sabato 29 maggio 2021

RECENSIONE: JOHN HIATT With The JERRY DOUGLAS Band (Leftover Feelings)

JOHN HIATT With The JERRY DOUGLAS Band  Leftover Feelings (New West, 2021)


ritorno a Nashville

Avevamo lasciato John Hiatt a farsi ispirare all'ombra di un'eclissi lunare, lo ritroviamo tre anni dopo chiuso dentro agli storici RCA Studio B a Nashville insieme a Jerry Douglas e la sua band a registrare un disco che esce fuori perfettamente riuscito e che in qualche modo chiude il lungo cerchio della sua carriera che proprio da Nashville prese il via. "Sono stato immediatamente catapultato al 1970, quando sono arrivato a Nashville" ha scritto nel suo sito. Stanze insonorizzate  impregnate di storia che avvolgono Hiatt e Douglas in un abbraccio che pare quanto più famigliare. Certamente caldo e ispirato. 

"Tutta la musica che è stata fatta lì, la puoi sentire uscire dai muri" racconta Hiatt. 

 Un reciproco rispetto tra i due nato lontano nel tempo ma che solo ora ha preso forme concrete "ho molto rispetto per lui, anche prima che avessimo mai fatto qualcosa insieme" spiega Douglas. 

Si suona tutti uniti, con una classica strumentazione da bluegrass band: niente batteria ma violino, basso, chitarre elettriche e acustiche, su cui svetta la dobro di Douglas (anche un mago con la lap steel e produttore del disco) sono i soli ingredienti di queste undici canzoni elettro acustiche che come sempre abbracciano forte l'amore, la strada, la vita fino ad arrivare a toccare il suicidio del fratello Michael, avvenuto quando lui aveva solo undici anni nella crepuscolare 'Light of the Burning Sun', vero punto focale del progetto. 

L'inconfondibile voce di Hiatt, che il tempo, (68 anni) ha reso solo un po' più roca, fa il resto. Un lavoro di sottrazione che tende ad arricchire, messo in piedi in sole quattro sedute di registrazione, buon esempio da seguire per chi è invece abituato ad aggiungere sempre e comunque, fino ad esagerare. Qualche buon up tempo rock'n'roll blues infarcito di groove come 'Long Black Electric Cadillac,' Little Goodnight e 'Keen Rambler', il country sbuffante di 'All The Lilacs in Ohio' e ballate country folk come 'The Music Is Hot', un vero atto di fede, e 'I'm in Asheville', fanno di Leftover Feelings l'ennesimo disco riuscito di una carriera tanto prolifica quanto tarata quasi sempre verso i livelli dell'eccellenza. Una continuità con l'intera carriera confermata anche dalla copertina, con quella tazza di caffè (o the?) che, pure con qualche capello bianco in più, sembra riportare al retro copertina di Bring The Family, certamente tra i suoi vertici di sempre.





domenica 23 maggio 2021

RECENSIONE: THE REVEREND PEYTON'S BIG DAMN BAND (Dance Songs For Hard Times)

THE REVEREND PEYTON'S BIG DAMN BAND   Dance Songs For Hard Times (Family Owned Records,2021)



Torna quel "canotta a tutta chitarra"  di Reverend Peyton, naturalmente insieme alla moglie Breezy sempre impegnata con la sua instancabile washboard e Max Senteney alla batteria: uno dei più bizzarri e genuini personaggi che popolano la roots music americana, talento innato di fingerpicking che negli anni si è guadagnato  tante prime pagine nelle riviste specializzate di chitarre. 

Un disco nato in piena pandemia che ha dovuto lottare duramente con il Covid e le sue conseguenze che hanno colpito da vicino la moglie, alcuni suoi famigliari e tanti amici, a volte anche in maniera durissima. Canzoni dai testi non troppo sereni (dalle pessime condizioni finanziarie eredità della pandemia cantate nel blues alla Bo Diddley d'apertura ' Ways And Means', all'aiuto dall'alto invocato in 'Come Down Angels' un gospel sui generis) ma che "surfano" su questi tempi difficili con la consueta irruenza e vivacità di sempre. 

"Mi piacciono le canzoni che suonano felici ma in realtà sono molto tristi" dice lui. 

Country blues innaffiato di rockabilly (la veloce 'Rattle Can'), l'irresistibile invito a cogliere l'attimo della ballabile 'Too Cool To Dance' ("sembra quasi una canzone degli anni '50 andata perduta" dice) , il blues di 'No Tellin' When' e 'Sad Songs', lo swamp boogie di 'Nothing Easy But You And Me' sono state registrate senza troppe sovraincisioni, cantate in presa diretta come se fossimo tutti seduti lì, intorno all'aia, circondati da porci, galline e fieno svolazzante. Naturalmente tutti vicini, abbracciati e con un bicchiere in mano perché la pandemia nel frattempo è svanita.





domenica 16 maggio 2021

RECENSIONE: AMIGO THE DEVIL (Born Against)

AMIGO THE DEVIL  Born Against (Liars Club, 2021)


a tinte noir

Padre greco, madre spagnola, Danny Kiranos è un personaggio dai tratti inquietanti e gli occhi spiritati, ancora tutto da scoprire. Fisicamente mi ricorda il povero Bob Hite dei Canned Heat con meno grammi di panza in corpo. Arriva dal Texas, vicino ad Austin, questo è il suo secondo disco importante dopo Everything Is Fine del 2018 e avendo poco più di mezz'ora da dedicargli tra il monumentale box di Deja Vu e l'album di cover blues dei Black Keys, ne sono sicuro, qui dentro ho trovato alcune belle sorprese che valgono la pena d'essere ascoltate. Nulla di miracoloso e roboante ma canzoni scritte, costruite e suonate  bene che pescano su più fronti, tanto ciniche e dalla lunga ombra inquietante trascinata dietro da essere morbosamente invitanti e accattivanti. Che ti fanno dire a fine disco:"aspetta, aspetta che lo riascolto". 

Testi poco accomodanti i suoi, che narrano di sparatorie dentro a sale da gioco Bingo ('Murder At The Bingo Hall' è un racconto dal canovaccio teatrale che non sarebbe dispiaciuto ad Alice Cooper), di vendette ai danni di vecchi serial killer degli anni 30 ('Drop For Every Hour'), di ultime lettere dal braccio della morte ('Letter From The Death Row') , insomma popolate da gente poco raccomandabile, venuta al mondo con una missione da compiere che non sempre è quella più giusta e incanalata nelle vie della legalità. 

Del titolo, estrapolato dalla canzone 'Quiet As A Rat' dice: "per me non è ancora chiaro se nasciamo in una tabula rasa e poi troviamo la fede o ci viene insegnata la fede, o siamo nati con una sorta di fede e poi la perdiamo o la riscopriamo lungo la strada?". 

Una crocevia variegato e democratico dove il country folk alla John Prine ('Better Ways To Fry A Fish'), il Tom Waits sgangherato di Raindogs con tuba, chitarra e percussioni in stile New Orleans ( 'Quiet As A Rat'), i "cattivi semi" di Nick Cave sparpagliati qua e là, i crescendo orchestrali alla Glen Campbell ('Small Stone' è un'apertura sontuosa presentata da una voce non da meno), il country malinconicamente epico di 'Different Anymore', il bluegrass  di '24K Casket' e il blues cucinato quasi crudo di  'Shadow' (eccoli i "semi cattivi") si succedono in una incombente atmosfera dalle tinte noir che sa avvolgere, confondere ma farsi piacere.





domenica 9 maggio 2021

RECENSIONE: TONY JOE WHITE (Smoke From The Chimney)

 

TONY JOE WHITE  Smoke From The Chimney (Easy Eye Sound, 2021)



una voce da lontano

Io a Tony Joe White voglio un gran bene a prescindere: la sua voce potrebbe cantare qualsiasi cosa e sarei incantato davanti alla sua magnetica sagoma intagliata a suon di swamp rock. E anche oggi che  White non c'è più da tre anni, la sua musica emana la stessa magia di sempre, dove i fantasmi delle paludi della sua Lousiana si risvegliano e sembrano imbracciare gli strumenti e suonare l'ultimo dei valzer in terra. Poco prima di morire il 24 Ottobre del 2018, aveva fatto uscire un disco intimo e tenebroso che sembrava un temporale minaccioso e incombente sulla sua esistenza. Si chiuse nel fienile della sua casa con una Stratocaster, pochi amici e suonò il suo ultimo blues. Fu un disco quasi premonitore, ridotto all'osso, arricchito solamente da sussurri e battiti di piede sulle assi del pavimento a fare ancor più spavento. Così diverso da questo, frutto di alchimie (ma nemmeno troppe) da studio di registrazione, ma assolutamente credibile e lo dico subito: riuscito, nonostante operazioni come queste siano sempre un alto rischio per chi le mette in pratica e altissimo per la reputazione di chi non c'è più e non può nemmeno prendere provvedimenti se non le distanze. Tutto è in mano al buon gusto degli eredi. 

Ecco però spuntare quel prezzemolo di Dan Auerbach. Questa volta al buon Auerbach riesce pure di resuscitare i cari estinti: trasforma nove demo voce e chitarra, registrati da Tony Joe White durante gli ultimi quindici anni della sua esistenza (proprio come l'ultimo disco)  in nove canzoni finite (bene), e complete. L'idea di lavorare con uno dei padri dello swamp rock  risale a parecchi anni prima, quando i due si incontrarono ad un festival in Australia nel 2009 ma solo ora, grazie al l'intermediazione del figlio Jody White (ecco l'erede), è diventata reale e concreta. Meglio tardi che mai? Come al solito Auerbach ci mette i musicisti di Nashville, tra cui Billy Sanford alla chitarra, Paul Franklin alla pedal steel e Bobby Wood (Elvis Presley) al piano, in più un grande Marcus King alla chitarra elettrica a sostenere il groove di una circolare  'Bubba Jones', naturalmente l' etichetta Easy Eye Sound, la sua chitarra e la passione di sempre. 

"Non è stato usato nessun computer" sottolinea Auerbach. La band ha suonato in presa diretta seguendo le tracce grezze lasciate da White.

Del primo singolo uscito, la cavalcata acida a lento trotto 'Boot Money' Auerbach dice anche: "una specie di serpente che striscia fuori dalla palude". E nel video cartoon i due sono disegnati insieme in un ipotetico studio di registrazione, ciò che Auerbach sognava potesse concretizzarsi prima o poi. Per una 'Del Rio You're Making Me Cry' che accarezza l'anima a passo di flamenco sollevando polvere texana, una  'Over You' che segue a ruota dando l' imprinting al disco (pigrizia e distensione sono la regola), l'ariosa 'Listen To Your Song' con il suo assolo di chitarra finale, c'è il tenebroso blues di 'Scary Stories', la magniloquenza orchestrale di 'Someone Is Crying', la ballata ' Billy' a chiudere. In mezzo alle canzoni, immagini fumose di uomini che stanno in piedi nonostante tutto e una notte perenne con la luce della luna a fare da unica via di fuga. 

Operazioni delicate e sempre un po' discutibili queste, ma il risultato che si può ascoltare fin dalla prima canzone in scaletta, l'amabile country soul 'Smoke From The Chimney', non è affatto male. È tutta una questione di buon gusto e qui è stato usato con rispettosa devozione. Non conterà molto ma per me è un sì.







giovedì 6 maggio 2021

RECENSIONE: GARY MOORE (How Blue Can You Get)

GARY MOORE  How Blue Can You Get (Provogue, 2021)



aperti gli archivi!

Ricordo ancora con un certo rimpianto la mia rinuncia a quel concerto di Gary Moore a Milano nel Luglio del 2010. Non ricordo il motivo della mia assenza ma ricordo benissimo che volevo assolutamente andarci. Ma chi poteva saperlo che fu l'ultimo in Italia: pochi mesi dopo, il 6 Febbraio del 2011, il suo corpo fu trovato esamine dalla sua compagna in una stanza d'albergo nella Costa del Sol in Spagna.  Sono passati dieci anni, mentre io continuo a vangare tra i ricordi cercando una valida motivazione alla mia assenza, esce sul mercato quello che a tutti gli effetti si può considerare il primo disco postumo di inediti (nel 2012 uscì il live Blues For Jimi). Otto canzoni sono forse poche per questo primo evento ma la qualità è veramente buona e sicuramente ora che gli archivi sono stati aperti, questa uscita non rimarrà isolata per molto tempo. Il Gary Moore passato in rassegna è quello della svolta blues partita da Still Got The Blues (1990) e arrivata fino alla morte con l'ultimo disco inciso Bad For You Baby (2008). Ad accompagnare Moore ci sono il bassista Peter Rees, le tastiere di Vic Martin e le batterie di Darrin Mooney e Graham Walker. Un disco che ricalca le uscite di quel periodo, dove cover, riletture e brani inediti vengono assemblati insieme. Qui troviamo quattro cover: una torrenziale 'I'm Tore Down' di Freddie King dai toni quasi hard, canzone che Moore amava spesso presentare durante i suoi live, un'altra vivace, strumentale e travolgente 'Steppin' Out' di Memphis Slim, lo standard di BB King 'How Blue Can You Get' del 1964 che da il titolo al disco e una frizzante 'Done Somebody Wrong' di Elmore James. Le quattro canzoni firmate da Moore sono la notturna 'In My Dreams' ballata con Moore che fa piangere la sua chitarra, il quasi rural blues 'Looking At Your Picture' e poi due rivisitazioni di suoi vecchi brani: 'Love Can Make A Fool  Of You' ripescata da Da Corridors Of Power del 1982, ripulita dagli orpelli anni ottanta e trasformata in un blues malinconico con un grandissimo assolo, infine 'Living With The Blues', un'altra classica ballata dal tocco alla Gary Moore  a chiudere il disco. 

A Moore non importava troppo vendere dischi, l'importante era rimanere sempre onesto e in linea con le proprie idee musicali. Probabilmente, però, questo disco venderà di più rispetto agli ultimi dischi in vita, usciti un po' in sordina e dimenticati in fretta. Ne sono sicuro. 

In un'intervista rilasciata al Belfast Telepraph a proposito delle sue smorfie mentre suonava disse:" potrebbero essere di dolore o di piacere. La gente mi prende in giro per questo, ma non c'è nulla di artificioso. Quando suono mi perdo completamente e non sono nemmeno consapevole di quello che sto facendo con la mia faccia - sto solo suonando ".

E in questo disco suona ancora molto bene tanto da riuscire ad immaginare quelle smorfie sul suo volto.





martedì 27 aprile 2021

RECENSIONI: LUCA ROVINI & COMPANEROS (L'ora Del Vero), ANTHONY BASSO, STAGGERMAN (Eight Crows On A Wire)

tre modi italiani simili ma diversi di guardare alla grande America musicale 

LUCA ROVINI & COMPANEROS  L'ora Del Vero (2021) 

Lo avevamo lasciato con il suo disco solitario figlio del primo lockdown. Sono passati solo alcuni mesi e intorno a noi poche cose sembrano essere cambiate veramente: siamo ancora tutti qui a lottare per la nostra libertà. Luca Rovini però questa volta sbuca fuori ancora più minaccioso da un tramonto rosso fuoco, ha una chitarra elettrica in mano e richiama intorno a sé i suoi Companeros per fare un po' di casino e dirne quattro (il brutto sogno in salsa country rock di '176esimo Sogno Di Luca Rovini'), rivestendo le sue canzoni di elettricità. Il matrimonio celebrato da Luca tra il cantautorato italiano e il rock americano va ancora a gonfie vele e l'intesa sembra migliorare di disco in disco. Si avanza a suon di rock ('L'ora Del Vero'), con una tambureggiante e marziale 'Quasi Mezzanotte', quasi minacciosa alla Crazy Horse, con la chitarra di Peter Bonta in prima linea, un'arma sempre in più da giocare per il toscano Rovini, poi ecco 'Che Farà?' che potrebbe giocarsi le sue carte da singolo per arrivare a tutti. La bella ballata scandita dal pianoforte 'Angeli Ubriachi Sulla Via' ci mostra invece l'altra faccia più intima e delicata così come 'Dove Brillano Le Barche' e 'Aspettiamoci A Casa' quella folk, intimista e solitaria. Come sempre ci sono anche due cover che ben delimitano lo spazio d'azione di Luca, ribadendo anche la sua immutata passione da vero fan: 'La Pioggia Vien Giù' di Steve Earle e 'Billy' di Bob Dylan.





ANTHONY BASSO
  Anthony Basso (2020) 

Conosciuto per aver militato fin da giovanissimo come chitarrista (e voce) nei friulani W. I. N. D., trio di viscerale hard blues che da qualche anno pare essersi messo in pausa (almeno così voglio credere), per questo suo primo disco solista (anticipato da un EP uscito quattro anni prima) batte le strade polverose e bollenti di quelle ballate marchiate a fuoco dal southern rock spesso bagnato dalle acque mai stantie del soul. Canzoni che profumano fortemente di anni settanta, che potrebbero benissimo essere uscite nel 1973, quindi senza tempo, come 'Ridin With A Siren', 'Things Gonna Change', il country di 'Tracks', la bellissima 'We Will See What Tomorrow Brings' che chiude il disco evocando spazi infiniti dove poter ancora camminare e sognare. C'è spazio anche per un paio di episodi più energici, ma mai troppo, come l'iniziale 'Something's Goin Wrong' o il trascinante funky di 'Biscayne Blvd Funk (Miami)'. Un suono caldo, corale e corposo che mette in gioco tutte le sue influenze da grande ascoltatore di classic rock. Ma se dovessi scegliere un solo nome da accostare a Anthony Basso opterei per gli Allman Brothers con Gregg Allman al seguito, naturalmente. 





STAGGERMAN
 Eight Crows On A Wire (AR Recordings, 2021) 

Staggerman è il progetto ormai consolidato del musicista bresciano Matteo Crema (tra le sue esperienze ricordo gli inarrivabili The Union Freego e quelle più recenti con i camuni Thee Jones Bones e il duo Franzoni- Zamboni). Un progetto che sembra fare un deciso balzo in avanti a livelli di suono e produzione grazie all'esperienza di Marco Franzoni in produzione e come musicista impegnato su più strumenti. La musica di Matteo Stagger si conferma come un caldo e rassicurante abbraccio tra un lento e pigro blues di frontiera (ecco le tromba di Francesco Venturini in 'Spilling Lifeblood', ma non solo, il tex mex di 'Crow Song' che gioca la sua partita con gli amati Calexico) e l'alt country più vicino ai nostri giorni in stile Wilco. Ciondolanti ballate che rievocano "il raccolto" di Neil Young ('Astonished J.'), il vagabondaggio notturno di 'Cursed Monkey' in grado di riesumare gli antichi spiriti lontani del primissimo Tom Waits e le ombrose calate nella notte di 'As A Stone' che chiude un disco dal suono evocativo e avvolgente come le acque del suo lago nativo nelle ore del crepuscolo.





sabato 24 aprile 2021

RECENSIONE: TOM JONES (Surrounded By Time)

TOM JONES  Surrounded By Time (2021)



il lento passo degli anni

L'altra sera Ornella Vanoni, ospite in un programma televisivo, l'ha buttata giù dura e chiara: "sono l'unica che alla mia età incide un disco di inediti. Di solito si fanno solo dischi di vecchi successi". Chissà forse era una frecciatina indirizzata anche al buon Tom Jones. Negli ultimi dieci anni però il signor Jones si è rimesso completamente in gioco e ha fatto uscire tre dischi, tra gospel, folk, R&B, country e americana, uno più bello dell'altro: Praise & Blame nel 2010, Spirit in the Room nel 2012 e Long Lost Suitcase nel 2015. Oggi a ottant'anni, quasi 81, a sei anni dall'ultimo, torna con SURROUNDED BY TIME, un disco di cover (eccolo!) nuovamente sotto la produzione di Ethan Johns. Ascoltando il nuovo brano 'Talking Reality Television Blues' che aveva anticipato il disco, una spoken song scritta da Todd Snider che vaga in tutta libertà tra la storia della televisione e le tappe che l'hanno caratterizzata sembrava proprio che pur arrivato a quella età, il gallese non avesse ancora mollato la presa, non stanco di mettersi ancora una volta in gioco. E ora che abbiamo tutto l'album si può confermare, anche se le prime canzoni sono abbastanza spiazzanti rispetto a quanto ci aveva abituato nei precedenti dischi: 'I Won't With You If You Fall' di Bernice Johnson Reagon, 'The Windmills Of Your Mind' , 'PopStar' di Cat Stevens e 'No Hole In My Mind' diMalvina Reynolds (con il sitar suonato da Ethan Johns) hanno suoni sintetici, elettronici, lenti, cupi, spesso guidati da moog e tastiere, feedback e riverberi, sembrano giocare con l'inesorabile trascorrere del tempo, della vita, ma la voce di Jones si staglia prepotente e ipnotizzante su tutto.

Se in 'In Won't Lie' dell'astro nascente Michael Kiwanuka mette sul piatto la sua età e si avvicina a grandi passi alle American Recordings di Johnny Cash e con 'This is The Sea' dei Waterboys che ci dimostra tutta la sua grandezza: sono sette minuti di crescendo folk soul che pochi al mondo possono condurre con questa naturale autorevezza. Sicuramente il miglior pezzo del disco. Troviamo poi una rivisitazione di 'Ole Mother Earth' di Tony Joe White, una straordinaria 'One More Cup Of Coffee' dell'amato Bob Dylan, spogliata dei suoni di frontiera alla Desire e gettata in pasto voce, chitarra, basso, batteria e moog. 'Samson And Delilah', è un rock’n’roll ridotto all'osso che lascia una scia di freddo dietro di sé. Ma mentre 'I'm Growing Old', una cover di Bobby Cole del 1967, guidata dal pianoforte, mette sul tavolo tutto il peso dell'età, i nove minuti finali di 'Lazarus Man' di Terry Callie, la smentiscono immediatamente con una versione che vola verso la psichedelia e la vita.

Tom Jones continua a non dare limiti alle sue interpretazioni, è la sua storia che glielo permette e il capitolo finale è ancora lontano nonostante l'amara consapevolezza, dettata anche dalla perdita dell'adorata moglie Linda, scomparsa nel 2016 e dalla malattia degli ultimi anni, che il tempo rimasto là davanti non sia più molto:"stare sulla strada. Questa è la cosa che mi è mancata di più. Sto aspettando il mio tempo, ma non ho molto tempo da aspettare. Non voglio avere 90 anni prima di poter tornare di nuovo sulla strada! ".







mercoledì 21 aprile 2021

RECENSIONE: DAVID OLNEY and ANANA KAYE (Whispers And Sighs)

DAVID OLNEY and ANANA KAYE  Whispers And Sighs (Appaloosa Records, 2021)



l'ultimo saluto

"Mi dispiace": con queste parole David Olney, chitarra ben stretta in mano, si è accomiatato dal mondo. È successo il 18 Gennaio del 2020 durante un suo concerto al 30A Songwriters Festival a Santa Rosa Beach, in Florida. 

Non era ai saluti finali, non era un semplice "arrivederci alla prossima" dato in pasto al suo pubblico, era solo alla terza canzone quando il suo cuore non ha più retto. Era veramente un addio al mondo. Improvviso. Inaspettato. Sul palco. Dieci anni prima era stato operato a quel complicato organo che tiene in piedi tutto ma il peggio sembrava essere passato. Sembrava. Olney aveva 71 anni e sebbene non arrivò mai al grande successo di pubblico, è stato uno dei songwriter di Nashville più amati e saccheggiati: da Johnny Cash a Townes Van Zandt (che una volta disse "ogni volta che qualcuno mi chiede chi sono i miei autori musicali preferiti, dico Mozart, Lightnin 'Hopkins, Bob Dylan e Dave Olney") da Emmylou Harris a Steve Earle, in tanti hanno cantato le sue canzoni. Prima di morire, però, aveva portato a compimento un piccolo grande sogno, che lui stesso disse essere ambientato in un'epoca tra il 1890 e il 1920. Durante il sogno, ubicato in una città apparentemente non esistente (ma che Olney indica simile a Parigi o Vienna), era in corso una guerra (nella dolente  'My Last Dream Of You' ci sono gli ultimi ricordi di un soldato in punto di morte)  ma tutto intorno però fioriscono e svaniscono amori e amicizie. In 'Behind Your Smile' cantano di quanto sia importante avere qualcuno che condivida i tuoi stessi sogni. Insomma, nonostante tutto, si respira ottimismo a pieni polmoni

Già i sogni. Nel sogno di Olney, in quella città, c'è perfino un bistrò vicino alla strazione ferroviaria dove incontra due musicisti di Nashville. Una coppia artistica e nella vita: la giovane cantante di origine georgiana Anana Kaye, 26 anni, e suo marito Irakj Gabriel, chitarrista. È però tutto vero. I frutti di questo incontro artistico  sono documentati in alcuni video presenti su Youtube. 


Su tutto l'album sembra sempre calare l'oscurità portata in dote dalle voci della Kaye e dalla straordinaria interpretazione dello stesso Olney che si alternano al canto in canzoni dove Americana e cultura dell'Est Europa si incrociano in modo divino. 

Aleggia un tono greve che sa di antico, di passato, imbastito da arrangiamenti d'archi e pianoforte ('Whispers And Sighs'), dalla teatralità su cui è costruita 'The World We Used To Know', dalle ballate acustiche dolenti come 'Tennessee Moon' e la quasi preveggente  'My Favorite Goodbye', dalla waitsiana e notturna 'Thank You Note' fino alla finale 'The Great Manzini', quasi un connubio perfetto tra Leonard Cohen e Nick Cave. 

Ma non mancano un paio di scosse elettriche come 'Lie To Me, Angel' e la stonesiana 'Last Days Of Rome' con un riff alla Keith Richards, un sax a sbuffare fumo e con Olney che sembra quasi darsi al rap in quella che è forse la canzone più particolare e staccata dal contesto.

Un lavoro certamente ambizioso, non facile, ma riuscitissimo. Se entrate nel mood verrete ripagati. Ecco, quando Olney esclamò quel "mi dispiace" prima di accasciarsi sul palco, forse nel suo debole cuore sapeva che questo suo ultimo sogno prima o poi si sarebbe avverato. Vista la qualità non poteva rimanere nascosto per troppo tempo.






lunedì 12 aprile 2021

RECENSIONE: SUZI QUATRO (The Devil In Me)

SUZI QUATRO  The Devil In Me (SPV/Steamhammer, 2021)


un diavolo per capello

A Suzi Quatro non si può non volere bene, soprattutto dopo essere caduti innamorati davanti ai suoi attillati vestiti di pelle nera, al suo basso pulsante, alla sua ribelle carica giovanile. Erano gli anni settanta e potevi avere dieci anni, venti o cinquanta ma lei in qualche modo riusciva a catturarti senza mettere in campo troppi ammiccamenti o pose sexy. Posò pure per Penthouse: vestita di pelle naturalmente, ma non la sua. Non era da tutte. 

Potevi averla conosciuta con le note di '48 Crash', 'Can The Can' o nascosta sotto gli abiti di Leather Tuscadero, praticamente i suoi, in Happy Days ma difficilmente passava inosservata senza lasciare segni futuri. Chiedere alle riot girl che arriveranno dopo di lei. 

Ora che di anni ne ha settanta (eh, non si dovrebbe dire ma credo che a lei interessi poco), dice di aver registrato il suo miglior disco di sempre. Non so se abbia ragione o meno (gli artisti dicono sempre così dei loro ultimi dischi), so solo che questo nuovo album prosegue diritto nella stessa direzione del precedente No Control uscito due anni fa: davanti a tutto c'è la libertà artistica che può permettersi a questo punto della carriera. Ad aiutarla in fase compositiva e alla chitarra c'è ancora una volta il figlio Richard Tuckey, frutto del suo primo matrimonio ma soprattutto buona spalla su cui appoggiarsi per riprendersi un posto che le spetta di diritto. 

The Devil In Me è un disco fresco, vario e vivace, fatto di tante chitarre ma anche di momenti di grande atmosfera blues. Pieno di belle canzoni che non hanno grandi pretese se non quella di dimostrare che se hai il groove e il rock'n'roll sotto le unghie a vent'anni continui a graffiare anche a settanta. 

Se agli estremi troviamo ancora il pulsante rock'n'roll che ci ricorda il passato, certo il bubblegum non è più di moda e si è pure indurito un po', quello con il riff di chitarra più moderno e hard dell'iniziale tite track, quello glam, boogie e on the road della finale 'Motor City Riders', in mezzo troviamo anche tutta la maturità di un'artista che ama ancora giocare con il pop ('You Can' t Dream It'), il soul ('My Heart And Soul'), il blues (la scatenata 'Get Outta Jail'), con notturni R&B  ('Isolation Blues' e 'Love' s Gone Bad') e con la ballata "In The Dark' che ne svelano una inaspettata ma vincente anima da soul crooner. È pur sempre figlia di quella Detroit musicale, quindi del rock'n'roll e della Motown, si percepisce. 

Ah dimenticavo: Suzie Quatro indossa splendidamente anche i suoi anni maturi, senza trucchi e senza inganni.





lunedì 5 aprile 2021

RECENSIONE: SMITH/KOTZEN (Smith/Kotzen)

SMITH/KOTZEN   Smith/Kotzen (BMG, 2021)



la forza di coppia

Due artisti che non hanno bisogno di troppe presentazioni: per Adrian Smith basta seguire la storia degli Iron Maiden dall'inizio fino ad oggi, togliendo gli anni novanta comunque passati in compagnia di Bruce Dickinson solista, per Richie Kotzen oltre a una carriera solista consolidata e costruita su ormai tanti dischi, ci ricordiamo anche dei tanti gruppi a cui ha prestato chitarra e voce (Poison, Mr. Big, Mother Head's Family Reunion, Winery Dogs). E di uno come Richie Kotzen io mi sono sempre fidato, ancor di più dopo averlo visto dal vivo: artista completo, non solo chitarra ma grande autore e una voce più che interessante e sorprendente. Per questo debutto la strana coppia (ma mica tanto) ha deciso di fare quasi tutto da sola: i due intrecciano le loro chitarre, suonano il basso un po' a testa, Kotzen si siede addirittura dietro alla batteria (lasciata  a Nicko McBrain nella tirata 'Solar Fire' e a Tal Bergman in altre tre tracce) e si alternano al microfono come fossero David Coverdale e Glenn Hughes in Stormbringer dei Deep Purple, disco che gli stessi Smith e Kotzen hanno indicato come uno dei fari guida. 

Registrato presso le isole caraibiche di Turks e Caicos, queste nove canzoni sono il risultato di un sodalizio che premeva da alcuni anni dietro a prolungate jam tra i due a Los Angeles. "Tra noi c'è stata una scintilla!" dice Kotzen. 

Era partito tutto con la composizione di 'Running', rock roccioso e carico di groove, si è sviluppato in nove brani, lunghi, hard ('Taking My Chances'), articolati, melodici (la distesa 'I Wanna Stay') dove l'amore per il blues fa da collante (tra le migliori la notturna 'Scars') ma dove ognuna delle due parti ha portato le proprie esperienze e virtù. 

"La prima canzone che abbiamo effettivamente sviluppato è stata 'Running' , a quel punto ho pensato: 'va bene qui sta succedendo qualcosa'. Quando poi abbiamo fatto 'Scars', che penso fosse la seconda traccia  che abbiamo messo insieme, a quel punto ho pensato che avessimo davvero qualcosa di speciale" racconta Kotzen. 

Così se l'hard funk di 'Some People' e gli umori southern con l'andatura alla Free di 'Glory Road' sono iscrivibili a Kotzen e al suo sempre troppo dimenticato progetto southern Mother Head's Family Reunion, l'articolata 'Til Tomorrow' sembra uscire da un disco solista di Bruce Dickinson o dal mai troppo osannato Brave New World degli Iron Maiden così come l'epicità di You Don't Know Me'. Non ci saranno canzoni memorabili ma tutto il disco suona compatto, vivace e vero. Se i due avranno la voglia di proseguire su questa strada ne sentiremo delle belle.





martedì 30 marzo 2021

RECENSIONE: NEIL YOUNG (Young Shakespeare)

NEIL YOUNG   Young Shakespeare (Reprise Records, 1971/2021)



same old song (but I like it) 

I concerti al Cellar Door di Washington DC, quello al Massey Hall di Toronto e ora questo allo Shakespeare Theatre di Stratford, nel Connecticut, sono solo tre delle sei date suonate a pochi giorni l'una dall'altra tra la fine del 1970 e i primi giorni del 1971 con un Neil Young non in grandissima forma fisica che forse avrebbe voluto tenere tra le mani una chitarra elettrica e avere i Crazy Horse dietro, ma che invece si ritrova solo, seduto su una sedia al centro di piccoli palchi con una chitarra acustica e un pianoforte (durante il concerto scherzerà pure sulle sue capacità allo strumento). 

Dietro ha comunque  un anno straordinario come il 1970 che lo ha visto protagonista prima con Deja Vu insieme a Crosby, Stills e Nash, davanti un futuro che se non è ancora scritto è però già imbastito a dovere da canzoni presentate per la prima volta in pubblico. Ecco 'Old Man', 'The Needle And The Damage Done', uno stupendo medley  al pianoforte  tra 'A Man Needs A Maid' e 'Heart Of Gold' che usciranno su Harvest solo un anno dopo.

"Per i due anni seguenti l'uscita di After The Goldrush e Harvest facevo dentro e fuori dagli ospedali: ho un lato debole, la schiena e così non riuscivo a sostenere la chitarra. Questo è il motivo per il quale nel mio tour da solo stavo sempre seduto, non riuscivo a muovermi bene" dirà in una intervista a Rolling Stone. 

Sorvolando sull'aspetto prettamente speculativo di questa ennesima uscita (c'è comunque il DVD con le immagini della serata nella versione deluxe insieme al vinile), il bombardamento di uscite discografiche che sta investendo i fan di Neil Young in questo inizio 2021 è da terza guerra mondiale (parlo naturalmente della guerra che vorremmo tutti: fatta di amore, pace e tanta musica), anche Young Shakespeare pur avendo le stesse canzoni che troviamo sparse tra  Cellar Door e Massey Hall, e che abbiamo mandato a memoria (a parte una 'Sugar Mountain' nel finale durante la quale Young invita il pubblico a cantare con lui), è l'ennesimo disco dall'atmosfera raccolta e magica con un Young che sta vivendo una dei suoi massimi momenti creativi di sempre. A soli tre giorni dall'osannato concerto di  Toronto, queste dodici tracce, registrate il 22 Gennaio 1971, si differenziano per l'alto tasso di intimità che permea le esecuzioni (Young parla, scherza e introduce alcune canzoni)  lontane dall'esuberanza del pubblico amico del Massey Hall, rumoroso e presente con mani, grida e pure piedi. 

Dopo la facciata elettrica mostrata con i Crazy Horse dei primissimi anni Novanta con il live Way Down In The Dust Bucket ecco anche l'altro lato della sua musica. Per me è sempre stata dura scegliere una delle due. Ho sempre preso entrambe senza distinzioni. Prendo Neil Young tutto intero.




RECENSIONE: NEIL YOUNG With CRAZY HORSE - Way Down In The Rust Bucket (Reprise Records, 2021) 



mercoledì 24 marzo 2021

RECENSIONE: ISRAEL NASH (Topaz)

ISRAEL NASH  Topaz ( Loose Records, 2021)


il grande volo

Qualche mese fa in pieno primo lockdown fui catturato per l'ennesima volta dalle splendide foto di Henry Diltz, scattate tra la fine degli anni sessanta e i pieni settanta tra Laurel Canyon e la California tutta. Non nascondo che se proprio volete buttarmi dentro a un periodo storico legato alla musica vorrei finire lì dentro, affacciato alla finestra della casa di Joni Mitchell, scavalcare il recinto del Broken Arrow Ranch di Neil Young come fosse la staccionata dell'olio Cuore, farmi crescere i baffoni a manubrio alla David Crosby possibilmente con quel carisma annesso. Questo per dirvi che ascoltando questo sesto album di ISRAEL NASH ho avuto lo strano stesso desiderio: voglio finire qui dentro, anche se i suoi testi, a parte alcuni pungenti riferimenti alla non felice vita politica della sua America, sembrano troppo personali e introspettivi per far posto a qualcun altro. Mi metterò in un angolo ad osservare. Ad ascoltare prima di tutto. Voglio finire qua dentro perché TOPAZ (titolo rubato al nome di un motel) è un gran bel disco, fin dalla copertina. Ecco: finalmente c'è ancora qualcuno che ci crede a queste cose, alle belle copertine dico. Un disco, inciso quasi in presa diretta nella sua casa a Austin in Texas con la produzione di Adrian Quesada (uno dei due Black Pumas), che sa  viaggiare lontano da qualunque lato si inizi l'ascolto. Siamo sullo stesso campo di gioco del primo Jonathan Wilson, di Ryley Walker. Country folk (la ballata 'Canyonheart' tra Neil Young e Dylan) imbevuto di morbidezza acida ('Dividing Lines'), squarci psichedelici sognanti e cosmici ('Southern Coasts') e scaldato a forti dosi di fuoco soul ('Stay', 'Down In The Country', 'Pressure'), cori gospel ('Closer') e fiati. Certamente un posto affascinante dove poter stare ed è bello che qualcuno continui ancora a crearli posti così, anche se solo con la mente. Io ci sarò.




giovedì 18 marzo 2021

RECENSIONE: PETER CASE (The Midnight Broadcast)

PETER CASE  The Midnight Broadcast  (Bandaloop Records, 2021)


the last dj

Ascoltando questo nuovo disco di Peter Case, le prime immagini che mi sono venute in mente sono arrivate direttamente dai  primissimi anni ottanta, quando con la macchina dello zio si vagava a tarda sera per le stradine che delimitavano i campi di frumento delle campagne di Pordenone e provincia in cerca di quei strani segni, bruciature, che i più fantasiosi attribuivano alla calata in terra di qualche navicella extraterrestre. Gli UFO erano tra di noi e sembrava che tutte le estati venissero a trovarci. Ricordo che zio era un appassionato di CB (o baracchini) e nella sua macchina era un continuo andare e venire di segnali radio, con voci, rumori e fischi che si sovrapponevano di continuo. Comunicava con tutto il mondo così. In un'era pre internet sembrava una cosa veramente magica e "spaziale" appunto. 

"Un tentativo di catturare la sensazione che ho provato in innumerevoli viaggi durante la notte americana con la radio accesa", così Peter Case descrive questo disco: una raccolta di canzoni altrui (l'unica sua è in apertura e s'intitola 'Just Hangin 'On') spesso interrotte dalle voci e dai più vari e fantasiosi discorsi di dj radiofonici che cercano di tenere sveglio l'ascoltatore solitario al volante mentre dal finestrino scorrono veloci i paesaggi dell'America più profonda. Un disco di un certo fascino. Straniante, solitario, scuro, lo-fi, fatto di folk blues minimale, chitarra e voce, a volte solo organo e voce, essenziale che va indietro a scavare e riprendere le radici della musica americana. E qui Peter Case è un vero campione. Da traditional come 'Stewball' e 'Captain Stormalong', passando per 'Farewell To The Gold'  di Paul Meters, 'When I Was A Cowboy' (conosciuta nella versione di Ledbelly), 'President Kennedy' di Sleepy John Est e arrivando a un recente Bob Dylan con 'Early Roman Kings' (da Tempest) e The Band con 'Wheels On Fire', scritta ancora da Dylan con Rick Danko. 

Peter Case si conferma come uno dei più straordinari studiosi delle radici musicali americane e questo album possiede un fascino quasi sinistro e inquietante in grado di trasportare l'ascoltatore indietro quando le foto erano ancora in bianco e nero e la radio un lusso per pochi. E se non riuscite a immaginare quelle strade cantate da Case (e registrate nel 2019 alla Old Whaling Church) certamente vi verrà in mente un vostro ricordo legato all'asfalto, a quattro ruote che vi girano sopra veloci , un volante e quella radio tenuta accesa a far compagnia durante le ore più buie di una qualunque  giornata di tanti anni fa.






giovedì 11 marzo 2021

RECENSIONE: THOM CHACON (Marigolds And Ghosts)

 

THOM CHACON  Marigolds And Ghosts (Pie Records, 2021)



le cose semplici

Sangue metà libanese, metà messicano, nato a Sacramento ma proveniente da Durango, un vecchio cugino pugile, Bobby Chacon, avversario di quel Ray “Boom Boom” Mancini cantato da Warren Zevon e un nonno sceriffo nel New Mexico ai tempi di Billy The Kid. Basterebbero tutte queste coordinate per capire quanto per  Thom Chacon i confini non siano alti muri invalicabili ma  semplici linee da attraversare con curiosità e speranza in cerca di buone opportunità di vita, proprio come canta in 'Borderland' dove denuncia le condizioni dei bambini sul confine tra USA e Messico o la terra promessa  sognata dagli immigrati raccontata in 'A Better Life'. 

Marigolds And Ghosts è il suo terzo disco dopo il debutto  del 2013, ancora il mio preferito con quel suono che mi ricordava tanto John Wesley Harding, e di Blood In The USA di tre anni fa. Tom Cachon non è un rivoluzionario, non lo diventerà mai, credo, ma un onesto operaio che sa raccontare storie di pancia e cuore, sangue e lacrime, speranza e disillusione. Per farlo non si complica la vita, usa sempre il modo più semplice possibile: strumentazione basilare da country folker (la sua chitarra acustica e l' armonica, il contrabbasso suonato da Tony Garnier, vecchia conoscenza per chi segue Bob Dylan), e una voce calda, roca e profonda (proprio come Ryan Bingham) che si fa per forza ascoltare mentre canta sì di disperazione ma anche di cose più intime e private: la storia di un amico che ha passato cinque anni tra le sbarre ('Marigolds And Ghosts'), la vita che scorre tra paesaggi americani che catturano gli occhi e i pensieri ('Mansoon Rain'), I ricordi legati alla nonna materna ('Florence John' con la dobro di Tyler Nuffer), la sua infanzia senza i genitori ('Kenneth Avenue'), la fede ('Sorrow', 'Church Of The Great Outdoors') o più semplicemente l'infatuazione verso personaggi da film Western come Lee Van Cleef ('Angel Eyes'). 

Questa volta sembra ancora tutto più semplice, tutto ridotto all'osso perché insieme al produttore Perry A. Margouleff ha deciso di registrare queste nove canzoni live su nastro analogico, mettendo in risalto il più possibile le storie, esaltando il messaggio ben  amplificato dalla sua voce certamente d'impatto, graffiante e riconoscibile.






sabato 6 marzo 2021

RECENSIONE: ANDERS OSBORNE (Orpheus And The Mermaids)

ANDERS OSBORNE   Orpheus And The Mermaids (5th Ward Ent, 2021)



folk solitario

Cosa gli sia rimasto di svedese, ora che anche i capelli e barba sono bianchi come un vecchio bluesman della Lousiana, lo custodisce lui nel suo profondo. Trent'anni di New Orleans come minimo vuol dire averci messo tante radici da sembrare il perfetto padrone di casa di quelle terre americane dove decise di fermarsi poco più che ventenne. Ha vangato quella terra, ha respirato la musicalità presente nell'aria di quei luoghi. Ha messo tutto in musica. Ha cesellato dischi straordinari come Which Way To Here (1995) e  Living Room (1999), canzoni più cupe e scure come quelle contenute in American Patchwork (2010) e Black Eye Galaxy (2012) e cose più bizzarre e giocose come quelle di Peace (2013), sfrontato fin dalla copertina. 

L'ultimo Buddha And The Blues (2019) era il suo disco dalle atmosfere solari e californiane, west coast, e questo nuovo sembra proseguire nella stessa direzione anche se in modo diverso. Solitario e senza compagnia si tuffa completamente nel folk con qualche  puntata nel blues (la ritmica 'Welcome To Earth'). Semplice e diretto. Solare ('Light Up The Sun'). Nove canzoni incredibilmente riuscite, come sempre, ispirate, costruite con sola voce, chitarra acustica e qualche armonica (l'apertura da viaggio on the road 'Jacksonville To Wichita', la riuscita e dylaniana 'Last Day In The Keys', 'Dreamin'), cantate divinamente e con la solita chitarra ispirata a ricamare (la slide di 'Pass On By'). Elettrico o acustico poco importa, Osborne sa scrivere canzoni quindi difficilmente sbaglia un disco. Eccone un altro da mettere in fila. Rimane solo il mistero della reperibilità fisica di questo disco. Al momento si può trovare solo il vinile con allegato merchandise, ordinabile dal suo sito. Aspettiamo...




lunedì 1 marzo 2021

RECENSIONE: NEIL YOUNG With CRAZY HORSE (Way Down In The Rust Bucket)

NEIL YOUNG With CRAZY HORSE 
Way Down In The Rust Bucket (Reprise Records, 2021) 


un altro anno del cavallo

Ragged Glory fu la sublimazione del suono dei CRAZY HORSE in studio ma anche l'entrata trionfale di NEIL YOUNG negli anni novanta. Talmente trionfale che dietro di sé si trovò una schiera di giovani musicisti pronti a seguirlo, ergendosi a totem di un'intera scena. "Finito l’album andammo in tour con i Sonic Youth e i Social Distortion. Era un gran cartellone, la gente vedeva un vero spettacolo. Era potente”. Ma prima del grande tour (uscirà il più granitico Weld a testimonianza) il 13 Novembre del 1990, Neil Young, Poncho Sampedro, Billy Talbot e Ralph Molina salirono sul palco del Catalyst a Santa Cruz per provare in anteprima quello spettacolo davanti a dei fan. Il locale ha una capienza da 800 posti, un posto piccolo e raccolto rispetto alle grandi arene del tour che seguirà. Forse la location perfetta per chi la perfezione non l'ha mai cercata. E la scaletta è completamente differente da quella di Weld, quasi fossero un pre e dopo guerra in Iraq, lì in mezzo pronta a scoppiare. L'inserimento di 'Blowin'in The Wind' sarà la testimonianza di tutto ciò. 
Una scaletta di tre ore che presenta in anteprima tutte le canzoni di Ragged Glory (ecco i nove minuti di 'Country Home' a fare da ariete), e pesca qualcosa dal passato tra cui due canzoni dal dimenticato Re-ac-tor ('Surfer Joe and Moe the Sleaze', il treno in corsa non sense di 'T-Bone'), una sempre ruspante 'Bite The Bullet' da American Stars 'N Bars , la vecchia 'Cinnamon Girl' (manca 'Cowgirl in the Sand' ma pare che le registrazioni non fossero il massimo, comunque presente nella versione con DVD), la sbilenca 'Roll Another Number (For the Road)' da Tonight's The Night, gli assalti frontali di 'Sedan Delivery' e 'F*! #in' Up' e la prima comparsa live della sempre amara 'Danger Bird', una delle sue grandi canzoni, sempre troppo intima e personale per essere data in pasto al pubblico. 
Inutile dire che i Crazy Horse si confermarono tanto sgraziati e sgangherati, in senso positivo, in questa occasione anche rilassati, quanto tra le più potenti e inossidabili garage band di sempre. "Suonano davvero aggressivi" dirà Young. 
Le canzoni si allungano a dismisura, si caricano di elettricità e feedback: "volevo di proposito suonare lunghi pezzi strumentali perché non sento più, negli altri dischi, l'improvvisazione. Non c'è più niente di spontaneo nei dischi che si fanno oggi…" lascerà detto Neil Young in una intervista a Rolling Stone all'epoca per l'uscita di Ragged Glory. 
E il trittico finale da 37 minuti formato da 'Like a Hurricane', 'Love and Only Love' e 'Cortez the Killer' è lì a testimoniare il tutto.








giovedì 25 febbraio 2021

RECENSIONE: ALICE COOPER (Detroit Stories)

 

ALICE COOPER - Detroit Stories (earMUSIC, 2021)



ritorno a casa

"Detroit ci calzava come un guanto. Stooges, MC5, Amboy Dukes, Bob Seger e adesso… Alice Cooper! Eravamo dentro". 

1970, così Alice Cooper annunciava il trasferimento della band dalla scena di Los Angeles alla città di Detroit. Per lui un ritorno a casa, per la band il trampolino di lancio verso il successo dopo due dischi sotto l'ala protettrice di Frank Zappa, tanto originali quanto passati inosservati nel ricco mercato discografico dei tempi. Tante le cose che cambiarono: la loro musica, il loro aspetto, gli spettacoli, l'etichetta discografica (ecco la Warner!), il produttore (ecco il giovane Bob Ezrin!, all'epoca solo diciannovenne).

"La scena hard rock di Detroit era vibrante, quasi magica. Potevi andare in un club e vedere cinque o sei incredibili band in una stessa sera...era il centro dell'universo rock" ricorda Ezrin.

Alice Cooper: "Detroit era l’unico luogo che riconobbe il tipico sound hard rock e i nostri spettacoli folli dal vivo. Detroit era un porto sicuro per gli emarginati… eravamo a casa.” 

E in quella casa Alice Cooper ci ritorna oggi dopo cinquant'anni, anche se ci era già tornato più volte, l'ultima con l'album Paranormal, uscito nel 2017. Ma attenzione non è un ritorno nostalgico, perché Alice Cooper durante la sua carriera ci ha dimostrato di prendere spunto dal passato per guardare sempre avanti. Sa stare al passo con i tempi senza mai forzare la mano. La variegata discografia parla chiaro. E a 73 anni è ancora in forma smagliante e dopo averlo visto dal vivo poco meno di due anni fa lo posso confermare: uno dei concerti più divertenti che abbia visto negli ultimi anni. E proprio due anni fa fece uscire un EP, Breadcrumbs, che sembrava già anticipare le sue future mosse. Fu la presentazione di un progetto molto più ampio che aveva in mente. Alcune tracce come il proto punk di 'Go Man Go', l'hard rock di 'Detroit City 2000', sua vecchia canzone ripresa e aggiornata dove vengono citati Mc5 e la  Motown, alcune cover come 'Sister Anne' degli MC5, 'East Side Story' di Bob Seger vengono riprese anche qui. 

Certo, la presenza di vecchie volpi come il produttore Bob Ezrin (un sodalizio resistente il loro) e musicisti ospiti come Wayne Kramer (MC5), Johnny ‘Bee’ Badanjek (batterista dei Detroit Wheels), i chitarrista Steve Hunter (The Detroit Wheels) e Mark Farmer (Grand Funf Railroad),  e il bassista Paul Randolph sembrano chiudere perfettamente il cerchio con quell'epoca d'oro così come fa quella 'Rock'n'roll' con la chitarra ospite di Joe Bonamassa posta in apertura, per omaggiare e rinsaldare l'amicizia con Lou Reed che non era di Detroit ma ha avuto il suo peso. 

Ma le vere sorprese sembrano arrivare dopo. 

"C'è un certo suono di Detroit che stiamo cercando, è indefinibile. C'è una certa quantità di R&B dentro. C'è una certa quantità di Motown. Ma poi aggiungi le chitarre e aggiungi l'atteggiamento e si trasforma in rock di Detroit. Mi sento come se fossimo in giro con tutti i musicisti di Detroit, troveremo quel suono "

E gli occhi pittati di Alice Cooper sembrano planare sì sulla città dei motori (suo padre vendeva macchine usate), della rivista Creem e del garage rock'n'roll più sguaiato (la corale  'I Hate You' che vede riuniti i membri della vecchia band  Neal Smith, Michael Bruce, Dennis Dunaway che cantano una strofa a testa, 'Hail Mary' e “Shut Up And Rock') ma più in generale sulla musica con lo sguardo sincero e ancora devoto da vero fan: sull'hard rock di 'Social Debris', dentro il blues di 'Drunk And In Love', sulle ali del pop lisergico di ‘Our Love Will Change The World’, nel rock'n'roll imbevuto di soul e funky di '$1000 High Heel Shoes’ con i suoi cori femminili delle Sister Sledge, chiaro omaggio alla Motown così come 'Wonderful World' e 'East Side Story' che sembrano mischiare l'amore mai nascosto per Jim Morrison con l'aspetto più teatrale della sua arte, nel cadenzato incedere di 'Hanging By Thread' uscita a inizio pandemia, un chiaro invito a resistere.

Se amate il rock, uno sguardo dentro a questi cinquanta minuti potete buttarlo, anche se non avete gli occhi truccati e scappate di fronte a un boa, pochi artisti a questa età riescono a trasmettere la freschezza compositiva di Alice Cooper.






martedì 16 febbraio 2021

RECENSIONE: THE DEAD DAISIES (Holy Ground)

THE DEAD DAISIES  Holy Ground (SPV, 2021)




il timbro di Glenn Hughes

Me lo immagino così David Lowy, padre e padrone dei Dead Daisies: al supermercato della musica a barattare quel che ha con qualcos'altro. Tenga signor Lowy, le diamo un solo Glenn Hughes al posto dei suoi John Corabi e Marco Mendoza, le va bene? Come no? Prendo e porto a casa. Voi lo avreste fatto? 

"Ci siamo incontrati a Los Angeles, abbiamo cenato bene e mi ha detto che la band stava cambiando, e mi ha chiesto se volevo incontrarmi con loro a New York e fare le prove, scrivere nuove canzoni…" racconta Hughes del suo incontro con il capo Lowy. 

Il risultato? Un disco che conferma i Dead Daisies come una delle band punta del moderno hard rock degli anni duemila, seppur con  la interminabile girandola di musicisti, tutte delle vecchie volpi, che vi hanno gravitato intorno. Super gruppo che oltre a Lowy (chitarra ritmica) e Hughes (voce e basso) può contare su due pezzi da novanta come Doug Aldrich (chitarre) e Deen Castronovo (batteria) che però sembra aver già abbandonato il suo posto per motivi personali. 

L'entrata di Hughes a basso e voce si sente in 'Like No Other (Bassline') che è quasi subito lì, una sorta di carta d'identità, a dimostrare forza e bravura con il suo irresistibile groove funky  e un po' tutto il disco sembra avvolgersi intorno al carisma di quella voce che non sembra aver perso un'oncia della sua forza. Gli anni sono 68. E poi si sa, ovunque vada, Hughes porta il tuo trade mark riconoscibile, che siano i Deep Purple, i Black Sabbath o i Black Country Communion.

"La presenza di Glenn ha portato un timbro diverso rispetto a John Corabi, il disco, infatti, ha delle sonorità più heavy e un groove decisamente bello" ha detto Aldrich in una recente intervista. 

Sono così sorte due correnti di pensiero: c'è chi pensa che i Dead Daisies abbiano snaturato  troppoil loro suono, c'è chi dice che Hughes abbia solo portato la sua esperienza e il suo carattere all'interno di una macchina già ben oliata e rodata. Una cosa è certa, se un brano come 'Come Alive' sembra ancora legato ai vecchi dischi in canzoni come la terremotante apertura 'Holy Ground (Shake the Memory)', nella modernità che segna 'Saving Grace', nel riff sabbathiano di 'My Fate' (i caratteri alla Master Of Reality che campeggiano nel retro copertina sono un omaggio ben evidente), nella cover '30 Days In A Hole' degli Humble Pie con Castronovo alla voce, nella finale 'Far Away', power ballad dal lungo minutaggio che alterna arpeggi a stacchi elettrici, ci sono le solide basi su cui si poggia un disco che non inventa nulla ma ha il pregio di mantenere caldo e vivo un suono troppe volte dato per agonizzante. Certo, i detrattori di Hughes, quelli che non avrebbero mai preso attraverso un baratto con altri due musicisti di primissimo piano, devono girare alla larga.






mercoledì 10 febbraio 2021

RECENSIONE: LUCERO (When You Found Me)

LUCERO
   When You Found Me (Thirty Tiger, 2021)



cambiare rimanendo se stessi

Se c'è un merito che bisogna riconoscere alla band di Ben Nichols è quello di sfuggire da l'immobilismo sempre e comunque, che piacciano o meno i territori calpestati. Prendete il precedente Among The Ghosts, stupendo album uscito nel 2018, certamente tra i vertici della loro carriera, ecco: sarebbe stato facile rimanerne almeno sulla scia di quel ritorno alle origini cupo, tinto di nero e avvolto nelle nebbie del Sud. Invece, ancora una volta, sembrano smarcarsi, così come l'apice del Memphis sound toccato in dischi come Women & Work e 1372 Overton Park si allontanava dall'alt country dei loro esordi. In questo continuo alternarsi di umori musicali c'è però un sottile ma resistente filo di continuità che lega il tutto, iscrivibile alla libertà compositiva su cui poggia da sempre la classica scrittura di Nichols, sempre sulle orme del suo mito Warren Zevon. 
"È stato emozionante e al tempo stesso scoraggiante iniziare il processo di scrittura del nuovo disco, perché Among the Ghosts è nel complesso il mio album dei Lucero preferito". E forse ha ragione. Anche se questa volta i toni cupi e minacciosi vengono dettati da un uso maggiore di riverberi chitarristici (le chitarre di Brian Venable) e dai sintetizzatori vintage ( e qui sale in cattedra il tastierista Rick Steff), crocevia tra gli eighties e il presente, tra il graffio e il velluto con la riconoscibile voce di Nichols in mezzo. L'album ha una sua atmosfera, un suo carattere. C'è tensione. L'obiettivo è stato centrato. I testi di Nichols continuano ad abbeverarsi dentro all'America più nascosta dove si stipulano ancora strani patti con il maligno nell' oscurità ('Have You Lost Your Way?'), dove viaggiare negli States più profondi può portarti a scoprire strani omicidi ('Outrun The Moon'), conoscere personaggi come William Morgan, combattente antifascista durante la rivoluzione cubana raccontato nel pungente honky tonk 'Back In Ohio' arricchito dal sax di Jim Spake, o incazzarti per quello che vedi intorno a te (l'unica concessione politica del disco  'A City On Fire'). Ma negli ultimi anni è emersa con prepotenza la sua vena introspettiva, lascito del suo matrimonio e della raggiunta paternità. 
"I testi di Lucero sono sempre stati cose abbastanza personali e il tema della famiglia è sempre stato un elemento nella scrittura delle canzoni, ma forse lo è ancora di più in When You Found Me perché ero a casa con la mia famiglia intorno a me tutto il tempo" racconta Nichols. Pesca tra i propri ricordi o nel suo vissuto quotidiano: 'Coffin Nails' prende spunto dalla storia di suo nonno, fante durante la seconda guerra mondiale, per parlare delle condizioni dei veterani di guerra, oppure nella eterea 'Pull Me Close Don't Let Go' ispirata dalla piccola figlia di quattro anni, 'All My Life' è una lettera d'amore alla moglie, mentre la ancora più personale 'When You Found Me' racchiude l'intera famiglia in una chiusura di disco malinconica e di speranza nel futuro. 
I Lucero sono ancora in movimento. A modo loro. Mosse di squadra lente e di sottrazione seguendo l'ispirazione dettata dal loro porta voce.







mercoledì 3 febbraio 2021

è uscito il mio libro METTI IL DISCO CHE STO ARRIVANDO! - Una Vita Di Dischi Aperitivo

è uscito il mio libro METTI IL DISCO CHE STO ARRIVANDO! - Una Vita Di Dischi Aperitivo

qualche anno fa all'orario giusto, iniziai a pubblicare "il disco aperitivo" nella mia bacheca Facebook. La cosa mi è un po' sfuggita di mano. 

Ha una memoria infinita, dicono sia democratico e a portata di tutti ma io del web non mi sono mai fidato troppo. Forse perché sono ancora uno di quelli all’antica che vuole metterci il naso dentro. Per questo ho raccolto su carta anni di scritti sparsi su blog e social: li voglio vedere, toccare e annusare proprio come faccio con la musica e i suoi ormai obsoleti supporti fisici che piacciono a noi “pochi”. Una raccolta di dischi che in qualche modo hanno segnato la mia vita (tanti ho dovuto escluderli, forse troveranno il loro spazio in futuro), di alcuni troverete storie più dettagliate, altri si limiteranno a incrociare il mio percorso, i miei sogni, i miei passi, per alcuni sono bastati solo pochi pensieri. Ci sono anche dieci anni di quei “dischi aperitivo” che mi hanno fatto compagnia nei social (Facebook), giorno dopo giorno, all’orario giusto. Un libro che serve a me per fare ordine ma spero giunga anche a voi con lo stesso spirito con il quale è stato concepito: nella più totale libertà di parlare di musica intrecciando ricordi personali, sensazioni e passione. 

Da oggi è disponibile il mio libro che raccoglie 150 di quei dischi. 


Le prime copie sono disponibili chiedendole direttamente a me. Potete contattarmi su Facebook o Messenger.
250 pagine. 
16 euro (spese di spedizione comprese) 
Pagamento PayPal. 
Per gli amici di Biella, ricordo che potrete trovarlo anche da Paper Moon Dischi, Cigna Dischi e Libreria Feltrinelli. Naturalmente è severamente vietato uscire dai negozi di dischi senza un disco.
Il libro è  anche ordinabile on line su molte piattaforme: Feltrinelli, Mondadori, IBS, Il Libraccio, Amazon, Hoepli...



martedì 2 febbraio 2021

RECENSIONE: THE NUDE PARTY (Midnight Manor)

THE NUDE PARTY   Midnight Manor (New West Records, 2020)


il rock non è morto

Certo, stando seduto sprofondato dentro una poltrona puoi continuare a ripetere il mantra "il rock è morto" perché tutto è già stato detto e suonato. Va bene, ma poi è come dire la pizza fa schifo perché l'hai già mangiata migliaia di volte in vita. Mica vero. Il rock è rock ieri come oggi. C'è chi l'ha inventato, chi l'ha modificato e chi lo tiene in vita tra mille difficoltà combattendo anche contro chi è seduto sprofondato dentro una poltrona e ripete il mantra "il rock è morto" e bla bla bla…mangiatevi la coda

Allora alza il culo e vallo a dire in faccia a un gruppo come i Nude Party che il rock'n'roll non esiste più quando loro il culo se lo stanno facendo per tenerlo in vita. Mica da seduti in poltrona. Vogliono anche che il culo tu lo muova. Al ritmo ci pensano loro e quel piano saltellante che compare dall'inizio alla fine è una meraviglia.

Tra le migliori realtà di retro rock americano di questi anni, il secondo album del sestetto dello Stato di New York, una combriccola che si è conosciuta frequentando l'Università degli Appalachi in North Carolina, è una bomba esplosiva di energia, amarcord, ironia, vitalità che pare racchiudere dentro di sé tutta la freschezza dei migliori anni del rock'n'roll a cavallo tra i sessanta e settanta. Cresciuti con una collezione di dischi importante vicino al comodino della cameretta dove Stones, Kinks, Faces, Velvet Underground giravano spesso e volentieri. Indie, garage, psichedelia, rock'n'roll, country, beat con quel taglio pop sbarazzino e contagioso che non guasta mai in canzoni semplici, pure, suonate con il giusto equilibrio tra energia e melodia. C'è l'antico profumo dei sixties sopra ai solchi, l'alcol che penetra il naso in nottate al club lunghe come l'intera settimana a benedire.

Lo si percepisce immediatamente. Ci si diverte con spensieratezza e un pizzico di esuberanza che non guasta mai. Forse è pure ambizione. Non era forse questo l'obiettivo primario? "Volevamo suonare come i Rolling Stones, Creedence Clearwater Revival e i Kinks" dicono. Ecco: sento già la voce "il rock è morto" arrivare in lontananza…Il culo, bisogna muovere il culo.