Questo disco, uscito nella tarda estate del 2010, mi era sfuggito, ma visto l'enorme potenziale in suo possesso, si candida, in ritardo, a rientrare nella classifica delle più piacevoli uscite dell'anno appena trascorso in campo doom/hard rock. I norvegesi guidati dall'ugola di Olav Iversen,un perfetto mix tra Ozzy Osbourne e un buon cantante di hard rock settantiano, arrivano al terzo disco e sbancano con una prova fresca ed agile, forse meno fumosa dei due precedenti lavori ma con un occhio all 'hard di annata con organo hammond a fare la sua comparsa senza essere troppo invasivo e disburbante nei confronti dei massicci riff chitarristici. Si potrebbe partire dal fondo e dalla più cadenzata e doom del lotto, Spiritual Void, una lenta e psichedelica discesa nell'oscurità degna dei migliori nomi del genere. Un salto nelle paludi hard/stoner con la cavalcata Mortify e la più cadenzata Hollow Mountain che non dispiacerebbero affatto a Zakk Wylde. Anche se alla fine il metro di paragone più calzante rimangono i maestri Black Sabbath (e gli adepti più famosi, passando da Trouble, Saint Vitus e Cathedral), i cui germi si possono trovare in tutte le altre composizioni dalla più heavy e "moderna" Mother's Revenge, alla più sulfuree Shadow monunent e Hollow Mountain.
SOCIAL DISTORTION Hard times and nursery rhymes(Epitaph,2011)
RECENSIONE COMPLETA: http://www.impattosonoro.it/2011/01/24/recensioni/social-distortion-hard-times-and-nursery-rhymes/
THE DECEMBERISTS The King is Dead (Rough Trade, 2011)
La voglia di semplicità porta il gruppo al ritorno verso suoni e testi lontani dalla complessa architettura che costruiva il loro precedente The Hazards of love . Là dove vi era un concept di base (anche piuttosto lungo ed arzigogolato) ed un suono che spesso toccava l'hard progressive degli anni settanta, questa volta le dieci canzoni che compongono The king is dead ricercano la semplicità di suoni folk e country. Nelle nuove composizioni scritte da Colin Meloy viene a galla tutto l'animo americano del gruppo. Ospiti illustri sono Peter Buck dei REM che lascia l'impronta del gruppo di Atlanta in tre canzoni (Calamity song ne è un esempio significativo), mentre la cantante Gillian Welch impresta la sua ugola che diventa protagonista in quasi tutto il disco. Tra i richiami alla tradizione irlandese contenuti dentro a Rox in the box, l'honk tonk country di All arise!, le velate malinconie folk di January Hymn e della finale Dear Avery, l'andamento ciondolante dell'iniziale Don't carry it all( una "Out on the weekend" dei giorni nostri), i richiami a Dylan di June Hymn vi è un universo rurale che sembra fatto di ampie vallate verdi, incontaminati boschi ed una serenità e pacatezza che danno tanta rassicurazione.
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