniscono amori e amicizie. In 'Behind Your Smile' cantano di quanto sia importante avere qualcuno che condivida i tuoi stessi sogni. Insomma, nonostante tutto, si respira ottimismo a pieni polmoni

Già i sogni. Nel sogno di Olney, in quella città, c'è perfino un bistrò vicino alla strazione ferroviaria dove incontra due musicisti di Nashville. Una coppia artistica e nella vita: la giovane cantante di origine georgiana Anana Kaye, 26 anni, e suo marito Irakj Gabriel, chitarrista. È però tutto vero. I frutti di questo incontro artistico  sono documentati in alcuni video presenti su Youtube. 


Su tutto l'album sembra sempre calare l'oscurità portata in dote dalle voci della Kaye e dalla straordinaria interpretazione dello stesso Olney che si alternano al canto in canzoni dove Americana e cultura dell'Est Europa si incrociano in modo divino. 

Aleggia un tono greve che sa di antico, di passato, imbastito da arrangiamenti d'archi e pianoforte ('Whispers And Sighs'), dalla teatralità su cui è costruita 'The World We Used To Know', dalle ballate acustiche dolenti come 'Tennessee Moon' e la quasi preveggente  'My Favorite Goodbye', dalla waitsiana e notturna 'Thank You Note' fino alla finale 'The Great Manzini', quasi un connubio perfetto tra Leonard Cohen e Nick Cave. 

Ma non mancano un paio di scosse elettriche come 'Lie To Me, Angel' e la stonesiana 'Last Days Of Rome' con un riff alla Keith Richards, un sax a sbuffare fumo e con Olney che sembra quasi darsi al rap in quella che è forse la canzone più particolare e staccata dal contesto.

Un lavoro certamente ambizioso, non facile, ma riuscitissimo. Se entrate nel mood verrete ripagati. Ecco, quando Olney esclamò quel "mi dispiace" prima di accasciarsi sul palco, forse nel suo debole cuore sapeva che questo suo ultimo sogno prima o poi si sarebbe avverato. Vista la qualità non poteva rimanere nascosto per troppo tempo.






lunedì 12 aprile 2021

RECENSIONE: SUZI QUATRO (The Devil In Me)

SUZI QUATRO  The Devil In Me (SPV/Steamhammer, 2021)


un diavolo per capello

A Suzi Quatro non si può non volere bene, soprattutto dopo essere caduti innamorati davanti ai suoi attillati vestiti di pelle nera, al suo basso pulsante, alla sua ribelle carica giovanile. Erano gli anni settanta e potevi avere dieci anni, venti o cinquanta ma lei in qualche modo riusciva a catturarti senza mettere in campo troppi ammiccamenti o pose sexy. Posò pure per Penthouse: vestita di pelle naturalmente, ma non la sua. Non era da tutte. 

Potevi averla conosciuta con le note di '48 Crash', 'Can The Can' o nascosta sotto gli abiti di Leather Tuscadero, praticamente i suoi, in Happy Days ma difficilmente passava inosservata senza lasciare segni futuri. Chiedere alle riot girl che arriveranno dopo di lei. 

Ora che di anni ne ha settanta (eh, non si dovrebbe dire ma credo che a lei interessi poco), dice di aver registrato il suo miglior disco di sempre. Non so se abbia ragione o meno (gli artisti dicono sempre così dei loro ultimi dischi), so solo che questo nuovo album prosegue diritto nella stessa direzione del precedente No Control uscito due anni fa: davanti a tutto c'è la libertà artistica che può permettersi a questo punto della carriera. Ad aiutarla in fase compositiva e alla chitarra c'è ancora una volta il figlio Richard Tuckey, frutto del suo primo matrimonio ma soprattutto buona spalla su cui appoggiarsi per riprendersi un posto che le spetta di diritto. 

The Devil In Me è un disco fresco, vario e vivace, fatto di tante chitarre ma anche di momenti di grande atmosfera blues. Pieno di belle canzoni che non hanno grandi pretese se non quella di dimostrare che se hai il groove e il rock'n'roll sotto le unghie a vent'anni continui a graffiare anche a settanta. 

Se agli estremi troviamo ancora il pulsante rock'n'roll che ci ricorda il passato, certo il bubblegum non è più di moda e si è pure indurito un po', quello con il riff di chitarra più moderno e hard dell'iniziale tite track, quello glam, boogie e on the road della finale 'Motor City Riders', in mezzo troviamo anche tutta la maturità di un'artista che ama ancora giocare con il pop ('You Can' t Dream It'), il soul ('My Heart And Soul'), il blues (la scatenata 'Get Outta Jail'), con notturni R&B  ('Isolation Blues' e 'Love' s Gone Bad') e con la ballata "In The Dark' che ne svelano una inaspettata ma vincente anima da soul crooner. È pur sempre figlia di quella Detroit musicale, quindi del rock'n'roll e della Motown, si percepisce. 

Ah dimenticavo: Suzie Quatro indossa splendidamente anche i suoi anni maturi, senza trucchi e senza inganni.





lunedì 5 aprile 2021

RECENSIONE: SMITH/KOTZEN (Smith/Kotzen)

SMITH/KOTZEN   Smith/Kotzen (BMG, 2021)



la forza di coppia

Due artisti che non hanno bisogno di troppe presentazioni: per Adrian Smith basta seguire la storia degli Iron Maiden dall'inizio fino ad oggi, togliendo gli anni novanta comunque passati in compagnia di Bruce Dickinson solista, per Richie Kotzen oltre a una carriera solista consolidata e costruita su ormai tanti dischi, ci ricordiamo anche dei tanti gruppi a cui ha prestato chitarra e voce (Poison, Mr. Big, Mother Head's Family Reunion, Winery Dogs). E di uno come Richie Kotzen io mi sono sempre fidato, ancor di più dopo averlo visto dal vivo: artista completo, non solo chitarra ma grande autore e una voce più che interessante e sorprendente. Per questo debutto la strana coppia (ma mica tanto) ha deciso di fare quasi tutto da sola: i due intrecciano le loro chitarre, suonano il basso un po' a testa, Kotzen si siede addirittura dietro alla batteria (lasciata  a Nicko McBrain nella tirata 'Solar Fire' e a Tal Bergman in altre tre tracce) e si alternano al microfono come fossero David Coverdale e Glenn Hughes in Stormbringer dei Deep Purple, disco che gli stessi Smith e Kotzen hanno indicato come uno dei fari guida. 

Registrato presso le isole caraibiche di Turks e Caicos, queste nove canzoni sono il risultato di un sodalizio che premeva da alcuni anni dietro a prolungate jam tra i due a Los Angeles. "Tra noi c'è stata una scintilla!" dice Kotzen. 

Era partito tutto con la composizione di 'Running', rock roccioso e carico di groove, si è sviluppato in nove brani, lunghi, hard ('Taking My Chances'), articolati, melodici (la distesa 'I Wanna Stay') dove l'amore per il blues fa da collante (tra le migliori la notturna 'Scars') ma dove ognuna delle due parti ha portato le proprie esperienze e virtù. 

"La prima canzone che abbiamo effettivamente sviluppato è stata 'Running' , a quel punto ho pensato: 'va bene qui sta succedendo qualcosa'. Quando poi abbiamo fatto 'Scars', che penso fosse la seconda traccia  che abbiamo messo insieme, a quel punto ho pensato che avessimo davvero qualcosa di speciale" racconta Kotzen. 

Così se l'hard funk di 'Some People' e gli umori southern con l'andatura alla Free di 'Glory Road' sono iscrivibili a Kotzen e al suo sempre troppo dimenticato progetto southern Mother Head's Family Reunion, l'articolata 'Til Tomorrow' sembra uscire da un disco solista di Bruce Dickinson o dal mai troppo osannato Brave New World degli Iron Maiden così come l'epicità di You Don't Know Me'. Non ci saranno canzoni memorabili ma tutto il disco suona compatto, vivace e vero. Se i due avranno la voglia di proseguire su questa strada ne sentiremo delle belle.





martedì 30 marzo 2021

RECENSIONE: NEIL YOUNG (Young Shakespeare)

NEIL YOUNG   Young Shakespeare (Reprise Records, 1971/2021)



same old song (but I like it) 

I concerti al Cellar Door di Washington DC, quello al Massey Hall di Toronto e ora questo allo Shakespeare Theatre di Stratford, nel Connecticut, sono solo tre delle sei date suonate a pochi giorni l'una dall'altra tra la fine del 1970 e i primi giorni del 1971 con un Neil Young non in grandissima forma fisica che forse avrebbe voluto tenere tra le mani una chitarra elettrica e avere i Crazy Horse dietro, ma che invece si ritrova solo, seduto su una sedia al centro di piccoli palchi con una chitarra acustica e un pianoforte (durante il concerto scherzerà pure sulle sue capacità allo strumento). 

Dietro ha comunque  un anno straordinario come il 1970 che lo ha visto protagonista prima con Deja Vu insieme a Crosby, Stills e Nash, davanti un futuro che se non è ancora scritto è però già imbastito a dovere da canzoni presentate per la prima volta in pubblico. Ecco 'Old Man', 'The Needle And The Damage Done', uno stupendo medley  al pianoforte  tra 'A Man Needs A Maid' e 'Heart Of Gold' che usciranno su Harvest solo un anno dopo.

"Per i due anni seguenti l'uscita di After The Goldrush e Harvest facevo dentro e fuori dagli ospedali: ho un lato debole, la schiena e così non riuscivo a sostenere la chitarra. Questo è il motivo per il quale nel mio tour da solo stavo sempre seduto, non riuscivo a muovermi bene" dirà in una intervista a Rolling Stone. 

Sorvolando sull'aspetto prettamente speculativo di questa ennesima uscita (c'è comunque il DVD con le immagini della serata nella versione deluxe insieme al vinile), il bombardamento di uscite discografiche che sta investendo i fan di Neil Young in questo inizio 2021 è da terza guerra mondiale (parlo naturalmente della guerra che vorremmo tutti: fatta di amore, pace e tanta musica), anche Young Shakespeare pur avendo le stesse canzoni che troviamo sparse tra  Cellar Door e Massey Hall, e che abbiamo mandato a memoria (a parte una 'Sugar Mountain' nel finale durante la quale Young invita il pubblico a cantare con lui), è l'ennesimo disco dall'atmosfera raccolta e magica con un Young che sta vivendo una dei suoi massimi momenti creativi di sempre. A soli tre giorni dall'osannato concerto di  Toronto, queste dodici tracce, registrate il 22 Gennaio 1971, si differenziano per l'alto tasso di intimità che permea le esecuzioni (Young parla, scherza e introduce alcune canzoni)  lontane dall'esuberanza del pubblico amico del Massey Hall, rumoroso e presente con mani, grida e pure piedi. 

Dopo la facciata elettrica mostrata con i Crazy Horse dei primissimi anni Novanta con il live Way Down In The Dust Bucket ecco anche l'altro lato della sua musica. Per me è sempre stata dura scegliere una delle due. Ho sempre preso entrambe senza distinzioni. Prendo Neil Young tutto intero.




RECENSIONE: NEIL YOUNG With CRAZY HORSE - Way Down In The Rust Bucket (Reprise Records, 2021)