Cos'è rimasto, oggi, di un Little Richard che abbandonava il rock'n'roll in preda a visioni mistico-sessuali, di un peccaminoso Jerry Lee Lewis che distruggeva pianoforti in nome di un diavolo che si era impossessato del suo corpo, di un Gene Vincent fradicio di alcol che metteva a soqquadro stanze di albergo, degli Who che distrussero chitarre e batteria prima di uscire di scena a Monterey nel 1967, dell'iconoclasta forza rivoluzionaria di aizzatori di folla come gli Mc5, degli Stones che si rifugiarono a Parigi e dall'interno di una stanza fecero uscire il vizio che farà storia, della grande e sbeffeggiante truffa del rock'n'roll messa in scena dai Sex Pistols?
Cosa è rimasto di tutto questo nei gruppi di oggi?
Difficile eguagliarne gli eccessi, quasi impossibile ripetere i singoli episodi che li hanno fatti entrare nella mitologia rock. Più facile avvicinarsi-con rispetto e devozione- alla loro musica. Solo a quella. A volte (poche volte) originale, molto spesso revivalistica, ma in alcuni casi fatta bene ed in modo credibile. E' bene, quindi, distinguere da chi ci vende il rock'n'roll nel 2012, dopo 60 anni in cui abbiamo già visto e sentito di tutto e di più, molto spesso ci si avvicina a nuovi gruppi con in testa immagini vecchie e dannate, pronti a criticare e condannare senza appello.
I londinesi Jim Jones Revue da tre dischi ci vendono la giusta dose di grezzo rock'n'roll, suonato e digerito in modo onesto e passionale. Convincente. Guidati dalla selvaggia carica dello schizzato cantante Jim Jones, non un novellino, ma già in giro con Black Moses e Thee Hypnotics fin dal 1989 e dalla chitarra di Rupert Orton, fratello della eterea e raffinata cantautrice Beth Orton, la band, completata dal basso di Gavin Jay e dalla batteria di Nick Jones, non è più una sorpresa ma una grossa conferma. Dopo due dischi a dir poco cataclismici come l'omonimo (2007) e Burning Your House Down(2010), dove la lezione dell'intransigente rock'n'roll dei '50 si fiondava come catapulta su garage e punk continuando a percorrere le strade marce e decadenti dei più "moderni" Nick Cave, Jon Spencer Blues Explosiuon e dello sfacciato Danko Jones. Nel loro terzo disco aggiungono nuovi ingredienti esaltati dall'ingresso in formazione del nuovo tastierista Henri Herbert che diventa protagonista indiscusso della musica della band. I tasti "assassini" del suo pianoforte sbucano da tutte le parti, e Herbert assume le sembianze di un joker in grado di virare le canzoni a suo piacimento con un battito di dita.
Meno istintività e assalti all'arma bianca, che comunque non mancano come dimostrano il prepotente stomp-blues di Never Let You Go, il rock'n'roll di Where Da Money Go? e Catastrophe che tanto assomiglia, nel riff, alla Seeeds di Bruce Springsteen.
Più lavoro di testa, soul e costruzione, come si percepisce dall'iniziale e viziosa It’s Gotta Be About Me, un blues alienato in stile spy-story in cui ci si chiede "Am I In This World?", dal gospel da osteria marinara di Times Around The Sun, dall'abisso profondo e spettrale da cui emerge Chain Gang, dal voodoo da girone dantesco di In and Out of Harm’s Way, dalla psicotica ripetitività di Eagle Eye Ball e dalla finale ed inusuale ,fino ad ora, Midnight Oceans & The Savage Heart, in cui Jim Jones indossa i panni confidenziali del perfetto crooner '50, in una ballad che lo trasforma nel perfetto mix tra Elvis e il Danzig, già parodista del periodo Misfits.
Nulla è indinspensabile nella musica dei The Jim Jones Revue, ma tutto è utile per dare vitali boccate di ossigeno al rock. La classica band dall'attitudine giusta e vincente, da fare ascoltare a chi continua a perpetuare e ripetere:" il rock è morto". Viva il rock!