martedì 26 ottobre 2021

RECENSIONE: TAYLOR McCALL (Black Powder Soul)

TAYLOR McCALL   Black Powder Soul  (Black Powder Soul/Thirty Tigers, 2021)


un debuttante da tenere d'occhio

Il giovane Taylor McCall, faccia pulita e un baseball cap calato in testa, sembra inciampato dentro alla musica per puro caso, quasi fosse stato trasportato da un oscuro incantesimo. Ma ci sta da dio. Il passo  dalla cameretta di casa nel Carolina del Sud dove viveva con i genitori e strimpellava le sue prime canzoni  a questo primo album, dopo due EP già editi, è stato breve ma senza moderne scorciatoie. Un ragazzino timido e riservato che viveva con difficoltà l'approccio con il prossimo ma che improvvisamente scopre di avere così tanto talento per la musica, così gli dicevano quelli che lo ascoltavano, che lasciare morire quelle canzoni dentro a quattro mura sarebbe stato imperdonabile. Per tutti. 

La musica diventa terapia, forza, sogno. La sua vita. 

"Considero la mia arte e la mia musica prima di tutto la mia terapia" ha raccontato recentemente in un'intervista. Gli si crede e si va avanti. 


Insieme a lui ha sempre la fida chitarra, la prima gliela regalò il nonno materno quando aveva solo sette anni. Il nonno è quello che si sente, doppiato dalla voce dell'allora giovane madre di McCall nel breve gospel di introduzione al disco 'Old Ship Of Zion Prelude', una vecchia registrazione che McCall ha pensato di mettere all'inizio (ma, anche alla fine) per rendere omaggio al suo primo vero fan. 

McCall è un autodidatta della chitarra ma in queste dodici canzoni di folk blues oscuro e country arcano, a tratti minaccioso e inquisitorio, riesce a fare un lavoro che sa di straordinario. Una prima opera  matura, prodotta da Sean McConnell, in grado di proiettarlo tra le figure più promettenti del cantautorato americano. In una continua lotta tra il bene e il male, il diavolo e l'acqua santa, le sue canzoni cantate con voce giovane ma tenebrosa e rauca il giusto, alternano i momenti elettrici del gospel sporco 'Black Powder Soul' con le traiettorie desertiche e misteriose di 'White Wine', i blues minacciosi e neri ('Surrender Blues', Hell's Half Acre') con sipari di folk acustico, con sola voce e chitarra ('Man Out Of Time', 'So Damn Lucky'), il passo lento di 'South Of Broadway' con la più movimentata 'Cooked Lanes, fino ad arrivare ai nove minuti di 'Lucifer' con i suoi riverberi carichi di nuvole pesanti pronte ad esplodere da un momento all'altro. 

Un viaggio spigoloso ma intenso. La meta è estremamente appagante anche se nelle atmosfere western da ultimo duello della bella 'Highway Will' canta "If The Devil Don't Kill Me Then The Highway Will". Non c'è via di scampo, insomma.





sabato 23 ottobre 2021

RECENSIONE: THE ROLLING STONES (Tattoo You, 40th Anniversary)

THE ROLLING STONES  Tattoo You - 40th Anniversary (Interscope, 1981/2021)



40 anni di scarti di valore

Nonostante Emotional Rescue non fosse andato così male in fatto di vendite, i Rolling Stones ridussero al minimo la promozione senza fare tour. Quando arrivò il momento di girare nuovamente  il mondo, Mick Jagger e Keith Richards si rinchiusero invece in uno studio insieme a Chris Kimsey, rispolverando vecchie canzoni per fare qualcosa di nuovo da portare in giro, come se non avessero già abbastanza materiale da cui attingere. Le sedute di registrazione di Black And Blue, Some Girls e Emotional Rescue furono prolifiche tanto da lasciare in eredità un sacco di outtake, ma si andò a pescare ancora più indietro, recuperando in annate lontane come il 1972: saltarono fuori canzoni come 'Tops' con la chitarra di Mick Taylor che venne lasciata senza essere accreditata. Naturalmente il chitarrista rivendicò le sue royalties appena ascoltò il disco. 

Jagger fu quello che lavorò di più in studio, sopra incidendo gran parte delle voci, in alcune venne aggiunto il sax di Sonny Rollins (in 'Slave' dove c'è pure Pete Townshend ai cori, nella scatenata 'Neighbors' scritta da Jagger "è la prima canzone che Mick scrive per me" dirà Richards. E nella conclusiva 'Waiting On A Friend'). 

Come le migliori case che custodiscono in cantina  pezzi vecchi ma ancora pregiati, i Rolling Stones avevano da parte canzoni così buone da farci un disco che per qualcuno diventò l’ultimo grande album della band, per altri addirittura la chiusura della loro migliore stagione rock. C'era chi già li considerava dei vecchi dinosauri, è bene ricordarlo. 



"Quelle canzoni non si prestavano ad essere inserite in nessun altro album. Ma sono belle canzoni" dirà Mick Jagger. 

Il disco fu lanciato dal  primo singolo apripista  ‘Start Me Up’, una canzone nata con sonorità reggae addirittura ai tempi di Black And Blue nel 1975 e registrata lo stesso giorno di 'Miss You' come raccontato dal produttore  Chris Kimsey. 

"Start Me Up è il motivo per cui l'album rimase nove settimane in cima alle classifiche" ironizzò Ron Wood. 

In verità Tattoo You pur nella sua apparente disomogeneità (convivono bene il rock'n'roll di 'Little T&A' cantata da Richards con il blues ispirato da Hop Wilson di' Black Limousine' e ballate come la notturna 'Heaven' e 'Worried About Me' con il falsetto di Jagger a dominare)  è un disco che funziona alla grande, incartato dentro al lavoro grafico minuzioso del trio Peter Corriston (grafico), Hubert Kretzschmar (fotografo) e Christian Piper (disegnatore), diventato in poco tempo uno dei più amati dai fan. 

"È un disco onesto. La maggior parte delle canzoni sono state scritte in pochissimo tempo" Mick Jagger. 

Uno scatto in avanti messo in piedi con il minimo degli sforzi.

A quarant'anni dall'uscita anche un disco fatto di scarti ha la sua bella nuova vetrina: è stato oggi rimasterizzato e per mettere bene in mostra il quantitativo di canzoni su cui si stava lavorando all'epoca, sono state aggiunte ulteriori nove canzoni (Lost & Found) tra cui spicca sicuramente 'Living In The Heart Of Love', dimostrazione di quanto bastasse loro poco per tirare giù un singolo che funzionasse. Questo funziona in qualsiasi decennio lo si ascolti. Il brano non trovò posto nella scaletta originale così come il rock blues tirato e tagliente di 'Fiji Jim', il blues 'It's A Lie' con l'armonica di Sugar Blue, lo sgangherato honk tonk 'Come To The Ball' con il piano di Nicky Hopkins, la bella e notturna ballata 'Fast Talking, Slow Walking' con la presenza di Mick Taylor e Billy Preston e una versione alternativa di 'Start Me Up'. 

Più una serie di cover: 'Trouble's A-Comin' della band di Chicago CH-Lites registrata a Parigi nel 1979, una basica 'Shame, Shame, Shame' di Jimmy Reed, la cui versione originale è del 1963 e la ballata 'Drift Away' portata al successo da Dobie Gray nel 1973 e che gli Stones già registrarono in studio un anno dopo durante le session di It's Only Rock'n'roll. 


Naturalmente rimangono fuori altre innumerevoli tracce. Troveranno un loro posto nel cinquantennale. 

"Sono solo tracce che sono state registrate in qualsiasi momento dal 1972 al 1981. Non era proprio un album. Era dappertutto. Non ha una sorta di centro" ha detto recentemente Mick Jagger. 

A completare l'operazione nostalgia, il concerto allo stadio di Wembley del 25 Giugno 1982 (fratello dell'edito Still Life), concerto che in scaletta presenta per la prima volta qualche canzone di Tattoo You ma anche alcune cover ('Just My Imagination' dei Temptations, 'Twenty Flight Rock' di Eddie Cochran, 'Going To A Go Go' dei Miracles e 'Chantilly Lace' di Big Bopper, mai apparsa prima ufficialmente).

L'operazione uscita in vari formati per accontentare tutte le tasche, da uno spaccato reale di cos'era la band in quegli anni, scanditi da album in studio e tour. I "già vecchi" Stones erano veramente dappertutto in quei primissimi anni ottanta. Ancora oggi, nonostante tutto.





lunedì 18 ottobre 2021

RECENSIONE: SWEET CRISIS (Tricks On My Mind)

SWEET CRISIS   Tricks On My Mind (Headline, 2021)


lo chiamano (ancora) rock and roll

Ai Sweet Crisis manca giusto una manciata di sporcizia in più per essere la perfetta band di retro rock di questo 2021. Tutti gli altri ingredienti sembrano essere al loro posto: un cantante, Leo Robarts, dalla voce hard soul che ha come punto di riferimento Paul Rodgers tanto da riuscire a intrufolarsi all'interno della sua roulotte dopo un concerto, anni fa, quando il cantante si era unito a quel che rimaneva dei Queen, un chitarrista, Piers Mortimer, innamorato dell'hard rock dei seventies, un Hammond (suonato da Dom Briggs-Fish) dietro a tappare ogni buco lasciato dai due sopra, una sezione ritmica precisa e presente (Matt Duduryn al basso e Joe Taylor alla batteria), una manciata di canzoni che funzionano da qualunque parte le si prenda: hard rock, blues, soul, psichedelia, funk. 

Venduti sbrigativamente come un incrocio tra i Free e i Black Keys, la band inglese nata a Cambridge nel 2015 in verità è molto di più e ha tutte le carte in regola per ritagliarsi un posto da protagonista nel mappamondo odierno del rock'n'roll sempre più bisognoso di nuove facce da mettere in vetrina. Sia quando giocano ad emulare i Fleetwood Mac periodo Peter Green nella strumentale e psichedelica  'Living Life On The Edge' che chiude il disco, quando  indossano gli abiti soul imbastiti dalla voce di Leo Robarts   in 'Love Me Like Sugar' e nella straordinaria 'Black Magic' con la voce di Sarah Brown (già corista dei Pink Floyd, Roxy Music e tanti altri) e Don Airey (attuale tastierista dei Deep Purple) ospiti illustri più che graditi, quando accarezzano le pieghe acustiche in 'Misty Haze', o quando vanno giù duro in 'One Way Traffic', gli Sweet Crisis sembrano maneggiare bene con cura e devozione queste vecchie materie quasi dimenticate dai giovani d'oggi, unendo in modo sopraffino il passato con il loro presente. Queste dieci canzoni sono il frutto dei primi cinque anni di esistenza della band, se con il secondo album sapranno confermarsi non vi è dubbio che l'Inghilterra abbia trovato il proprio antidoto agli statunitensi e più parodistici Greta Van Fleet.






domenica 10 ottobre 2021

RECENSIONE: SAMI YAFFA (The Innermost Journey To Your Outermost Mind )

SAMI YAFFA  The Innermost Journey To Your Outermost Mind (Live Wire, 2021)



se ami il rock'n'roll, passa di qui

Sarebbe veramente un delitto dimenticarsi di questo disco, tra le cose più rock'n'roll ascoltate quest'anno. A proposito: è uscito anche il ritorno dei Wildhearts di Ginger. 

Sami Yaffa non ha bisogno di troppe presentazioni. Per i più distratti si possono citare alcuni nomi: bassista dei seminali Hanoi Rocks, degli ancor più seminali New York Dolls riformati negli anni duemila, dei sempre dimenticati Jetboy, ha collaborato e suonato nei progetti dell'amico Michael Monroe (solista, Jerusalem Slim, Demolition 23), con Joan Jett, Johnny Thunders, i Murphy'Law. Insomma, negli ultimi quarant'anni si è dato da fare, lasciando le impronte del suo basso un po' ovunque. 

Per questo suo primo disco solista, arrivato all'età di cinquantotto anni (ha pure trovato il tempo di dare alle stampe un'autobiografia uscita nel 2016), si circonda di tanti amici con i quali ha diviso una buona parte di carriera nei sotterranei dei locali sparsi tra States e Europa a suonare sleaze rock: da Michael Monroe che imprime il suo inseparabile sax nella psychobilly 'Fortunate One', al vecchio compagno d'infanzia e di mille avventure Janne Haavisto alla batteria. I chitarristi Rich Jones, Christian Martucci (Stone Sour) e Rane degli Smack. 

"L'idea per l'album solista ha iniziato a prendere forma qualche anno fa. In precedenza avevo scritto musica per i New York Dolls e la Michael Monroe Band, ma ora alcune delle canzoni che stavo scrivendo e che avevo scritto iniziavano a sembrare sempre più cose mie invece di quelle che avrei scritto per quelle band " racconta il finlandese. 

The Innermost Journey To Your Outermost Mind è così un compendio della sua carriera, un diario di vita che raccoglie tutte le sue influenze musicali:  nell'apertura 'Armageddon Togheter' misura la temperatura dell'attuale stato delle cose là fuori, Iu8ii8o9b 9in pieno stile Stooges, 'Selling Me Shit' è un rantolo punk hardcore con una parentesi dub reggae nel mezzo, parentesi sviluppata meglio nei ritmi in levare di 'You Gimme Fever' (con una bella chitarra solista) e in 'Rotten Roots' che raccoglie i semi crossover seminati da Joe Strummer. In mezzo al punk veloce di  'Germinator', al rock'n'roll psichedelico di 'The Lady Time', all'hard rock pesante di 'I Can' t Stand It' con alla chitarra Timo Kaltio, scomparso recentemente (co autore di 'Right Next Door To Hell' insieme a Izzy Stradlin, canzone presente su Use Your Illusion dei Guns N' Roses), troviamo 'Down At St. Joe' s', ballata dagli umori americani con slide e pianoforte e parole vissute sulla dipendenza da alcol, una curiosa, meticcia e ben riuscita  'Look Ahead' patchanka gypsy con tanto di fiati e la finale 'Cancel The End Of The World', epica, gospel, positiva risposta alla canzone che apre il disco. 

Un disco che per quaranta minuti fa riaffiorare ricordi di quel rock'n'roll che sembrava dimenticato in questi due ultimi anni senza concerti: si respira l'aria del CBGB, c'è l'alito di Johnny Thunders che sbuffa dietro, i nervi tesi e sudati di Iggy Pop che si piegano e si allungano, la Jamaica vista in prospettiva Clash, i bicchieri pieni a festa dei Faces un po' alticci e la santa benedizione degli eterni Glimmer Twins. Insomma: quasi tutto quello che serve.





mercoledì 6 ottobre 2021

RECENSIONE: ROCKETS (Alienation)

ROCKETS   Alienation (Recording Arts/Intermezzo, 1981/2021)



ritorno al futuro con il  disco dimenticato

Primi giorni di Agosto del 1980, nel piccolo stadio  di Caorle atterrano i francesi Rockets, proprio pochi giorni dopo la strage di Bologna. Avevo sette anni ma i dischi dei Rockets li ricordo nitidamente, conoscevo le canzoni, la cassetta di Plasteroid mandata a memoria, le copertine, loro mi facevano pure paura, e ricordo che mio fratello, sette anni più di me, nel pieno della sua adolescenza, a quel concerto ci andò. Io rimasi in campeggio con il mio pallone super tele, le mie bocce piene d'acqua, il frisbee nero con un fulmine come adesivo e i miei soldatini di plastica colorata ma con le orecchie ben tese sperando di intercettare qualche suono proveniente dalla lontana galassia della periferia della cittadina balneare. Nulla. Solo stelle e nemmeno cadenti. Andai a dormire deluso dopo aver certamente spento uno zampirone ma con la curiosità di sapere i dettagli. Il giorno dopo mi fu raccontato tutto nei minimi particolari: loro che uscirono da delle grosse uova, i famigerati raggi laser raccontati come fossero delle armi letali in grado di trapassarti il corpo. La ghigna sempre incazzata del cantante Christian Le Bartz, con il suo collo taurino che pareva un mix alieno tra Mussolini e Mastro Lindo. Il biglietto di quel concerto che conservai come se ci fossi andato io. 

Era il tour di Galaxy il loro album del 1980. Un successo incredibile soprattutto qui in Italia, grazie a canzoni come 'Galactica', 'Universal Band' e 'In The Galaxy'. 



Questo Agosto, a quarant'anni di distanza mentre ero sdraiato su un prato a godermi il sole estivo con il cellulare in mano (ecco il futuro che cantavano), da una pagina social scopro che ai primi di Ottobre avrebbe fatto capolino il famigerato "ghost album" dei Rockets, ossia l'album che sarebbe dovuto uscire dopo Galaxy nel 1981 ma che la casa discografica CGD bloccò perché non troppo in linea con il loro passato. Strano per una band che guardava al futuro. Subito dopo uscì il controverso p greco, 3,14 con due canzoni ('Hypnotic Reality' e 'King Of The Universe' ) prese dal disco abortito, rivedute e corrette, ma qui non sono presenti. 

Oggi tengo in mano quel disco in versione Cd che avevo immediatamente prenotato sdraiato sull'erba appena saputa la notizia. Le comodità del futuro. In quel 1980 pure il CD, sebbene già inventato dal signor James Russell sembrava una cosa da futuro lontano, almeno una manciata di anni. 

Si presenta bene con una copertina disegnata per l'occasione dallo scenografo e artista Victor Togliani, il logo è quello dei bei tempi, anche se le vecchie copertine avevano sicuramente un altro fascino vintage. Fabrice Quagliotti, unico membro che porta ancora avanti il marchio Rockets (esistono ancora sotto altra forma) ha acquistato i diritti di queste vecchie otto canzoni registrate tra la fine del 1980 a Parigi e i primi mesi del 1981 a Saint Souplet sotto la produzione del mentore Claude Lemoine

Otto canzoni recuperate da vecchie bobine 24 piste, scritte in comunione dalla formazione storica che oltre a Quagliotti alle tastiere e vocoder e al fantasma di Le Bartz alla voce (l'unico a non firmare nessuna canzone, pure assente al canto ma presente nei credits), comprendeva la mente di "Little" Gerard L'Her al basso e voce, Alain Maratrat alle chitarre e Alain Groetzinger alla batteria. 

A parte un paio di pezzi che si riallacciano ai precedenti dischi (l'apertura 'Non - Stop' è uno space electro rock, solido e alla loro maniera, sicuramente con le caratteristiche del singolo vincente), i Rockets in quel momento si stavano guardando intorno cercando di assorbire gli umori musicali che gravitavano intorno alla  loro galassia: ecco così l'elettro pop di 'Venus Queen' e 'Talk About', ficcanti e melodiche il giusto per entrare bene in testa, l'immancabile strumentale 'Electromental' che anticipava i Daft Punk, una stupefacente 'Children Of Time', il vero gioiello del disco che indica la via alle ballate synth pop dei futuri Depeche Mode, e una  'Sky Invaders', schizzata come se i Talking Heads amoreggiassero con i Kraftwerk che a loro volta flirtano con i Devo. Quanto amore. 

A sorprendere però è  'Skared', canzone totalmente avulsa dal loro repertorio e che pare uscire da Sandinista dei Clash, una patchanka tra ska, punk e reggae, che presenta alla voce un ospite misterioso: tale Johnny X (from London) che ad un primo ascolto pare proprio un ibrido tra Mick Jones e Joe Strummer. Suggestioni? Chissà? Il futuro non è scritto. 

Per un attimo sono tornato indietro a quella serata estiva del 1980 in campeggio, ho allungato ancora una volta il collo e sturato le oreccchie. Sento una voce provenire da molto vicino, questa volta, cantare: "to be on the run, dangerous game, all upside down, never the same".

Non li vedrò anche questa volta. Ma li sento. Sono tornati. Rimarremo con un solo grande dubbio: questo disco avrebbe cambiato la sorte della loro carriera?







sabato 25 settembre 2021

RECENSIONE: JESSE MALIN (Sad And Beautiful World)

JESSE MALIN
  Sad And Beautiful World (Wicked Cool Records, 2021)



la bellezza nell'oscurità

Durante il primo lockdown quando si cercava di vivere e portare a casa la giornata in qualche modo, sospesi in ore tutte uguali in cerca di un sussulto che svoltasse le giornata ma che spesso tardava ad arrivare, abbiamo cercato sollievo come si cerca acqua fresca nel deserto, a volte guardando cosa si inventavano i nostri musicisti preferiti, in difficoltà come e spesso più di noi. Bisogna dire la verità: non sempre tutto era spassoso e dopo un po' la noia e un senso di tristezza avevano la meglio anche lì. Ecco, tra tutti gli spettacoli livestream, The Fine Art of Self Distancing di Jesse Malin mi è sembrato il più divertente e gioioso, autoironico, sempre aperto al dialogo con il pubblico, seppur a distanza. E poi stava in piedi mica seduto come tutti. E chi ha già visto Malin da vivo sa quanto sia un imbonitore che non bada al risparmio durante le sue esibizioni. Non l'ha fatto nemmeno trasmettendo dal salotto di casa. 
 Evidentemente al cantautore newyorchese la pandemia ha pure portato in dono un po' di nuove canzoni (anche se dai vecchi cassetti pesca la bella 'Tall Black Horses' e omaggia Tom Petty con 'Crawling Back To You' da Wildflowers), talmente numerose da essere divise in due dischi (ma la durata totale è contenuta nei 60 minuti) racchiusi in un titolo rubato da un dialogo di Dawn By Law di Jim Jarmusch, e stampato dalla Wicked Cool Records, l'etichetta di Little Steven: da una parte nove canzoni dal carattere più mite e country folk ('Dance Of My Grave'), calde e distese, malinconiche, con un non raro pianoforte ad accompagnare, dall'altro otto canzoni urbane, sbarazzine, sospese tra rock (la tirata elettrica, l'unica vera del disco, di 'Dance With The System') e con tutti gli umori meticci della grande mela, un crocevia tra R&B (bella 'The Way We Used To Roll'), soul e funk ('A Little Death'). Naturalmente dietro, di contorno, ci sono sempre le luci, le ombre, il giorno, la notte, i rumori, i silenzi della sua New York e i tanti artisti che l'hanno raccontata negli anni: Lou Reed, Billy Joel, Bruce Springsteen, Willie Nile, Ryan Adams. E Jesse Malin è ancora un grande fan della musica e dei suoi artisti preferiti. 
Perchè la vita con tutte le sue differenze, è un grande viaggio "dal sole splendente della California a New York sotto la pioggia" come canta nella finale 'Saint Christopher'.
 "Beh, non ho mai fatto un doppio disco prima, ma non è un motivo per farlo! Tipo, 'Oh, non ho mai suonato metal quindi suoniamo metal! Era davvero qualcosa che, quando abbiamo fatto Sunset Kids (album precedente) avevamo venticinque canzoni, ma l'etichetta ci supportava e mi ha incoraggiato, dicendomi: 'Perché non fai questo doppio disco? ". 
Un disco che butta fuori un occhio dalla finestra in piena pandemia (' State Of The Art') ma sa essere ottimista per il futuro (l'apertura 'Greener Pastures'), autobiografico ('Backstabbers') ma che sa omaggiare anche gli amici che non ci sono più come nella clashiana 'Todd Youth', il suo chitarrista scomparso nel 2018 (con la partecipazione di HR, cantante dei Bad Brains). E sono tanti anche gli amici che vi partecipano attivamente lasciando voci e strumenti: da Lucinda Williams che aveva prodotto il precedente Sunset Kids a Derek Cruz (produttore e co autore di molti pezzi), Ryan Adams, Tommy Stinson, Don DiLego, Joseph Arthur
 Jesse Malin dal precedente Sunset Kids sembra aver dato un'impronta più matura alla sua scrittura, recuperando radici profonde, senza però snaturare il suo approccio alla musica continuamente sospeso tra il songwriter folk maturo e il rocker sbarazzino di inizio carriera. Due anime che continuano a convivere bene, cercando costantemente di "vedere la bellezza nell'oscurità".







domenica 19 settembre 2021

RECENSIONE: STEVE RUDIVELLI (Gasoline Beauty)

STEVE RUDIVELLI  Gasoline Beauty (2021)


l'operaio del rock'n'roll

Nell'era in cui tutto viaggia smart e veloce attraverso applicazioni e bitcoin, Steve Rudivelli è ancora uno di quelli che sì, vi spedisce il suo nuovo disco ma per pagarlo dovete spedire a lui i soldi via posta, chiusi in una busta. Proprio come si faceva negli anni ottanta quando per ascoltare musica si era disposti a tutto e aspettare qualche giorno in più era un sacrificio sempre ben ricompensato. Un contratto di fiducia tra artista e fan. Un piccolo particolare che basta per raccontarvi lo spirito punk, (e po' anarchico) che vive annidato dentro a Steve. Proprio come quella copertina che mi ha subito riportato a Give 'Em Enough Rope dei Clash, i corvi sono gli stessi ma Steve ci mette la faccia e si immola nel nome del rock'n'roll. Ci lascia un po' del suo sangue contaminato di alcool. 

Gasoline Beauty è il fratello del precedente Metropolitan Chewingum, nato in piena pandemia. Qui però si torna finalmente a viaggiare a fari accesi, country rock, nero e da notte fonda, chitarra acustica, armonica dylaniana e qualche bel taglio di elettrica (Handy D.) come succede nell'apertura 'Gasnevada' e nel quadro in stile Hopper musicato in 'Giù Le Mani Dal Banco'. Atmosfere giuste per il suo personale Oh Mercy. 

Si esce di casa anche se tutto sembra ancora avvolto in una nebbia da notte fonda, invernale e brianzola, con strade presidiate da corvi neri che "giocano" da un lato della strada grigia e il Lambro che scorre dall'altro ('Lambro River'), un'utilitaria da pochi soldi sotto il sedere come fosse una Cadillac  lanciata a tutto gas verso Lecco ('Gasoline Road') e personaggi poco raccomandabili come Frankie che ti superano  lungo l'autostrada Bergamo Nevada  magari facendoti pure il dito. 

E visto che " in fabbrica sono un numero, fuori devo tornare Steve Rudivelli, al più presto", così Steve mi raccontava il suo desiderio di riprendersi la sua vita artistica dopo questi due anni passati lontano dai palchi del suo personale Texas (a proposito ecco 'Coca Jack Jet' texana fino all'ultima goccia), dove le serate scorrevano scivolose tra il bancone, una ballerina di tango jazz e il sogno bagnato Mary con la sua maglietta bianca dei Rolling Stones. L'augurio migliore è quello di trovarsi questo inverno davanti a un bicchiere in qualche bar sperduto della Brianza per riprenderci la nostra vita migliore.





lunedì 13 settembre 2021

RECENSIONE: DANKO JONES (Power Trio)

DANKO JONES  
 Power Trio (Mate In Germany/Audioglobe, 2021) 

coerenza

Ho amato tantissimo il primo Danko Jones, quello vizioso e blues di Born A Lion, dove aveva strafottenza, faccia da culo e attitudine garage rock'n'roll da vendere. Poi con gli anni e le uscite la sua musica si è piano piano adagiata un po' troppo sull'hard rock con puntate punk e heavy senza troppi guizzi e sorprese. Sempre potente e sguaiato ma prevedibile nel perseguire la stessa formula. Il che non è un male soprattutto se fatto con onestà e sudore. E se avete visto almeno una volta un suo show sapete che è tutto vero. E poi si sa: il rock'n'roll non morirà mai, seppur alcuni corvacci sono sempre pronti a bordo strada pronti a fare sgambetti. 
La vita del gruppo è sempre stata racchiusa nel classico binomio disco-tour che si ripete all'infinito senza sosta. Anno dopo anno dal 1996. Giusto una pandemia poteva bloccarli. Dopo 25 anni di carriera e dieci album ci può anche stare che la sporcizia degli inizi sia stata grattata via da esperienza e una certa routine. Eppure, nonostante tutto, i suoi dischi continuano ad essere una parentesi di sano, sguaiato e ignorante rock'n'roll che ogni tanto va aperta per lasciarsi andare, svagarsi, muoversi e battere il tempo senza troppe menate per la testa. Non difetta quindi neppure questo Power Trio (completato dal fedele John Calabrese al basso e Rick Knox alla batteria) che spiega già tutta l'attitudine della band nel titolo. "Una dichiarazione. Quello che siamo" spiega Danko Jones. 
 Figlio del lockdown e quindi anche di file scambiati a distanza, dentro c'è però la summa pensiero dei canadesi: il solito divertimento ('Saturday' con un rimando ai sabati sera di Elton John), l'iniziale 'I Want Out' non dispiacerebbe all'amico "stoner" John Garcia, il groove solido e quadrato di 'Ship Of Lies, una parentesi impegnata con 'Raise Some Hell' a sostegno del movimento Black Lives Matter ricordando George Floyd, la veloce e sbarazzina 'Blue Jean Denim Jumpsuit' , una 'Dangerous Kiss' omaggio agli amati Kiss, il rantolo del veloce punk 'Flaunt It' e una finale 'Start The Show' con la chitarra ospite di Phil Campbell (Motorhead) e che molto probabilmente si candida a diventare l'opener dei prossimi tour. Perché il palco per Danko Jones è aria e acqua vitale.








domenica 5 settembre 2021

RECENSIONE: STURGILL SIMPSON (The Ballad Of Dood & Juanita)

STURGILL SIMPSON  The Ballad Of Dood & Juanita (High Top Mountain, 2021)


Ormai da Sturgill Simpson possiamo aspettarci di tutto. Salutato come il salvatore della country music di Nashville (lui è nativo del Kentucky) nei suoi primissimi dischi, dove cercava di svecchiare il genere con colpi ad effetto, ci aveva spiazzato con Sound & Fury, un disco carico di synth e chitarre elettriche in piena sbornia da anni ottanta e novanta (echi industrial rimbombavano di qua e di là), poi durante il lockdown se n'è uscito con due dischi che ritornavano al passato, riprendendo vecchie canzoni in stile bluegrass presentate da due copertine tanto orribili quanto autoironiche, e proprio dal bluegrass riparte con questo The Ballad Of Dood & Juanita. Un concept album, scritto e registrato in tempi brevissimi, che in meno di mezz'ora ci racconta l'epopea da vecchio West del tiratore scelto Dood, figlio di una cameriera e di un minatore di montagna, che in piena guerra di secessione parte alla ricerca della sua amata Juanita, sottratta al suo amore da un bandito che la rapisce. Il viaggio di Dood insieme al fedele cane e "miglior amico" Sam (cantato nel gospel 'Sam') e al cavallo Shamrock (anche a lui è dedicata una canzone) - eccoli disegnati in copertina - parte con gli spari di un fucile e una marcia militare ('Prologue') e si sviluppa in una sarabanda di country bluegrass che sanno di fieno e letame, spazi infiniti, strade, montagne e polvere, dove violino, banjo e scacciapensieri si rincorrono ora veloci ('Go in Peace'), ora minacciosi ('Ol' Dood'), ora a trotto lento ('One In The Saddle, One On The Ground'). Dood cerca la sua rivincita, la avrà anche se perderà per strada qualche pezzo della sua vita.

Il tutto con la benedizione di una vecchia volpe: il valzer 'Juanita' è arricchito dalla presenza dell'irriducibile Willie Nelson, qui completamente a suo agio.

"Volevo solo scrivere una storia, non una collezione di canzoni che raccontassero una storia. Una storia attuale, da cima a fondo. Una semplice storia di redenzione e vendetta, una corsa su un rollercoaster attraverso tutti gli stili del country e del bluegrass tradizionale, inclusi gospel e canto a cappella" racconta Simpson.

C'è poca innovazione in questi solchi, solo tanto devoto amore. Pura Americana a sua firma.





domenica 29 agosto 2021

RECENSIONE: JAMES McMURTRY (The Horses And The Hounds)

JAMES McMURTRY  
 The Horses And The Hounds (2021)
 




occhi e penna
 
È bello sapere che in tempi dove le notizie viaggiano veloci tra social e dispacci stampa ci siano ancora cantautori che prestano meticolosa attenzione a ciò che scrivono. Alle parole. Alle storie. Al messaggio. I testi di James McMurtry stanno in piedi anche scritti su un foglio senza nulla intorno. Sembrano uscire da quel passato quando fermarsi più del solito ad osservare persone e luoghi era normale e non certo un privilegio concesso a pochi. McMurtry è sempre stato un attento osservatore. Un privilegiato. Certo, buon sangue non mente, l' eredità del padre, il romanziere Larry McMurtry, scomparso a Marzo è sempre lì, dietro la pagina. È bello perdersi dentro a queste dieci narrazioni ancora capaci di avvolgerti come caldi abbracci anche quando sceglie di far arrivare il testo attraverso un simil rap nel (simil) funky di 'Ft. Walton Wake-up Call'. Spesso si legge che gli artisti superati gli "anta" perdano gran parte della loro ispirazione ma ci sono sempre le eccezioni: bisogna fare sempre i conti con il quasi sessantenne James Mcmurtry che oltre a metterci le parole questa volta avvolge quasi tutto intorno a un rock di chiaro stampo americano costruito su chitarre elettriche ('The Horses And The Hounds' in testa), vibrante a tratti tagliente (lo stesso Mcmurtry sostiene che in tutto il disco aleggia lo spirito di Warren Zevon) tenuto in piedi da musicisti di primissimo piano come i batteristi Kenny Aronoff e Stan Lynch, la chitarra di Charlie Sexton e poi quella di David Grissom che con McMurtry suonò nei primissimi dischi. A proposito: c'è anche Ross Hogarth, il vecchio produttore di quei dischi. Un suono certamente diverso da quello che ci presentò il texano in Italia durante la sua prima calata nel nostro paese, anno 2015, nei panni del folksinger solitario a presentare Complicated Game l'ultimo disco uscito sei anni fa. Questa volta l'inesorabile passare del tempo si intrufola spesso tra le pieghe dei testi, tra perdite ('Decent Man'), quadri di vita famigliare e di coppia (la contagiosa 'What' s The Matter'), tra i puntini che uniscono guerre dimenticate e militari ('Operation Never Mind'): l'iniziale 'Canola Fields' è un lungo viaggio nostalgico e parallelo tra strade, paesaggi e vita che parte lontano per arrivare al presente. C'è un filo di velata nostalgia che pervade le canzoni (penso al violoncello che accompagna la solitudine di 'Jackie'), ai suoni di frontiera con la fisarmonica che avvolgono 'Vaquero' cantata metà in inglese e metà in spagnolo. John Mellencamp ai tempi del primo album di McMurtry uscito nel 1989 e da lui tenuto a battesimo, disse che McMurtry scrive come se avesse già vissuto una vita. Più di trent'anni dopo una buona parte di vita è passata veramente ma la sua scrittura non ha perso in lucentezza tanto che The Horses And The Hounds si affianca ai suoi migliori album di sempre.






lunedì 23 agosto 2021

RECENSIONE: SON VOLT (Electro Melodier)

SON VOLT   Electro Melodier (Thirty Tigers, 2021)



tra pubblico e privato 

Nemmeno il tempo di domare per bene i fantasmi di Woody Guthrie che si aggiravano nel precedente Union uscito solo due anni fa, un disco dal deciso carattere folk, di denuncia, politico, che voleva fare da megafono ai problemi dell'amata terra, che i fantasmi, molto più terreni della pandemia costringono Jay Farrar e soci, come tutto il mondo musicale, a un forzato stop. Tanto tempo da dedicare alla meditazione, per scrivere nuove canzoni, ritrovarsi come i tempi impongono e provare. "Ci siamo ritrovati insieme, io e i ragazzi della sezione ritmica in uno studio qui a St Louis con le maschere e facendo molte registrazioni. Poi Mark Spencer, che ha il suo studio a New York, ha aggiunto le sue parti da lì e ho pensato che fosse un bel approccio equilibrato e misto, credo". Ecco uscire canzoni come il country rock  'These Are The Times' (il titolo dice tutto) e la morbida 'Sweet Refrain' dove sono scanditi i giorni della pandemia e quel "un altro eroe se n'è andato" non è altro che il nostro caro John Prine. 

Quello che ne è uscito è uno dei dischi più equilibrati della loro carriera, o almeno il migliore dell'ultima fase.I Son Volt tagliano il traguardo dei trent'anni e il nome di Jay Farrar è scolpito nella roccia dei migliori songwriter americani (fin dai tempi degli Uncle Tupelo) e lo si capisce dal suo continuo entrare ed uscire da temi pubblici e privati. A una 'The Globe' ispirata dall'uccisione di George Floyd e il movimento Black Lives Matter risponde una 'Diamonds And Cigarettes' (con la voce ospite di Laura Cantrell) dedicata alla moglie e al loro matrimonio lungo 25 anni. A una 'Livin In The USA' che lo stesso Farrar dice essere figlia diretta di canzoni come 'Born In The USA' e 'Rockin In The Free World' di voi sapete chi, inni ai tempi mal interpretati, ma qui il grido è più pacato e folk, risponde una decisa ed elettrica 'Arkey Blue', un miscuglio di pensieri su viaggi personali e altri rubati da un discorso di Papa Francesco.

Piacciono anche il lento valzer di 'Lucky Ones' tra R&B e country, lo spoglio blues di  'War On Misery' che Farrar dice essere ispirata da Lightnin' Hopkins, l'atipicità di quel avanzare quasi hard, di stampo Led Zeppelin di 'Someday Is Now', il lento e crepuscolare country "on the road" di 'The Lee e On Down', sulle tracce dei Cherokee. Le canzoni sono tante e pur viaggiando tra toni malinconici e profondi  non ci si annoia mai e quel titolo preso da due vecchi amplificatori degli anni '40 e ' 50 sembrano rappresentare bene il carattere di queste 14 canzoni: "Electro" perché i Son Volt rispetto al recente passato suonano più elettrici e muscolosi, "Melodier" perché la melodia di fondo è sempre presente e fa da buon collante.







lunedì 16 agosto 2021

RECENSIONE: WILLIE NILE (The Day The Earth Stood Still)

 

WILLIE NILE  The Day The Earth Stood Still (River House Records, 2021)


anni duri

I dischi di Willie Nile sono diventati come i dischi dei Ramones. Quando uscivano sapevi già cosa trovarci, ma c'era sempre quel qualcosa di attraente che ti convinceva per portartelo ancora una volta a casa. A volte bastava la copertina per  goderne comunque. Non è di certo una critica ma un complimento e un dato di fatto. E poi a Willie piacerebbe un sacco essere accomunato ai suoi amici, concittadini newyorchesi: ascoltate 'Off My Dedication' da questo suo nuovo album (il quattordicesimo in carriera) e ditemi se non ci starebbe bene dentro a End Of The Century? 

The Day The Earth Stood Still come tanti dischi usciti in questi mesi è figlio del lockdown (il secondo per Willie dopo New York At Night dell'anno scorso) e se negli ultimi quindici anni Willie è stato discograficamente prolifico all'inverosimile, figuriamoci se in un periodo senza altri impegni e concerti in mezzo poteva starsene senza penna, taccuino e occhi curiosi seduto in un dinner o camminando per le strade. Lo ha raccontato bene in questi mesi come è nato il titolo dell'album: da una foto che lui stesso scattò tra le vie deserte di New York all'ora di punta. Vie sempre trafficate di auto e gente che all'improvviso divennero il fotogramma di un film di fantascienza e proprio quel film degli anni 50 ha dato il titolo all'album e alla canzone che apre l'album in modo energico, alla sua maniera. 

Le canzoni di Nile sono le stesse di sempre, riflettono il mondo che gli gira intorno, per questo poi sono sempre uguali ma diverse. Noi non siamo più quelli del 1980, il mondo lì fuori, con o senza pandemia è cambiato, a volte in meglio, spesso in peggio, ma tutte le canzoni hanno sempre quel retrogusto di speranza e non è un caso che l'album si chiuda con una canzone come 'Way Of Heart'. 

"Le mie canzoni riflettono il mondo che vedo intorno a me, in cui mi imbatto in qualsiasi tipo di giorno o ora" ha detto Willie. Allora ecco 'The Justice Bell' dedicata all'attivista per i diritti civili John Lewis, ballata che si apre al pianoforte per poi crescere nel coro, oppure una combattente e politica 'Blood On Your Hands' cantata insieme all' amico Steve Earle, uno che di battaglie se ne intende. "È una grande, grande, icona americana. Un grande songwriter, non si tira indietro mai" dice. Come non essere d'accordo? 

Ci sono le inconfondibili chitarre di sempre nell'incedere epico di 'Sanctuary' e nel rock'n'roll ironico ma trascinante di 'Where There's A Willie There's A Way'. La sezione ritmica pulsante guidata dal basso del fedele Johnny Pisano nelle andature funky di 'Expect Change' e di 'Time To Be Great'. La melodia tutta americana nel country folk di 'I Don' t Remember You' e della ballata 'I Will Stand'. 

Un disco dai tratti urbani, come sempre, anche se questa volta i marciapiedi sono deserti, le strade silenziose e quell'artista di strada ritratto dalla foto di Cristina Arrigoni  in copertina spera che presto tutto ritorni alla normalità di sempre (la gente in qualche modo lo tiene in vita) che non sarà perfetta ma almeno più conciliante di questi mesi strani, violenti e divisivi, alla faccia di chi diceva "ne usciremo migliori".





mercoledì 11 agosto 2021

RECENSIONE: VELVET INSANE (Rock'n'Roll Glitter Suit)

VELVET INSANE   Rock'n'roll Glitter Suit (Wild Kingdom, 2021)



la continuità scandinava

Se siete in cerca di rock'n'roll, divertente, sguaiato, melodico e senza fronzoli puntare il dito sicuri sulla Svezia non delude mai. I Velvet Insane tagliano il traguardo del secondo disco con la disinvoltura dei fuoriclasse del genere aiutati da un amore incondizionato verso lo scan rock (come altrimenti?), il glam seventies, lo street rock, il power pop a cui sanno aggiungere almeno due dita, sporche il giusto, di sana personalità. L'accensione del motore dell'iniziale 'Driving Down The Mountain' ci trasporta direttamente indietro ai seventies, con un pianoforte battente rock'n'roll e tutta la leggerezza necessaria per far volare la canzone sotto i tre minuti. Nemmeno il tempo di togliere le chiavi dal cruscotto che 'Backstreet Liberace' parte decisa, si viaggia sulla stessa frequenza ma questa volta a ribadire una certa continuità con la scena svedese ecco apparire ospiti di peso come Nicke Anderson (Hellacopters) e Dregen (Backyard Babies). 

"Non credo che oggi sia possibile suonare rock'n'roll in Scandinavia ignorando la carriera di gruppi come Hellacopters e Backyard Babies" dice il chitarrista Jesper Lindgren

La presentazione è stata fatta. Ma continuando lungo i 38 minuti (per undici canzoni) non mancano una certa varietà e le sorprese che citano e passano dai T. Rex agli Slade, dai DAD ai Beatles, dagli Hanoi Rocks agli Stones, dai Faces ai Cheap Trick: 'Midnight Sunshine Serenade' è una ballata  crepuscolare alla vecchia maniera, poco meno di tre minuti e il gioco è fatto, 'Space Age DJ'  un boogie da tarda notte, di quelli che non passano mai di moda finché ci si diverte, 'Sailing On A Thunderstorm' e la conclusiva 'You' re The Revolution' sono puro classic rock che potrebbero essere state scritte in qualunque anno degli ultimi cinquant'anni, mentre la quieta 'Sound Of Sirens' strizza l'occhio ai 60 e al brit pop dei fratelli Gallagher, accompagnato da un video esplicito sulle influenze del trio svedese (Jesper Lindgren, Jonas Erikson, Ludving Andersson) "con il video vogliamo celebrare da dove veniamo: gli anni '70. Kiss, ABBA, Slade e il glam rock/pop in generale hanno significato molto per noi nella nostra educazione musicale. Influenze degli anni '70 nelle immagini e nella musica ma con il suono di oggi.” 

Ecco i Velvet Insane sono questo. Rock'n'roll e nulla di più, nulla di meno. A volte può bastare, no?




venerdì 6 agosto 2021

RECENSIONE: LOS LOBOS (Native Sons)

LOS LOBOS  Native Sons (New West Records, 2021)



greetings from LA

Ecco servito il disco dell'estate. Nulla di nuovo sotto il caldo sole della corazzata Los Lobos. Anche loro si accodano ai tanti dischi di cover usciti quest'anno: alcuni belli, altri utili come la grandine di questi giorni dalle nostre parti. La differenza è che qui si balla e si suda meglio che altrove, le canzoni sono registrate bene e la varietà musicale sembra per una volta vincente e appropriata. Decidono di omaggiare i musicisti e la città di Los Angeles. Radici e gratificazione viaggiano sullo stesso pedalò in mare o se volete sfrecciano sullo stesso monopattino nei marciapiedi del lungomare di Venice Beach. Dimostrazione di quante anime musicali la band dei lupi è in grado di indossare, sempre comodamente senza mai fare brutte figure. Gli abiti anche stropicciati bisogna saperli indossare

Il divertimento e l'impegno, la gioia e il dolore sono sempre state componenti di casa.

Che si tratti della rumba chicana dell'amico Lalo Guerrero ('Los Chucos Suaves'), del funk barricadero con targa seventies dei War ('The World Is A Ghetto'), del rockabilly travolgente tra fifties e eighties dei Blasters guidati dai fratelli Alvin ('Flat Top Joint'), delle atmosfere sognanti della strumentale 'Where Lovers Go' (The Jaguars), del trascinante rock dei chicani Thee Midniters ('Love Special Delivery'), uno dei gruppi più importanti per la formazione dei Los Lobos, e ancora il country blues dei Buffalo Springfield (il medley 'Bluebird/For What It' s Worth'), le ballate di Jackson Browne ('Jamaica Say You Will') , i Beach Boys ('Sail On Sailor').

"Non potrei dire che ci sia un filo conduttore per tutti questi artisti, ma in un certo senso è proprio questo che rende grande LA. Hai R&B e punk rock e rock-and-roll e folk, e in qualche modo convivono insieme in questa strana città che tutti chiamiamo casa" dice Steve Berlin.

E allora ascoltando il disco e chiudendo gli occhi ci si immerge nelle mille e più facce di LA, un secondo prima sei sotto il sole e la polvere di Mulholland Drive, un secondo dopo tra le luci e lo shopping di Rodeo Drive. Un secondo prima tra il travolgente garage dei Premiers ('Farmer Jihn'), un secondo dopo tra le braccia latine e romantiche di Willie Bobo ('Dichoso'). È solo questione di tempo. Sempre prezioso.

I Los Lobos per ribadire il concetto di appartenenza ci aggiungono una canzone, 'Native Son', scritta di loro pugno, l'unica di queste tredici. Buona estate. 





domenica 1 agosto 2021

RECENSIONE: RODNEY CROWELL (Triage)

RODNEY CROWELL - Triage (Thirty Tigers, 2021)


esperienza

Difficilmente uno come Rodney Crowell sbaglia un disco: ha sempre qualcosa di buono da raccontare. È uno degli ultimi songwriter di razza rimasti, quella della vecchia scuola, quelli che sanno ancora incastrare bene pensieri, parole e note. Uno che ha scritto per tanti e l'elenco sarebbe veramente lungo e prestigioso. Un precursore che, nonostante stima e riconoscimenti, non ha mai ricevuto in toto i meriti per una carriera lunga e ricca, al traguardo dei settant'anni lo meriterebbe. 

Triage, il suo diciottesimo disco prodotto insieme a Dan Knobler, è pregno di belle canzoni (e tanti musicisti), tanto cariche di redenzione e introspezione ma che, nonostante  escano dopo il periodo a tinte  grigie  della pandemia, cercano con forza il conforto nell'amore universale (il ritmato blues elettrico di 'I' m All Aboout Love') e nel possibile cambiamento ('Something Has To Change' con il trombone a disegnare scie nella notte). L'ideale prosecuzione degli ultimi due album: il personale e autobiografico Close Ties (2017) e Texas uscito nel 2019, dedicato ai suoi luoghi di nascita. 

Alcune canzoni come il (quasi) talkin' di 'Transient Global Amnesia Blues' (dove nel testo è citato pure Bob Dylan) e l'iniziale 'Don' t Leave Me Now' che parte come un folkie in solitaria per trasformarsi in un ritmato Irish rock, sono così penetranti da rimanere in testa fin dal primo ascolto. Una scrittura che oscilla tra il country di 'One Little Bird' (con l'armonica di Rory Hoffman), il R&B di 'Triage', il folk di Hymn #43' (dove compare pure l'ex moglie di Crowell, Rosanne Cash e scritta con l'attuale marito di lei, John Leventhal), il soft rock di 'This Body Isn't All There Is To Who I Am' che si addentra nell'immortalità, ma che non abbandona mai quel suono americana che lui stesso contribuì a forgiare a Nashville nei settanta con  la buona compagnia di altri texani come lui (Townes Van Zandt, Guy Clark). 

Con Triage, Rodney Crowell vuole portarci a riflettere sul nostro percorso di vita e in una recente intervista ha pure svelato cosa vorrebbe far provare all'ascoltatore con la sua musica: "un senso di piacere, un senso di armonia, e in particolare vorrei si avvicinasse di più a una sorta di armonia con la natura e con il pianeta". Allora: proviamoci!





lunedì 26 luglio 2021

RECENSIONE: ANDREA VAN CLEEF & DIEGO DEADMAN POTRON (Safari Station)

 

ANDREA VAN CLEEF & DIEGO DEADMAN POTRON  Safari Station (Rivertale, 2021)

next stop...

In adolescenza l'estate aveva due facce nello stesso luogo. C'era quella sudaticcia da tormentone estivo, chiassosa e disordinata, a tratti invivibile, ubicata tra un campeggio affollato, sempre sold out, e il centro città caotico al sopraggiungere della sera, poi bastava mettersi nelle sapienti mani di un Caronte dai capelli lunghi e ancora neri nonostante l'età, che di notte  faceva il pescatore, con i suoi jeans arrotolati fino al ginocchio, la camicia aperta che lasciava intravedere i peli bianchi del petto e la pelle bruciata dal sole: con il suo motoscafo ti accompagnava verso l'altra facciata. Quella dove il sole picchiava ancora più duro, ma il silenzio richiamava la libertà: di spogliarsi, mettersi a nudo senza temere i giudizi altrui, vivere il caldo del sole all'ombra e l'oscurità della notte con un fuoco a fare luce abbracciato alla sorella luna. Ecco, l'ascolto di questo disco mi ha riportato verso quella seconda facciata esotica delle mie lontane estati. Mi pare che Andrea Van Cleef e Diego Potron siano arrivati a questo disco senza rincorrere nulla se non la loro  folle voglia di fare musica in un'epoca non facile per cantare canzoni scritte di proprio pugno (avete notato quanti dischi di cover stanno uscendo?): non sono stati fermi a lucidare le loro chitarre con il block notes chiuso accanto, forse chissà, aspettando tempi migliori, mentre là fuori qualcosa si muoveva ma non ancora come ci piaceva una volta (sono solo due anni…paiono un'eternità). E inseguendo la stessa bandiera di libertà creativa, a loro volta Andrea e Diego percorrono ognuno la propria strada, simile ma diversa: quella del bresciano Andrea sembra più sperimentale, a tratti psichedelica (i blues del deserto 'Spiderweb Blues' e  'You and I Were Born For Better Things') e aperta ai suoni del mondo (la liquida 'Mozuela', la cover 'In Zaire" del cantautore britannico Johnny Wakelin, annata 1976), quella del brianzolo Diego più radicata nel folk (' 500 Miles Away') a tratti acido e straniante ('Gang Of Boyz'), esotico ('Kay Zanset')  ma è anche sua la più orecchiabile delle dieci tracce: il gospel  'Rise Above All Gods' che apre il disco catturando al primo ascolto. 

Si incontrano nel finale desertico, riverberato e sentito di  'Safari Station'. 

Un progetto che ha visto nell'instancabile e passionale Paolo Paggetti, patron della Rivertale Records, il gran cerimoniere mentre dalle mani esperte di Antonio Gramentieri (Don Antonio) è arrivata la benedizione in produzione, laggiù nascosti e isolati tra le campagne romagnole. 

Andrea e Diego suggellano un'amicizia e un percorso artistico e musicale che spesso si è incrociato come quando nell'autunno del 2020 hanno girato insieme per qualche concerto (ho assistito a quello svoltosi al Bloom, fu il mio primo dopo tanti mesi). Sembrava ci fosse la strada libera per ripartire, fu solo un abbaglio che in qualche modo continua ma che speriamo finisca presto. Intanto ora c'è un disco in più.








mercoledì 21 luglio 2021

RECENSIONE: ROBERT FINLEY (Sharecropper's Son)

ROBERT FINLEY 
 Sharecropper's Son (Easy Eye Sound, 2021) 




l'età giusta non esiste

"Eccomi qui alla mia età, solo ora sto realizzando il mio sogno d'infanzia… non permettere mai a nessuno di dirti cosa non puoi fare". A volte abbiamo bisogno delle favole a lieto fine per andare avanti e credere ancora in qualcosa. La musica non è esente, se ben setacciata, anzi, ne è fucina inesauribile. La storia di Robert Finley non è che una delle ultime favole a lieto fine infarcita di verità e leggende, ricordando da vicino quella (vera, falsa, ricamata?) di Seasick Steve per restare ai nostri tempi: un giovane della Louisiana, che a diciannove anni nel 1974 lascia i campi di cotone a Bernice e si arruola nell’esercito americano, unico modo sicuro per poter aiutare economicamente la madre. Con l’esercito arriva in una base americana in Germania e proprio in Europa, in mezzo al dovere (chiamiamolo così) ha modo di sviluppare la sua grande passione per la musica con la band dell’esercito: cresciuto a pane, acqua e gospel (a undici anni si comprò la prima chitarra con i soldi che il padre gli diede per un nuovo paio di scarpe), scalzo e con James Brown, B.B. King e i Temptations perennemente in testa, iniziò il suo lungo cammino. Tornato in Usa dopo il duro lavoro da carpentiere capisce però che la sua vera strada è la musica, complice la cecità che avanza mandandolo in pensione prima del previsto. La strada è però ancora dura e tutta in salita. Fino al 2015 girava vie secondarie e piccoli locali mentre a 64 anni si trovò a registrare un disco insieme a Gene Chrisman ( Elvis Presley band) e a mostri sacri come Duane Eddy, Bobby Woods e la Preservation Hall. Arriva alla musica che conta con GOIN’ PLATINUM! (dopo l’esordio Age Don't Mean a Thing del 2016), il primo disco a uscire per la nuova etichetta di Dan Auberbach, Easy Eye Sound. 
Già fu proprio “prezzemolo” Auberbach a prendere questo vecchio bluesman sotto la sua ala protettrice, invitarlo nel suo mondo, lo stesso che gravitava intorno al suo ultimo album solista (le canzoni furono scritte da lui, John Prine, Nick Love, Pat McLaughlin) e a fargli fare il grande salto. “Ho capito le capacità di Robert di andare oltre le canzoni blues. È un grande chitarrista blues, ma se posa la chitarra e si mette davanti ad un'orchestra può diventare come Ray Charles.” Così lo presenta Aurbach, sottolineando anche la cecità che lo ha colpito. Black Keys meets blues singer. 
Ora a tre anni di distanza, con gli States mainstream che lo conoscono attraverso America's Got Talent, la fama raggiunta (per chi invece è curioso di musica), esce questo Sharecropper's Son (figlio di un mezzadro) che diventa la sua autobiografia in canzoni (scritte con Auerbach e Bobby Wood), un vero concept dove la dura infanzia nei campi di cotone ('Country Child'), la speranza di una vita migliore ('Starting To See'), la fede ('All My Hope'), l'amore ('Sculed Out Of You' con i fiati dietro), i sogni legati alla musica si uniscono in dieci brani che bagnano letteralmente i piedi nelle acque stantie ma sempre fresche del blues (la languida 'My Story'), nel retro soul ('My Story'), nel gospel, nel R&B notturno ('I Can Feel Your Pain'), nel country, in quelle atmosfere calde e umide del sud così potenti da annebbiare i contorni e rinforzare il cuore. 
 Condotte dalla sua voce, che passa con facilità disarmante dal falsetto alle note gutturali, da trascinanti shuffle a famigliari abbracci soul resi possibili da una formazione di musicisti incredibili tra cui spiccano le chitarre di Kenny Brown, Billy Sanford e Russ Pahl, il batterista Gene Chrisman, le percussioni di Sam Bacco e il basso di Nick Movshon
 Robert Finley è l'uomo che vorremmo dentro a ognuno di noi, anche se ora, a differenza sua, siamo costretti a scappare in campagna per ritrovarci.






sabato 17 luglio 2021

RECENSIONE: THE WALLFLOWERS (Exit Wounds)

THE WALLFLOWERS   Exit Wounds (New West Records, 2021)



ali e radici

Un peso enorme. Solo Jakob sa quanto quel cognome sia in grado di piegare una schiena e far perdere la vista dalla strada maestra. E bisogna dirla tutta: Jakob Dylan ha sempre cercato di metterci del suo per non farsi schiacciare da quel macigno di cinque lettere, carne, sangue e ossa. Si è smarcato da un'ombra che solo a pensarla può trasformare in notte anche i raggi più luminosi, fin da quella accoppiata di dischi che fecero partire la carriera dei suoi Wallflowers tra il debutto del 1992 e lo splendido Bringing Down The Horse uscito nel 1996, al tramonto del grunge ma in grado di raccogliere quel che rimaneva. 

Poi quando la luce sulla band sembrò veramente affievolirsi ci provò da solo con due dischi cantautorali, acustici, molto personali e prodotti da pezzi da novanta come Rick Rubin e T-Bone Burnett, belli, autentici ma passati un po' in sordina lungo quel suono americana che lui stesso contribuì a svecchiare. I suoi Wallflowers di fatto però non sono mai stati accantonati anche se non hanno mai più brillato così bene in popolarità come ai vecchi tempi quando il loro nome era affiancato ad altri di un certo peso. Almeno fino ad oggi, perché questo Exit Wounds seppur con al fianco nuovi compagni (tra cui Val McCallum, già chitarra di Jackson Browne), nessun componente dell'ultimo Glad All Over uscito nel 2012 è qui presente (perché poi: nessuna formazione della band ha registrato due dischi consecutivi e di fatto Dylan è i Wallflowers), Jakob Dylan si rimette in corsia e viaggia in tutta sicurezza su quelle vecchie strade battute trent'anni fa ma con tutta la consapevolezza, la maturità e il piede leggero sull'acceleratore di oggi. 

I Wallflowers non cercano i colpi ad effetto, preferendo l'andatura morbida e sicura della rock ballad costruita su buone melodie, anche pop (la doppietta in apertura formata dalla dylaniana, intesa come padre, 'Maybe Your Heart' s Not In It No More' e 'Roots And Wings' ne è un buon esempio) su cui Dylan canta di nuove speranze all'orizzonte dopo periodi bui che hanno lasciato in ricordo solo cicatrici. 

"Voglio cantare canzoni che abbiano un po' di speranza" ha lasciato detto in una recente intervista e le canzoni sono pure nate prima della pandemia, immediatamente dopo la colonna sonora per il documentario Echo in the Canyon.  

Un disco, prodotto dall'amico e collega cantautore Butch Walker, che fila splendidamente dall'inizio alla fine (con qualche buona accelerazione come il funky di  'Move The River' o il rock'n'roll di 'Who's That Man Walking' Round My Garden') dove le tastiere di Aaron Embry fanno da morbido tappeto, la slide apre ampi spazi, la seconda voce femminile della cantautrice Shelby Lynne, fortemente voluta da Dylan, è spesso presente dietro a doppiare o duettare, dove la buona stella di Tom Petty illumina sovente la strada indicando la via per scrivere buone canzoni. E queste dieci canzoni, buone lo sono veramente: 'I Hear The Ocean' con quel connubio pianoforte hammond dal forte accento springsteeniano, mentre 'The Daylight Between Us' conclude il disco alla Mark Knopfler con una patina di ricordi e malinconia che vorresti togliere con un colpo di spugna ma poi ti accorgi che sta bene proprio lì dov'è. 

Canzoni che non entreranno nella storia, intanto 'The Dive Bar In My Heart' non fa troppa fatica  ad entrare nella testa. " Un posto dove vuoi andare ed essere lasciato solo. Non puoi sfuggire ai tuoi pensieri. Saranno sempre con te alla fine, e dovrai affrontarli, ma ci sono momenti della tua giornata in cui vuoi essere lasciato solo con loro e non avere la pressione di risolverli" dice Dylan a proposito di questa canzone. In questi giorni mi sono ritagliato frequentemente un momento della giornata per questo disco. Non è una cosa così scontata e da sottovalutare di questi tempi.






giovedì 8 luglio 2021

RECENSIONE: STÖNER (Stoners Rule)

STÖNER   Stoners Rule (Heavy Psych Sounds, 2021)



un buon compito, ora fuori le palle

Bene, non benissimo. Forse benino. Non di più. Fa un caldo tropicale in questi giorni, la copertina sembra promettere la brezza dei deserti del Mojave durante il calare del sole. Macché. Quella che si percepisce durante il Live In The Mojave Desert: Vol IV uscito qualche settimana fa e che fece da presentazione a questa nuova band  dal nome non proprio originale. 

Metto su il CD comprato sulla fiducia: 2/4 dei vecchi KYUSS vorranno pur dire qualcosa. Lo ascolto, con gli occhi che sbirciano un campo da calcio sfocato in TV. Fuori non vola una mosca, come da tradizione estiva quando ci sono partite di calcio, il basso di Nick Oliveri fa tremare le persiane aperte, la chitarra di Brant Bjork non si inventa nulla di troppo originale dentro a giri blues pesanti e circolari ('Own Yer Blues'), la sua voce ha poche sfumature come già la conosciamo, la batteria di Ryan Gut  accompagna ma non fa certo la differenza in un suono dalla produzione volutamente lo fi, monocorde e non esaltante. 

Solo 'Evel Never Dies' cantata da Oliveri che si getta a capofitto sul punk affondato sulla sabbia, una 'Stand Down' bella dinamica, psichedelica e carica di feedback (la track  migliore per me) e i tredici minuti della finale 'Tribe/Fly Girl' con la sua lunga coda jammata sembrano dare qualche scossa a un disco di fin troppo mestiere di un gruppo che sceglie di chiamarsi come il genere musicale suonato ma che in qualche modo hanno contribuito a inventare, trent'anni fa però. Infatti, quando 'The Older Kids', 'Nothin', e 'Rad Stays Rad'  partono ti aspetti l'entrata fumosa dei fuoriclasse che  non arriva quasi mai. 

Un disco carico di aspettative che manca però di quel dinamismo, quel tocco groove, dei riff e di fantasia che  solo un Josh Homme o un John Garcia dei vecchi tempi (ma anche di oggi) potevano regalare. 

Quest'anno Blues For The Red Sun compie esattamente 29 anni. L'ho ascoltato subito dopo. Voi non fatelo se volete godervi un po' questo disco.






giovedì 1 luglio 2021

RECENSIONE: GUY DAVIS (Be Ready When I Call You)

GUY DAVIS
  Be Ready When I Call You (M.C. Records, 2021) 



blues dentro
Guy Davis è uno dei migliori bluesman contemporanei e con questo album lo conferma in pieno: sa scrivere canzoni, sa raccontare storie, inserendosi nella tradizione ma rimanendo sempre al passo con i tempi nei suoi testi dove gli immigrati della zingaresca 'I've Looked Around' e i disoccupati del blues 'I Got A Job In The City' sono figli della stessa madre. E lui, invece, è un figlio d'arte che ha saputo mettere da parte, al sicuro, tutti gli insegnamenti dei genitori per crearsi una propria via tra recitazione e musica. E quando decide di salire sul palco con la chitarra ha pochi rivali. In queste tredici canzoni, tutte scritte di suo pugno, tranne 'Spoonful' di Willie Dixon naturalmente, unisce tutto partendo da lontano, dal "fatidico incontro" di Robert Johnson, riletto alla sua maniera in 'Be Ready When I Call You' fino ad arrivare ai giorni nostri con la finale 'Welcome To My World', legata agli ultimi anni politici del suo paese, in un pezzo dal cantato quasi hip hop, ma è veramente l'unica deviazione dal folk blues su cui ruota tutto l'album, in una continua e vincente alternanza che non stanca mai e conquista fin dal primo ascolto. Ci sono canzoni acustiche e canzoni a tutta band con l'Hammond di Professor Louie che fa una gran figura lì dietro. In mezzo tra la sbuffante locomotiva blues di 'Badonkadonk Train' che apre e i folk dylaniani di '200 Days' e di 'Got Your Letter In My Pocket', dove canta del triste massacro nel quartiere Greenwood a Tulsa avvenuto nel 1921, quando la comunità bianca attaccò la comunità afroamericana lasciando dietro di sé morti e feriti, ci mette l'acqua avvelenata che scorre tra gli abitanti di Flint, nel Michigan, nel ritmato e trascinante blues 'Flint River Blues' e il sempre attuale conflitto tra israeliani e palestinesi nel grido triste, antico e folkie di 'Palestine, Oh Palestine', sicuramente tra le più toccanti e significative. Nel retro copertina a confermare quanto sia radicato nel presente, nonostante tutto, impugna un cellulare, lo porta all'orecchio e ascolta se il diavolo che canta con voce da orco domiciliato a New Orleans in 'I Thought I Heard The Devil Call My Name' lo stia veramente chiamando. "Pronto alla chiamata" sembra la risposta. È già tra le mie uscite preferite di quest'anno: a volte basta avere radici profonde per fare bella figura in superficie. Davis possiede radici, canzoni, personalità e carisma.