martedì 31 gennaio 2012

RECENSIONE: MARK LANEGAN BAND (Blues Funeral)

MARK LANEGAN BAND Blues Funeral ( 4AD Records, 2012)

Dall'anonimo e profondo nero pece di Bubblegum sono spuntati colorati fiori. Quasi il precedente disco, uscito otto anni fa, rappresentasse il fondo del quadro su cui Lanegan ha cucito la sua nuova opera.
Mark Lanegan è ancora quell'enorme ed impassibile ombra, dall'aspetto quasi svogliato, appoggiata con tutto il suo pesante peso all'asta del microfono, mentre intorno a lui, Nick Oliveri e Josh Homme progettavano il finimondo. Questa la scena osservata nel Novembre 2002 in un Alcatraz gremito durante il tour dei Queens Of The Stone Age che seguì il fortunato Songs for the Deaf. Lanegan è sempre e ancora in piedi, scruta svogliatamente quello che gli sta intorno e quando ne sente la necessità fa uscire le sue amare impressioni.
Quelle magnolie non sono messe lì a caso. Dodici canzoni che continuano ad essere quelle nate nei meandri più oscuri, fangosi e malati della vita. L'ascolto di Blues Funeral lascia trasparire, però, un velato e beffardo ottimismo dipinto sopra a suoni che i puristi potrebbero liquidare con frettoloso snobismo.
Gli otto anni che lo separano da Bubblegum, l'hanno visto ospite "protagonista" in tanti progetti: dai Gutter Twins e The Twilight Singers in compagnia dell'amico Greg Dulli, ai soliti QOTSA, dai Soulsavers, ai duetti roots insieme alla scozzese Isobel Campbell e non ultimo con i suoi Screaming Trees, di cui nel 2011 è uscito il famoso disco "fantasma" Last Words: The Final Recordings.
Esperienze che hanno lasciato il segno, aprendo( senza esagerare) quelle porte della socialità, nascosta per troppo tempo dietro ad una maschera che celava e copriva i segni di una vita di solitaria sofferenza ed estrema diffidenza verso l'esterno. Blues Funeral è, a suo modo, un'apertura. Un passo ardito e spiazzante in molti punti.
Almeno due capolavori in questo disco: nelle poche concessioni alle sfumature della notturna Gray Goes Black, chiaro invito a vedere le cose con il loro vero colore durante i solitari passaggi tra la luce del giorno e il buio della notte che scandiscono la nostra vita, silenzioso viaggio con l'unica e preziosa compagnia di una radio accesa, e nelle splendida cartolina di St. Louis Elegy, low ballad e personale gospel, in stile Soulsavers, con un verso che sembra racchiudere tutta la vita di Lanegan: and the dead of winter will cut you quick / these tears are liquor and i’ve drunk myself sick...
Lanegan porta la musica su un altro livello, timidamente accennato in Bubblegum. Perchè accanto alla solitaria, spoglia ed acustica Deep Black Vanishing Train, tanto vicina ai primissimi e cantautorali dischi solisti, il disco è ricco di canzoni dove le tipiche liriche laneganiane vengono circondate da synth e loop in perfetto stile New wave 80's. La più lampante Ode to Sad Disco, la macerante camminata tra le vie della redenzione di Harborviell Hospital e la finale consapevolezza di Tiny Grain Of Truth non hanno paura di giocare con l'elettronica, dimostrando, una volta di più, quanto la voce profonda e penetrante del quarantasettenne cantautore possa cambiare l'aspetto e il corso di qualsiasi sequenza di note di qualunque strumento.
Lanegan gioca, ancora una volta, a sottrarre per arricchire le sue canzoni. Il contrasto tra le fredde macchine e il calore della sua voce, con gli ascolti, conquista e rivaluta i due splendidi album con i Soulsavers (-in verità, da me, sempre amati-).
Tutto quello che rimane, tra l'alto volo di un corvo e una buca scavata nella terra, è cantato nell'incedere bellico di The Gravedigger's Song, una delle poche concessione al rock chitarristico del disco. Le altre sono Riot in My House con la chitarra del rosso Josh Homme protagonista (il riff portante, invero, non è proprio originalissimo) e il perfetto equilibrio tra synth e chitarre della viziosa ed orecchiabile Quiver Syndrome.
La scarnificazione del blues si fa concreta in Bleeding Muddy Water, lo spirito del grande bluesman sembra vegliare lungo tutta la canzone e dare un senso compiuto al titolo dell'album.

...muddy water/pillar to post/how do i bleed you?/just like a ghost/muddy water/heaven’s son/you are the bullet/you are the gun...

Riverito, corteggiato e amato ( anche questa volta tanti ospiti: il produttore e chitarrista Alain Johannes, Jack Irons alla batteria, sono loro la M.L. Band, Greg Dulli e Chris Goss), Lanegan dimostra ancora una volta di essere la più (in)credibile voce uscita negli anni novanta, degna di stare accanto ai più grandi cantautori "maledetti" d'America. Voce che sa scavare ancora nel profondo dell'anima anche se accompagnata con delle fredde e poco animate batterie elettroniche che fanno da metronomo. Quello che le belle voci di Cornell e Vedder sognano di essere e che , forse, solo Cobain e Staley avrebbero potuto raggiungere. Voce di un sopravvissuto. Il bicchiere di Whiskey è ancora mezzo pieno e i fantasmi che girano intorno sono ancora tanti e assetati.

lunedì 30 gennaio 2012

RECENSIONE: NOLATZCO ( Assalto alla Luna)

NOLATZCO Assalto alla Luna ( Psicolabel, 2012)

La fuga istintiva dei Nolatzco è quella di chi ,in questo mondo, si sente privato di tutto, di chi vede l'imminente fine (Speed) al posto del futuro in ogni raggio solare che seguirà all'ennesima notte. Dove, i pochi spiragli di vera luce entrano attraverso il sogno romantico della fuga in compagnia di un affetto (Assalto alla luna e Tutto svanisce) che si trasforma in fuga da un' apocalisse (che è quello che c'è già). L'apocalisse della precaria quotidianità. Vita che diventa imprecazione e bestemmia, sdegno, voglia di rivoluzione ma anche l'amara consapevolezza di accettare la rassegnazione ad una sconfitta di fronte alla quale bisogna comunque trovare dei colpevoli, ben mimetizzati in mezzo a tanta superficialità(Condannati al successo). La luna potrebbe essere il posto giusto su cui approdare per tenersi lontano da tutto questo, e forse meditare. La rivincita del romanticismo?
Assalto alla Luna è il primo lavoro dei Nolatzco, gruppo con sede a Ferrara, formato da: Giovanni "Nanni" Fanelli, autore di tutti i testi, attuale bassista dei Rossofuoco di Giorgio Canali e già membro dei Quinto Stato ( band autrice di due interessanti album, l'omonimo -2003 e Le ultime tracce di Mr.Tango-2007), al basso e voce, Stefania Orioli al secondo basso, Diego Artioli alla batteria e il bravo Ivo Giammetta alla chitarra .
Dieci canzoni dirette e precise nel colpire i bersagli, ambientate in un contesto e in scenari da sopravissuti alla fine del mondo. Dove, città fredde, spoglie, grigio-metalliche e poco accoglienti, potrebbero ricordare gli scenari raccontati da Vasco Brondi(da sempre grande fan dei Quinto Stato di Fanelli).
Tracce abrasive come l'iniziale Babyrivoluzione, non lasciano dubbi su quanto Canali sia più di un punto di riferimento: un punto di partenza, sicuramente, ma non un punto di arrivo. Lo si capisce dal testo di Educati al successo, (...Grovigli di tette cosce e culi bocche rifatte cazzi duri e a natale l’intermittenza di 1000 alberelli vestiti da troia… nuovi maestri di vita, nuove religioni di plastica ma noi restiamo fedeli alla linea con coca cola light…), con la sferragliante chitarra suonata da Ivo Giammetta che si ripete nel veloce post-punk anti-cemento ad impatto ambientale zero di Abusivisness. Canzoni che farebbero un gran comodo a chi era rimasto deluso dal Canali di Nostra signora della dinamite e che il recente Rojo ha parzialmente riscattato. Qui troverete l'urgenza del Canali più incazzato, con il valore aggiunto dei vent'anni di meno.
Ancora fuga e ancora luna nel lento incedere dell'oscurità della darkeggiante Lullabymoon e nel mal di vivere di una città come Milano dove le opere di Cattelan diventano parte integrante dell' arredo urbano nella finale La Ballata dei Cuori Intermittenti.
L'oscuro amore del terzo millennio di Un Caos che ti somiglia, costruita come solo Emidio Clementi ed i suoi Massimo Volume saprebbero fare, cozza contro la diretta, scollacciata e contagiosa Signorina Diesel, con il connubbio donne e motori che pare aver trovato un punto di accordo nel chorus che ti si stampa in testa: "inghiottito dalla fica, masticato e rigettato".
I Nolatzco, nella loro opera prima che segue l'Ep del 2010, disegnano un ritratto crudo e poco edificante, ma estremamente reale del nostro habitat, imprigionato nelle sue contraddizioni politiche e sociali. Una zoomata sul quotidiano musicata in maniera cruda e tagliente, con la curiosa presenza dei due bassi che diventa sinonimo di pesantezza.
I Nolatzco, giovani figli dell'Emilia paranoica, lanciano il loro assalto alla luna, quarantatre anni dopo Armstrong. Ma siamo sicuri che la luna sia disposta a riaccogliere noi "immondi" essere umani? Una sanguinaria romantica rivoluzione.

venerdì 27 gennaio 2012

RECENSIONE/REPORTAGE: The VASELINES Live@ Spazio 211, Torino, 26 Gennaio, 2012


"It wasn't all Duran Duran/You want the truth? /Well, This is it,/ I hate the '80s 'cause the '80s were shit..." ( verso estrapolato da I Hate 80's, canzone contenuta nel loro secondo album Sex with an X uscito a ventuno anni di distanza dal primo Dum-Dum) racchiude benissimo la storia degli scozzesi The Vaselines, e a suo modo, è un piccolo manifesto per rivendicare un angolino di posto nella storia della musica, che giustamente spetta anche loro. La tanta, a volte ingombrante, pubblicità fatta da Nirvana e Cobain, poco è servita per farli uscire da quell'aura di culto che fino a cinque anni fa sembrava condannarli, tanto da invertire il detto: se la pubblicità è l'anima del commercio...con noi ha funzionato poco.
I Vaselines nel 2006 hanno ceduto alla reunion e Sex with an X, uscito nel 2010 è stato un segno di grande emancipazione ad effetto ritardante. Racchiusi, all'epoca, dentro al poco pregevole termine Twee pop, che con il tempo assumerà ben altro significato e prestigio. Oggi, una voce che, con un pò di immaginazione, può voler dire: "ci rimettiamo in pista perchè sappiamo viaggiare, anche, con le nostre gambe, senza aiuti e riprendiamo il discorso proprio da dove lo avevamo interrotto".

Con i cronisti di mezzo mondo intenti nello sforzarsi di parlare dei Vaselines senza riesumare il nome di Kurt Cobain (io non ci sono riuscito- sorry-), loro, candidamente, non nascondono nulla e quando ci sono da spendere buone e sincere parole per chi diede visibilità alle loro canzoni, lo fanno senza problemi ma con estrema gratitudine.
La rinnovata voglia di musica li ha portati a rimettersi in cammino e, per la prima volta in carriera, ad intraprendere un tour che tocca quattro città italiane.
Nella settimana che passerà alla storia per l'eco minaccioso e doveroso dei forconi siciliani e l'incubo dei tir a sbarrare le strade, il clima all'interno dello Spazio 211 di Torino è quello giusto di chi vuole lasciare all'esterno problemi, nebbia e freddo, godendosi una serata fatta di curiosià e tante canzoni. Curiosità di capire cosa c'era nella seconda metà degli anni ottanta in Gran Bretagna oltre alle eterne lotte tra Duran Duran e Spandau Ballet (anche se The Cure, The Smiths, The Housemartins e i conterranei scozzesi The Proclaimers tra i tanti, basterebbero nel rispondere al quesito) e capire perchè il Grunge deve qualcosina al rock lo fi ed indipendente di due (allora)giovanissimi scozzesi di Edimburgo.
Frances McKee e Eugene Kelly a dispetto dell' età sono ancora quei due ragazzini dispettosi e divertiti nel punzecchiare il pubblico, tirando in ballo spesso e volentieri il sesso e riscoprendo, con le loro canzoni, quei sogni, incubi e pruriti adolescenziali presenti, ma vergognosamente nascosti, anche in età adulta.
Accompagnati da due componenti dei Belle & Sabastian, il bravo, puntuale e versatile Stevie Jackson alla chitarra e il più defilato Bobby Kildea al basso, più il preciso ma potente batterista Michael Gaughrin dei 1990s. Una band da valore aggiunto.
La scaletta parte con Oliver Twisted ed oltre ai loro piccoli grandi classici presenta tanti brani dell' ultimo disco, segno di quanto The Vaselines credano ad un lavoro creato per essere suonato live, che sembra riprendere il discorso interrotto in quel famoso concerto sul palco con i Nirvana nel 1990.
La possente e noise Ruined, Poison Pen, il darkeggiante western di The Devil inside Me, il nuovo manifesto I Hate the 80's, il singolo Sex with an X, dal vivo acquistano nuovo vigore e non sfigurano incastrate dentro alla scaletta, insieme al passato. Aspettando che qualche altro grosso nome nel mondo musicale le faccia diventare delle nuove canzoni da coverizzare.
Frances McKee sa ancora catalizzare l'attenzione e sicuramente è la più loquace tra i due. I pochi dialoghi partono sempre dalla sua bocca, pur faticando a farsi seguire. Eugene Kelly partecipa sporadicamente se non per fermare tutti e segnalare al batterista l'attacco sbagliato di Slushy: stavano per risuonare Ruined una seconda volta, consecutivamente. Risate.
Le cantilenanti filastrocche adolescenziali Molly's Lips e Son Of a Gun e la straordinaria ballata Jesus Doesn't Wants Me for a Sunbeam, sono naturalmente ben accolte dal pubblico e diventate di diritto i picchi emotivi dello show che prosegue tra le possenti esecuzioni di Lovecraft, l'epocale Monsterpussy e Dying for it.

Dopo un'ora tirata, gli scozzesi lasciano il palco per tornarci dopo pochi minuti e chiudere la performance. La richiesta lanciata al pubblico è la seguente: volete la versione disco o la versione punk di You think you're a Man (cover dell'icona gay Divine)? La risposta è scontata e dal riff marziale di Stevie Jackson, che riproduce il suono che in origine era delle tastiere, l'approdo alla finale Dum-Dum è un fulmine a ciel sereno. La versione punk e tirata della titletrack del loro primo disco fa scatenare l'audience che riempie lo Spazio 211, nell'ultimo e anche unico movimento tellurico che scuote la sala, altrimenti composta da chi segue in modo molto reverenziale e ossequioso lo show.
Passano cinque minuti dall'uscita di scena e Frances è già dietro il bancone del merchandising. Lo spirito indie è ancora quello di venticinque anni fa. Sembra cambiato veramente poco nei Vaselines. Gruppo, a cui non manca la voglia di crescere, ma che semplicemente porta avanti un'attitudine ben radicata nel tempo.
Perdenti, sfortunati, infantili, approssimativi, ironici e beffardi, definiteli come più vi piace; sono tutti aggettivi che continuano ad adattarsi bene al loro pop/indie chitarristico. Un esempio(per molte giovani bands) da seguire, ora come allora.

SETLIST: Oliver Twisted / The Day I was a Horse / Monsterpussy / Sex with an X / Molly's Lips / The Devil's inside Me / Jesus doesn't want Me for a Sunbeam / I Hate the 80's / Lovecraft / No Hope / Poison Pen / Son of a Gun / Rory Rides Me Raw / Ruined / Slushy / Whitechapel / Sex Sux(Amen) / Dying For It / You think You're a Man / Dum-Dum





















martedì 24 gennaio 2012

RECENSIONE: LUCA GEMMA (Supernaturale)

LUCA GEMMA Supernaturale ( Adesiva Discografica-Novunque/Self, 2012)

A due soli anni di distanza da Folkadelic, il cantautore eporediese, Luca Gemma fa uscire il suo quarto album solista,continuando a dimostrare una freschezza di scrittura invidiabile sospesa, così com'è, tra pop, rock e folk.
Animo vagabondo, Luca Gemma trasporta in musica il suo ricco bagaglio di esperienze di vita e musicali, partite negli anni novanta quando in coppia con Pacifico componeva i Rossomaltese, gruppo folk/rock, lontano da qualsiasi classificazione, che fece uscire due interessanti dischi da riscoprire.
Supernaturale parte da una semplice quanto onesta e dura considerazione: la riscoperta della natura( con tutte le sue bellezze) intorno a noi, come antidoto per dimenticare tutto il brutto che l'Italia ci ha dato in questi ultimi tempi: politica in primis.

"Politica bye bye/Che non insegni mai/A immaginare un mondo/ Ma a farti i cazzi tuoi" da Bye bye

Un disco nato in fretta, dove Gemma cerca di calarsi il più possibile nella parte. Canzoni che prendono corpo nella sua mente durante l'alba dei giorni, per catturare quel particolare momento della giornata, in grado di aumentare l'ispirazione. Undici canzoni che partono da Una mela rossa e Bye bye, l'attacco più duro al nostro paese, nascosto dietro all'eleganza di ritmiche comunque rock, secche e serrate che amano virare nel r'n'b e nella black/soul per andare sempre più incontro all'esplosione della semplicità e della bellezza in tutte le sue forme. Un cammino di recupero e disintossicazione che porterà verso il vero e proprio arrivo dell'estate, sinonimo di libertà e bellezza( Venne l'estate), musicata con la scarna e romantica presenza dell'ukulele suonato da Gaetano Cappa. Un recupero della primordialità, dove ci si fa bastare il poco, apprezzandone tutte le sfumature.

"Io sento freddo l'Italia non mi piace/E' posto per carogne e figli di papà/L'hai detto tu che diventare grandi/E' prepararsi al meglio è spingersi più in là" da Una mela rossa

Ecco, allora, che prima di arrivare al'esplosione dell'estate dentro di noi, occorre compiere un viaggio. Scappare dal marciume e cercare consapevolezza dentro di sè. Riappriopriarsi delle proprie forze, della propria anima, dei propri interessi: l'amore verso la musica nelle strofe e nel rock di Blu elettrico , e la stupenda ballata Il cielo sopra di te, uno dei picchi di questo disco, cantata insiema alla brava Patrizia Laquidara, con la presenza del violoncello di Mattia Boschi(Marta sui tubi), tra grilli e cicale in sottofondo e l'immenso vuoto. Una catarsi.
Da qui, inizia la discesa(o meglio l'elevazione) verso quella felicità che pensavamo persa ma, contrariamente, solo ben nascosta dentro noi (dentro a rari sentimenti come la generosità) e dentro la bellezza universale della natura, dei suoi colori, odori, dei momenti della giornata che spesso liquidiamo senza la giusta attenzione o diamo semplicemente per scontati.
Natura e Soppranaturale sono canzoni pop rock con chitarre e melodia in perfetto equilibrio.
Ospiti come Andrea Viti(ex bassista di Karma, Afterhours e Juan Mordecai) e Pasquale De Fina(Atleticodefina) contribuiscono nel dare al disco, quell'impianto rock su cui la voce (mai sopra le righe) di Gemma sa essere estremamente coinvolgente e rassicurante, riuscendo a colorare di soul canzoni come L'alba, di folk come la ballata e quasi preghiera di Credo, o di funk/blues, come nella liberatoria e vero preludio all'estate di Io Voglio.

"Gambe allenate che la strada è lunga/E braccia tese a quello che verrà/Voce potente per un sano vaffanculo/Per un futuro come piace a me" da Io Voglio

Un disco onomatopeico. La sensazione di leggerezza che permea l'intero lavoro riesce nell'intento di liberare la mente. I suoni essenziali e live, grazie all'aiuto del produttore Paolo Iafelice danno un grande aiuto, ricordandomi, a tratti, l'ultimo disco di Cristina Donà, Torno a casa a piedi.
Se la speciale ricetta di Gemma nel recupero della felicità, nell'immediato può risultare faticosa, il suo disco concept riesce a dare la prima e basilare spinta di incoraggiamento.
Una primavera arrivata in anticipo...la nostra estate arriverà prima, quest'anno.


INTERVISTA

sabato 21 gennaio 2012

RECENSIONE & INTERVISTA: UNÒRSOMINÒRE. (La Vita Agra)


UNÒRSOMINÒRE. La Vita Agra ( Lavorare Stanca, 2011)

L’ascolto di La vita agra richiede un po’ di impegno e attenzione superiore alla media che verranno ripagati nei successivi ascolti. Lo stesso impegno che Unòrsominòre. vorrebbe e pretenderebbe da chi gli sta accanto ogni giorno: da chi guarda il teleschermo della televisione con l’amo già attaccato alla bocca e da chi applaude ad un comizio politico credendo di avere le promesse già in tasca con il timbro “mantenute” fresco di inchiostro. Difficile fare finta di nulla di fronte a tutto questo. Meglio essere cinici e sputare fuori tutto, anche in modo duro e diretto.
Unòrsominòre. è il progetto di Kappa (Emiliano Merlin), ex componente dei veronesi Lecrevisse gìà all’attivo con il debutto omonimo del 2009 e l’Ep “Tre canzoni per la repubblica italiana” uscito nel 2010 per festeggiare e denunciare i 150 anni dell’Unità d’Italia .
La Vita Agra (titolo preso in prestito dal romanzo del 1962, di Luciano Bianciardi)...
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INTERVISTA

Kappa, Unòrsominòre., Emiliano. Tre nomi: una persona o ci sono diversità?
Una, una. E’ solo che mi piace mettere in difficoltà chi deve averci a che fare. No, in realtà sono nomi legati a età diverse. Quindi direi che sono un instabile insicuro che invecchiando cerca di mascherarsi assumendo nuove identità.


La Vita Agra è un libro del 1962 di Luciano Bianciardi(non l’ho mai letto). Lo consiglieresti e perchè? Oltre al titolo, quanto c’è di quel romanzo nel tuo disco?
Certo, lo consiglio, è un libro snello, scritto in un italiano magistrale, ed è illuminante circa le origini e le ragioni del degrado della dignità dell’uomo nella società del profitto. Nel disco c’è molto del senso generale di amarezza che si trova anche nelle pagine di Bianciardi, e un paio di temi sono ripresi in maniera diretta, in particolare quello dell’auspicio alla decrescita. Per il resto però non ci sono riferimenti stretti; ho dato questo titolo al disco per il sapore che ha, per l’immaginario che suggerisce, più che per analogie con la storia di Bianciardi.

Anche se le etichette sono sempre limitative: come classificheresti il tuo disco?
Musicalmente è un disco di canzoni, con gli accordi, le parole e tutto. Pop-rock triste, con qualche deviazione sul cantautorato e su suoni più borderline, e con alcune raffinatezze sparse fra gli arrangiamenti. Concettualmente è una raccolta di miserie, quelle in cui sguazziamo da troppi anni ormai – miserie sociali, politiche, morali, emotive.

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giovedì 19 gennaio 2012

RECENSIONE: TOMMY STINSON (One Man Mutiny)

TOMMY STINSON One Man Mutiny ( Done to Death records, 2011)

Se il "rock NON è morto", contrariamente a quanto qualcuno da circa trent'anni con scadenza annuale, vuole farci credere, un pò di merito va a personaggi minori come Tommy Stinson.
Diversamente dal fratello Bob, morto per overdose nel 1995, Tommy è un sopravvissuto del post-punk americano dei primi anni ottanta.
Nel 1979, formò insieme al fratello, a Paul Westerberg e Chris Mars, The Replacements, band che partendo dal garage/punk più stradaiolo, con gli anni riuscì a crearsi un buon seguito grazie all'introduzione di elementi rock'n'roll e pop, divenendo quel gruppo di culto che tutti conosciamo e punto di riferimento per giovani band in erba.
Dopo lo scioglimento nei primi anni novanta, ognuno andò per la sua strada.
Tracce di Stinson le possiamo ritrovare nei numerosi gruppi a cui prestò il suo basso: dai Bash & Bop ai Perfect, giungendo all'ultima incarnazione dei Soul Asylum. Dal 1998 è ufficialmente il bassista di quello strano fenomeno da baraccone messo in piedi da Axl Rose, recante il luccicante e ancora remunerativo nome : Guns'n'Roses.
Questa sua seconda prova solista dopo Village Gorilla Head del 2004, sembra ripartire e guardare proprio ai dischi solisti di un ex gunners, il primo ad andarsene dalla formazione originale, il chitarrista Izzy Stradlin; alle prove soliste di un altro grande loser del rock americano come Mike Ness; o ancora all'ultimo e divertente album di quella testa calda di Ron Wood . Non ci sono troppe etichette da spendere per descrivere il disco: Rock, dice tutto e bene. Sicuramente meno sporco e crudo rispetto ai suoi passati progetti, preferendo giocare in prevalenza sulla melodia, di facile presa.
In apertura piazza il tambureggiante rock/blues di Don't Deserve You , doppiata dalla più stoniana che non si può, It's a Drag, con tanto di slide suonata da Chip Roberts e urletti alla Mike Jagger.
Meant to be e All this Way for Nothing sono due perfette road song, la prima viaggia nei territori cari a Tom Petty, la seconda ricorda la carica giovanile di gruppi come i Gaslight Anthem.
Nella seconda parte del disco, Tommy Stinson esplora nuovi territori, più leggeri: nella finale title track, traccia un bilancio di vita in stile dylaniano; si avvicina al suono americana con Come to Hide e nella country ed ironica Zero to Stupid (...I just can't go from zero to stupid in just one ... in just one ... in just one ... in just one ...one drink); ritrova il vecchio compagno dei Replacements, Paul Westerberg, con il quale scrive l'esotica Match Made in Hell, dove duetta con la voce femminile della sua donna Emily Roberts, presente anche su Destroy Me e in tutti i cori del disco.
Nulla di particolarmente miracoloso in One Man Mutiny se non poter dire, a fine ascolto:il rock è vivo! Per me è già tanto.

lunedì 16 gennaio 2012

RECENSIONE: CESARE CARUGI (Here's to the Road)

CESARE CARUGI  Here's to the road ( Roots Music Club, 2011)

“Andate da qualche parte di preciso, voi ragazzi, o viaggiate senza meta?"(cit. "Sulla strada", Jack Kerouac)

Andiamo in direzione America. Chi ama il rock americano ha tre buone opportunità per viverlo ogni giorno anche in Italia: ascoltarlo, suonarlo e fare le due cose insieme con grande passione.
Cesare Carugi appartiene alla terza categoria (io, per non fare danni, mi limito alla prima) con un vantaggio che gli consente, con sicurezza, di guardare gli altri dallo specchietto retrovisore della sua auto lanciata in una highway: quello di conoscere l'America e di cantarla, non soltanto seguendo gli stereotipi spesso banali che associamo a certa musica, ma cantarla come un soldato in prima linea, permettendosi di mettere la freccia, uscire dalle strade principali ed avventurarsi, cercando tra le vie secondarie quelle meno battute ma più vere ed appaganti.
Ecco che una malinconica, fredda ed espressiva ballad pianistica come Dakota lights & the Man who Shot John Lennon non la troverete da chi vi vende l'America a buon mercato. Se poi il songwriter di Chicago, Michael McDermott (cercate il suo "Gethsemane"-1993) duetta con lui, il tiro si alza di molto. Questa potrebbe bastare a presentare il toscano di Cecina, Cesare Carugi, che arriva al suo primo full lenght dopo l'ep Open 24 Hours del 2010 ed un bagaglio di viaggio pieno di timbri e una discreta attività live accompagnando tanti buoni nomi del rock americano.
Un disco dove i temi del viaggio e del tempo (il folk di chiusura Cumberland insieme a Massimo Larocca) guidano le cinematografiche liriche, vero punto di forza di un lavoro con pochi difetti, sospese tra velato romanticismo e fughe di libertà.
C'è il lento vagabondaggio di frontiera alla Tom Russell e Joe Ely nella ballad Death and Taxes e nei grandi paesaggi desertici di Blue Dress; ci sono gli accenti southern rock di Every Rain Comes to wash it all clean (con la lap steel dell'ospite Daniele Tenca), e dell'apertura Too late to leave Montgomery in bilico tra Petty e Neil Young.
Gli echi springsteeniani, anticipati a suo tempo da Massimo Priviero e Graziano Romani (altri due personaggi che meriterebbero più visione), di 32 Springs, in compagnia di un altro ospite, il cantautore Riccardo Maffoni, passano veloci come la vita, pur essendo la traccia che mi ha convinto meno.

Non è solo states, il viaggio di Carugi. C'e anche il tempo di saltare in Inghilterra: quella dei Clash "americani" di Goodbye Graceland tra chitarre e polvere di Elvis e c'è il garage rock di London Rain.
Quando poi i chiaro-scuri di Caroline, con il violino protagonista e le vocals di Giulia Millanta, si impossessano della scena, si capisce di aver di fronte uno storyteller di alto livello, dalla pronuncia inglese perfetta ma soprattutto, nel suo genere,uno dei migliori dischi italiani usciti nel 2011. Fuori tempo per la mia classifica di fine anno, ma senza tempo per innamorarsene.


INTERVISTA a CESARE CARUGI



vedi anche RECENSIONE: CESARE CARUGI-Pontchartrain (2013)




vedi anche RECENSIONE: MIAMI & THE GROOVERS-Good Things


giovedì 12 gennaio 2012

RECENSIONE: JOSEPH RIDE(Joseph Ride)

JOSEPH RIDE Joseph Ride (autoprod., 2011)


Pochi giorni fa stavo guardando un interessante film-documentario: "Overload -Tribute",(che potete trovare in rete)denuncia il poco coraggio del sistema musica Italia nel dare il giusto spazio a qualcosa di realmente nuovo ed originale. Di quanto i locali, medio-piccoli italiani, preferiscano andare sul sicuro, facendo suonare cover band a scapito degli artisti "coraggiosi" che osano (brutto termine) presentando la loro musica. Coraggio mancante a chi dovrebbe dare spazio ai coraggiosi, ma soprattutto al fruitore medio italiano, che si accontenta dei soliti nomi imposti dal grande mercato discografico.
Joseph Ride è uno di questi coraggiosi (tanti, fortunatamente), e per suonare non pretende troppo, facendosi bastare veramente poco.
Nel giro di un solo mese, anche la provincia di Napoli mi ha fatto conoscere il suo lato americano, così lontano dai sogni stereotipati cantati a suo tempo dal grande Carosone, ma assolutamente in linea con l'alt folk povero che da alcuni anni è stato riscoperto e sta viaggiando nel mondo.
Dopo aver fatto la conoscenza di Guy Littell, ecco Joseph Ride(Giuseppe De Filippis il suo vero nome), cantautore che dopo varie esperienze in rock band, decide di dare sfogo al suo mondo interiore attraverso le sue composizioni. Lo fa con sette canzoni scritte e musicate da lui, che amano giocare con la scarna essenzialità lo-fi, facendo risaltare il messaggio a scapito della perfezione di facciata.
Joseph Ride è un figlio del suo tempo che ama guardarsi indietro, riprendere il meglio della rivoluzione folk degli anni sessanta e immergerla nel nostro frenetico e moderno mondo. Attingere dalle melodie vocali dei "rivoluzionari" Byrds( Canyon sam), dalla California psichedelica ed ombrosa dei sixties nelle tastiere che accompagnano Last December, dalla west coast americana più buia nella ballad country/folk People from your town; portandole a convivere con l'amarezza acustica del grunge "unplugged" in Diggin' e attaccando la spina, quando serve, come nel finale elettrico di Alien Wail.
Composizioni pure, dall'incedere innocente, quasi aprossimative nel loro approccio(Secret in your toy ) che ricordano anche la scena Twee britannica di metà anni ottanta e alcuni suoi protagonisti: con gli scozzesi Vaselines, tanto amati da Cobain e soci, in prima fila. Tutto torna.
Venti minuti che scorrono come un vecchio filmato in super otto, dai colori sbiaditi, con immagini in controsole ed un sogno rock'n'roll che esce rispettoso in The Give-up song, con l'umiltà di chi sa di dover fare (ancora) molta strada.
Sette canzoni che suonano sincere nella loro attitudine DIY. Un'opera prima voluta e cantata proprio così come la si ascolta, lontana da qualsiasi inquinamento sonoro, con il solo aiuto del co-produttore Ferdinando Farro e del bassista Ciro Battiloro su alcuni brani. Un buon antipasto ad un auspicabile e meritato successore.

Sito Myspace

lunedì 9 gennaio 2012

RECENSIONE: ANI DIFRANCO (¿Which Side Are You On? )


ANI DIFRANCO ¿Which Side Are You On? ( Righteous Babe Records, 2012)

Se il buon anno (almeno musicale) si vede da Gennaio, possiamo ben sperare.
Il primo grido di sfida alla recessione di questo 2012, appena alle porte, lo lancia Ani DiFranco.
¿Which Side are you On?, traditional folk degli anni '30 che Pete Seeger fece suo, è dichiarazione di sdegno forte e chiara. Una presa di posizione che non le è mai mancata ma che la recente maternità aveva affievolito salvo restituircela amplificata a dismisura, ora che il futuro a cui pensare non è più solo il suo. La presenza del vecchio Pete come ospite, mai così adulato come in questi ultimi anni, serve a sottolineare il tutto. Ani DiFranco parte da quella canzone per far sentire la sua voce di donna e lo fa con altre 11 canzoni , tanto leggere e colorate nella forma, quanto pesanti nei loro messaggi.
Quarantunenne e mamma, la prolifica folksinger di Buffalo, può far ripartire la sua carriera, dopo tre anni di assenza(l'ultimo fu, Red Letter Year del 2008, in odor di gravidanza), con un disco dove sociale e privato convivono e si rafforzano a vicenda. Messaggi forti, senza censure, e musicalità che nella sua essenzialità, lascia da parte l'urgenza del passato ma si arrichisce di nuovi colori, approfittando del recente trasferimento in una città come New Orleans, dove la musica è celata in ogni angolo di strada.
Basta ascoltare la title track, aperta dal banjo di Pete Seeger (classe 1919), per capire come la DiFranco riesca ad impossessarsi di un traditional che vanta innumerevoli covers spalmate negli anni(l'ultima in ordine di tempo, quella di Tom Morello). Testo attualizzato alla recente crisi e folk che diventa elettrico e marziale fino ad esplodere con i fiati e la presenza di un coro di bambini della scuola The Roots of Music, da lei adottati spiritualmente. Un crescendo che vale il disco.
Se la title track ci domanda da che parte vogliamo stare, non vi è dubbio che Ani DiFranco, la sua ala, l'ha già scelta da molto tempo, fin dal suo promettente esordio del 1990; attraverso le sue scelte musicali e personali, lungo la sua ventennale carriera e ribadite con forza narrativa in questo lavoro. Messaggi forti che arrivano in una forma diversa ed adulta, ma arrivano.
Ry Cooder meets Paul Simon, targati 2011, sono le pietre angolari più recenti che l'ascolto del disco mi ha ricordato, con l'ispirata visione femminile a 360 gradi ad arricchire il tutto(da sempre convinta e militante femminista).
La perfetta apertura affidata all'evocativa Life Boat porta verso le personali e più introspettive liriche delle delicate Albacore(una delle mie preferite) e Mariachi, dei rumorismi blues di If yn Not con la saggia accettazione dello scorrere del tempo, del folk minimale di Hearse. Canzoni che viaggiano parallele al livore e disgusto verso le brutture del mondo che poco le appartiene, nella conclusiva Zoo(per sola voce e chitarra), della presa ecologista del "quasi" Calypso di Splinter, del reggae di denuncia politica di J e della forte presa di posizione sull'aborto che esce dalla spigolosa ed oscura Amendment, che sicuramente susciterà qualche polemica."If you don’t want an abortion...Then don’t have one"
Una grande famiglia di musicisti ospiti ad aiutare e colorare il tutto:oltre al già citato Seeger, una menzione meritano i Neville Brothers(Ivan e Cyril), i chitarristi Adam Levy e Dave Rosser, più un'infinità di musicisti di New Orleans. Tutti sotto la regia del produttore, compagno e papà Mike Napolitano.
Un disco quasi hippy nella sua forma: maturo, sincero e diretto, dove la saggezza delll'età riesce a rileggere la realtà in modo diverso dal passato. Dove l'accettazione dello trascorrere del tempo non vuol dire rassegnazione ma consapevolezza e voglia di portare avanti le proprie battaglie con nuove forze e vigore. Sicuramente, da un angolo di visione diverso e più ampio. Ani DiFranco è la prima ad elargire speranza in questo inizio anno. Avanti gli altri.

martedì 3 gennaio 2012

RECENSIONE: D-A-D (DIC.NII.LAN.DAFT.ERD.ARK)

D-A-D DIC.NII.LAN.DAFT.ERD.ARK ( Cargo records, 2011)

Ricordo il primo incontro con i danesi D-A-D: erano i primissimi anni novanta, nelle sudaticce serate in mezzo alla pista di una discoteca rock. Dal ballare la loro prima hit Sleeping My Day Away(contenuta nello strepitoso No fuel left for the Pilgrims-1989-) a comprare il disco che avevano appena pubblicato, il passo fu brevissimo. Riskin'it All uscì nel 1991 e rappresenta il loro vertice di popolarità. Sia prima che dopo, però, ci sarebbero tante altre storie da raccontare che spesso vengono dimenticate.
I D-A-D esistono da quasi trent'anni e non se ne sono mai andati, anche quando il loro divertentissimo rock'n'roll(inizialmente, un particolare incrocio tra AC/DC, punk e country western) sembrò cedere sotto i "deprimenti" colpi del ciclone grunge, loro risposero con Helpyourselfish(1995), riuscendo a stare a galla, senza venire travolti come la buona metà dei gruppi street/glam dell'epoca.
I D-A-D hanno mantenuto, negli anni, uno standard qualitativo invidiabile. Prima, tra i capiscuola europei dello street rock proveniente dal nord Europa(continuando sulle strade aperte dai finlandesi Hanoi Rocks), poi, portanbandiera di un rock spavaldo ed ironico, anche difficile da etichettare(aperto a tutto) e facendosi un nome soprattutto grazie alle incredibili ed infuocate performance live, con il caschetto militare del bassista Stig e il suo basso a due corde , a forma di missile con tanto di razzi lanciati, che diventano delle icone indelebili ed attrazione per i più curiosi.
E' un peccato, quindi, che le loro ultimissime uscite discografiche passino spesso inosservate e siano preda di pochi ma affezionati fedeli. I loro dischi sono ancora superiori alla media delle uscite discografiche del genere e questo ultimo DIC.NII.LAN.DAFT.ERD.ARK , prodotto dal fidato Nick Foss ne è la ulteriore conferma.
L'ironia del passato continua già dal titolo: gioco di parole "danese" per indicare la dicitura del primo nome della band (Disneyland After Dark), in seguito cambiato dopo le minacciose querele del simpatico colosso Disney; e dalla data di uscita ufficiale di questo loro undicesimo disco, fissata per l'11/11/2011.
Parlando di musica, ci possiamo trovare tutte quelle caratteristiche che fanno dei D-A-D (la formazione vede ancora i tre membri storici: il già citato bassista Stig Pedersen, il cantante e chitarrista Jesper Binzer e il fratello Jacob A.Binzer all'altra chitarra, più l'ultimo entrato in formazione, il batterista Laust Sonne ), il gruppo che poteva sfondare in America. Così non fu, per tante sfortunate coincidenze. Ma queste sono storie passate.
Il presente racconta di canzoni dalla spiccata componente Heavy come nell'apertura affidata al messaggio apocalittico di A New age moving In. Ancora pesanti riff in The place Of The Heart, con la voce di Jesper Binzer che sa essere grezza e melodica in Last time in Neverland, vero punto d'incontro tra i due poli della loro musica.
Il singolo I Want What She's Got , la melodica e solare Fast On Wheels e Breaking Them Heart by Heart, anthem melodici e chitarre pesanti, hanno tutte le caratteristiche per piazzarsi in testa come le loro vecchie hits.
Colpi di classe sono le due ballads: la cristallina e piacevolmente oscura We All Fall Down con le inusuali note darkeggianti di un pianoforte che fanno la loro parte e la finale, leggera e pop, Your lips are Sealed.
Poi, ancora, il post -grunge di Wild Thing In The Woods, l'oscuro blues di Can't Explain What It, lo street rock'n'roll, molto alla vecchia maniera, di Drag me to the Curb e The End. Testi che sanno giocare tanto con l'ironia e il gioviale carattere dei danesi quanto con la velata malinconia nordica.
Come al solito, tanta carne al fuoco per proseguire sulla strada dei loro due ultimi e ottimi lavori di studio, Scare Yourself e Monster Philosophy.
L'America sarà ormai lontana, ma i D-A-D dimostrano ancora una coerenza e un amore verso la musica che ha pochi rivali in Europa. Se non li conoscete potete iniziare anche da qui o andare a vederli nelle prossime due tappe italiane in Febbraio.
vedi anche RECENSIONE/REPORTAGE: D.A.D. live GLAM ATTAKK Rock n Roll Arena , Romagnano Sesia (NO) 24/02/2012

domenica 1 gennaio 2012

PLAYLIST: le mie CANZONI del 2011

Capita (spesso) che l'album non sia all'altezza del singolo che si ascolta in continuazione o della canzone, nascosta(vorrei dire tra i solchi,ma risulterei troppo nostalgico), che ci fa innamorare al primo ascolto; altre volte ci sono dischi dove tutte le tracce ti entrano in testa e meritano una segnalazione di "squadra". Questo mio elenco(assolutamente sempre aperto e soggettivo) contiene quelle canzoni che ho ascoltato di più e quelle che, ascoltate anche solo una volta, mi ricorderanno qualcosa di questo anno appena trascorso. Senza distinzione di genere, artista (strafamoso, famoso o sconosciuto),nazionalità e umore. Non è assolutamente una classifica. Sono tutte uscite durante il 2011 ed elencate in ordine puramente casuale. A fine elenco, mi sono accorto di quante siano: tante, forse anche troppe!! L'utilità di questo elenco? Non pervenuta. Le vostre quali sono(chi vuole può aggiungerle...)?

ALICE GOLD-Orbiter
ALICE GOLD-Runaway Love
TEDESCHI TRUCKS BAND-Bound for Glory
FLEET FOXES-Sim Sala Bim
JOHN HIATT-Damn this Town
RY COODER-Humpty Dumpty World
DAVE ALVIN-Run Correjo Run
LUIGI MAIERON-Questa Faccia
VINICIO CAPOSSELA-Aedo
LUCINDA WILLIAMS-Blessed
OKKERVIL RIVER-Pirates
TWILIGHT SINGERS-Waves
MOJO FILTER-No comment Please
PENTAGRAM-Call the Man
MASTODON-Curl of the Burl
CHICKENFOOT-Come Closer
EDDIE VEDDER-Goodbye
The FEELIES-Again Today
STEVE EARLE-Molly-O
FLOGGING MOLLY-The Heart of the sea
SAXON-Back in 79
SUPERHEAVY-Unbelievable
STATUS QUO-Frozen Hero
The BLACK KEYS-Run Right Back
GRAVEYARD-Hisingen Blues
BLACK JOE LEWIS & THE HONEY BEARS-Booty City
NEIL YOUNG-Grey Riders
MANNARINO-Marry Lou
CRISTINA DONA'-Più forte del Fuoco
DAVIDE VAN DE SFROOS-Il camionista ghost rider
PAOLO BANVEGNU'-Love is talking
REM-Oh my heart
WILCO-Black Moon
ANTHRAX-The Devil you know
TOM WAITS-Hell broke Luce
ALICE COOPER-A Runaway Train
ZEN CIRCUS-Atto secondo
VERDENA-Razzi Arpia Inferno & Fiamme
SEASICK STEVE-Treasures
SEASICK STEVE-You can't teach an old new tricks
O'DEATH-Bugs
MIDDLE BROTHER-Thanks for Nothing
ANVIL-New Orleans Voodoo
BLACK COUNTRY COMMUNION-Man in the saddle
The DECEMBERISTS-Rox in the box
MODENA CITY RAMBLERS-Sul tetto del mondo
ECO NUEL-The River song
BANDABARDO'-Sant'Eustachio
EMA-
California
PRIMUS-Lee Van Cleef
GENTLEMANS PISTOLS-Living in sin again
JANE'S ADDICTION-Irresistible Force
GIORGIO CANALI-Carmagnola #3
DROPKICK MURPHYS/BRUCE SPRINGSTEEN-Peg O'my Heart
CASINO ROYALE-Ogni uomo una radio(Turn it on)
DEVOTCHKA-100 Other Lovers
VERILY SO-Ordinary Minds
BRUNORI SAS-Rosa
99 POSSE-Antifa 2.0
TOM MORELLO-The Dogs of Tijuana
RYAN ADAMS-Chains of Love
MACHINE HEAD-Be Still and Know
TINARIWEN
-Tenere Taqhim Tossam
WANDA JACKSON/JACK WHITE-Shakin'All Over
PAUL SIMON-So beautiful or so what
JOE ELY-The Highway is my home











mercoledì 28 dicembre 2011

PLAYLIST: TOP DISCHI CLASSIC ROCK 2011

1-SEASICK STEVE-You'can't teach an old dogs new tricks

Steven Gene Wold, ha settant'anni e si fa chiamare Seasick Steve(pare, solo perchè soffra il mal di mare) è in pista dagli anni sessanta, ma solamente da otto anni ha iniziato ad incidere dischi. In mezzo c'è tutta una vita passata a lavorare nel retrobottega della musica come produttore e tecnico del suono ma sopratutto, a girovagare per il mondo come un solitario hobo guadagnandosi la pagnotta ai margini delle strade, raccimolando il poco necessario.


2-TOM WAITS-Bad As Me

Waits continua il suo discorso di decostruzione della forma canzone iniziata negli anni ottanta con l'aiuto della moglie Kathleen Brennan(coautrice dei testi). Non sarà più sorprendente come una volta, ma la sua personale miscela musicale: bizzarra, visionaria e frenetica che allo stesso tempo sa essere poetica, romantica e malinconica continua a conquistare adesso come quarant'anni fa. Polvere e brillantina. Antiche foto e quotidianità unite.


3-WILCO-The Whole Love

The Whole Love abbandona in parte il rassicurante country rock di Sky blue sky e le derive pop del precedente omonimo per cercare strade artistiche che conducono lontano, meno estreme rispetto ai primi lavori ma comunque sperimentali. La mente di Jeff Tweedy rimane materia assai complicata e certi vecchi mostri continuano a nascondersi in modo rassicurante dentro alla sua mente , tanto da uscire in avanscoperta quando meno te lo aspetti.


4-BLACK JOE LEWIS & THE HONEYBEARS- Scandalous

Groove, fortissimamente groove. Se c'è una cosa che non si riesce a fare appena attacca Livin' in the jungle , prima traccia di Scandalous, seconda prova discografica di Black Joe Lewis e i suoi The Honeybears, è tenere il volume basso.






5-MIDDLE BROTHER- Middle Brother

12 canzoni che fanno di varietà e freschezza la loro forza, senza essere tuttavia dei capolavori da tramandare. McCauley, Goldsmith e Vasquez, rispettivamente leaders dei loro guppi Deer Trick, Delta Spirit e Dawes lasciano la loro personale impronta in ogni brano.




6-STEVE EARLE-I'll Never Get Out Of This World Alive

Con questo disco Steve Earle conferma il buon periodo della sua vita, forse arrivata ad un punto di totale stallo e rilassatezza ma con il fuoco dell'ispirazione che arde ancora anche se, per una volta , non è alimentato da brutte storie di droga e amori finiti ma dall'amore verso una vita ancora tutta da vivere e godere meglio se da "vero sopravvissuto".




7-RY COODER-Pull Up Some Dust and Sit Down

Tante cose, in questo disco, Cooder ci include tutto il suo bagaglio e passaporto musicale(partendo dalle roots americane arrivando al Messico, Cuba, gospel, Folk, blues e rock) ma soprattutto una lunga serie di imput e notizie dalla vecchia America poco confortanti, disegnando un quadro attuale poco roseo e felice ma che con la sua musica intorno, sembrano arrivare in modo meno catastrofico e più colorato di quanto potrebbe fare un qualsiasi giornale con i caratteri di stampa in bianco e nero.


8-TWILIGHT SINGERS-Dynamite Steps

Dopo il buon e fortunato Saturnalia in compagnia del gemello maledetto Mark Lanegan, Greg Dulli continua la personale battaglia con la profondità contenuta in domande e risposte sospese tra la vita e la morte. Il limbo, la fede, la redenzione vissute con lo sfondo di periferie urbane degradanti e abitate da personaggi perdenti e vogliosi di riscatto.



9-The DECEMBERISTS-The King is dead

La voglia di semplicità porta il gruppo al ritorno verso suoni e testi lontani dalla complessa architettura che costruiva il loro precedente The Hazards of love






10-FLEET FOXES-Helplessness Blues

Un sapiente mix tra il folk di matrice americana, in bilico tra psichedelia e west coast californiano e il folk-prog bucolico anglosassone( Van Morrison sembra un punto saldo) su cui il “vecchio” Peckhold riversa i suoi disagi interiori e le sue domande esistenziali come un vecchio signore in là con gli anni farebbe in punto di morte.




11-ALICE GOLD-Orbiter12-JOHN HIATT-Dirty Jeans and Mudslide Hymns13-OKKERVIL RIVER-I Am Very far14-DAVE ALVIN-Eleven Eleven15-REM- Collapse Into Now
16-PAUL SIMON-So Beautiful Or So What17-LUCINDA WILLIAMS-Blessed18-TINARIWEN-Tassili19-O'DEATH-Outside
20-RYAN ADAMS-Ashes & Fire21-TOM MORELLO-World Wide Rebel Songs22-NEIL YOUNG-A Treasure23-DEVOTCHKA-100 Lovers24-WANDA JACKSON-The Party Ain't Over25-HAYES CARLL-KMAG YOYO & other American Stories
26-MY MORNING JACKET-Circuital
27-MARIANNE FAITHFULL-Horses and High Heels
28-STEEPWATER BAND-Clava
29-JOE HENRY-Reverie30-The KENNETH BRIAN BAND-Welcome to Alabama

venerdì 23 dicembre 2011

PLAYLIST: TOP DISCHI ALT, HARD-HEAVY 2011

1-GRAVEYARD-Hisingen Blues

Un disco capace di appagare i nostalgici del vecchio hard rock in tutte le sue vecchie forme, come un disco del Led Zeppelin registrato nel 2011 e capace di infilare nei retaggi dei suoni vintage la modenità e il calore dello stoner, i rallentamenti del doom metal e la passione di certo rock sudista. Più che una sorpresa.





2-MASTODON-The Hunter

I Mastodon decidono di tagliare quasi tutti i ponti con il loro pesante passato con un solo colpo d'ascia, pur mantenendo le caratteristiche che ne hanno fatto una tra le più interessanti ed originali band di musica pesante dell'ultimo decennio( Leviathan-2004 e Blood Mountain-2006 entrano di diritto tra i migliori dischi degli anni zero).



3-EMA-Past Life Martyred Saints

Miss Erika M Anderson in arte EMA, con le dita della mano forma una pistola e ci invita, quasi minacciandoci, ad entrare nel suo disturbato mondo, obbligandoci a compiere un viaggio nella sua psiche...




4-BLACK COUNTRY COMMUNION-2

Una seconda prova che pareggia e supera in alcuni momenti il debutto, anche se richiede un ascolto più attento, soprattutto dovuto ad una produzione volutamente sporcata che inizialmente sembra fare da freno alla fluidità del disco. Un disco fatto da professionisti della musica che rincorre ancora le emozioni dettate dal cuore, ma questo con la presenza del carisma di Mr. Hughes era un dato assodato.


5-FLOGGING MOLLY-Speed Of Darkness

Dave King e soci , durante gli anni, sono cambiati, il loro irish/punk rock si è affinato, inglobando più influenze musicali che vedono la loro summa in questo Speed Of Darkness.






6-MACHINE HEAD-Unto the Locust

La band di Rob Flynn è ormai una garanzia ventennale che sa rinnovarsi. Unto The Locust segue il fortunato The Blackening, non lo copia ma conferma lo status di miglior band post-thrash metal uscita negli anni novanta. Una delle poche ad aver ancora voce in capitolo.




7-PRIMUS-Green Naugahyde

Sicuramente superiore ad Antipop, Green Naugahyde segna un nuovo inizio per la band californiana...quasi dodici anni di assenza e riescono a rilasciare un disco che non mostra minimamente i segni del tempo pur riprendendo a grandi dosi le peculiarità che fecero di Frizzle Fry(1990) Sailing the seas of Cheese(1991) e Pork Soda(1993), opere uniche per capire l'evoluzione rock di quegli anni...


8-RIVAL SONS-Pressure & Time

Gli americani di Los Angeles sparano tutto in mezz'ora di musica, 10 canzoni, dirette ed efficaci, senza nessun abbellimento superfluo e registrato pure in pochissimi giorni. Questi vanno veloci in tutti i sensi.
Hard rock anni settanta , quello che meglio si sposava con il blues ed una voce molto caratterizzante sono il loro biglietto da visita



9-PENTAGRAM-Last Rites

Liebling si è ripulito, ha messo da parte, chissà se per sempre, alcol e droghe e dopo sette anni dall'ultima uscita dei Pentagram, si ripresenta in compagnia del chitarrista storico della band , Victor Griffin.





10-The FEELIES-Here Before

Here Before è un lavoro a tratti solare ed intelligente, non farà la storia, ma ci riconsegna la band del New Jersey, certamente lontana dal grezzo, glaciale ma superlativo esordio del 1980, ma con un carico di melodie da far invidia a ben più blasonate band





11-CHICKENFOOT-III
12-SAVIOURS- Death's Procession13-JANE'S ADDICTION-The Great Escape Artist
14-STATUS QUO-Quid Pro Quo15-The BLACK KEYS-El Camino16-ANTHRAX- Worship Music17-ORCHID-Capricorn18-GENTLEMAN'S PISTOLS-At Her Majesty's Pleasure19-LESLIE WEST-Unusual Suspects
20-DROPKICK MURPHYS-Going Out in Style
21-ALICE COOPER-Welcome 2 My Nightmare22-SOCIAL DISTORTION-Hard Times and Nursery Rhymes
23-KIMBALL/JAMISON-Kimball/Jamison
24-The ANSWER-Revival
25-MEGADETH-Th1rt3en
26-CROWBAR-Sever the Wicked Hand
27-STEEL PANTHER-Balls Out
28-URIAH HEEP-Into The Wild
29-AGNOSTIC FRONT-My Life,My Way
30-NAZARETH-Big Dogz

giovedì 22 dicembre 2011

RECENSIONE: KATE BUSH (50 Words for Snow)

KATE BUSH 50 Words for Snow ( Fish People Records, 2011)

Non sono ancora pervenute controprove: 50 Words for Snow è candidato a diventare il disco invernale di questo 2011 agli sgoccioli. Il disco giusto da regalare durante le feste a patto che, chiunque riceverà questo gelato cd abbia larghe vedute musicali e non si aspetti simpatici jingle da canticchiare sotto l'albero in compagnia dei pargoli o seduto, con la pancia piena, davanti ad una tavola imbandita.
Kate Bush non è più l'affascinante ballerina di fine anni settanta che conquistava ed ammagliava con la sua voce e il mistero tutto femminile che riusciva ad emanare. Con questo disco, però, dimostra di saper (ancora) giocare complicato e far parlare di sé, nonostante le sue uscite pubbliche (non parliamo dei concerti-non pervenuti-) siano quasi nulle e su disco, a parte il recente Director's Cut che rivisitava cose vecchie, non la si sentiva dal 2005 di Aerial.
50 Words for Snow è un disco che va ascoltato nella sua intierezza, nel tepore domestico, con la neve che bussa lieve ai vetri delle finestre ed un pupazzo che veglia sulla porta di casa: sarebbe l'ideale. 7 canzoni, tutte piuttosto lunghe, dedicate ai quei piccoli cristalli, magici e misteriosi, di cui Kate Bush riesce a raccogliere e catalogare 50 parole per indicarli, seguendo l'esempio dato dagli eschimesi. Nasce così la canzone ( preceduta dal soffio di una bufera) dall'andamento quasi tribale, composta da un lungo elenco di parole declamate con l'aiuto dell'attore Stephen Fry (alcune, inventate, sono veramente buffe ed improponibili) e l'idea di dedicare un intero disco alla neve.
Gli otto minuti di 50 Words for Snow (la canzone) ed il primo singolo estratto Wild Man sono le uniche concessioni al pop del disco, altrimenti costruito sulla costante presenza del pianoforte a duellare con la splendida voce della cinquantatreenne cantante britannica, che pur non raggiungendo le vette di una volta, rimane ammagliante e teatrale come poche.
Snowflakes apre il sipario in modo splendido, facendo subito entrare nel mood del disco fatto di eteree note di pianoforte e pochi interventi percussivi e orchestrazioni mai invadenti. Qui, la voce di mamma Kate è accompagnata da quella acuta del figlio Albert che arrivà là dove, evidentemente, non arriva più la sua. Un dialogo ipnotizzante tra madre e figlio, lungo quasi dieci minuti. Qualche brivido lo fa venire e non è solo dovuto al freddo.
Dopo più di trent'anni di carriera, Kate Bush riesce a realizzare il sogno di duettare con il suo "mito" da ragazzina: sir Elton John. Il tutto avviene in Snowed in at Wheeler Street. Oltre al pianoforte vi è
l'accompagnamento di una sezione archi e la voce di Elton John, come dimostrato nelle sue ultime uscite discografiche, sembra essere tornata alla qualità. Una canzone che culmina in crescendo con tutta la band protagonista (John Giblin al basso, Steve Gadd alla batteria e il marito Dan Macintosh alle chitarre). Un gran brano.
Misty è una favola di tredici minuti, raccontata in punta di piedi, quasi jazzata, con un pupazzo di neve protagonista e tutto quello che ne consegue se ci si innamora perdutamente di lui.
Certo, il rischio di perdersi durante l'ascolto di canzoni, impegnative come Lake Tahoe e la conclusiva Among Angels, è sempre in agguato ma il feeling che Kate Bush riesce ad instaurare dopo pochi minuti, facilita l'impresa e depone tutto a suo favore.
Conoscendo Kate Bush, non è così improbabile che i 65 minuti di questo disco diventino anche un'opera teatrale. Sarebbe la sua ennesima sfida. Intanto noi aspettiamo...la neve. Buone feste a tutti.