MEAT LOAF Hell In A Handbasket (Sony Music, 2012)
Se la carriera di Meat Loaf fosse terminata dopo l'uscita di Bat Out Of Hell , nessuno avrebbe recriminato nulla. In fondo, sia lui che noi siamo rimasti schiavi a vita di quel disco. I tentativi(alcuni ben riusciti, altri decisamente no) di riportare quel dannato pipistrello fuori dai cancelli dell'inferno non si contano più.
Carriera vissuta all'ombra del capolavoro (e dell'alter ego Jim Steinman) con due sequel fortemente voluti: il primo all'altezza , il secondo evitabile, qualche hit centrata (I'd do Anything for Love ) e un maldestro tentativo di tornare alla rock opera con l'ultimo Hang Cool Teddy Bear(2010) . Nulla che potesse avvicinarsi a quel disco e questo, ve lo anticipo subito, si accoda agli altri.
Mai così prolifico come in questi anni (già si parla di un prossimo disco natalizio), dopo un annunciato ritiro (subito smentito) e altri problemi di salute, il nuovo inferno di Meat Loaf è popolato da tanti teschi. Quelli della sua mente di fronte al mondo. Si è liberato di tutti i pesanti pesi che lo affondavano nella spasmodica creazione di un altro musical ingombrante e si è gettato sulla composizione di canzoni personali ("la registrazione più personale che io abbia mai fatto. E’ il primo disco scritto su cosa penso della vita che vivo e delle cose che stanno accadendo in questi giorni”) , dirette, fortemente influenzate dal soul e dal southern rock, donando al disco una propria impronta (pur con l'ausilio di tanti autori), e con qualche caduta di tono, evitabile.
Se All Of Me è una degna apertura che anticipa il pulsante e corale southern soul di The Giving Tree, con Live Or Die, Meat Loaf picchia giù duro con un hard southern rock moderno con il violino di Caitlin Evanson che si ritaglia i propri spazi, ripetendosi con l'urgenza inconsueta e destabilizzante del pesante rock'n'roll punk di Party Of One, che nella sua impetuosità nasconde un testo amaro di vita vissuta.
La band che suona nel disco (in Australia, uscito ad Ottobre 2011) e che lo accompagna in tour , si chiama The Neverland Express è guidata dal chitarrista e produttore Paul Crook e si fa ben apprezzare per compattezza, promettendo spettacolo sui palchi live.
Inevitabile l'amarcord quando compare la brava Patti Russo. I due duettano insieme in una bella versione di California Dreamin' dei Mamas and Papas, impreziosita dall'assolo di sax di David Luther e in Our love & Our Souls. Quasi a ricordare i duetti con Ellen Foley del primissimo disco o la fortunata Dead Ringer For Love insieme a Cher. Questo è il Meat Loaf perfetto, quasi sublime nell'interpretazione della ballad pianistica Forty Days, dove la drammaticità della sua voce esce prepotente nel crescendo della canzone e nelle finali Blue Sky e la radiofonica/pop Fall From Grace.
Quando Meat Loaf vuole strafare sembra combinare dei piccoli disastri, pur nel lodevole intento. Blue Sky/Mad Mad World/The Good God is a Woman and She Don't Like Ugly è una piccola suite in tre atti con una parte centrale hard e possente e il finale affidato al rap, fuori tempo massimo, di Chuck D (Public Enemy), stessa sorte per Stand in the Storm, un southern rock alla Lynyrd Skynyrd che i tre ospiti presenti, mettendoci del loro, finiscono per rovinare: il cantante country Trace Adkins, il rapper Lil Joh e Mark McGrath, cantante dei Sugar Ray. Un frullato con troppi ingredienti.
In fondo, il buon Meat Loaf potrà continuare a far dischi da qui all'eternità (inferno?), ma quando ripenso a lui, rivedo sempre il paffuto ragazzone sudato con il fazzoletto in bocca del 1977 e il mio primo compcat disc acquistato nel passare dai vinili al laser: erano i primi anni novanta ma il cd era sempre quel Bat Out of Hell del 1977.
giovedì 5 aprile 2012
lunedì 2 aprile 2012
RECENSIONE: RAY WYLIE HUBBARD ( The Grifter's Hymnal )
RAY WYLIE HUBBARD The Grifter's Hymnal (Bordello records, 2012)
Ray Wylie Hubbard è un poeta ubriaco-ma assolutamente lucido- che insegue ancora i propri sogni (citando la sua Drunken Poet's Dream del precedente disco, cantata e scritta anche dal suo più credibile erede Hayes Carll ). Hubbard ha mantenuto quell'aura da puro e reale che il tempo non è riuscito a cancellare ma ad amplificare ancora di più. Dopo il suo ritorno negli anni novanta, non ha più smesso di comporre musica e Grifter's Hymnal, seppur sia solo il quindicesimo disco in quarant'anni di carriera, è fresco e tagliente come sempre, proseguendo e rinforzando il già buono e precedente A.Enlighttenment.B.Endaerkenment (Hint:There is no C)(2010).
Le sue canzoni puzzano ancora di alcool e sabbia di deserto texano, evocano serpenti striscianti e tentatori intorno alle punte di stivali pitonati e bottigliette di medicinali abbandonate davanti a vecchie chiese battiste; corrono su quelle autostrade che portano diritte all'inferno dove il blues incrocia il country da fuorilegge e la sua voce roca e consumata legge il sermone in modo credibile e affabulatore proprio come i truffatori di cui ci racconta: gente che si guadagna da vivere sfruttando le nostre debolezze. Lì in mezzo, tra il bene e il male, c'è Hubbard che ci indica quale strada prendere e non sempre è quella che ti aspetti.
Nessun pelo sulla lingua in New Year's Eve At the Gates of Hell un talkin' blues con tante citazioni eccellenti(anche Neil Young con i suoi Crazy Horse), nella biografica e cinematografica Mother Blues, tra bordelli di quart'ordine e spogliarelliste, dove con fare da consumato Johnny Cash ci racconta anche della sua famiglia. Famiglia ben presente nella sua vita artistica: la moglie Judy fa da manager ed il giovane figlio Lucas con la sua chitarra si ritaglia sempre più spazio nella musica di papà.
Hubbard marchia le canzoni con i suoi ululati in honky tonky trascinanti e chitarristici come South of The river con il piano suonato da Ian McLagan, rievocando gli stones più maledetti, blues scollacciati (Train Yard), si schiarisce la voce e da vecchio saggio ci parla del suo modo di prendere la vita nella spassosa Coochy Coochy in compagnia di Ringo Starr (autore della canzone , b-side nel suo vecchio Beaucoups Of Blues-1970) ai controcori e percussioni (sostiuendo per una canzone il batterista titolare Rick Richards), replicata da
Henhouse, spavalda danza honky tonky con il diavolo sottobraccio e dal tambureggiante inizio di disco affidato alla breve Coricidin Bottle.
Efficace, pungente ed ironico in Lazarus, tra slide ubriache e clap-hands, profondo e cinico in Red Badge Of Courage. Visioni e punti di vista puri e personali della sua America e dei suoi abitanti, gli stessi in cerca di redenzione che Hubbard,vestito da sceriffo/predicatore operante in ghost town da antico west, ricerca in Moss and Flowers e Count My Blessings, conscio che tanto alla fine bisogna rendere conto di tutto a Dio (Ask God).
vedi anche: DAVE ARCARI-Nobody's Fool
vedi anche: SHOOTER JENNINGS-Family Man
vedi anche: LUCERO-Women & Work
Ray Wylie Hubbard è un poeta ubriaco-ma assolutamente lucido- che insegue ancora i propri sogni (citando la sua Drunken Poet's Dream del precedente disco, cantata e scritta anche dal suo più credibile erede Hayes Carll ). Hubbard ha mantenuto quell'aura da puro e reale che il tempo non è riuscito a cancellare ma ad amplificare ancora di più. Dopo il suo ritorno negli anni novanta, non ha più smesso di comporre musica e Grifter's Hymnal, seppur sia solo il quindicesimo disco in quarant'anni di carriera, è fresco e tagliente come sempre, proseguendo e rinforzando il già buono e precedente A.Enlighttenment.B.Endaerkenment (Hint:There is no C)(2010).
Le sue canzoni puzzano ancora di alcool e sabbia di deserto texano, evocano serpenti striscianti e tentatori intorno alle punte di stivali pitonati e bottigliette di medicinali abbandonate davanti a vecchie chiese battiste; corrono su quelle autostrade che portano diritte all'inferno dove il blues incrocia il country da fuorilegge e la sua voce roca e consumata legge il sermone in modo credibile e affabulatore proprio come i truffatori di cui ci racconta: gente che si guadagna da vivere sfruttando le nostre debolezze. Lì in mezzo, tra il bene e il male, c'è Hubbard che ci indica quale strada prendere e non sempre è quella che ti aspetti.
Nessun pelo sulla lingua in New Year's Eve At the Gates of Hell un talkin' blues con tante citazioni eccellenti(anche Neil Young con i suoi Crazy Horse), nella biografica e cinematografica Mother Blues, tra bordelli di quart'ordine e spogliarelliste, dove con fare da consumato Johnny Cash ci racconta anche della sua famiglia. Famiglia ben presente nella sua vita artistica: la moglie Judy fa da manager ed il giovane figlio Lucas con la sua chitarra si ritaglia sempre più spazio nella musica di papà.
Hubbard marchia le canzoni con i suoi ululati in honky tonky trascinanti e chitarristici come South of The river con il piano suonato da Ian McLagan, rievocando gli stones più maledetti, blues scollacciati (Train Yard), si schiarisce la voce e da vecchio saggio ci parla del suo modo di prendere la vita nella spassosa Coochy Coochy in compagnia di Ringo Starr (autore della canzone , b-side nel suo vecchio Beaucoups Of Blues-1970) ai controcori e percussioni (sostiuendo per una canzone il batterista titolare Rick Richards), replicata da
Henhouse, spavalda danza honky tonky con il diavolo sottobraccio e dal tambureggiante inizio di disco affidato alla breve Coricidin Bottle.
Efficace, pungente ed ironico in Lazarus, tra slide ubriache e clap-hands, profondo e cinico in Red Badge Of Courage. Visioni e punti di vista puri e personali della sua America e dei suoi abitanti, gli stessi in cerca di redenzione che Hubbard,vestito da sceriffo/predicatore operante in ghost town da antico west, ricerca in Moss and Flowers e Count My Blessings, conscio che tanto alla fine bisogna rendere conto di tutto a Dio (Ask God).
vedi anche: DAVE ARCARI-Nobody's Fool
vedi anche: SHOOTER JENNINGS-Family Man
vedi anche: LUCERO-Women & Work
venerdì 30 marzo 2012
RECENSIONE: DAVE ARCARI (Nobody's Fool)
DAVE ARCARI Nobody's Fool ( DIXIEFROG Records-licensed from BUZZ, 2012)
A garantire per lui ci pensa Seasick Steve: "Dave suona come se avesse la pelle sottosopra e quando lo ascolto anche la mia pelle fa lo stesso. Quel ragazzo sanguina per voi. E' un musicista profondo ed un vero soul man".
Dave Arcari ringrazia, facendosi crescere una lunga barba somigliante a quella del buon vecchio Steve e attirandosi le classiche simpatie da "primo sguardo".
Nobody's Fool è il quarto album solista (Come With Me-2007, Got Me Electric-2009, Devil’s Left Hand-2010) del bluesman scozzese, già nei Radiotones e si appresta a diventare l'album del riconoscimento internazionale anche per via di alcune importanti collaborazioni e per il metodo con cui è stato compilato, quasi fosse un greatest hits della sua carriera.
Registrato tra Glasgow in Scozia e Helsinki in Finlandia ma assolutamente radicato negli States, tanto il blues del chitarrista è semplice, viscerale, reale e legato alla tradizione del Delta, anche se il folk della sua terra natia è spesso presente e fa qualche incursione come nella triste McPherson's Lament, folk traditional scozzese , ripreso e riarrangiato per sola voce, chitarra e violino (suonato dallo scozzese Jamie Wilson), oppure nell'altro traditional folk Loch Lomond.
Nobody's Fool si compone di cinque canzoni nuove e otto riprese dai suoi precedenti dischi, tra autografe e covers, e riregistrate per l'occasione anche in presenza di una full-band tutta scandinava e sotto la produzione del connazionale Paul Savage, batterista dei The Delgados, che partecipa anche, suonando il proprio strumento nella finale, percussiva, aggressiva e straniante Dragonfly, con Arcari impegnato con la singolare Diddley Bow.
Un personaggio istintivo e passionale,impossibile rimanere impassibili davanti al suo capellaccio calato sugli occhi, alla slide impazzita, alla voce cavernosa e graffiante e alla sua carica fieramente indipendente che trova nei live show pieno sfogo. Provate ad ascoltare il classico di Robert Johnson, Walkin' Blues suonato full-band con Jauso Haapasalo al basso e Honey Aaltonen alla batteria, è trascinante quanto e come lo è Hot Muscle Jazz prepotente blues per sola voce luciferina e chitarra, come un Tom waits "ghignante" affogato nel mare della slide dobro.
Per Dave Arcari fa poca differenza, passare dal suo blues cattivo, incisivo ed in crescendo di Troubled Mind, suonato con la band e l'armonica di Jim Harcus, ad un traditional folk come Baby, Let Me Follow, suonata in solitaria come fosse il primo Dylan al Greenwich Village; o passare da un altro traditional come See That My Grave per sola voce e banjo a Nobody's Fool e Blue Train intrise nel Rockabilly/Country come l'iniziale Devil's Left Hand è intrisa nel blues con il cartello "anima venduta al diavolo" inchiodato con chiodi arruginiti e maledetti.
Arcari rientra in quella ristretta schiera di personaggi anticonvenzionali e dinamici a cui basta una grande personalità, una chitarra ed una voce graffiante per conquistare. Proprio come Seasick Steve: pochi orpelli e la filosofia della semplicità. Lasciatelo sanguinare.
INTERVISTA A DAVE ARCARI
vedi anche RECENSIONE: DAVE ARCARI and the HELLSINKI HELLRAISERS-Whisky In My Blood (2013)
vedi anche:SEASICK STEVE-You can't teach an old dog new tricks
A garantire per lui ci pensa Seasick Steve: "Dave suona come se avesse la pelle sottosopra e quando lo ascolto anche la mia pelle fa lo stesso. Quel ragazzo sanguina per voi. E' un musicista profondo ed un vero soul man".
Dave Arcari ringrazia, facendosi crescere una lunga barba somigliante a quella del buon vecchio Steve e attirandosi le classiche simpatie da "primo sguardo".
Nobody's Fool è il quarto album solista (Come With Me-2007, Got Me Electric-2009, Devil’s Left Hand-2010) del bluesman scozzese, già nei Radiotones e si appresta a diventare l'album del riconoscimento internazionale anche per via di alcune importanti collaborazioni e per il metodo con cui è stato compilato, quasi fosse un greatest hits della sua carriera.
Registrato tra Glasgow in Scozia e Helsinki in Finlandia ma assolutamente radicato negli States, tanto il blues del chitarrista è semplice, viscerale, reale e legato alla tradizione del Delta, anche se il folk della sua terra natia è spesso presente e fa qualche incursione come nella triste McPherson's Lament, folk traditional scozzese , ripreso e riarrangiato per sola voce, chitarra e violino (suonato dallo scozzese Jamie Wilson), oppure nell'altro traditional folk Loch Lomond.
Nobody's Fool si compone di cinque canzoni nuove e otto riprese dai suoi precedenti dischi, tra autografe e covers, e riregistrate per l'occasione anche in presenza di una full-band tutta scandinava e sotto la produzione del connazionale Paul Savage, batterista dei The Delgados, che partecipa anche, suonando il proprio strumento nella finale, percussiva, aggressiva e straniante Dragonfly, con Arcari impegnato con la singolare Diddley Bow.
Un personaggio istintivo e passionale,impossibile rimanere impassibili davanti al suo capellaccio calato sugli occhi, alla slide impazzita, alla voce cavernosa e graffiante e alla sua carica fieramente indipendente che trova nei live show pieno sfogo. Provate ad ascoltare il classico di Robert Johnson, Walkin' Blues suonato full-band con Jauso Haapasalo al basso e Honey Aaltonen alla batteria, è trascinante quanto e come lo è Hot Muscle Jazz prepotente blues per sola voce luciferina e chitarra, come un Tom waits "ghignante" affogato nel mare della slide dobro.
Per Dave Arcari fa poca differenza, passare dal suo blues cattivo, incisivo ed in crescendo di Troubled Mind, suonato con la band e l'armonica di Jim Harcus, ad un traditional folk come Baby, Let Me Follow, suonata in solitaria come fosse il primo Dylan al Greenwich Village; o passare da un altro traditional come See That My Grave per sola voce e banjo a Nobody's Fool e Blue Train intrise nel Rockabilly/Country come l'iniziale Devil's Left Hand è intrisa nel blues con il cartello "anima venduta al diavolo" inchiodato con chiodi arruginiti e maledetti.
Arcari rientra in quella ristretta schiera di personaggi anticonvenzionali e dinamici a cui basta una grande personalità, una chitarra ed una voce graffiante per conquistare. Proprio come Seasick Steve: pochi orpelli e la filosofia della semplicità. Lasciatelo sanguinare.
INTERVISTA A DAVE ARCARI
vedi anche RECENSIONE: DAVE ARCARI and the HELLSINKI HELLRAISERS-Whisky In My Blood (2013)
vedi anche:SEASICK STEVE-You can't teach an old dog new tricks
mercoledì 28 marzo 2012
RECENSIONE: PAUL WELLER (Sonik Kicks)
PAUL WELLER Sonik Kicks ( Island, 2012)
La classe (non) è acqua. Difficile contenere ondate alte, cariche e tempestose. Acqua che si propaga impetuosa, quasi avesse la voglia di esplorare ogni anfratto asciutto sulla sua strada. Paul Weller è uno tsunami di "classe", di idee e di quella voglia di non fermarsi mai davanti a nulla e nessun ostacolo.
Dopo 22 Dreams(2008) e Wake Up The Nation(2010), continua a dar libero sfogo alla sua creatività senza imbrigliarla dentro schemi, suoni o generi. Sonik Kicks continua l'opera dei due precedenti dischi e ancora una volta sorprende, alzando ancora di più il tiro della sperimentazione. Uno come lui, insignito dell'onore/onere di padre di tante famiglie (Mod Revival e Brit Pop), potrebbe starsene tranquillo con il suo più che abbondante repertorio di successi, ed osservare i propri figli crescere e litigare (in questo disco ci sono proprio tutti: da quelli di sangue-ho perso il conto dei suoi figli- a quelli putativi in ambito "artistico") ma Paul Weller è acqua, incontenibile e pure fresca. Fresco come suonava il suo post-punk elegante con The Jam, prima di porre loro fine all'apice del successo, fresco come il soul/jazz pop di classe dei primissimi Style Council prima che cadessero vittima di loro stessi e come lo è ora a 53 anni, con la zazzera bianca e impeccabile doppiopetto di ordinaza.
Sempre deciso nelle sue sorprendenti scelte artistiche, Weller sembra divertirsi ancora una volta.
Riprende il discorso da Whatever Next e Up The Dosage del precedente disco: l'apertura Green è un rumoroso battito psichedelico che si nutre di Kraut Rock, loop e synth. Un caos ordinato quasi stordente se vi immaginate dentro ad una discoteca di Berlino in pieni anni settanta con le luci simili a quelle che lo ritraggono in copertina che vi scaldano ed accecano, in coppia con il volume altissimo che vi rende sordi. Il tutto è ripreso anche nelle chitarre mimetizzate che compaiono qua e là in Around the Lake e Kling I Klang, marcia impetuosa tra Clash, il Bowie berlinese e uno spettacolo circense a cui la strumentale Sleep of the Serene, tra archi e rumori, fa da chiusura e da introduzione per By the Waters, dove ancora gli archi di Sean O'Hagan diventano protagonisti di una dolce ballata pop che cattura e conquista.
Anche Sonik Kicks è un concentrato di canzoni che non seguono una logica, disomogeneo a ben ascoltare, nel passare da un umore ad un altro. A tratti difficile da seguire come lo erano stati i due precedenti, ma con almeno un poker di canzoni di alto livello e con una vena sperimentale che riesce ad unire il tutto, facendomelo preferire ai due ultimi dischi. Capita così di passare da il Dub jazzato ed ipnotico della particolare,lunga ed inusuale Study in Blue cantata con la giovane moglie Hannah Andrews, ai venti secondi di noise di Twilight che introducono Drifters un meltin pot musicale ipnotico e circolare che include, tra le tante cose, anche una chitarra flamencata; la psichedelia di When your Garden's Overgrown e Paperchase con le sue melodie mediorientali e la disamina sui lati più oscuri che si celano nel successo, fino ai bilanci sull'età che avanza in That Dangerous Age con quel mood che ricorda vagamente i Doors di Hello,I Love You.
Si parlava di figli, eccoli: quelli di sangue nei cameo della finale e soul Be Happy Children, con piccole parti per la figlia Leah ed il piccolissimio Mac; e poi i figli "musicali" nel brit pop di The attic con Noel Gallagher(Oasis) all'inusuale basso e in Dragonfly con Graham Coxon(Blur) al piano hammond a rinverdire il passaggio di consegne che avvenne con l'album "capolavoro"Stanley Road nel 1995 .
Paul Weller conferma l'unicità della sua scrittura. Chi potrebbe passare dalle acque tempestose dall'elettronica postmoderna e della psichedelia, alle acque calme e confidenziali del soul fino ad inserire le voci di moglie e figli in contesti easy listening"zuccherosi", risultando credibile e mai pacchiano? L'impressione è quella di un disco in cui Weller mette alla prova (ancora una volta) la sua scrittura. Il suo lato di esplorazione sembra non conoscere confini, cadendo in alcuni casi in una certa aureferenzialità che potrebbe risultare indigesta e poco appetibile ad un ascolto sommariamente distratto, per poi conquistare nel volgere degli ascolti.
Uno dei dischi più appariscenti della sua ultratrentennale carriera. Una volta si diceva: Only for fans. Se non lo siete ancora, diventatelo ora, Sonik Kicks diventerà anche vostro.
Appuntamento live a Vigevano il 12 Luglio 2012.
vedi anche RECENSIONE: DEPECHE MODE-Delta Machine (2013)
La classe (non) è acqua. Difficile contenere ondate alte, cariche e tempestose. Acqua che si propaga impetuosa, quasi avesse la voglia di esplorare ogni anfratto asciutto sulla sua strada. Paul Weller è uno tsunami di "classe", di idee e di quella voglia di non fermarsi mai davanti a nulla e nessun ostacolo.
Dopo 22 Dreams(2008) e Wake Up The Nation(2010), continua a dar libero sfogo alla sua creatività senza imbrigliarla dentro schemi, suoni o generi. Sonik Kicks continua l'opera dei due precedenti dischi e ancora una volta sorprende, alzando ancora di più il tiro della sperimentazione. Uno come lui, insignito dell'onore/onere di padre di tante famiglie (Mod Revival e Brit Pop), potrebbe starsene tranquillo con il suo più che abbondante repertorio di successi, ed osservare i propri figli crescere e litigare (in questo disco ci sono proprio tutti: da quelli di sangue-ho perso il conto dei suoi figli- a quelli putativi in ambito "artistico") ma Paul Weller è acqua, incontenibile e pure fresca. Fresco come suonava il suo post-punk elegante con The Jam, prima di porre loro fine all'apice del successo, fresco come il soul/jazz pop di classe dei primissimi Style Council prima che cadessero vittima di loro stessi e come lo è ora a 53 anni, con la zazzera bianca e impeccabile doppiopetto di ordinaza.
Sempre deciso nelle sue sorprendenti scelte artistiche, Weller sembra divertirsi ancora una volta.
Riprende il discorso da Whatever Next e Up The Dosage del precedente disco: l'apertura Green è un rumoroso battito psichedelico che si nutre di Kraut Rock, loop e synth. Un caos ordinato quasi stordente se vi immaginate dentro ad una discoteca di Berlino in pieni anni settanta con le luci simili a quelle che lo ritraggono in copertina che vi scaldano ed accecano, in coppia con il volume altissimo che vi rende sordi. Il tutto è ripreso anche nelle chitarre mimetizzate che compaiono qua e là in Around the Lake e Kling I Klang, marcia impetuosa tra Clash, il Bowie berlinese e uno spettacolo circense a cui la strumentale Sleep of the Serene, tra archi e rumori, fa da chiusura e da introduzione per By the Waters, dove ancora gli archi di Sean O'Hagan diventano protagonisti di una dolce ballata pop che cattura e conquista.
Anche Sonik Kicks è un concentrato di canzoni che non seguono una logica, disomogeneo a ben ascoltare, nel passare da un umore ad un altro. A tratti difficile da seguire come lo erano stati i due precedenti, ma con almeno un poker di canzoni di alto livello e con una vena sperimentale che riesce ad unire il tutto, facendomelo preferire ai due ultimi dischi. Capita così di passare da il Dub jazzato ed ipnotico della particolare,lunga ed inusuale Study in Blue cantata con la giovane moglie Hannah Andrews, ai venti secondi di noise di Twilight che introducono Drifters un meltin pot musicale ipnotico e circolare che include, tra le tante cose, anche una chitarra flamencata; la psichedelia di When your Garden's Overgrown e Paperchase con le sue melodie mediorientali e la disamina sui lati più oscuri che si celano nel successo, fino ai bilanci sull'età che avanza in That Dangerous Age con quel mood che ricorda vagamente i Doors di Hello,I Love You.
Si parlava di figli, eccoli: quelli di sangue nei cameo della finale e soul Be Happy Children, con piccole parti per la figlia Leah ed il piccolissimio Mac; e poi i figli "musicali" nel brit pop di The attic con Noel Gallagher(Oasis) all'inusuale basso e in Dragonfly con Graham Coxon(Blur) al piano hammond a rinverdire il passaggio di consegne che avvenne con l'album "capolavoro"Stanley Road nel 1995 .
Paul Weller conferma l'unicità della sua scrittura. Chi potrebbe passare dalle acque tempestose dall'elettronica postmoderna e della psichedelia, alle acque calme e confidenziali del soul fino ad inserire le voci di moglie e figli in contesti easy listening"zuccherosi", risultando credibile e mai pacchiano? L'impressione è quella di un disco in cui Weller mette alla prova (ancora una volta) la sua scrittura. Il suo lato di esplorazione sembra non conoscere confini, cadendo in alcuni casi in una certa aureferenzialità che potrebbe risultare indigesta e poco appetibile ad un ascolto sommariamente distratto, per poi conquistare nel volgere degli ascolti.
Uno dei dischi più appariscenti della sua ultratrentennale carriera. Una volta si diceva: Only for fans. Se non lo siete ancora, diventatelo ora, Sonik Kicks diventerà anche vostro.
Appuntamento live a Vigevano il 12 Luglio 2012.
vedi anche RECENSIONE: DEPECHE MODE-Delta Machine (2013)
lunedì 26 marzo 2012
RECENSIONE: MIAMI & THE GROOVERS ( Good Things )
MIAMI & THE GROOVERS Good Things ( Autoprod., 2012)
Che differenza passa tra i pensieri di un turista italiano seduto al tavolo dell'Amy Omlette House sulla Ocean Blv nel New Jersey in pieno inverno davanti alle onde dell'oceano atlantico ed una ruota panoramica ferma e stanca che riposa sullo sfondo, ed un turista americano seduto nel bar deserto di una Rimini invernale davanti ad un cappuccino italiano fumante ed un'insegna "bagnino" incollata dietro ad uno sdraio a riposo forzato fino al mese di Giugno? Ascoltando il terzo lavoro dei riminesi Miami & The Groovers (dopo Dirty Roads-2005 e Merry go round-2008), guidati da Lorenzo Semprini (voce e chitarra), quei pensieri diventano globali e metaforicamente tolgono un po' di chilometri alla distanza che separa i due luoghi fisici. Di differenze non ce ne sono proprio. La dura pioggia scende giù per tutti, americani e romagnoli.
Undici canzoni (più due brevi intro) che raccontano i sogni di chi non ha smesso di guardare lontano. Oltre mare ed oceani c'è ancora la luce della speranza, nonostante i tempi bui sembrano raccontarci ed imporre il contrario.
Good Things parla di quelle cose buone che ci fanno ancora battere il cuore: sia che escano da rock'n'roll trascinanti come Burning Ground, con i suoi riff garage, proto-punk delle chitarre di Beppe Ardito ed un testo dove il viaggio diventa fuga e droga salvifica, On A Night Train (che musicalmente ricorda tanto i '70 di Lou Reed quanto l'America pruriginosa che piaceva alla prima Gianna Nannini), The Last R'n'R Band, inno alla vita on the road dei musicisti, in bilico tra il vecchio Bob Seger "da arena rock" ed il nuovo rock del New Jersey dei Gaslight Anthem, o l'iniziale singolo Good Things, personale e punto su cui partire per scrivere il futuro.
Oppure ci sono i cuori che battono ancora per un amore nella ballad Before your Eyes, nell'amore per la propria terra e i suoi abitanti in Audrey Hepburn's Smile e nella romantica lettera di Postcards, suggestiva ballad pianistica introdotta da Israel Nash Gripka che recita i versi di "You can't go back home.
La bella Walkin' All Alone, con l'ospite Riccardo Maffoni alla voce, come se i migliori REM fossero ancora tra di noi e aggiungessero un violino (suonato da Heather Horton), il trascinante beat-blues alla Bo Diddley di Under Control che diventa la loro personale She's the One, le immagini western e da viaggio su highways di Cold in my Bones. Nella finale We're Still Alive c'è anche il tempo di urlare e lasciare un segno di vita, sulle allegre note di un irish -combat folk in stile Flogging Molly.
I Miami & The Groovers rilasciano un disco vario e fresco che su una strada tributa ed omaggia i propri miti musicali (tutti quelli citati e molti altri), ma su un'altra immediatamente parallela sa creare un proprio percorso personale, schietto e sincero, da seguire come esempio per tutte quelle bands che non vogliono continuare a passare la loro vita a coverizzare i grandi dentro i pubs di provincia ma sognano di calcare quei palchi oltreoceano che i Miami & the Grovvers sono già riusciti a calpestare, suonando fianco a fianco ai loro (nostri) idoli. Non solo premio di tanti sacrifici ma vero punto di partenza per il domani.
Ecco che quelle due strade parallele diventano una strada sola, il mare adriatico e l'oceano atlantico diventano un'unica distesa d'acqua. La musica unisce tutto. Mica poco.
vedi anche: CESARE CARUGI-Here's to the Road
vedi anche: CIRCO FANTASMA-Playing with the Ghosts
vedi anche: VOLCANO HEAT-Vive le Rock!
Che differenza passa tra i pensieri di un turista italiano seduto al tavolo dell'Amy Omlette House sulla Ocean Blv nel New Jersey in pieno inverno davanti alle onde dell'oceano atlantico ed una ruota panoramica ferma e stanca che riposa sullo sfondo, ed un turista americano seduto nel bar deserto di una Rimini invernale davanti ad un cappuccino italiano fumante ed un'insegna "bagnino" incollata dietro ad uno sdraio a riposo forzato fino al mese di Giugno? Ascoltando il terzo lavoro dei riminesi Miami & The Groovers (dopo Dirty Roads-2005 e Merry go round-2008), guidati da Lorenzo Semprini (voce e chitarra), quei pensieri diventano globali e metaforicamente tolgono un po' di chilometri alla distanza che separa i due luoghi fisici. Di differenze non ce ne sono proprio. La dura pioggia scende giù per tutti, americani e romagnoli.
Undici canzoni (più due brevi intro) che raccontano i sogni di chi non ha smesso di guardare lontano. Oltre mare ed oceani c'è ancora la luce della speranza, nonostante i tempi bui sembrano raccontarci ed imporre il contrario.
Good Things parla di quelle cose buone che ci fanno ancora battere il cuore: sia che escano da rock'n'roll trascinanti come Burning Ground, con i suoi riff garage, proto-punk delle chitarre di Beppe Ardito ed un testo dove il viaggio diventa fuga e droga salvifica, On A Night Train (che musicalmente ricorda tanto i '70 di Lou Reed quanto l'America pruriginosa che piaceva alla prima Gianna Nannini), The Last R'n'R Band, inno alla vita on the road dei musicisti, in bilico tra il vecchio Bob Seger "da arena rock" ed il nuovo rock del New Jersey dei Gaslight Anthem, o l'iniziale singolo Good Things, personale e punto su cui partire per scrivere il futuro.
Oppure ci sono i cuori che battono ancora per un amore nella ballad Before your Eyes, nell'amore per la propria terra e i suoi abitanti in Audrey Hepburn's Smile e nella romantica lettera di Postcards, suggestiva ballad pianistica introdotta da Israel Nash Gripka che recita i versi di "You can't go back home.
La bella Walkin' All Alone, con l'ospite Riccardo Maffoni alla voce, come se i migliori REM fossero ancora tra di noi e aggiungessero un violino (suonato da Heather Horton), il trascinante beat-blues alla Bo Diddley di Under Control che diventa la loro personale She's the One, le immagini western e da viaggio su highways di Cold in my Bones. Nella finale We're Still Alive c'è anche il tempo di urlare e lasciare un segno di vita, sulle allegre note di un irish -combat folk in stile Flogging Molly.
I Miami & The Groovers rilasciano un disco vario e fresco che su una strada tributa ed omaggia i propri miti musicali (tutti quelli citati e molti altri), ma su un'altra immediatamente parallela sa creare un proprio percorso personale, schietto e sincero, da seguire come esempio per tutte quelle bands che non vogliono continuare a passare la loro vita a coverizzare i grandi dentro i pubs di provincia ma sognano di calcare quei palchi oltreoceano che i Miami & the Grovvers sono già riusciti a calpestare, suonando fianco a fianco ai loro (nostri) idoli. Non solo premio di tanti sacrifici ma vero punto di partenza per il domani.
Ecco che quelle due strade parallele diventano una strada sola, il mare adriatico e l'oceano atlantico diventano un'unica distesa d'acqua. La musica unisce tutto. Mica poco.
vedi anche: CESARE CARUGI-Here's to the Road
vedi anche: CIRCO FANTASMA-Playing with the Ghosts
vedi anche: VOLCANO HEAT-Vive le Rock!
venerdì 23 marzo 2012
RECENSIONE: VOLCANO HEAT ( Vive le Rock! )
VOLCANO HEAT Vive le Rock! ( Go Down Records, 2011)
In mezzo a tanti gufi e mammasantissima a cui piace celebrare la morte del rock con funerali inventati e creati ad hoc per far nascere discussioni, utili come la neve in città con l'arrivo della primavera, finalmente qualcuno che fieramente si lascia scappare un grido universale: Vive le Rock!, senza la paura di apparire vetusto o retorico.
La copertina filosovietica, le scritte in stile locandina e lo stesso titolo lasciano poco trasparire sulla provenienza geografica di quel grido.
The Volcano Heat sono italiani e con il loro primo lavoro, dopo due ep di rodaggio (And the Light Goes Out-2008, Surrender/Live at the Blocco A-2009), hanno tutto il diritto di gridare forte e chiaro il genere che suonano. Sì, perchè trovare etichette è veramente difficile. Tante sono le fonti a cui i veneziani si ispirano per comporre le undici tracce di Vive le Rock!. Un disco che riesce a scorrere piacevole e veloce senza cedimenti nei suoi soli 35 minuti di durata, omaggiando in maniera viscerale il rock più sanguigno e diretto.
Pur uscendo per La GoDown Recods, etichetta a "tutto Stoner rock", in Vive le Rock! convivono in pefretta sintonia: il dark/street rock di Shake your head che potrebbe ricordare i vecchi The Cult o i migliori D.A.D., mentre Restless omaggia uno dei gruppi preferiti dal trio veneto, i mai troppo lodati Warrior Soul di Kory Clarke; il punk contaminato di rock'n'roll dei Clash in Today, che riesuma anche le vecchie strade battute dai marchigiani Gang negli anni ottanta, ma anche la ricca e florida scena rock'n'roll scandinava degli anni novanta; l'urgenza rock'n'roll/stoner di These Days un crocevia perfetto tra Danko Jones e i Queens of the Stone Age.
White Rays White Heat che omaggia nel titolo i Velvet Underground e la cover "appesantita" di Come Togheter (Beatles) possiedono il dono di far battere il piede e agitare la testa, rimandando alla più florida ed ispirata stagione del rock.
Ci sono le chitarre garage di Luca Picchetti che non disdegnano di ripercorrere le strade del vecchio hard/blues degli anni settanta, quanto il proto-punk della scena di Detroit (Sky e Secrets), con l'apporto di Gene al basso e
Andrea Vianello alla batteria, sulla scia dei migliori power trio dell'epoca con quella vena melodica sempre presente a far da collante.
I Remember, suona come suonerebbero i Doors senza l'hammond nell'anno 2012 e la finale e breve Everything is Right suona come suonerebbero i Doors con l'hammond nel 1968.
Canzoni che sopra ad un palco, libere da alcune pulizie di produzione, potrebbero( con il condizionale perchè non li ho mai visti live, ma sono sicuro che è così) far riesumare vecchi e antichi fantasmi. Quelli che non fanno più paura, che conosci, che magari hai già sentito mille volte, a cui sei affezionato ma che ti fanno gridare ancora: viva il rock! Perchè in fondo cosa pretendiamo ancora da quella parola di quattro lettere? Possiamo solo ineggiarne e benedirne l'esistenza.
vedi anche: The PEAWEES-Leave it Behind
In mezzo a tanti gufi e mammasantissima a cui piace celebrare la morte del rock con funerali inventati e creati ad hoc per far nascere discussioni, utili come la neve in città con l'arrivo della primavera, finalmente qualcuno che fieramente si lascia scappare un grido universale: Vive le Rock!, senza la paura di apparire vetusto o retorico.
La copertina filosovietica, le scritte in stile locandina e lo stesso titolo lasciano poco trasparire sulla provenienza geografica di quel grido.
The Volcano Heat sono italiani e con il loro primo lavoro, dopo due ep di rodaggio (And the Light Goes Out-2008, Surrender/Live at the Blocco A-2009), hanno tutto il diritto di gridare forte e chiaro il genere che suonano. Sì, perchè trovare etichette è veramente difficile. Tante sono le fonti a cui i veneziani si ispirano per comporre le undici tracce di Vive le Rock!. Un disco che riesce a scorrere piacevole e veloce senza cedimenti nei suoi soli 35 minuti di durata, omaggiando in maniera viscerale il rock più sanguigno e diretto.
Pur uscendo per La GoDown Recods, etichetta a "tutto Stoner rock", in Vive le Rock! convivono in pefretta sintonia: il dark/street rock di Shake your head che potrebbe ricordare i vecchi The Cult o i migliori D.A.D., mentre Restless omaggia uno dei gruppi preferiti dal trio veneto, i mai troppo lodati Warrior Soul di Kory Clarke; il punk contaminato di rock'n'roll dei Clash in Today, che riesuma anche le vecchie strade battute dai marchigiani Gang negli anni ottanta, ma anche la ricca e florida scena rock'n'roll scandinava degli anni novanta; l'urgenza rock'n'roll/stoner di These Days un crocevia perfetto tra Danko Jones e i Queens of the Stone Age.
White Rays White Heat che omaggia nel titolo i Velvet Underground e la cover "appesantita" di Come Togheter (Beatles) possiedono il dono di far battere il piede e agitare la testa, rimandando alla più florida ed ispirata stagione del rock.
Ci sono le chitarre garage di Luca Picchetti che non disdegnano di ripercorrere le strade del vecchio hard/blues degli anni settanta, quanto il proto-punk della scena di Detroit (Sky e Secrets), con l'apporto di Gene al basso e
Andrea Vianello alla batteria, sulla scia dei migliori power trio dell'epoca con quella vena melodica sempre presente a far da collante.
I Remember, suona come suonerebbero i Doors senza l'hammond nell'anno 2012 e la finale e breve Everything is Right suona come suonerebbero i Doors con l'hammond nel 1968.
Canzoni che sopra ad un palco, libere da alcune pulizie di produzione, potrebbero( con il condizionale perchè non li ho mai visti live, ma sono sicuro che è così) far riesumare vecchi e antichi fantasmi. Quelli che non fanno più paura, che conosci, che magari hai già sentito mille volte, a cui sei affezionato ma che ti fanno gridare ancora: viva il rock! Perchè in fondo cosa pretendiamo ancora da quella parola di quattro lettere? Possiamo solo ineggiarne e benedirne l'esistenza.
vedi anche: The PEAWEES-Leave it Behind
mercoledì 21 marzo 2012
RECENSIONE/LIVE Report: RICHIE KOTZEN+Porn Queen Live@Rock'n'Roll Arena ,Romagnano Sesia(NO) 20 Marzo 2012
Si può uscire dal concerto di uno de più grandi chitarristi viventi ed essere stati impressionati oltre che dalle sue mani sulla Fender,anche dalla sua voce? Con Richie Kotzen sì.
Lontanissimi i tempi delle grandi arene e dei fans giapponesi urlanti(nonostante mantenga un seguito da culto in Asia e SudAmerica), Richie Kotzen ha compiuto una scelta artistica e di vita degna di rispetto e di grande coraggio. Astro nascente della chitarra a soli ventitre anni, dopo già tre dischi solisti incisi, entra nei glam-streeter Poison, imponendo la sua personalità e rivestendo di blues un gran bel disco come Native Tongue (1993)(vi ricordate del singolo Stand?), facendo compiere alla band dellla Pennsylvania un notevole passo artistico e di qualità. Purtroppo per motivi di gossip e malelingue ( per informazioni,chiedere al batterista Rikky Rockett) il sodalizio dura pochissimo.
Nemmeno il tempo di prendersi i meritati elogi che Kotzen si ributta nella carriera solista, salvo essere ripescato dai "milionari" Mr.Big, orfani momentanei di Paul Gilbert che approfitteranno della sua chitarra. Con loro incide due album (Get Over It-1999 e Actual Size-2001) per poi decidere di continuare a coltivare con cura il proprio orticello; liberandosi di certi stereotipi legati ai guitar heroes per diventare un musicista/cantautore a tutto tondo, che lo ha visto poliedricamente impegnato in svariati stili musicali: dal jazz(collaborando con Stanley Clarke e Lenny White), alla fusion(in collaborazione con Greg Howe), dall'hard rock al pop fino ad abbracciare in toto il calore del blues venato di soul/funk, arricchito dalle molteplici sfumature della sua vocalità straordinaria. Proprio la voce fa la differenza tra un qualsiasi guitar-hero e Richie Kotzen (anche buon batterista e pianista).
Al Rock'n'Roll Arena di Romagnano Sesia(NO) presenta il suo nuovo album 24 Hours, uscito nell'autunno del 2011, ultimo di una sterminata discografia (senza contare le collaborazioni).
Ad aprire la serata ci pensano i lussemburghesi Porn Queen, gruppo dalla cosmopolita line up, composta da due lussemburghesi e due brasiliani, che sta seguendo Kotzen in giro per l'Europa. All'attivo hanno il solo ep Devil's way uscito nel 2011. Il loro è un hard rock potente, tanto legato ai settanta, quanto al lato più pesante del grunge. Addicted, la finale Pick Pocket e la cover "appesantita" di Paperback Writer dei Beatles conquistano e convincono nella loro semplicità.
In questa ultima data del suo tour europeo (la sera prima era a Trieste) Richie Kotzen si presenta sul palco accompagnato dal solido e bravo bassista Dylan Wilson e dal'essenziale batterista Mike Bennett, catalizzando subito gli sguardi grazie al look da "bello e maledetto" ed una presenza scenica perfetta (per gli occhi rapiti delle donne presenti).
La scaletta è incentrata sull'ultima produzione, quella più legata al suo personale amalgama di blues/funk e soul. Il suo best-seller Into the Black del 2006, insieme all'ultimo disco 24 Hours sono i più saccheggiati.
Quello che stupisce maggiormente è l'estrema concentrazione di Kotzen (cantare e suonare in modo eccelso non è assolutamente facile), che a volte va a discapito del puro contatto con il pubblico che comunque rimane entusiasta, apprezzando oltre l'indubbia tecnica chitarristica , che con il tempo ha acquistato quel feeling blues (senza dimenticare lo shredding di inizio carriera) che lo distanzia dalla vetrina di mera dimostrazione di bravura che non gli appartiene, lasciando ad altri pose e atteggiamenti da rockstar. Kotzen si fa trasportare emotivamente, sinonimo di quanto creda alle strade musicali su cui sta viaggiando.
Le sue mani corrono veloci sulle sue Fender dall'iniziale Bad Situation fino alla finale Go Faster, unico ma aprezzatissimo encore, pescata insieme a Fooled Again dal quel straordinario album che fu Return Of The Mother Head's Family reunion(2007), uno dei miei preferiti della sua discografia.
In mezzo c'è tutto il suo repertorio fatto di velocità (24 Hours), funk (Help Me), ballads incantatrici ( My Angel e Livin' in Bliss) e la straordinaria vocalità calda e soul dimostrata in Love is Blind. Inutile dire che tutte le canzoni acquistano vigore rispetto alle versioni su disco.
E poi l'hard/blues di You can't save me, nella jam finale di Fooled Again(qui il pubblico è finalmente protagonista) e del pezzo strumentale dove a mettersi in mostra è la sua band, fino ad arrivare al gran finale con la tiratissima Go Faster, preceduta da un bel intro.
All'uscita di scena, il pubblico non numerosissimo ma rumoroso (qualcuno ha anche affrontato un lungo viaggio da Bari pur di vedere il proprio idolo) cerca di rassegnarsi alla fine ed abituarsi nello distogliere lo sguardo, fisso per un'ora e mezza, da quel catalizzatore di nome Richie Kotzen. Soddisfatto chi cercava la tecnica, chi il calore e chi, semplicemente,una serata di buona musica. Gran personaggio, come pochi, e gran concerto.
martedì 20 marzo 2012
RECENSIONE: SHOOTER JENNINGS ( Family Man)
SHOOTER JENNINGS Family Man (ent.ONE, 2012)
Dopo le sbornie da rock opera del prolisso e futuristico Black Ribbons(2010), Shooter Shennings abbandona le manie di grandezza e realizza l'album più personale ed introspettivo della sua carriera. Quello che anche papà Waylon avrebbe potuto apprezzare con fierezza. Registrato e prodotto da lui stesso a New York con una band nuova di zecca, Family Man è solo la prima parte di un progetto musicale più ampio, con il secondo tempo che dovrebbe uscire il prossimo settembre.Un album essenzialmente country ed intimista che sembra riportare ordine nella carriera di Shooter e confermare quanto il titolo dell'album esprime:la maturità artistica e personale di un uomo, papà di due bimbi, sposato con l'attrice Drea De Matteo, che superati i trent'anni sente il bisogno di bilanci e profonde riflessioni lasciando da parte (temporaneamente?) la spavalderia un po' sopra le righe da southern rocker che lo ha sempre contraddistinto. L'ascolto del country crepuscolare di Daddy's Hands, speciale dedicata al padre malato della compagna che ha riacceso in lui vecchi fantasmi, dedica estendibile a tutte le figure paterne che ci hanno lasciato prematuramente(papà Waylon compreso), la solitaria e nera Black Dog, sulla scia dell'ultimo Johnny Cash e la finale Born Again con il violino dell'ospite Eleanor Whitmore sono un biglietto da visita più che credibile. Insieme al country più tradizionale che esce dalla dedica d'amore di The Deed and the Dollar e da Summer Dreams(Al'Song), si fanno notare il blues acustico di The family tree e la più radiofonica del lotto The Long Road Ahead con la chitarra di Tom Morello, ormai richiesto come il prezzemolo in cucina, ma presenza quasi indecifrabile come nel disco di Springsteen, se non per un brevissimo assolo. Più consistente, nello stesso brano, la presenza del violino ed il controcanto di Eleanor Whitmore.
Per chi invece ha sempre preferito la sua vena da rocker rimangono l'iniziale confessione honky tonk The Real Me e le chitarre elettriche di Manifesto N.4 e della più pesante e polverosa Southern Family Anthem, dove a mettersi in mostra è la nuova band che lo accompagna, The Triple Crown.
Shooter Jennings continua il suo personale viaggio nella musica, iniziato in tenera età sopra i tour bus insieme a papà Waylon e mamma Jessi Colter. Un viaggio a volte confuso, altre volte più delimitato e messo a fuoco come in questo Family Man. Un figlio d'arte paragonabile solamente ad un altro figlio/nipote d'arte: Hank III.
vedi anche: LUCERO-Women & Work
vedi anche: NORDGARDEN-You Gotta Get Ready
vedi anche: The KENNETH BRIAN BAND- Welcome to Alabama
vedi anche: SHOOTER JENNINGS-The Other Life (2013)
Dopo le sbornie da rock opera del prolisso e futuristico Black Ribbons(2010), Shooter Shennings abbandona le manie di grandezza e realizza l'album più personale ed introspettivo della sua carriera. Quello che anche papà Waylon avrebbe potuto apprezzare con fierezza. Registrato e prodotto da lui stesso a New York con una band nuova di zecca, Family Man è solo la prima parte di un progetto musicale più ampio, con il secondo tempo che dovrebbe uscire il prossimo settembre.Un album essenzialmente country ed intimista che sembra riportare ordine nella carriera di Shooter e confermare quanto il titolo dell'album esprime:la maturità artistica e personale di un uomo, papà di due bimbi, sposato con l'attrice Drea De Matteo, che superati i trent'anni sente il bisogno di bilanci e profonde riflessioni lasciando da parte (temporaneamente?) la spavalderia un po' sopra le righe da southern rocker che lo ha sempre contraddistinto. L'ascolto del country crepuscolare di Daddy's Hands, speciale dedicata al padre malato della compagna che ha riacceso in lui vecchi fantasmi, dedica estendibile a tutte le figure paterne che ci hanno lasciato prematuramente(papà Waylon compreso), la solitaria e nera Black Dog, sulla scia dell'ultimo Johnny Cash e la finale Born Again con il violino dell'ospite Eleanor Whitmore sono un biglietto da visita più che credibile. Insieme al country più tradizionale che esce dalla dedica d'amore di The Deed and the Dollar e da Summer Dreams(Al'Song), si fanno notare il blues acustico di The family tree e la più radiofonica del lotto The Long Road Ahead con la chitarra di Tom Morello, ormai richiesto come il prezzemolo in cucina, ma presenza quasi indecifrabile come nel disco di Springsteen, se non per un brevissimo assolo. Più consistente, nello stesso brano, la presenza del violino ed il controcanto di Eleanor Whitmore.
Per chi invece ha sempre preferito la sua vena da rocker rimangono l'iniziale confessione honky tonk The Real Me e le chitarre elettriche di Manifesto N.4 e della più pesante e polverosa Southern Family Anthem, dove a mettersi in mostra è la nuova band che lo accompagna, The Triple Crown.
Shooter Jennings continua il suo personale viaggio nella musica, iniziato in tenera età sopra i tour bus insieme a papà Waylon e mamma Jessi Colter. Un viaggio a volte confuso, altre volte più delimitato e messo a fuoco come in questo Family Man. Un figlio d'arte paragonabile solamente ad un altro figlio/nipote d'arte: Hank III.
vedi anche: LUCERO-Women & Work
vedi anche: NORDGARDEN-You Gotta Get Ready
vedi anche: The KENNETH BRIAN BAND- Welcome to Alabama
vedi anche: SHOOTER JENNINGS-The Other Life (2013)
domenica 18 marzo 2012
RECENSIONE: PONTIAK (Echo Ono)
PONTIAK Echo Ono ( Thrill Jockey, 2012)
Appena passati in tour in Italia (purtroppo me li sono persi e a quanto pare...ho sbagliato), i Pontiak sono uno gruppo da maneggiare con grande cura. Al terzo ascolto, però, se amate il post-stoner psichedelico senza barriere e steccati, sarete già conquistati dal trio , formato da tre fratelli (abbandonate subito l'idea di paragonarli ai fratelli Followill dei Kings Of Leon, qui siamo su altri territori, fortunatamente).
Echo Ono è il loro nono disco in soli sette anni e promette di saggiare la maturità dei fratelli Carney -che leggenda vuole domiciliati con rispettive famiglie sotto lo stesso tetto di una fattoria nelle Blue Ridge Mountains nel cuore della Virginia-, elevandoli a gruppo tra i più interessanti in circolazione, grazie a canzoni più dirette ed immediate rispetto al recente passato ma soprattutto grazie alla grande capacità di riunire sotto lo stesso tetto hard, psichedelia, stoner (poco questa volta) ed una vena folk molto più marcata e sorprendentemente efficace soprattutto nella parte centrale del disco. Le belle armonie vocali di Vain Carney nella straniante Silver Shadow, The EXpanding Sky e Stay Out What a sight sono un saggio di bravura e di coesione che richiama il forte legame sia di sangue che con il territorio e la natura che li circonda, non allontanandosi troppo dalla prima psichedelia pinkfloydiana e la libertà hippy e rurale da west coast, ma prendendo invece le distanze dagli agi della società moderna, guadagnandone in ispirazione, colori e simpatia. Quasi dei Fleet Foxes elettrici.
Prima di arrivare qui, dovrete passare per l'iniziale hard/grunge di Lions Of Least dove il basso pulsante di Jennings non è mai in ombra ma gioca parti importanti quanto i duri riff chitarristici di una canzone tanto breve quanto efficace, puntellata dall'organo e non così lontana da quanto proposto dai Black Mountain, così come in Across The Steppe che richiama i cari ed amati Kyuss. La produzione di tutto l'album è voltumante scarna e live, strumentazione assolutamente vintage con poche concessioni a qualche organo e mellotron di abbellimento. Strumenti analogici e minimalismo allo stato puro per far risaltare il tutto, così su disco e ancor di più live. A beneficiarne sono le improvvise scariche elettriche di The North Coast e i grossi riff di Left with Lights, vero punto d'incontro tra il passato hard/blues dei '70 e l'alt rock '90.
A concludere, quasi a seguire la scaletta di un ipotetico concerto, due canzoni che fanno completamente perdere la cognizione temporale: Royal Colors parte psichedelica e soffusa per concludersi in modo colossale, immediatamente ripresa dalla conclusiva Panoptica, sei minuti strumentali di pura cacofonia psichedelica con la batteria di Lain libera di sfogarsi e feedback chitarristici disturbanti a disegnare l'ultima delle tante sfumature musicali che i Pontiak sono riusciti a dipingere in poco più di mezz'ora in uno dei dischi da playlist di fine anno.
Appena passati in tour in Italia (purtroppo me li sono persi e a quanto pare...ho sbagliato), i Pontiak sono uno gruppo da maneggiare con grande cura. Al terzo ascolto, però, se amate il post-stoner psichedelico senza barriere e steccati, sarete già conquistati dal trio , formato da tre fratelli (abbandonate subito l'idea di paragonarli ai fratelli Followill dei Kings Of Leon, qui siamo su altri territori, fortunatamente).
Echo Ono è il loro nono disco in soli sette anni e promette di saggiare la maturità dei fratelli Carney -che leggenda vuole domiciliati con rispettive famiglie sotto lo stesso tetto di una fattoria nelle Blue Ridge Mountains nel cuore della Virginia-, elevandoli a gruppo tra i più interessanti in circolazione, grazie a canzoni più dirette ed immediate rispetto al recente passato ma soprattutto grazie alla grande capacità di riunire sotto lo stesso tetto hard, psichedelia, stoner (poco questa volta) ed una vena folk molto più marcata e sorprendentemente efficace soprattutto nella parte centrale del disco. Le belle armonie vocali di Vain Carney nella straniante Silver Shadow, The EXpanding Sky e Stay Out What a sight sono un saggio di bravura e di coesione che richiama il forte legame sia di sangue che con il territorio e la natura che li circonda, non allontanandosi troppo dalla prima psichedelia pinkfloydiana e la libertà hippy e rurale da west coast, ma prendendo invece le distanze dagli agi della società moderna, guadagnandone in ispirazione, colori e simpatia. Quasi dei Fleet Foxes elettrici.
Prima di arrivare qui, dovrete passare per l'iniziale hard/grunge di Lions Of Least dove il basso pulsante di Jennings non è mai in ombra ma gioca parti importanti quanto i duri riff chitarristici di una canzone tanto breve quanto efficace, puntellata dall'organo e non così lontana da quanto proposto dai Black Mountain, così come in Across The Steppe che richiama i cari ed amati Kyuss. La produzione di tutto l'album è voltumante scarna e live, strumentazione assolutamente vintage con poche concessioni a qualche organo e mellotron di abbellimento. Strumenti analogici e minimalismo allo stato puro per far risaltare il tutto, così su disco e ancor di più live. A beneficiarne sono le improvvise scariche elettriche di The North Coast e i grossi riff di Left with Lights, vero punto d'incontro tra il passato hard/blues dei '70 e l'alt rock '90.
A concludere, quasi a seguire la scaletta di un ipotetico concerto, due canzoni che fanno completamente perdere la cognizione temporale: Royal Colors parte psichedelica e soffusa per concludersi in modo colossale, immediatamente ripresa dalla conclusiva Panoptica, sei minuti strumentali di pura cacofonia psichedelica con la batteria di Lain libera di sfogarsi e feedback chitarristici disturbanti a disegnare l'ultima delle tante sfumature musicali che i Pontiak sono riusciti a dipingere in poco più di mezz'ora in uno dei dischi da playlist di fine anno.
venerdì 16 marzo 2012
RECENSIONE: LUCERO (Women & Work)
LUCERO Women & Work ( ATO Records, 2012)
Avete presente la straniante sensazione da post serata alcolica e bagordi che si prova al risveglio in una domenica mattina come tante altre, resa diversa solamente dalle cronache spinte provenienti dai ricordi del sabato appena trascorso? La stessa provata dal gruppo di amici protagonisti del film Una notte da Leoni dopo aver slacciato i sensi inibitori a Las Vegas? Il film del regista Todd Phillips non è un esempio altissimo ma rende pienamente l'idea di quell'humor tra il divertito ed il melanconico che ti assale al risveglio. Quella è la sensazione che il nuovo album dei Lucero, il settimo della loro carriera, mi ha lasciato. Women & Work non ripete vecchie e calpestate formule, per cui se non volete rimanere delusi: allargate e aprite bene le vostre menti. Se in testa avete ancora i loro vecchi, rozzi e diretti dischi con le liriche intrise di incazzoso pessimismo, lasciate, oppure rilanciate(consigliato). Women & Work dividerà. A me è piaciuto. Molto.
Questa volta i fiati, che sono apparsi per la prima volta nella loro musica nel precedente 1372 Overton Park , si impossessano completamente della scena ed il Menphis sound, almeno nella prima parte del disco, è presente e dominante. Ben Nichols perde qui la sua peculiare e riconoscibile voce e si adatta maggiormente a canzoni più stratificate e soul, dalla produzione(affidata a Ted Hutt) certo più pulita, ma pienamente trascinanti e dirette. Come rimanere impassibili di fronte ad un honk-tonk intriso di soul come la title track Women & Work, con i fiati di Jim Spake e Scott Thompson ad imperversare come fossimo dentro ad uno dei più chiassosi bar con tante bevute al bancone che ti aspettano durante la nottata. Il bar Buccaneer non appare così tante volte in modo casuale durante l'ascolto del disco, tanto da rendere Juniper un Southern boogie ad alta gradazione alcolica.
La ricetta è semplice, almeno in questa prima parte di canzoni: il duro lavoro di una settimana, per un semplice uomo del sud, merita una giusta rincompensa nel fine settimana: donne e alcol, per quanto il tutto possa apparire semplicistico e retorico, rappresentano il vero diversivo per milioni di americani(per la gioia delle femministe)."Si lavora tutta la settimana, pensando alle donne e al weekend", dice Nichols." 'Downtown'(la canzone in apertura) è Venerdì sera, 'Go Easy'(la canzone posta in chiusura) è Domenica mattina. Il resto del disco è la parte in mezzo".
Bramare l'appuntamento con una ragazza il sabato sera e progettare la fuga in sua compagnia nelle ballads intrise di soul It May be Too Late e Who You waiting On? è l'unico sogno romantico concesso.
Invitare a lasciarsi andare e divertirsi con l'arrivo del fine settimana, e poi farsi scappare la promessa "tanto sarò buono stanotte" nell'iniziale On My Way Downtown (e la sua breve intro, non lontana dal Jersey Sound di Southside Johnny) è beffardo e poco rassicurante: a cosa dobbiamo credere? All'onestà, visto come prosegue il disco.
La seconda parte del lavoro è un piccolo bilancio di vita dopo le follie delle ore piccole: la solitudine e le laceranti relazioni amorose (I Can't stand to leave You), rimpianti e profonde riflessioni di vita (la bella When I was Young), i silenzi dei luoghi (Sometimes), musicati su cullanti, desertiche e riflessivie country/rock songs che faranno storcere il naso a chi ricorda i primi e grezzi passi della band.
L'unica concessione al passato sembra arrivare dai pruriti rock'n'roll di Like Lightning, dove la voce di Ben Nichols torna roca nel raccontare di donne, labbra e baci tuonanti.
Sicuramente la canzone simbolo del disco, nel rappresentare così bene le varie sfumature del nuovo suono dei Lucero.
Il disco si conclude con il migliore degli auspici: "vai felice". Go Easy è una gospel-song corale e contagiosa che non ti aspetti ma che accogli con il sorriso, accompagnata dalle voci femminili delle "the Ho-Moams" e di Amy Lavere.
In un momento in cui tutti guardano al passato e alle radici della musica (come i compagni di tour Social Distortion), anche i Lucero si guardano indietro e ritrovano la loro città: Memphis vuol dire Stax, Sun e Elvis.
"Quando abbiamo iniziato, stavamo costruendo su fondamenta che non conoscevamo ancora", afferma il chitarrista Brian Venable."Ascoltando di nuovo le nostre cose passate, ci sono molti riferimenti ai vecchi Sun Records. Allora, non l'abbiamo percepito ma riusciamo a farlo solamente ora"
La stella luminosa per qualcuno avrà la sua luce affievolita, io continuo a vederla ben luminosa. Il loro sound e la line up si stanno arricchendo(pianoforti, lap steel, fiati) con il passare degli anni, non venendo mai meno alla loro attitudine e raccontando una parte di States meglio di chiunque altro. E poi, come imbrigliare musicalmente una band nata camminando lungo Beale Street a Memphis?
I nostri che rimangono ai lavori forzati all'interno di un tipico diner americano (nelle foto del booklet) la dicono lunga su come sia andata la sera prima. Dopo il weekend c'è sempre un lunedi.
vedi anche: SOUTHSIDE JOHHNY and The ASBURY JUKES-Pills and Ammo
vedi anche: GASLIGHT ANTHEM-American Slang
Avete presente la straniante sensazione da post serata alcolica e bagordi che si prova al risveglio in una domenica mattina come tante altre, resa diversa solamente dalle cronache spinte provenienti dai ricordi del sabato appena trascorso? La stessa provata dal gruppo di amici protagonisti del film Una notte da Leoni dopo aver slacciato i sensi inibitori a Las Vegas? Il film del regista Todd Phillips non è un esempio altissimo ma rende pienamente l'idea di quell'humor tra il divertito ed il melanconico che ti assale al risveglio. Quella è la sensazione che il nuovo album dei Lucero, il settimo della loro carriera, mi ha lasciato. Women & Work non ripete vecchie e calpestate formule, per cui se non volete rimanere delusi: allargate e aprite bene le vostre menti. Se in testa avete ancora i loro vecchi, rozzi e diretti dischi con le liriche intrise di incazzoso pessimismo, lasciate, oppure rilanciate(consigliato). Women & Work dividerà. A me è piaciuto. Molto.
Questa volta i fiati, che sono apparsi per la prima volta nella loro musica nel precedente 1372 Overton Park , si impossessano completamente della scena ed il Menphis sound, almeno nella prima parte del disco, è presente e dominante. Ben Nichols perde qui la sua peculiare e riconoscibile voce e si adatta maggiormente a canzoni più stratificate e soul, dalla produzione(affidata a Ted Hutt) certo più pulita, ma pienamente trascinanti e dirette. Come rimanere impassibili di fronte ad un honk-tonk intriso di soul come la title track Women & Work, con i fiati di Jim Spake e Scott Thompson ad imperversare come fossimo dentro ad uno dei più chiassosi bar con tante bevute al bancone che ti aspettano durante la nottata. Il bar Buccaneer non appare così tante volte in modo casuale durante l'ascolto del disco, tanto da rendere Juniper un Southern boogie ad alta gradazione alcolica.
La ricetta è semplice, almeno in questa prima parte di canzoni: il duro lavoro di una settimana, per un semplice uomo del sud, merita una giusta rincompensa nel fine settimana: donne e alcol, per quanto il tutto possa apparire semplicistico e retorico, rappresentano il vero diversivo per milioni di americani(per la gioia delle femministe)."Si lavora tutta la settimana, pensando alle donne e al weekend", dice Nichols." 'Downtown'(la canzone in apertura) è Venerdì sera, 'Go Easy'(la canzone posta in chiusura) è Domenica mattina. Il resto del disco è la parte in mezzo".
Bramare l'appuntamento con una ragazza il sabato sera e progettare la fuga in sua compagnia nelle ballads intrise di soul It May be Too Late e Who You waiting On? è l'unico sogno romantico concesso.
Invitare a lasciarsi andare e divertirsi con l'arrivo del fine settimana, e poi farsi scappare la promessa "tanto sarò buono stanotte" nell'iniziale On My Way Downtown (e la sua breve intro, non lontana dal Jersey Sound di Southside Johnny) è beffardo e poco rassicurante: a cosa dobbiamo credere? All'onestà, visto come prosegue il disco.
La seconda parte del lavoro è un piccolo bilancio di vita dopo le follie delle ore piccole: la solitudine e le laceranti relazioni amorose (I Can't stand to leave You), rimpianti e profonde riflessioni di vita (la bella When I was Young), i silenzi dei luoghi (Sometimes), musicati su cullanti, desertiche e riflessivie country/rock songs che faranno storcere il naso a chi ricorda i primi e grezzi passi della band.
L'unica concessione al passato sembra arrivare dai pruriti rock'n'roll di Like Lightning, dove la voce di Ben Nichols torna roca nel raccontare di donne, labbra e baci tuonanti.
Sicuramente la canzone simbolo del disco, nel rappresentare così bene le varie sfumature del nuovo suono dei Lucero.
Il disco si conclude con il migliore degli auspici: "vai felice". Go Easy è una gospel-song corale e contagiosa che non ti aspetti ma che accogli con il sorriso, accompagnata dalle voci femminili delle "the Ho-Moams" e di Amy Lavere.
In un momento in cui tutti guardano al passato e alle radici della musica (come i compagni di tour Social Distortion), anche i Lucero si guardano indietro e ritrovano la loro città: Memphis vuol dire Stax, Sun e Elvis.
"Quando abbiamo iniziato, stavamo costruendo su fondamenta che non conoscevamo ancora", afferma il chitarrista Brian Venable."Ascoltando di nuovo le nostre cose passate, ci sono molti riferimenti ai vecchi Sun Records. Allora, non l'abbiamo percepito ma riusciamo a farlo solamente ora"
La stella luminosa per qualcuno avrà la sua luce affievolita, io continuo a vederla ben luminosa. Il loro sound e la line up si stanno arricchendo(pianoforti, lap steel, fiati) con il passare degli anni, non venendo mai meno alla loro attitudine e raccontando una parte di States meglio di chiunque altro. E poi, come imbrigliare musicalmente una band nata camminando lungo Beale Street a Memphis?
I nostri che rimangono ai lavori forzati all'interno di un tipico diner americano (nelle foto del booklet) la dicono lunga su come sia andata la sera prima. Dopo il weekend c'è sempre un lunedi.
vedi anche: SOUTHSIDE JOHHNY and The ASBURY JUKES-Pills and Ammo
vedi anche: GASLIGHT ANTHEM-American Slang
mercoledì 14 marzo 2012
RECENSIONE: CIRCO FANTASMA ( Playing with the Ghost)
CIRCO FANTASMA Playing woith the Ghost ( Antistar, 2012)
E' un grande piacere e orgogliosamente patriottico constatare che sia un gruppo italiano a ricordare la figura di un personaggio come il londinese Nikki Sudden a sei anni dalla morte. Ex leader dei seminali Swell Maps insieme al fratello Epic Soundtracks(anche lui morto prematuramente ancor prima, nel 1997), in seguito nei Jacobites , infine ispirato cantastorie decadente in solitaria, là dove finiva Dylan ed iniziavano i Rolling Stones, prima di morire prematuramente nel 2006 dopo aver dato alle stampe il bello The Truth doesn't Matter, disco dove emergevano tutte le sfumature della sua carriera solista in bilico tra l'acustico e l'elettrico, il romantico sognatore e il reale perdente. Figura spesso sottovalutata, Nikki Sudden è un personaggio ancora tutto da scoprire, insieme alla sua ispirata vena poetica.
I milanesi Circo Fantasma non sono nuovi ad omaggi del genere.
Playing with the ghost, quinto album del terzetto, esce a quattro anni di distanza dal precedente I Knew Jeffrey Lee che ricordava un'altro leader scomparso, quello dei Gun Club, appunto, e che fu l'ideale prosecuzione e omaggio dello storico progetto I Knew Buffallo Bill del 1987, il "supergruppo alternativo" di cui facevano parte gli eroi amati dai Circo Fantasma.
L'ascolto di Playing with The Ghost lascia veramente una scia di commozione mista a tristezza con groppo in gola, tanto il fantasma di Sudden sembra impossessarsi dei solchi delle canzoni in cui la sua anima rivive ancora una volta. Prima di morire Sudden riuscì a collaborare con Nicola Cereda(chitarra e voce), Roberto De Luca(basso) e Carlo Cereda(organo, piano), più Alessio Russo alla batteria. I risultati di questa collaborazione si possono ascoltare nelle due canzoni scritte insieme ai Circo Fantasma: gli undici minuti in crescendo di When the Pope Goes to Avignon e nella spoken song The Port of Farewell , con la voce di Sudden che ci parla e catechizza per l'ultima volta. Le altre canzoni dove aleggia il fantasma piratesco di Sudden sono le reinterpretazioni di sue canzoni: Kiss At Dawn, canzone da ultimo bacio d'addio in preda ad una post sbronza "ballerina" ai Caraibi, la lenta delicatezza alticcia di When I Cross the Line e la tanto bella quanto troppo corta (purtroppo) The Road Of Broken Dreams cantata da Jeremy S. Gluck(Barracudas) e con l'organo di Amury Cambuzat(Ulan Bator) a tingere il tutto di fosco e antico. L'ultima anima di Sudden esce prepotente da Where The Rivers End (cantata dallo scrittore Phil Shoenfel), canzone dei suoi Jacobites, progetto messo insieme con il fraterno amico Dave Kusworth.
I Circo Fantasma chiamano in casa altri spettri, oltre a quello di Sudden.
Ad infestare la casa di vibrazioni e pelle d'oca ci pensano la rivisitazione dark-country/folk di Marry Me(Lie! Lie!) dei These Immortal Souls del defunto Rowland S. Howard e Carry Home dei Gun Club a rimarcare ancora una volta quanto la band di Jeffrey Lee Pierce occupi un posto speciale nella musica dei milanesi.
Oltre all'iniziale delicatezza affidata a The Garden (Einsturzende Neubauten) e all'aggressività di Nick The Stripper dei Birthday Party , è da segnalare la bella The Devil's Hole, interpretata da Phil Shoenfel (autore del romanzo culto “Junkie Love”, contrasto e convivenza tra eroina e amore), una darkeggiante western song che si sviluppa e trasforma in un rock'n'roll metropolitano affogato nell'alcol etilico.
Infine Shooting Star, tra vecchi saloon western e insegne al neon traballanti e The Ghost in Me, finale jazz/folk degno di quel gran signore di Pomona che di cognome fa Waits a testimoniare che anche le loro composizioni possono competere con i fantasmi citati a cui il disco è dedicato e perchè no, anticipare le prossime mosse della band.
Chiudetevi in casa, spegnete le luci e iniziate a giocare con i fantasmi.
Credo sarà dura per tutti, quest'anno, eguagliare i picchi di emotività raggiunti dai Circo Fantasma. Il loro personale omaggio ai quei miti decadenti del rock che non avranno mai le copertine che altre defunte rockstar continuano ad avere, a volte in modo del tutto gratuito, sa toccare le corde giuste.
Quando il rock muore, risorge, trafigge e vince. Ancora una volta.
vedi anche MARK LANEGAN Band-Blues Funeral
E' un grande piacere e orgogliosamente patriottico constatare che sia un gruppo italiano a ricordare la figura di un personaggio come il londinese Nikki Sudden a sei anni dalla morte. Ex leader dei seminali Swell Maps insieme al fratello Epic Soundtracks(anche lui morto prematuramente ancor prima, nel 1997), in seguito nei Jacobites , infine ispirato cantastorie decadente in solitaria, là dove finiva Dylan ed iniziavano i Rolling Stones, prima di morire prematuramente nel 2006 dopo aver dato alle stampe il bello The Truth doesn't Matter, disco dove emergevano tutte le sfumature della sua carriera solista in bilico tra l'acustico e l'elettrico, il romantico sognatore e il reale perdente. Figura spesso sottovalutata, Nikki Sudden è un personaggio ancora tutto da scoprire, insieme alla sua ispirata vena poetica.
I milanesi Circo Fantasma non sono nuovi ad omaggi del genere.
Playing with the ghost, quinto album del terzetto, esce a quattro anni di distanza dal precedente I Knew Jeffrey Lee che ricordava un'altro leader scomparso, quello dei Gun Club, appunto, e che fu l'ideale prosecuzione e omaggio dello storico progetto I Knew Buffallo Bill del 1987, il "supergruppo alternativo" di cui facevano parte gli eroi amati dai Circo Fantasma.
L'ascolto di Playing with The Ghost lascia veramente una scia di commozione mista a tristezza con groppo in gola, tanto il fantasma di Sudden sembra impossessarsi dei solchi delle canzoni in cui la sua anima rivive ancora una volta. Prima di morire Sudden riuscì a collaborare con Nicola Cereda(chitarra e voce), Roberto De Luca(basso) e Carlo Cereda(organo, piano), più Alessio Russo alla batteria. I risultati di questa collaborazione si possono ascoltare nelle due canzoni scritte insieme ai Circo Fantasma: gli undici minuti in crescendo di When the Pope Goes to Avignon e nella spoken song The Port of Farewell , con la voce di Sudden che ci parla e catechizza per l'ultima volta. Le altre canzoni dove aleggia il fantasma piratesco di Sudden sono le reinterpretazioni di sue canzoni: Kiss At Dawn, canzone da ultimo bacio d'addio in preda ad una post sbronza "ballerina" ai Caraibi, la lenta delicatezza alticcia di When I Cross the Line e la tanto bella quanto troppo corta (purtroppo) The Road Of Broken Dreams cantata da Jeremy S. Gluck(Barracudas) e con l'organo di Amury Cambuzat(Ulan Bator) a tingere il tutto di fosco e antico. L'ultima anima di Sudden esce prepotente da Where The Rivers End (cantata dallo scrittore Phil Shoenfel), canzone dei suoi Jacobites, progetto messo insieme con il fraterno amico Dave Kusworth.
I Circo Fantasma chiamano in casa altri spettri, oltre a quello di Sudden.
Ad infestare la casa di vibrazioni e pelle d'oca ci pensano la rivisitazione dark-country/folk di Marry Me(Lie! Lie!) dei These Immortal Souls del defunto Rowland S. Howard e Carry Home dei Gun Club a rimarcare ancora una volta quanto la band di Jeffrey Lee Pierce occupi un posto speciale nella musica dei milanesi.
Oltre all'iniziale delicatezza affidata a The Garden (Einsturzende Neubauten) e all'aggressività di Nick The Stripper dei Birthday Party , è da segnalare la bella The Devil's Hole, interpretata da Phil Shoenfel (autore del romanzo culto “Junkie Love”, contrasto e convivenza tra eroina e amore), una darkeggiante western song che si sviluppa e trasforma in un rock'n'roll metropolitano affogato nell'alcol etilico.
Infine Shooting Star, tra vecchi saloon western e insegne al neon traballanti e The Ghost in Me, finale jazz/folk degno di quel gran signore di Pomona che di cognome fa Waits a testimoniare che anche le loro composizioni possono competere con i fantasmi citati a cui il disco è dedicato e perchè no, anticipare le prossime mosse della band.
Chiudetevi in casa, spegnete le luci e iniziate a giocare con i fantasmi.
Credo sarà dura per tutti, quest'anno, eguagliare i picchi di emotività raggiunti dai Circo Fantasma. Il loro personale omaggio ai quei miti decadenti del rock che non avranno mai le copertine che altre defunte rockstar continuano ad avere, a volte in modo del tutto gratuito, sa toccare le corde giuste.
Quando il rock muore, risorge, trafigge e vince. Ancora una volta.
vedi anche MARK LANEGAN Band-Blues Funeral
martedì 13 marzo 2012
RECENSIONE: ORANGE GOBLIN ( A Eulogy For The Damned )
ORANGE GOBLIN A Eulogy For The Damned (Candlelight, 2012)
Con l'annunciato ritiro (o presunto tale) dei capostipiti Cathedral, sulle spalle degli Orange Goblin pesa il duro fardello di portare avanti la scena doom/stoner britannica che ha avuto il suo culmine negli anni novanta. Ricordo con piacere il fumoso concerto dei Cathedral al defunto Barrumba di Torino nel 1999. Gli Orange Goblin, vera e propria scoperta di Lee Dorrian, accompagnarono insieme ai Terra Firma la band di Coventry, avendo modo di espandere la propria fama anche al di fuori del Regno Unito, facendo una gran bella figura e proponendosi come una delle più fulgide realtà in grado di unire l'ossianico doom britannico con i deserti stoner d'oltreoceano, il tutto suonato con piglio da punk-bykers inferociti.
Gli Orange Goblin targati 2012, sfornano il disco più eclettico e versatile della loro carriera. Abbandonate le influenze più psichedeliche/cosmiche e pesanti dei primissimi dischi, la creatura del sempre istrionico e temibile cantante Ben Ward, con gli anni, ha saputo rinnovarsi e A Eulogy For The Damned sembra essere la giusta via di mezzo tra i primissimi e fumati album( Frequencies From Planet Ten-1997, Time Travelling Blues-1998) e il discorso iniziato dieci anni fa, con l'uscita di Coupe De Grace (2002) con l'aggiunta di una vena blues/melodica a fare da collante.
Accanto alle radici del passato, comunque sempre presenti ascoltando canzoni come la pesante epicità di Death Of Aquarius, l'iniziale Red Tide Rising, la pesantezza doom che si alterna con i veloci break di The Fog, o la finale, lunga e progressiva suite della titletrack, troviamo un avvicinamento alle radici metal NWOBHM ed una varietà di composizione che pur toccando maggiormente la melodia non snatura le profonde radici della band.
Le chitarre (Joe Hoare) alla Thin Lizzy di Acid Trial, lo spirito del primo metal britannico NWOBHM che aleggia nella veloce cavalcata The Bishops Wolf con l'intrusione di un organo Hammond che riporta ai '70, il viscerale rock'n'roll di The Filthy And The Few danno l'esempio della grande ecletticità raggiunta dalla band londinese.
Una menzione particolare meritano: Save from Myself, un southern rock con ottimi assoli di derivazione blues, dove la voce da poco di buono di Ward, diventa espressiva e melodica, i cori diventano catchy , ricordandomi la dimenticata e sfortunata band The Four Horsemen;
poi c'è la breve e curiosa Return To Mars, un funk travestito da pesante hard rock, saltellante, groovy e psichedelica.
Forse non è il loro migliore album, ma è una chiara dimostrazione di crescita e maturità artistica che arriva a cinque anni dal loro ultimo e pesante disco Healing Through Fire (2007) e come successo con The Hunter dei Mastodon, pur con le dovute differenze, potrebbe farli uscire dal grande club dei gruppi cult.
vedi anche CORROSION OF CONFORMITY
Con l'annunciato ritiro (o presunto tale) dei capostipiti Cathedral, sulle spalle degli Orange Goblin pesa il duro fardello di portare avanti la scena doom/stoner britannica che ha avuto il suo culmine negli anni novanta. Ricordo con piacere il fumoso concerto dei Cathedral al defunto Barrumba di Torino nel 1999. Gli Orange Goblin, vera e propria scoperta di Lee Dorrian, accompagnarono insieme ai Terra Firma la band di Coventry, avendo modo di espandere la propria fama anche al di fuori del Regno Unito, facendo una gran bella figura e proponendosi come una delle più fulgide realtà in grado di unire l'ossianico doom britannico con i deserti stoner d'oltreoceano, il tutto suonato con piglio da punk-bykers inferociti.
Gli Orange Goblin targati 2012, sfornano il disco più eclettico e versatile della loro carriera. Abbandonate le influenze più psichedeliche/cosmiche e pesanti dei primissimi dischi, la creatura del sempre istrionico e temibile cantante Ben Ward, con gli anni, ha saputo rinnovarsi e A Eulogy For The Damned sembra essere la giusta via di mezzo tra i primissimi e fumati album( Frequencies From Planet Ten-1997, Time Travelling Blues-1998) e il discorso iniziato dieci anni fa, con l'uscita di Coupe De Grace (2002) con l'aggiunta di una vena blues/melodica a fare da collante.
Accanto alle radici del passato, comunque sempre presenti ascoltando canzoni come la pesante epicità di Death Of Aquarius, l'iniziale Red Tide Rising, la pesantezza doom che si alterna con i veloci break di The Fog, o la finale, lunga e progressiva suite della titletrack, troviamo un avvicinamento alle radici metal NWOBHM ed una varietà di composizione che pur toccando maggiormente la melodia non snatura le profonde radici della band.
Le chitarre (Joe Hoare) alla Thin Lizzy di Acid Trial, lo spirito del primo metal britannico NWOBHM che aleggia nella veloce cavalcata The Bishops Wolf con l'intrusione di un organo Hammond che riporta ai '70, il viscerale rock'n'roll di The Filthy And The Few danno l'esempio della grande ecletticità raggiunta dalla band londinese.
Una menzione particolare meritano: Save from Myself, un southern rock con ottimi assoli di derivazione blues, dove la voce da poco di buono di Ward, diventa espressiva e melodica, i cori diventano catchy , ricordandomi la dimenticata e sfortunata band The Four Horsemen;
poi c'è la breve e curiosa Return To Mars, un funk travestito da pesante hard rock, saltellante, groovy e psichedelica.
Forse non è il loro migliore album, ma è una chiara dimostrazione di crescita e maturità artistica che arriva a cinque anni dal loro ultimo e pesante disco Healing Through Fire (2007) e come successo con The Hunter dei Mastodon, pur con le dovute differenze, potrebbe farli uscire dal grande club dei gruppi cult.
vedi anche CORROSION OF CONFORMITY
lunedì 12 marzo 2012
RECENSIONE: FRANCESCO PIU ( ma-moo tones)
FRANCESCO PIU ma-moo tones ( Groove Company, 2012)
Che la Sardegna fosse terra di blues, già lo sapevamo e mi piace citare anche la letteratura contemporanea con Flavio Soriga e il titolo del suo bel libro Sardinia Blues, per rimarcarne il concetto, che sia attinente o meno. Da oggi,Francesco Piu ha pensato bene di metterci un suggello ufficiale.
Come avvenuto per Jaime Dolce, anche Francesco Piu è stato una delle tante chitarre che ho conosciuto attraverso i concerti e i dischi di Davide Van De Sfroos.
Il piccolo chitarrista sardo ha già all'attivo due album solisti (Blues Journey-2007 e Live ad Amigdala Theatre-2010) ed una sfilza di collaborazioni live e di studio da far impallidire tanto quanto il suo modo di suonare, senza contare i numerosi riconoscimenti ed apprezzamenti nazionali ed internazionali (Guitar Club l'ha definito:una vera e propria forza della natura) che con l'uscita di ma-moo tones lo trasformano, nel giro di undici canzoni, da promessa a una delle più fulgide realtà musicali italiane ed europee.
Come nel romanzo di Soriga, volutamente privo di punteggiatura, cascata di parole libere di diffondersi e oltrepassare confini della carta e raggiungere l'obiettivo, anche Francesco Piu riesce, anche grazie all'aiuto preziosissimo di Daniele Tenca in fase di scrittura dei pezzi e del mitico bluesman newyorchese, ma cittadino del mondo, Eric Bibb( appena uscito il suo nuovo album Deeper in the Well) in fase di produzione artistica, a liberare note dalla sua chitarra, facendole letteralmente volare dentro a canzoni che non hanno paura di travalicare il puro blues per esplorare altri territori.
Con una copertina (ritratta la tipica maschera di carnevale sarda Mamuthones) che non sfigurerebbe nella vetrina di qualsiasi negozio di vinili della Louisiana, ma-moo tones sa omaggiare devotamente il passato quanto calarsi nel presente grazie alla complicità ed immediatezza del più classico blues-trio: in compagnia di Davide Speranza all'armonica e Pablo Leoni alla batteria. La tradizione e le radici risiedono dentro alle tre cover del disco: Soul Of a Man di Blind Willie Johnson per sola chitarra elettrica e percussioni, nella strumentale Third Stone From the Sun di Hendrix suonata con una vecchia chitarra 1900' Parlour e nella rilettura del traditional Trouble So Hard con tanto di sampler di campane Mamutones a legare simbolicamente la Sardegna con le paludi degli States.
Paludi, mistero e sacri riti che spuntano dalle uniche due canzoni autografe( musica e parole) di Francesco Piu nel beat/blues alla Bo Diddley di Down On My Knees con la chitarra resofonica ed in Overdose Of Sorrow dove compare la chitarra baritono di Eric Bibb
Dalle profonde radici si risale fino a trovare le influenze reggaeggianti di Hooks in my skin( quando è necessario chiudere le porte con il passato e cercare la propria strada), i puri pezzi di bravura di Colors, percussiva e ritmata per sola acustica e batteria e Stand by Button guidata dal banjo.
Caducità di questo presente che poco si avvicina alla terra promessa nella iniziale, tirata ed elettrica The End Of Your Spell con un banjo infiltrato e malandrino dentro all'impetuosità della Lap Steel, alla cadenzata rapacità di Over You, singolo con tanto di video. E poi, lascio per ultima Blind Track, per me,vero gioiello di questo disco: una lenta e sentita ballad, dove si può apprezzare, oltre che l'ispirata e buona voce del chitarrista sardo, anche il grado di maturità raggiunto in fase di scrittura dei pezzi con la complicità di Daniele Tenca. Ecco, Francesco Piu e Daniele Tenca: il blues ha due buone ragioni in più per piantare le proprie radici nella profondità della terra italica. Qui la bella intervista a Francesco Piu su Black&Blue Blog di Alessandro Zoccarato
vedi anche JAIME DOLCE'S INNERSOLE-Sometimes Now
Che la Sardegna fosse terra di blues, già lo sapevamo e mi piace citare anche la letteratura contemporanea con Flavio Soriga e il titolo del suo bel libro Sardinia Blues, per rimarcarne il concetto, che sia attinente o meno. Da oggi,Francesco Piu ha pensato bene di metterci un suggello ufficiale.
Come avvenuto per Jaime Dolce, anche Francesco Piu è stato una delle tante chitarre che ho conosciuto attraverso i concerti e i dischi di Davide Van De Sfroos.
Il piccolo chitarrista sardo ha già all'attivo due album solisti (Blues Journey-2007 e Live ad Amigdala Theatre-2010) ed una sfilza di collaborazioni live e di studio da far impallidire tanto quanto il suo modo di suonare, senza contare i numerosi riconoscimenti ed apprezzamenti nazionali ed internazionali (Guitar Club l'ha definito:una vera e propria forza della natura) che con l'uscita di ma-moo tones lo trasformano, nel giro di undici canzoni, da promessa a una delle più fulgide realtà musicali italiane ed europee.
Come nel romanzo di Soriga, volutamente privo di punteggiatura, cascata di parole libere di diffondersi e oltrepassare confini della carta e raggiungere l'obiettivo, anche Francesco Piu riesce, anche grazie all'aiuto preziosissimo di Daniele Tenca in fase di scrittura dei pezzi e del mitico bluesman newyorchese, ma cittadino del mondo, Eric Bibb( appena uscito il suo nuovo album Deeper in the Well) in fase di produzione artistica, a liberare note dalla sua chitarra, facendole letteralmente volare dentro a canzoni che non hanno paura di travalicare il puro blues per esplorare altri territori.
Con una copertina (ritratta la tipica maschera di carnevale sarda Mamuthones) che non sfigurerebbe nella vetrina di qualsiasi negozio di vinili della Louisiana, ma-moo tones sa omaggiare devotamente il passato quanto calarsi nel presente grazie alla complicità ed immediatezza del più classico blues-trio: in compagnia di Davide Speranza all'armonica e Pablo Leoni alla batteria. La tradizione e le radici risiedono dentro alle tre cover del disco: Soul Of a Man di Blind Willie Johnson per sola chitarra elettrica e percussioni, nella strumentale Third Stone From the Sun di Hendrix suonata con una vecchia chitarra 1900' Parlour e nella rilettura del traditional Trouble So Hard con tanto di sampler di campane Mamutones a legare simbolicamente la Sardegna con le paludi degli States.
Paludi, mistero e sacri riti che spuntano dalle uniche due canzoni autografe( musica e parole) di Francesco Piu nel beat/blues alla Bo Diddley di Down On My Knees con la chitarra resofonica ed in Overdose Of Sorrow dove compare la chitarra baritono di Eric Bibb
Dalle profonde radici si risale fino a trovare le influenze reggaeggianti di Hooks in my skin( quando è necessario chiudere le porte con il passato e cercare la propria strada), i puri pezzi di bravura di Colors, percussiva e ritmata per sola acustica e batteria e Stand by Button guidata dal banjo.
Caducità di questo presente che poco si avvicina alla terra promessa nella iniziale, tirata ed elettrica The End Of Your Spell con un banjo infiltrato e malandrino dentro all'impetuosità della Lap Steel, alla cadenzata rapacità di Over You, singolo con tanto di video. E poi, lascio per ultima Blind Track, per me,vero gioiello di questo disco: una lenta e sentita ballad, dove si può apprezzare, oltre che l'ispirata e buona voce del chitarrista sardo, anche il grado di maturità raggiunto in fase di scrittura dei pezzi con la complicità di Daniele Tenca. Ecco, Francesco Piu e Daniele Tenca: il blues ha due buone ragioni in più per piantare le proprie radici nella profondità della terra italica. Qui la bella intervista a Francesco Piu su Black&Blue Blog di Alessandro Zoccarato
vedi anche JAIME DOLCE'S INNERSOLE-Sometimes Now
giovedì 8 marzo 2012
RECENSIONE: JAIME DOLCE'S INNERSOLE ( Sometimes Now)
JAIME DOLCE'S INNERSOLE Sometimes Now (autoproduzione, 2011)
Conobbi per la prima volta la chitarra dell'americano Jaime Dolce, solo dopo il suo sodalizio con Davide Van De Sfroos, con il quale incise Pica!(2007) e girò l'Italia in Tour. Personaggio simpatico e genuino dal ricco passato musicale, nato musicalmente nei primissimi anni novanta a New York, dove tra le numerose collaborazioni può vantare la lead guitar nella band di Mason Casey.
Sul finire degli anni novanta arrivò in Italia che diventa presto la sua seconda patria. Anche nel nostro paese riesce a collaborare a numerosi progetti e mettere in piedi la sua personale band: Jaime Dolce's Innersole, appunto.
Il suo nuovo album mi arriva inaspettato, dopo averlo perso di vista per qualche anno, ma mi conferma quanto il suo blues cerchi di spostarsi dalla canonicità per percorrere nuove e fantasiose strade, riuscendo ad uscire dai soliti steccati imposti dal genere ma soprattutto riuscendo a non fare della chitarra un mezzo onanistico di mera bravura tecnica ma rendendola parte integrante delle canzoni, magari a scapito dei puristi del genere.
Accompagnato da Matteo Sodini alla batteria, Stefano Castelli al basso e Filippo Buccianelli alle tastiere, Sometimes Now è un disco immediato e viscerale, senza fronzoli a cui fa fede la velocità con cui è stato registrato negli studi dei fratelli Poddighe a Brescia. Lo stesso Jaime nelle note introduttive al disco spiega quanto l'incontro con i due fratelli bresciani sia avvenuto per puro caso via
facebook ma in pratica gli abbia dato la possibilità di registrare il disco della vita, grazie ad uno studio di registrazione che ha permesso a lui e la band di registrare tutto in analogico, mettendo in musica le gioie e i dolori della sua vita.
Voce profonda, con forti sfumature black e chitarra ispirata sia nel rileggere ed omaggiare Robert Johnson nell'iniziale commistione tra Hendrix e funk di Stop Breaking Down e nella torrenziale Steady Rolling Man; sia nelle canzoni autografe che sanno passare dagli inserti reggae di Shots Of Fire e della strumentale Trippy Nina, i momenti acustici di I Do, al soul con la chitarra contagiosa e sognante della bella Arrendere, i sapori soul/tex-mex di The Movie Song e la bella Long way, ballad sorretta dall'hammond con l'ispirato assolo finale, pieno di feeling.
Fino ad arrivare al gran finale corale con Space Captain , la canzone di Matthew Moore che risplendeva nel grande Mad Dogs & Englishmen di Joe Cocker.
Foto:Aglientu Summer Festival
vedi anche: FRANCESCO PIU ma-moo tones
Conobbi per la prima volta la chitarra dell'americano Jaime Dolce, solo dopo il suo sodalizio con Davide Van De Sfroos, con il quale incise Pica!(2007) e girò l'Italia in Tour. Personaggio simpatico e genuino dal ricco passato musicale, nato musicalmente nei primissimi anni novanta a New York, dove tra le numerose collaborazioni può vantare la lead guitar nella band di Mason Casey.
Sul finire degli anni novanta arrivò in Italia che diventa presto la sua seconda patria. Anche nel nostro paese riesce a collaborare a numerosi progetti e mettere in piedi la sua personale band: Jaime Dolce's Innersole, appunto.
Il suo nuovo album mi arriva inaspettato, dopo averlo perso di vista per qualche anno, ma mi conferma quanto il suo blues cerchi di spostarsi dalla canonicità per percorrere nuove e fantasiose strade, riuscendo ad uscire dai soliti steccati imposti dal genere ma soprattutto riuscendo a non fare della chitarra un mezzo onanistico di mera bravura tecnica ma rendendola parte integrante delle canzoni, magari a scapito dei puristi del genere.
Accompagnato da Matteo Sodini alla batteria, Stefano Castelli al basso e Filippo Buccianelli alle tastiere, Sometimes Now è un disco immediato e viscerale, senza fronzoli a cui fa fede la velocità con cui è stato registrato negli studi dei fratelli Poddighe a Brescia. Lo stesso Jaime nelle note introduttive al disco spiega quanto l'incontro con i due fratelli bresciani sia avvenuto per puro caso via
facebook ma in pratica gli abbia dato la possibilità di registrare il disco della vita, grazie ad uno studio di registrazione che ha permesso a lui e la band di registrare tutto in analogico, mettendo in musica le gioie e i dolori della sua vita.
Voce profonda, con forti sfumature black e chitarra ispirata sia nel rileggere ed omaggiare Robert Johnson nell'iniziale commistione tra Hendrix e funk di Stop Breaking Down e nella torrenziale Steady Rolling Man; sia nelle canzoni autografe che sanno passare dagli inserti reggae di Shots Of Fire e della strumentale Trippy Nina, i momenti acustici di I Do, al soul con la chitarra contagiosa e sognante della bella Arrendere, i sapori soul/tex-mex di The Movie Song e la bella Long way, ballad sorretta dall'hammond con l'ispirato assolo finale, pieno di feeling.
Fino ad arrivare al gran finale corale con Space Captain , la canzone di Matthew Moore che risplendeva nel grande Mad Dogs & Englishmen di Joe Cocker.
Foto:Aglientu Summer Festival
vedi anche: FRANCESCO PIU ma-moo tones
Iscriviti a:
Post (Atom)