giovedì 29 novembre 2018

RECENSIONE: NEIL YOUNG (Songs For Judy)


NEIL YOUNG  Songs For Judy (Shakey Pictures Records/Reprise/Warner, 1976/2018)



 1976:un anno come fossero dieci 

Novembre 1976, un altro anno intenso per Neil Young sta per concludersi: a Gennaio corre a Miami dove inizia a lavorare insieme a Stephen Stills a un nuovo progetto. Nel mese di Marzo vola in Giappone e in Europa con i Crazy Horse per una serie di deliranti concerti, colorati anche dall’LSD che verranno ripresi dalla telecamera e registrati per farne un film e un disco live, ma ancora inediti oggi se non per qualche spezzone già apparso. Intanto il progetto con Stills denominato Stills Young Band, fa saltare le date americane con i Crazy Horse che verranno rimandate, e porterà all’incisione del mai troppo acclamato e amato Long May You Run (che uscirà solo in Settembre) e a intraprendere un tour insieme a Stills nel mese di Luglio che durò solo diciotto date, prima degli scazzi e l'abbandono di Young che comunica la fine del progetto all’amico attraverso la famigerata lettera che si conclude con un “strano come alcune cose che iniziano spontaneamente, finiscono in quel modo: mangia una pesca. Firmato: Neil”. Mentre Stills, sconsolato, continuerà il tour da solo, nel mese di Agosto si chiude in studio di registrazione in solitaria e registra Hitchhiker, l’album perduto che ha visto la luce solamente l’anno scorso. In preda alla solita bulimia musicale, in autunno, richiama con sé i Crazy Horse e programma una serie di date live, concerti che prevedevano una parte acustica in solitaria, limpida e sincera e una parte elettrica con la band (chissà, un giorno usciranno anche le canzoni elettriche e chi c’era ancora adesso ne parla in modo entusiasta) già sfruttata l’anno prima per l'incisione di Zuma e l’entrata del nuovo chitarrista Poncho Sampedro. Nel mezzo delle date, con l’aiuto della (in questo caso) salvifica cocaina, riesce a trovare il tempo per volare a San Francisco per registrare l’ultimo valzer della Band. Il suo naso sporco di neve bianca verrà immortalato da Scorsese. Scorrendo le scalette degli show si può capire quanto già nel 1976 Neil Young avesse scritto una buona parte della sua migliore carriera. “Nel 1976 ero una furia e siccome avevo preso l’abitudine di scrivere diverse canzoni alla settimana, mi ritrovai ingolfato: avevo troppo materiale e poco tempo in studio. Registravo ovunque potessi farlo e mi muovevo velocissimo, finendo i miei dischi molto rapidamente…” racconterà anni dopo Neil Young.
Ph. Gary Morgan, 1976
SONGS FOR JUDY: un altro pezzo degli archivi di NEIL YOUNG esce il 30 Novembre. Trattasi di 23 canzoni acustiche (79 minuti di musica), eseguite in solitaria accompagnandosi con chitarra, banjo, armonica e pianoforte, e registrate nel corso del tour del Novembre 1976 con i Crazy Horse: la prima data al Dorothy Chandler Pavilion a Los Angeles, il primo Novembre. Nel corso del tour festeggerà i suoi 31 anni. Tra le 23 tracce l’inedita assoluta su disco ‘No One Seems To Know’, una ballata al pianoforte. Gli show intimi e acustici di Neil Young che solitamente aprivano o chiudevano gli spettacoli con la band, furono registrati all’epoca su cassetta dal regista Cameron Crowe e dal fotografo Joel Bernstein (protagonisti assoluti nelle note del libretto), girando negli anni in formato bootleg con il nome Bernstein Tapes. Quest’ultimo dice: ”mi sono subito reso conto che realizzare questi nastri era di fatto una grande idea, feci irruzione nei centri commerciali per accapparrarmi qualsiasi cassetta C-90 vuota che potessi trovare lungo la strada. La tappa americana di questo tour è stata breve (18 spettacoli in 12 città, in 24 giorni), ma le esibizioni erano al loro meglio, intense ed elettrizzanti. Mentre il tour continuava, il nascondiglio delle cassette era cresciuto, tutte piene di gemme”. Aggiunge il regista:” è stato un lavoro delirante. Svegliarsi, fare colazione, tornare alle registrazioni. Decidire quale delle 12 versioni di "Old Laughing Lady" era essenziale”. Neil Young ringrazia:” Joel e Cameron hanno scelto queste canzoni e hanno fatto un ottimo lavoro. L'album è piuttosto unico e penso che il periodo sia stato ben catturato nel suono e nelle performance. È stato un momento nel tempo, ed è facile capire perché si chiama Songs For Judy . "
Il titolo, poi trasformato anche in copertina, arriva da ‘Songs For Judy Intro'’, monologo di tre minuti  che apre il disco, uno dei tanti durante quel tour, in cui Neil Young evoca il fantasma di Judy Garland, attrice il cui ruolo nel Mago di Oz fu l'inizio di carriera ma anche cruciale per il resto della sua travagliata vita. Come al solito, accanto a canzoni che erano già dei piccoli classici a pochi anni dall'uscita: da ‘Heart Of Gold’ a 'Harvest', al pianoforte di ‘After The Goldrush’ e 'Journey through The Past', il banjo di 'Human Highway', la vecchia ‘Mr. Soul’, Neil Young sorprende sempre il suo pubblico con canzoni nuove che troveranno la via ufficiale su disco solo pochi o tanti anni dopo (‘White Line’ che troverà posto in versione elettrica solo su Ragged Glory negli anni 90, ‘Pocahontas’, ‘Campaigner’ che cita apertamente Richard Nixon ed eseguita il giorno prima delle Election Day, uscirà l’anno dopo su Decade). Neil Young Al massimo del suo splendore acustico, un buon compendio nell'attesa della seconda parte degli archivi in uscita a Maggio 2019. Ma state pure sereni, nel frattempo il vecchio Neil si inventerà qualcos’altro per farci ingannare l'attesa.

                  ph. Charlyn Zlotnik, 1976

mercoledì 28 novembre 2018

RECENSIONE: MARK KNOPFLER (Down The Road Wherever)

MARK KNOPFLER  Down The Road Wherever (British Grove Records/Virgin, 2018)





“non si giudica il disco dalla copertina”
Mentre una manciata di professionisti portano in giro per il mondo le canzoni dei Dire Straits, ingannando i più distratti e facendosi pure pagare profumatamente, Mark Knopfler che di quelle canzoni è il padre fa uscire il suo nono disco solista che ancora una volta gira intorno al rock della vecchia band mantenendo le dovute distanze, marcando territori con il tempo diventati sempre più affidabili e rassicuranti dove il lungo ponte costruito dal musicista per legare le brume britanniche con i paesaggi americani continua a stare bene in piedi e resistere alla modernità e alle intemperie del mercato discografico. Ma non fate come me, pronto a bollare il disco come l'ennesimo disco di Knopfler (pratica diffusa) , forse tratto in inganno dal precedente, poco brillante Tracker, da una copertina che cerca di evocare grandi spazi ma riuscita veramente male nella suo essere dozzinale, a buon mercato e vista altre mille volte, e da una durata complessiva che scoraggia fin da subito, arrivando a a superare i 70 minuti nella versione con bonus track. DOWN THE ROAD WHEREVER è la conferma della professionalità eccelsa di Knopfler, della grande bontà della sua scrittura, figlia diretta della penna dylaniana, evocativa e piena di dettagli come pochi sanno ancora fare, della sua chitarra che non punge più come come una volta ma imbastisce trame e melodie calde e rassicuranti che mai come questa volta cercano nuovi “vecchi” orizzonti che si spingono, forse inseguendo l’amico premio Nobel, verso Frank Sinatra (‘When You Leave’) dove una tromba dipinge velata tristezza, la stessa tromba che colora invece di funky ‘Nobody Does That’ e di colori latini ‘Heavy Up’. Poi, tutto intorno, il Knopfler di sempre, maestro nel raccontare storie e creare quadri romantici e poetici di vita dove i protagonisti sono il tifoso del Liverpool che vaga di notte nella città straniera cantando “You’ll Never Walk Alone” nel bel blues ‘Just A Boy Away From Home’, il musicista con la vecchia valigia e la chitarra che fa l'autostop sotto la neve nell'autobiografica ‘Matchstick Man’ o il paesaggio fantasma di ‘Drover’s Road’ sormontato da stelle e luna. Il Mark Knopfler di sempre è un campione nel costruire rock mai sopra le righe ma ficcanti come ‘Trapper Man’ o singoli azzeccati come ‘Good On You Son’, effettivamente la canzone più furba e che arriva prima, ballate intense come ‘Nobody’s Child’ e la notturna e jazzata 'Slow Learner', ospitare la voce di Imelda May nella bella ‘Back On The Dance Floor’. “È stato fantastico avere Imelda in quella canzone, penso che sia semplicemente fantastica, ha davvero fatto molto per colorarla, è così creativa e divertente.”
Non siamo ai livelli eccelsi di PRIVATEERING, il suo picco solista, ma quasi. Intanto, per sottolineare la buona vena artistica, si prepara con l’uscita teatrale di Local Hero, vecchia conoscenza, per cui ha scritto nuovo materiale musicale.





venerdì 23 novembre 2018

JESSE MALIN live@Cohen, Verona, 22 Novembre 2018



JESSE MALIN live@Cohen, Verona, 22 Novembre 2018

 Hey tu che passeggi davanti alla vetrata del locale in questa serata di fine Novembre e sei incuriosito dalla musica che senti provenire dall’interno e dal quel manifesto che recita “a intimate evening with Jesse Malin”, ti ho visto: non esitare, anche se non sai chi sia, entra dentro non te ne pentirai. Perché non c’è bisogno di chiudersi per più di un anno tra le mura di un teatro a Broadway come l’amico Springsteen per creare empatia con il pubblico e raccontare un po’ della propria storia. Il Cohen di Verona, locale fantastico a misura d’uomo, non sarà come un importante teatro o semplicemente un coffee newyorchese ma potrebbe benissimo esserlo questa sera.
Jesse Malin, accompagnato dal bravissimo Derek Cruz alle tastiere e alla chitarra, ha scelto l'intimità acustica per questo giro di date, questa è la seconda dopo Trieste, affrontate con la consueta attitudine di sempre: folk singer e storyteller generoso con l’urgenza ereditata dal punk rock. Si dà completamente al pubblico e viene ricambiato. Intrattiene con un inglese parlato lento e comprensibile (mica è da tutti) raccontando storie personali legate alla famiglia (la cara mamma, lo zio), alla sua New York che musicalmente pare sempre ferma ai quei fine anni Settanta ma che poi deve scontrarsi con la triste attualità politica (“ciao sono Jesse Malin e vengo da Marte” ama ripetere per nascondere la sua nazionalità: la stessa di Trump!), citando e imitando personaggi del mondo della musica (da Lemmy a Dee Dee Ramone fino a Tom Waits) raccontando aneddoti legati ai suoi incontri musicali con Springsteen (la collaborazione per ‘Broken Radio’) e Shane McGowan e allora sotto con i Pogues.


Scende dal palco va al bancone del bar per un brindisi con tutti noi e sciorina la sua carriera musicale solista partita da quel A Fine Art Of Self Destruction (ecco 'Brooklyn' che apre il concerto), prodotto dall'amico Ryan Adams, passando da The Heat ('Hotel Columbia'), dal successo di Glitter in the Gutter ('Black Haired Girl') ai più recenti New York Before The War ('Bar Life') e Outsiders fino a regalare due nuove canzoni che saranno nel prossimo album in uscita nel 2019 e prodotto da Lucinda Williams. La cosa mi stuzzica. È palpabile, Jesse Malin cammina ancora tra le pieghe sempre più ostiche del rock in modo sano e libero. Senza condizionamenti. Con quella ingenua visione da fan che ancora lo attanaglia e che riesce a trasmettere così bene. Gli adesivi incollati sulla sua chitarra parlano chiaro: lui sta lì da qualche parte in mezzo a Johnny Cash, gli Stones e i Bad Brains. Hey amico, sei ancora lì con il naso spiaccicato sulla vetrata? Cosa aspetti ad entrare?


mercoledì 21 novembre 2018

DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #71: CALVIN RUSSELL (A Crack In Time)

CALVIN RUSSELL   A Crack In Time (New Rose, 1990)





born Halloween
Un disco che è un sogno. La salvezza. La libertà trovata a quarant’anni dopo un’infanzia di stenti e povertà nella sua Austin, quarto di nove figli, e una biografia che fino a quel momento aveva più indirizzi di galere che canzoni. A Russell non sono mai piaciute le autostrade sicure fin da quando a quindici anni decise di cercare fortuna a San Francisco trovandosi con il classico pugno di mosche nella mano, costretto a camminare nei marciapiedi stretti, quelli che gli altri chiamano “sbagliati” senza averci mai posato un piede. Lui li conosceva a memoria. Espedienti, droghe e una faccia poco raccomandabile con tante rughe e buche come una vecchia strada di campagna, appiccicata sue due occhi furbi e sinceri, illuminanti, lo stavano portando diritto verso l’inferno senza la possibilità di dare voce a quelle fiamme che gli ardevano dentro da sempre. Inizia tardi la sua carriera ma A Crack In Time è uno starter che pochi possono vantare. Un grazie all’etichetta francese New Rose che ci ha creduto, alla Francia che lo ha accolto, alla sua caparbietà, Calvin Russell nel suo debutto lo dice subito: “è dura sopravvivere”. Finalmente qualcuno a cui credere ciecamente. Canzoni con un sax a disegnare traiettorie poco convenzionali (‘A Crack In Time’), ballate che strappano il cuore (‘My Way’), tirate elettriche (‘Living At The End Of A Gun’), canzoni che lo mettono a nudo (‘Behind The 8 Ball’), sentiti omaggi a chi reputa un buon compagno di viaggio e di vita, ‘Nothin’ di Townes Van Zandt, uno che lo incoraggiò da subito. Polvere che non teme di oltrepassare i confini. Da qui in avanti, Russell recupera il tempo perso con tanti dischi (capolavori come Sounds From The Fourth World e Soldier, e di mestiere ma sempre coerenti) e quattro mogli, fino alla morte avvenuta il 3 Aprile 2011. Calvin Russell nacque il primo Novembre del 1948 (nel suo ultimo disco Dawg Eat Dawg’ uscito nel 2009 si autodedicò una bellissima ‘Halloween’) oggi ne avrebbe 70 di anni. Suo padre era un cuoco da fast food, sua madre la cameriera allo Sho’nuff Café di Austin, lui un affamato di vita. Sfortunato ma vero come pochi.




domenica 18 novembre 2018

THE MAGPIE SALUTE live@Live Club, Trezzo sull’Adda (MI) 16 Novembre 2018

THE MAGPIE SALUTE live@Live Club, Trezzo sull’Adda (MI) 16 Novembre 2018

Uno, due, tre, quattro… (cinque, sei) non è il tempo che detta il batterista Joe Magistro all’inizio di ogni canzone ma bensì il numero delle canzoni rovinate da un’acustica tendente al pessimo e impastata. Un inizio piuttosto confuso. Peccato perché proprio in apertura i Magpie Salute piazzano le loro canzoni (‘High Water’, ‘Walk On Water’) da vera band. Quelle che li fanno distinguere da una cover band di lusso come qualcuno potrebbe pensare leggendo le loro scalette. Sempre diverse tra l’altro.Le chitarre di Marc Ford e Rich Robinson non arrivano come meritano e sembrano bisticciare ancora piuttosto che aver raggiunto la pace , la voce di John Hogg sembra nascosta chissà dove, il basso di Sven Pipien che scava, le tastiere di Matt Slocum dove sono? Non potrà essere tutto il concerto così mi chiedo, sarebbe veramente una delusione. La magia accade a metà set, si accendono le luci a centro palco, rimangono in tre: Ford, Hogg e Robinson e le loro chitarre acustiche. Un intermezzo intimo che i tre portano pure in giro come spettacolo ridotto, un sipario che cattura: ‘Sister Moon’, ‘She’ di Gram Parsons e ‘Descending’, prima concessione al passato Black Crowes della serata. Tre piccole perle che permettono ai tecnici di sistemare quello che non va, al pubblico di rimanere estasiato, a due deficenti di fianco a me di parlare tutto il tempo dei cazzi loro (andate al bar, please! ). Da qui in avanti il concerto prende il decollo, Rich Robinson prende in mano la situazione, canta bene quando si impossessa del microfono e si capisce che il vero leader è lui,  Hogg cerca di non far rimpiangere fratello Chris (qualcun altro sempre vicino a me passa il tempo a gridare “torna in panchina”, ma perché non ci vai tu, magari al bar, insieme agli altri due?), e a fine serata, per me, porta a casa la sua buona pagnotta.
Caldi sapori southern, impasti vocali west coast, chitarre in primo piano finalmente, la seconda parte di concerto volge lo sguardo al passato e ci dona una ‘OH Sweet Nuthin’ dei Velvet Underground, una sempre trascinante ‘Soul Singing’ e una ‘My Morning Song’ che da sola vale il prezzo del biglietto e mette in chiaro il livello altissimo di questa lunga serata di due ore, confermato da un finale senza la farsa dell’uscita per i bis e da una ‘Send Me An Omen’ di produzione loro che si confonde benissimo con il passato e guarda al loro futuro. Vicinissimo, con l’uscita di High Water II già programmata per il prossimo anno. Nonostante tutto, l’incenso continua a bruciare.

SETLIST

High Water
Walk on Water
Take It All
For the Wind
Every Picture Tells a Story (Rod Stewart)
Fearless (Pink Floyd)
Smoke Signals (Marc Ford)
The Giving Key (Rich Robinson)
Sister Moon
She (Gram Parsons)
Descending (The Black Crowes)
Open Up
A Change of Mind (Marc Ford)
Oh! Sweet Nuthin' (The Velvet Underground)
Can You See
Good Friday (The Black Crowes)
Another Roadside Tragedy (The Black Crowes)
Soul Singing (The Black Crowes)
My Morning Song (The Black Crowes)
Send Me an Omen






venerdì 16 novembre 2018

RECENSIONE: RED DRAGON CARTEL (Patina)

RED DRAGON CARTEL   Patina (Frontiers Records, 2018)





 Chissà quanto deve essere stato pesante per uno come Jake E. Lee prendere il posto dell'amatissimo Randy Rhoads nella band di Ozzy Osbourne? Un sodalizio che durò poco più di tre anni, il tempo di cavarsela bene e incidere due dischi (Bark At Moon nel 1983 e The Ultimate Sin del 1986) e poi la rottura, ancora avv...olta nel mistero anche se il famigerato telegramma di licenziamento ha un mandante ben preciso: Sharon Osbourne. Poco male perché il chitarrista di Norfolk, Virginia, ebbe modo di inseguire la sua voodoo highway con il supergruppo Badlands insieme al mai troppo compianto cantante Ray Gillen, un talento durato troppo poco. Un gruppo che in due dischi, più uno postumo, lasciò impronte di genuino hard southern blues, anticipando il revival seventies che prese piede negli anni novanta. Da lì in avanti le mosse di Jake E. Lee si fanno sempre più rade tanto che la polvere del tempo ne ha coperto le impronte principali. Solo nel 2014 sembra ricomparire timidamente con un nuovo progetto: i RED DRAGON CARTEL. Se il debutto era ancora confuso, costruito su vecchie canzoni scritte in precedenza, e vedeva impegnati diversi cantanti e tanti ospiti, con il secondo PATINA, la band inizia ad avere una personalità ben precisa, a lavorare in squadra. Sono della partita oltre al chitarrista: il cantante Darren Smith, il batterista Phil Varone (Saigon Kick) e il bassista Anthony Esposito (Lynch Mob). Un album vario, anche se la produzione perfetta e moderna toglie un po’di calore, dove ai momenti più heavy che ricordano l'epoca grunge (‘Speedbag’, ‘Crooked Man’) si contrappongono i momenti più bluesy: se ‘Havana’ si candida come canzone dal riff più groovy e accattivante dell’anno, ‘The Luxury Of Breathing’ e ‘‘My Beautiful Mes’ contengono fumosi semi psichedelici, mentre ‘A Painted Heart’ è una semi ballad in grado di spostare l’ago della bilancia verso il segno positivo. Così come la finale ‘Ink And Water’ che lo stesso chitarrista dichiara essere influenzata da David Bowie.
“Per questo album, sono tornato alle mie radici. Mentre scrivevo l'album stavo ascoltando un sacco di Bowie, e un sacco di cose con cui sono cresciuto da ascoltatore, cose che hanno avuto un impatto enorme su di me”.
Peccato per una copertina non troppo accattivante che attira poco e mal rappresenta il disco. Bentornato Jake.









mercoledì 14 novembre 2018

FANTASTIC NEGRITO/Superdownhome live@Santeria Social Club, Milano, 12 Novembre 2018

Un performer a 360 gradi in grado di catalizzare tutta l'attenzione su di sé pur avendo dietro un band di soli tre elementi che pare suonare come una big band d'altri tempi (manca pure il basso!) . Un talento innato il suo, o ce l'hai o sei destinato a rincorrere.
FANTASTIC NEGRITO scappa via con naturalezza e non lo prendi più. Stare al suo passo è difficile. Rafforzato da una vita che lo h...a messo a dura prova, a cinquant'anni si gode il meritato trionfo che va ben oltre il Grammy per il miglior album blues vinto con il suo primo disco, uscito senza etichetta discografica come ama ricordare lui. Accellera, rallenta e accellera ancora a ripetizione.
Una rinascita che si è trasformata piano piano in un'occasione di riscatto, costruita con impeccabile bravura e un pizzico di furbizia da navigato intrattenitore (cerca spesso la voce del suo pubblico) quando sale sopra un palco che pare la camera di casa sua da sempre da quanto scivola con naruralezza sul pavimento.
In mezzo alle note alte e a quelle basse di una voce che potrebbe cantare qualunque cosa e qualsiasi genere, e così fa, Fantastic Negrito allunga le canzoni a suo piacimento, detta i tempi alla band, dirige, trasformandole di volta in volta in un lungo medley dove confluiscono il blues, il funk, il rock’n’roll, i traditional ('In The Pines'). Ma sa andare anche diritto al punto quando vuole ('Plastic Hamburgers') Improvvisa senza piantare paletti, parte dalla black music e arriva dove vuole. Il tutto legato da una instancabile verve da trasformista che lo fa diventare predicatore, aizzatore di folle, comico, pensatore, attore impegnato e ballerino. Spettacolo completo a un prezzo modico. Ancora per poco?
Ma lo spettacolo lo hanno dato anche i nostrani SUPERDOWNHOME (RECENSIONE DISCO) nella troppo breve mezz’ora a disposizione come opener. Il duo bresciano pesta duro di rural blues. Chi li conosce sa cosa aspettarsi e non rimane deluso. Chi li vede per la prima volta rimane folgorato e incuriosito. In una parola: trionfo. Anche per loro. Bella serata in uno dei migliori locali milanesi di live music.


SUPERDOWNHOME

























IL DISCO
le seconde opportunità della vita
FANTASTIC NEGRITO  Please Don't Be Dead (2018)

Non credo mai a chi continua a farneticare che il rock (e derivati) è morto, che non escono più dischi degni e via così, evidentemente chi sostiene tutto ciò non ha ancora ascoltato PLEASE DON’T BE DEAD il nuovo album di Fantastic Negrito. Cinquantenne dalle mille vite complicate, riesce a farle entrare tutte in undici canzoni nelle quali non si butta via nulla, così come sono costruite su una valanga di belle e geniali intuizioni, perché se è impossibile creare ancora qualcosa di nuovo nella musica, vince chi sa ripetere e rinnovare la lezione. Fantastic Negrito in questo è un mago.
Ci sono il vecchio blues dei neri americani e il rock bianco, c’è la Black music in tutte le sue inclinazioni (funk, soul, R&B, disco). Ci sono la rabbia sociale e la denuncia, c’è tutta la sua vita passata fatta di stenti, sofferenza e rinascita, artistica e sociale. Nessun pelo sulla lingua, niente viene nascosto. Sebbene abbia in tasca un Grammy vinto con il suo precedente disco, il magnifico The Last Days In Oakland, preferisce mostrarsi sofferente in un letto d’ospedale, esperienza vissuta per tre lunghi mesi dopo l’incidente che lo portò al coma. Da lì in avanti non fu più la stessa cosa: Xavier Dphrepaulezz morì, nacque il personaggio di oggi. Insomma il messaggio è chiaro, se non muori puoi sempre prenderti una rivincita. Un po’ lo stesso discorso del rock.
Uno dei dischi dell’anno? Probabile.
 
 
 

martedì 6 novembre 2018

RECENSIONE: ALL THEM WITCHES (ATW)

ALL THEM WITCHES  Atw (New West, 2018)






In giornate nelle quali si ascoltano dodici versioni diverse ma simili di ’You're Gonna Make Me Lonesome When You Go’ di Bob Dylan, lo stesso tempo lo si può impiegare per ascoltare l’ultimo disco di uno dei gruppi rock più interessanti usciti negli ultimi cinque anni. Il nome del gruppo come titolo, il quinto disco della carriera per la band di Nashville, Tennessee, sembra già segnare un nuovo inizio. Ascoltando gli otto brani in scaletta (51 minuti) è palese la voglia di uscire definitivamente da certi steccati troppo stretti legati alla scena stoner. Non tanto musicalmente quanto come etichetta da portarsi appiccicata addosso. Anche se l'apertura ‘Fishbelly 86 Onions’ è ancora una scheggia di garage stoner in continuo crescendo, già dalla seconda ‘Workhorse’ si capisce quanto la band del cantante e bassista Charles Michael Parks Jr., voce sempre protagonista la sua, abbia intenzione di lasciare aperti i confini, abbracciando soluzioni per nulla scontate, seppur derivative, e in continuo mutamento (‘1st Vs 2nd’), dando sempre pochi appigli per cercare di acciuffarli. Blues, desert rock e psichedelia viaggiano a braccetto: mentre in ‘Half Tongue’ prevale il lato soffuso e sognante, il singolo ‘Diamond’ è scandito dal drumming tribale del batterista Roby Staebler, gran lavoro su tutto il disco il suo così come degno di nota è il battere sui tasti di Rhodes e organo di Jonathan Draper (belle le influenze soul e jazz catturate in ‘Half Tongue’), ‘Harvest Feast’ è un lento e notturno blues di undici minuti che sa tanto di orgia tra Free e Black Sabbath condotto dalla chitarra protagonista di Ben McLeod (anche produttore del disco) con una lunga coda finale che si tramuta in jam, ottimo esempio della loro attitudine live.
“L'improvvisazione ha un ruolo in tutte le nostre canzoni, sia che le persone lo sentano o no. ‘Harvest Feast’ è un buon esempio: prendere qualcosa di deprimente come una canzone blues e lasciarla uscire dalla nebbia. Improvvisare ci fornisce gli strumenti per far vivere e respirare veramente la musica”.
‘HTTC’ procede sincopata, straniante e marziale con un esaltante crescendo che porta al gran finale di ‘Rob’s Dream’, una delle migliori tracce: sette minuti che alternano momenti di liquida psichedelia pinkfloydiana e scatti rock alla Led Zeppelin. Diretti, credibili e senza fronzoli, Atw si prenota un posto tra i miei dischi dell’anno.










giovedì 1 novembre 2018

RECENSIONE: DAVID CROSBY (Here If You Listen)

DAVID CROSBY  Here If You Listen (2018)







music is love
“Questa è una delle migliori esperienze musicali della mia vita”, lo scrive nel libretto che accompagna il disco ma lo si potrebbe immaginare mentre te lo dice di persona lisciandosi i baffi e aggiustando il berretto di lana calato in testa, con lo sguardo fiero e gli occhi puntati sul futuro. Ascoltando il disco gli si crede pure, perché nei 45 minuti traspare un senso di leggerezza, freschezza e purezza che hanno il potere di avvolgenti come una buona e vecchia coperta nei momenti di gelo. La candida copertina conferma. È felice il vecchio Crosby, entusiasta di questo disco venuto quasi in dono grazie all’incontro sfociato in collaborazione con i tre giovani musicisti che questa volta si guadagnano pure il nome in copertina sotto quello di Croz dopo la collaborazione su Lighthouse del 2015: Becca Stevens, Michelle Willis e Michael League (Snarky Puppy). “Stavamo camminando verso lo studio di Mike League a Brooklyn con sole due canzoni finite per iniziare un nuovo disco con la Lighthouse Band… ” e poi? Poi è successo che Crosby si è lasciato coinvolgere dalla sfrontata gioventù dei suoi compagni di ventura: in un mese il disco era pronto.
“Queste tre persone sono così sorprendentemente talentuose, non ho letteralmente potuto resistere alla realizzazione di questo album con loro". Un amore vero.
Undici canzoni che continuano il discorso iniziato quattro anni fa con Croz, proseguito con Lighthouse e Sky Trails, una prolificità che non gli è mai appartenuta in carriera ma che ha trovato nelle collaborazioni una strada che a 77 anni pare non avere neppure una fine tanto vicina. Molti compagni di viaggio alla sua età stanno programmando dischi di commiato e tour di addio, il sopravvissuto (forse il segreto sta in questa parola) Crosby non ci pensa neppure e lavora con i giovani a cose nuove, anche se nelle ultime interviste ha pure lasciato le porte aperte a eventuali reunion con CSN & Y e Byrds. Lui è disponibile, lascia la palla ai meno convinti.

Con la Lighthouse Band vengono messe in risalto le armonie vocali anche a quattro voci come succedeva ai vecchi CSN più soft, canzoni di chitarre acustiche e pianoforte, delicate, eleganti, eteree, che sfiorano il jazz, a volte non c’è nemmeno bisogno delle parole come avviene nella vecchia ‘1967’, fatta rinascere da vecchi demo, così come ‘1974’, a volte manda qualche frecciatina ai potenti della terra (‘Other Half Rule’) e firma un appello a parole: "chiedere educatamente alle donne degli Stati Uniti d'America di salvare i nostri culi", nella frizzante ‘Vagrants Of Venice’ lancia un forte grido ecologista, in ‘Your Own Ride’ riflette sulla sua vita (ecco ritornare il sopravvissuto), c’è perfino una nuova versione con diverso arrangiamento di ‘Woodstock’ dell’amica Joni Mitchell (“la migliore” dice lui, riferendosi alla cantautrice che non se la sta passando troppo bene) . Riscrive il passato, vive il presente, mentre sicuramente scruta l’imminente futuro. All’orizzonte si intravedono già una collaborazione con Jason Isbell e un film sulla sua vita diretto da Cameron Crowe. Buona vita Croz!


 
 

lunedì 29 ottobre 2018

RECENSIONE: PRIMAL SCREAM (Give Out But Don’t Give Up: the Original Memphis Recordings)

 PRIMAL SCREAM  Give Out But Don’t Give Up: the Original Memphis Recordings (1993/2018)






il disco perduto. Memphis: andata e ritorno (25 anni dopo)
Hai una bella manciata di canzoni registrate negli States, agli Ardent Studios di Memphis, con il produttore Tom Dowd e la sezione ritmica dei Muscle Shoals (David Hood al basso e Roger Hawkins alla batteria) che trasudano soul, R&B, rock’n’roll e gospel da ogni solco. Cosa fai? Non vedi l’ora di farle uscire e stupire il mondo no? No. Gli scozzesi Primal Scream no. Quelle registrazioni del 1993 le lasciarono nell’umidità di qualche cassetto della vecchia credenza giù in cantina. Nove canzoni, vennero completamente riregistrate e diventarono Give Out But Don’t Give Up che tutti conosciamo, un disco che comunque si smarcava nettamente da Screamadelica, tanto da ricevere il pollice verso della critica che in quella mossa vedeva un semplice accordarsi ai suoni dei Black Crowes dell’epoca, sicuramente al top e rappresentanti più giovani della rinascita del classic rock. O se vogliamo un omaggio ai vecchi Rolling Stones e Faces. Comunque un altro passo per ribadire la vena camaleontica è inclassificabile della band. “Dovevamo uscire da Londra: se avessimo fatto un disco a Londra, New York o Los Angeles, ci sarebbero stati due, forse tre morti nella band per come stavano andando le cose". Così Bobby Gillespie spiega quella impellente necessità di cambiare aria che si impadronì della band e che li spinse alla ricerca delle radici musicali il più lontano possibile. Seguirono lo spirito di sopravvivenza. La meta fu Memphis. Venticinque anni dopo quel cassetto è stato riaperto: esce fuori, più fresco che mai, The Original Memphis Recordings che oltre alle nove canzoni aggiunge un intero disco di inediti, Jam da studio, versioni alternative e cover (‘To Love Somebody’, ‘Blue Moon Of Kentucky’).
 “Siamo andati laggiù con un buon intento, ma in qualche modo ci siamo persi in seguito. C'è sicuramente una lezione da imparare su come la creatività possa andare su una strada sbagliata. Siamo una band che continua a muoversi e non si guarda indietro, ma per anni mi sono sentito male per noi che siamo andati a Memphis e non abbiamo fatto quello che ci eravamo prefissati. Ascoltare queste canzoni dopo tutto questo tempo mi ha fatto bene. Mi sento redento " ammette Bobby Gillespie.
Uno spaccato caldo e avvolgente dell’atmosfera che si respirava da quelle parti in quei giorni: ‘Jailbird’, ‘Rocks’ e ‘Sad And Blue’ si arricchiscono di nuovi eccitanti colori. Memphis diventa la loro Parigi, queste registrazioni il loro Exile On Main Street perduto. Bobby Gillespie giustifica quella scelta scellerata (?) con un “eravamo stupidi e pazzi”. Alla storia, noi aggiungiamo solamente un: ”sì” .



giovedì 25 ottobre 2018

DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA # 70: DIRE STRAITS (Dire Straits)

DIRE STRAITS    Dire Straits (1978)






Immaginate una piccola piazza di un paese in collina nei primi anni ottanta, domenica mattina, una macchina parcheggiata con le portiere aperte e una canzone che si diffonde tra i vicoli stretti mischiandosi con i profumi di cibo che uscivano dalle finestre delle case. È quasi mezzogiorno. Gente che torna dalla messa domenicale, gente la cui unica funzione è il bar cooperativa del paese, vecchi seduti sulle panchine e il parco giochi sempre pieno di schiamazzi. Io probabilmente ero lì, nell’ultimo dell’elenco. Quando qualcuno doveva battezzare la nuova autoradio non era così raro ascoltare ‘Sultans Of Swing’ per le strade del paese e vedere gente suonare l’air guitar sull’assolo finale. Ma cosa sarebbe stato di tutto questo senza l’intuito del dj della BBC Charlie Gillett che ancora prima della registrazione del disco, iniziò a diffondere quella canzone in radio? Forse lo squattrinato (ecco il nome della band!) e mancino Mark Knopfler avrebbe continuato il resto della sua vita a alternare il lavoro di insegnante d’inglese con la sua passione per la Stratocaster, dando lezioni serali di chitarra un giorno e suonando per pochi intimi nel pub sotto casa l’altro, accompagnato dalla chitarra ritmica del fratello David, dal basso di John Illsley e dallo straordinario e sottovalutato batterista Pick Withers, vecchia conoscenza per chi seguì i Primitives di Mal. Quando il debutto dei Dire Straits uscì, uno dei più straordinari debutti nel rock, alla faccia di chi non li ha mai potuti digerire (un nuovo quarantenne in splendida forma), non era così difficile additarlo come una mosca bianca all’interno del panorama musicale dominato da punk, new wave e disco music. Anacronistico e controcorrente, forse più punk del più grande gruppo punk, perché se ne fotteva altamente di cosa andava di moda ai tempi. Senza tempo se ascoltato oggi.
L’amore per Randy Newman e Bob Dylan (che una volta visti dal vivo a Los Angeles non se li lasciò sfuggire”Mark mi imita meglio di chiunque altro” dirà prima di chiamarlo per Slow Train Coming) , J. J. Cale, per il blues, il R&B, il folk e il country si traduceva in canzoni (‘In The Gallery’, ‘Lions’, ’Water Of Love’, ‘Down To The Waterline’, ‘Wild West End’, ‘Southbound Again’, ‘Six Blade Knife’) che sembravano tanto semplici, pulite e lineari ma che in realtà non lo erano affatto. L’omogeneità generale è il maggior pregio e il peggior difetto per i detrattori, opera della produzione di Muff Winwood, fratello di Steve, quella manciata di canzoni erano in grado di immergere l’ascoltatore dentro un mood di rilassatezza senza scadenza, parete di quadri agrodolci, riflessivi, notturni e malinconici che ritraevano amanti, amori finiti e pittori, tanto un fumoso club con una band jazz protagonista e una chitarra che suona “puro ritmo”, quanto le vie più battute o le più periferiche di Londra e di Leeds. O quelle meno trafficate del mio paese, una domenica mattina grigia di Ottobre nei primi anni ottanta, proprio come oggi.




giovedì 18 ottobre 2018

RECENSIONE: COLTER WALL (Songs Of The Plains)

COLTER WALL  Songs Of The Plains (Young Mary Records, 2018)




quel vecchio ventitreenne
Colter Wall è la voce scura, baritonale, profonda e quasi vecchia che riempie i grandi spazi silenziosi e poco popolati della sua parte di Canada, quelle infinite praterie dalle parti di Saskatchewan fatte di dune sabbiose e foreste. È quel puntino giallo e blu immerso tra le verdi colline, come appare nella foto interna della copertina. Sembra un punto perso ma Colter Wall sa benissimo quello che vuole e dove sta andando, e stare lontano dal music business sembra sia una delle sue più grandi doti: la scelta di cover poco convenzionali lo dimostra. Un po’ Johnny Cash, un po’ John Prine, un po’ Waylon Jennings, un po’ Ramblin Jack Elliott a parte quando ulula come un coyote nel tetro folk di ‘Wild Dogs’ di Billy Don Burns, canzone scelta tra le tante che l’outlaw gli propose dopo essersi congratulato con lui dopo un concerto e quando canta a cappella nel traditional ‘Night Herding Song’, registrata in presa diretta davanti a un fuoco. Ma non solo:”un album come Drifter (1966) , è stato un grande disco western di Marty Robbins che ha avuto molto a che fare con il modo in cui questo album è nato” aggiunge Wall in una intervista. Non c’è nulla che sembri datato 2018 in queste undici canzoni, tutto rimanda a date indefinite di un passato in bianco e nero che il giovane canadese non ha mai vissuto ma che sa raccontare come pochi,oggi. "Il nuovo disco è, per riassumere, una lettera d'amore a casa mia. Da dove vengo, riguarda il Nord-Ovest e le pianure, le cose che facciamo lassù e il tipo di persone che siamo ". Una seconda prova che cavalca le stesse orme lasciate dal debutto, aggiungendo al folk minimale qualche strumento in più: pedal steel (suonate da Lloyd Green), armonica (Mickey Raphael, l’armonica di Willie Nelson) , basso, una leggera batteria e poco altro, grazie alla comunque parca produzione di David Cobb al mitico RCA Studio A. Un concept album antico, fatto di inediti, cover e traditional ma dove non si sa chi appartiene a chi (ecco un merito), lento e rassicurante, dedicato alla sua terra, ai suoi abitanti, ai contadini e i rodei (‘Saskatchewan 1881’ e ‘Calgary Round-Up’, una cover di Wolf Carter con tanto di yodel finale), agli operai (‘The Trains Are Gone’) ai vecchi cowboy che abitavano in quelle terre (‘Night Herding Song’) ai camionisti (‘Thinkin’ On A Woman’). Poi nel finale il piccolo sussulto con il traditional ‘Tying Knots In The Devils Tail’ cantato insieme a Corb Lund e Blake Berglund che spezza in netto ritardo il mood del disco che si apriva in modo superbo con l’evocativa western song ‘Plain To See Plainsman’ così diversa dal finale, ma che lascia aperta la porta verso il futuro terzo e importante album per capire, se mai qualcuno avesse ancora dei dubbi, chi sia questo vecchio ventritrenne canadese con il cappello da cowboy incollato perennemente in testa.







martedì 16 ottobre 2018

RECENSIONE: BLACK JOE LEWIS & THE HONEYBEARS (The Difference Between Me & You)


BLACK JOE LEWIS & THE HONEYBEARS  The Difference Between Me & You (Black Joe Lewis Records, 2018)






BLACK JOE LEWIS e i suoi Honeybears difficilmente deludono. Anche nel quinto disco in carriera, The Difference Between Me &You (2018), la band di Austin prima raccoglie e poi sputa fuori quell'irresistibile groove dove soul ('Face In The Scene') , black music ('Blue Leather') e funky ('Do Yourself In') incontrano il blues('Hemming & Hawin') e il rock'n'roll ('Handshake Drugs') suonato con l'immancabile urgenza di certo garage rock seventies orbitante intorno a Detroit ('Girls On Bikes', Culture Vulture'). Scena che il nostro adora: cercate il vecchio Electric Slaves, il più esplicitamente rock fino ad ora. Se invece amate il lato Black si va diritti su Scandalous, ancora più vecchio. Il precedente Backlash, con la sua fuorviante copertina e questo si pongono esattamente nel mezzo. Chitarre elettriche e fiati impazziti, testi graffianti a sbeffeggiare gli usi e costumi della società, Black Joe Lewis non fa sconti a nessuno. I suoi dischi sono un palco con le luci sempre accese, difficile far calare la tensione o appisolarsi. Alzare i volumi e godere, sembra siano sempre le azioni chiave per entrare dentro il suo affascinante mondo.




giovedì 11 ottobre 2018

RECENSIONE: TONY JOE WHITE (Bad Mouthin’)

TONY JOE WHITE  Bad Mouthin’ (Yep Roc Records, 2018)







funeral blues
Senza trucchi e senza inganni. Il disco che tutti i rocker dovrebbero fare dopo i settant'anni. Tributare le proprie radici blues, perché tutti le hanno, con semplicità, amore e devozione, proprio come ai primi tempi quando nella vecchia fattoria di famiglia il padre lo instradò alla musica: Tony Joe White, anni 75, lo fa bene, chiudendosi in un fienile in compagnia della fedele e vecchia Stratocaster e della sua voce che non è più quella ricca di sfumature soul, nera e baritonale di un tempo, quella di quel meraviglioso trittico andato in scena tra il 1968 e il 1970 ma ora è talmente secca e profonda, a volte pure stanca, che paiono uscire fantasmi dalle paludi della sua Louisiana ogni volta che apre bocca per una canzone. Qui di canzoni ce ne sono dodici, molte le porta a termine da solo, scarne e ridotte all’osso, chitarra e armonica con tanto di sospiri, rumori e battiti di piede come se fosse lì davanti a te in una notte di luna piena a ululare, nelle altre si fa aiutare dalla batteria di Brian Owings e dal basso di Steve Forrest ma si tratta solo di puro accompagnamento. Accanto a cinque canzoni sue tra cui spiccano due vecchie composizioni risalenti al 1966 (‘Bad Mouthin’ e ‘Sundown Blues’) rilegge tra gli altri l’amato Lightnin’ Hopkins nella rallentata esecuzione di ‘Awful Dreams’, vero e proprio ispiratore della sua carriera musicale, John Lee Hooker (‘Boom Boom’), Jimmy Reed (‘Big Boss Man’), Charley Patton in una ‘Down The Dirt Blues’ veloce come un treno a vapore d'altri tempi e dai sapori amaramente country e a tutte riesce ad appiccicare addosso un oscuro adesivo di presagio, catastrofe e disperazione anche quando chiude con una ‘Heart break Hotel’ dal passo quasi funereo e brutale. “Ho sempre desiderato in qualche modo fare qualcosa nel rispetto di Elvis. Ho finalmente avuto modo di farlo in questo album blues. ‘Heartbreak Hotel’, ma lo faccio in stile blues. Perché, quando Elvis cantava, aveva molta anima.” Ecco.

 
 
 
 
 

sabato 6 ottobre 2018

RECENSIONE: ROD STEWART (Blood Red Roses)


ROD STEWART   Blood Red Roses (Republic Records, 2018)




Che pasticcio Rod! 
Gli ultimi tre dischi di Rod Stewart sono usciti in sordina, senza troppi clamori. Se per i primi due Time e Another Country mi scappa un “che peccato”, per questo dico “va bene, giusto così”. Ho sempre amato Rod Stewart. Fin da quel primo momento che lo vidi in tv un giorno d’estate di fine anni settanta. Quando la tv di stato passò- chissà poi perché?-un suo video live e lui era vestito con la classica tutina colorata e attillata che indossava in quegli anni. Sicuramente stava cantando ‘Da Ya Think I'm Sexy?’. Per me fu uno shock. Positivo. Quando recentemente è uscita la sua spassosa autobiografia ha messo da parte il grande canzoniere americano che aveva oramai consumato (arrivato a un tot spropositato di dischi) e gli è tornata la voglia di prendere una penna e scrivere nuove canzoni, insieme al produttore e musicista Kevin Savigar, come non succedeva più da tempo. “Quando ho realizzato il mio primo album ('Time') dopo il libro, ho scritto una canzone su mio padre ('Can not Stop Me Now') e mi sono reso conto che avevo così tante cose da scrivere". Time e Another Country, pur se non interamente avevano dei bei momenti: la sua voce ha retto bene e lo fa ancora in questo nuovo disco. Quella non si tocca! Ma le canzoni? No quelle sono una delusione. Come dite? Con quella voce potrebbe cantare di tutto?
Sì, ma qui il buon Rod prende tutto alla lettera e si lancia in una sarabanda di generi musicali che nella teoria potrebbero anche andare bene, ma poi arriva la pratica e c’è sempre qualche schifezza nei suoni e pastrocchio nella produzione che vanificano tutto lo sforzo: dalla pop danzereccia con orribili echi di voce (‘Look In Her Eyes’) al celtic rock della title track con quei violini che paiono campionati (come dite? lo sono?) , al funky dance (‘Give Me Love’) dimenticato nell’angolo buio di una discoteca dal 1978, peccato che siano rimaste solo le macerie di quella sala da ballo e non capisco perché in ogni disco si sente obbligato a rifare il verso a ‘Da Ya Think I'm Sexy?’ in eterno, al stucchevole soul di ‘Rest Of My Life’. Piacciono di più la ballata ‘Grace’, la cover blues ‘Rollin & Tumbling' di Muddy Waters, l’hard blues di ‘Vegas Shuffle’ con i suoi cori femminili che io avrei tolto, la ballata folk ‘Honey Gold’. Una ‘Did Not I’ che mette in fila i sentimenti di un padre verso i figli tossicodipendenti, i ricordi nostalgici della finale ‘Cold Old London’ dove canta “ora sto invecchiando, e le ragazze stanno diventando più giovani". Fattene una ragione Rod. Mette in fila tanti ricordi Rod (toccante è ‘Farewell’ dedicata a Ewan Dawson, un amico che non c’è più) ma peccato che tra questi non ne sia saltato fuori uno legato a quel periodo d’oro deg7li anni settanta quando più toglievi meglio era. Per tutti. Qui sembra ci sia una grande abbuffata di luoghi comuni e un abuso sopra le norme stabilite di cliché musicali da far quasi rimpiangere i Great American Songbook. Da gran burlone sembra che il meglio lo abbia lasciato nella versione Deluxe del disco, dove appaiono almeno un paio di canzoni niente male. Rod, senti me: chiama il tuo amico Ron Wood, sedetevi sopra a due sgabelli e fate quello che vi viene meglio.
Nella sua autobiografia scrisse “ne ho fatte di stronzate”. Questo disco potrebbe essere solo una delle tante... Intanto dice di aver già scritto almeno 15 canzoni per un altro disco. Avete paura eh? Amo quest’uomo.


Ph:Peggy Sirota

mercoledì 3 ottobre 2018

DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA # 69: PSYCHEFUNKAPUS (Skin)

PSYCHEFUNKAPUS   Skin (1991)





con la benedizione di Talking Heads, Funkadelic e il re della chitarra surf Dick Dale

Il nome quasi impronunciabile non ha portato loro molto fortuna. Nonostante tutto ritengo SKIN uno dei migliori esempi della ricca scena crossover anni '90. La compagnia in quegli anni, fine ottanta primi novanta, era numerosa e variegata (Primus, Red Hot Chili Peppers, Jane’s Addiction, Fishbone, Living Colour, Faith No More e qui mi fermo ma si potrebbe andare avanti per molte righe) e le parole d’ordine erano osare, mischiare, stravolgere. Alcuni dischi hanno passato brillantemente la prova del tempo, rimanendo freschi e vitali a quasi trent’anni di distanza, altri meno tanto da risultare datati, a tutti però non si può negare un certo coraggio.
Gli Psychefunkapus da San Francisco, dentro al crossover ci sguazzano che è un piacere e la diversa etnia dei componenti non può che essere uno stimolo e un vantaggio per la composizione di brani surreali e folli. A produrli si scomodò Jerry Harrison, allora "seconda mente" dei geniacci TALKING HEADS da poco sciolti (“una delle band che ha una grossa influenza sulla nostra musica”) e con l'aiuto di Bernie Worrel gran compositore dei Funkadelic e dei Parliament (“un musicista geniale, dotato di tanta umiltà “) , due band cardine del funk settantiano, tra le principali influenze del gruppo californiano (il nome non è un caso) il ricco quadro è completo.
L’apertura del disco con ‘Evol Ving’, canzone cupa e psichedelica in odor di progressive, mette subito in chiaro la totale libertà di movimento del gruppo che subito dopo passa con ‘A New Beginning’ ad un funk rock sulla scia dei primi Red Hot Chili Peppers.

 L'ascolto del disco è un continuo sobbalzo da un genere musicale all'altro: il singolo scelto fu ‘Surfin On Jupiter’, surf song che rimanda tanto ai Beach Boys quanto ai primissimi Who. Ospite un vecchio chitarrista surf degli anni '60: l’oggi ottantenne Dick Dale, il re della chitarra surf. Anche se: "sinceramente prima che il management ci parlasse di lui non sapevamo nemmeno che esistesse, ma ha svolto bene il suo compito. A noi serviva proprio quel suono di chitarra per cui era famoso negli abbi '60".
Se i fiati di ‘Autumn Leaves’, canzone malinconica, rimandano a un castello medievale, il divertente country di ‘Hillbilly Happy Smash’ ci catapulta in un vecchio saloon del west. Non mancano canzoni piu' tirate e hard come ‘No Time’, ‘Syria’ o ‘Work like a horse/drink like a fish’ fino ad arrivare alla lunga e finale ‘Banana Slut King’, canzone che non avrebbe sfigurato su qualche disco dei Faith No More.
Questo secondo disco targato 1991 fu anche il loro canto del cigno, da allora di tali Jon Axtell, Atom B.Ellis, Mooshi Moo Moo e Manny Martinez si persero inspiegabilmente le tracce. Trovai solamente qualcosa sul vetusto Myspace a loro dedicato, alcune tracce e un video, la notizia di una reunion targata 2010 per scopi benefici e poi il nulla.




sabato 29 settembre 2018

RECENSIONE: TOM PETTY (An American Treasure)

TOM PETTY An American Treasure (Reprise, 2018)



 “Scrivere canzoni ha a che fare con la magia. È così per tanti lavori creativi, la pittura, il cinema, deve succedere questa cosa intangibile. E andarsela a cercare troppo non è detto che sia una buona idea. Perché sai, l’immaginazione creativa è una cosa timida timida. Ma una volta che l’hai afferrata, puoi lavorare sui pezzi e migliorarla. Una volta che ne hai afferrato l’essenza. Cerchi una parola migliore, un accordo migliore” così TOM PETTY spiegò a Paul Zollo il suo processo creativo. A quasi un anno dalla morte, chi è rimasto cerca di spiegarcelo meglio con AN AMERICAN TREASURE , cofanetto di quattro CD: la moglie Dana, la figlia Adria, il produttore Ryan Ulyate e i fidi compagni di sempre Mike Campbell e Benmont Tench hanno compilato questo percorso di vita in ordine cronologico che forse non è all’altezza del monumentale Playback o del Live Anthology, ma ha dalla sua, purtroppo, la completezza dell’intera carriera.
 Inediti di studio (interessante l’autobiografica ‘Gainesville’, inedito dalle session di ECHO, non l’unica di quel disco cupo e scuro, uno dei vertici dimenticati di un periodo poco felice umanamente ma artisticamente ispirato), versioni alternative di canzoni già conosciute, live version, uno spot pubblicitario radiofonico, demo (‘The Apartment Song’ registrata con Stevie Nicks nel 1984), estratti già conosciuti ma scelti per dare risalto a canzoni
© Joel Bernstein, 1979
importanti ma spesso dimenticate, nelle 63 tracce racchiuse dentro alla copertina creata dall’artista Shepard Fairey su un'immagine di Petty del fotografo Mark Seliger, c’è tanta roba interessante per noi fan orfani. Senza dimenticare un libretto con esaurienti note per ogni canzone e tante foto. Non c’è il Tom Petty più conosciuto, quello dei successi (non dimentichiamo che Greatest Hits rimane il suo disco più venduto in carriera) ma quello nascosto e dimenticato in sala d’incisione, facendo emergere anche sfumature ancora inedite. Una visione totalitaria su un artista che a differenza di altri, fermi al palo della gioventù, era in continua evoluzione.
© Barry Schultz, 1979
Il meglio non sta tutto a inizio carriera ma è ben distribuito lungo tutti i suoi anni, con Wildflowers del 1994 a fare da spartiacque. Petty aveva quarant’anni e fece partire una seconda parte di carriera impeccabile. Non è un caso che la raccolta si concluda con la registrazione live di ‘Hungry No More’ del 2016…Tom Petty e i suoi Heartbreakers erano una macchina da guerra rock’n’roll sempre agguerrita. Lo sono stati fino alla fine. Partendo dalla genesi del primo gruppo Mudcrutch (‘Lost In Your Eyes’ risale al 1974 da un disco abortito) che troveranno la gloria solo negli anni duemila, da una scoppiettante ‘Surrender’ che non trovò posto nel debutto degli Heartbreakers nel 1976 e Benmont Tench non se ne capacita ancora oggi per quella esclusione, da una scintillante ‘Keeping Me Alive’ e da ‘Keep A Little Soul’ tenute fuori da Long After Dark del 1982, da nuove versioni di ‘Louisiana Rain’ (Damn The Torpedo) , di ‘Rebels’ che nella versione inserita su Southern Accents aveva le drum machine, qui no, fino ad arrivare all’ultimo Hypnotic Eye con tre tracce lasciate fuori. Fare un elenco mi sembra cosa abbastanza inutile. Prendetevi del tempo e ripercorrete la carriera da questa inusuale ma curiosa prospettiva scelta da chi ha compilato la raccolta. Sorprende, invece, vedere solo tre outtake da Wildflowers, visto che da anni si parla di un’uscita con molti inediti legati a quell’album. Ma le parole di Tench “abbiamo tagliato un sacco di cose davvero grandiose” sembrano chiare: siamo solo all’inizio. Il tesoro non sta tutto qui.


martedì 25 settembre 2018

recensione: CLUTCH (Book Of Bad Decisions)

CLUTCH   Book Of Bad Decisions (Weathermaker Music, 2018)




 Ai Clutch del music business non è mai importato più di tanto, nonostante un passato con la Atlantic e buoni successi nelle radio di settore americane. Dopo ventotto anni di onorata carriera sono ancora qui, coerenti anche se un po' diversi, a scalciare come ai primi tempi con gli ampli tarati e fumanti, manciate di terra da tirare alle band più imbellettate e la voce da orco del cantante Neil Fallon a declamare i suoi testi. Una menzione la merita la politica ‘How To Shake Hands’ dove rivela la prima cosa che farà quando diventerà presidente degli Stati Uniti d’America : rivelare i nomi di tutti gli UFO e mettere Jimi Hendrix in una banconota da venti dollari. Bene aspetteremo. In eterno credo. BOOK OF BAD DECISIONS registrato a Nashville nel giro di sole tre settimane è decisamente un album di pesante e diretto blues (‘Sonic Consuelor’ e il southern di ‘Hot Bottom Feeder’ ne sono due facce diverse), ma blues come lo intendono dalle parti di Germantown nel Maryland: caricato a dosi di fumante Stoner nell’apertura ‘Gimme The Keys’ con ricordi persi nel loro primissimo tour, impegnato a ripetere la lezione dei papà Black Sabbath nella possente marcia hard di ‘A Good Fire’ , oppure caricato di groove come nella curiosa e riuscitissima incursione nel funk con la trascinante ‘In Walks Barbarella’ e i suoi fiati. ‘Vision Quest’ è un carrarmato in discesa sui tasti di un indiavolato piano honky tonk come se Chuck Berry fosse ritornato per un’ultima jam. Ogni tanto si tira il fiato: in ‘Emily Dickinson’ con un organo Hammond in evidenza , l’assolo di Tim Sult e con un finale a sorpresa e nell’epico, inquietante e fumoso finale ‘Lorelei’ che cresce e finisce con una batteria che rimanda alla guerra di secessione. L’aquila, simbolo degli States, ci mostra spalle e sedere. Qui scopriamo il perché.