venerdì 21 gennaio 2022

RECENSIONE: JOHN MELLENCAMP (Strictly A One-Eyed Jack)

 

JOHN MELLENCAMP  Strictly A One-Eyed Jack (Republic Records, 2022)



quello che vedo non mi piace

A pochi giorni dall'uscita del nuovo disco di John Mellencamp, la notizia che innalza Bruce Springsteen  come artista musicale che ha guadagnato di più nel corso del 2021 (la cessione del catalogo ha fatto effetto) può stridere con l'ultimo tratto di carriera del "Little Bastard" dell'Indiana: nel corso della sua carriera Mellencamp ha piano piano scelto un basso profilo musicale, e la coerenza artistica come  punto fermo, senza mai cedere al facile compiacimento (ricordate il concerto di Vigevano?) e uscendo ultimamente con un "non mi piace suonare nelle grandi arene" che sembra confermare il tutto, se non fosse che Springsteen lascia la sua voce e chitarra in ben tre canzoni qua dentro. In quella 'Wasted Years' uscita a sorpresa dopo l'estate a confermare la collaborazione tra i due dopo alcune foto sibilline comparse in rete, amara riflessione sul tascorrere del tempo e la vecchiaia che bussa alle porte, concludendosi con "la fine sta arrivando, è quasi arrivata" che sembra lasciare ben poche speranze nel futuro dietro l'angolo, una più movimentata 'Did You Say Such a Thing' che si ricollega alla metà carriera di Mellencamp, e la finale 'A Life Full of Rain', ballata al pianoforte condotta in porto da vero crooner, con il suo testo da "una vita piena di pioggia, senza un posto asciutto dove stare" che conferma una certa disillusione di fondo. Nuovamente. 

L'incontro tra i due era però scritto dal destino e recentemente Mellencamp ne ha raccontato la genesi. 

"L'incontro con Bruce è stato del tutto casuale. Per tutta la mia carriera sono sempre stato indicato come il Bruce Springsteen dei poveri. E io e Bruce ci conosciamo da anni. Ci siamo conosciuti anni fa, ci conoscevamo abbastanza per salutarci. Ma abbiamo fatto una cosa nella foresta pluviale per Sting e abbiamo suonato insieme. E all'improvviso è diventato come il mio fratello maggiore, e mi trattava come se fossi suo fratello, e io lo trattavo con rispetto. Poi siamo diventati davvero buoni amici, ed è semplicemente successo. È venuto in Indiana, è rimasto a casa mia… ". 



Ma sarebbe veramente un delitto far passare questo nuovo album solo per "il disco con Springsteen" perché ancora una volta Mellencamp ci dimostra d'essere uno dei migliori songwriter impressionisti che calpestano le terre americane e qui viene pure fuori il pittore che ha dentro. Un'analisi di quello che gli occhi vedono intorno ma anche, spesso, un'autoanalisi sincera e profonda. Consapevolezza o forse rassegnazione davanti alle "estati migliori" che non torneranno più.  

Nel crescendo di 'I Am A Man To Worries' canta: "sono preoccupato per le parole che sento, sono preoccupato per tutte queste brutte notizie, so che è una maledizione che  non andrà più via".

E da tempo ha scelto di camminare dentro i solchi delle radici, lasciando la via del rock ad altri (anche se in 'Lie To me' ci ritorna con accenni quasi dylaniani), accontentandosi di suoni roots, nudi, acustici, minimali, intimi, caldi, mai over prodotti (chi ha detto Springsteen?) dando alla sua voce sempre più sporca e roca (recentemente ci ha pure scherzato su: "finalmente le tante sigarette fanno il loro effetto") la possibilità di mettersi in evidenza cantando di bugie e bugiardi (la dimessa 'I Always Lie to Strangers' che apre il disco con il violino piangente, 'Lie To Me'), e calpestando insoliti territori jazz come succede in 'Gone So Soon', notturna gita dalle parti del primo Tom Waits con la tromba di Joey Turtell a soffiare nel buio . Una bella sorpresa.

È un disco che segue la scia delle ultime produzioni, dai toni generali spesso dimessi, dettati da una pandemia che ha lasciato troppi dubbi, poche certezze, tanti rimpianti e pochi sprazzi di luce vera, se non presenti in 'Chasing Rainbows' se si vuole cercare tra le righe. 

Dove la fisarmonica guida a fari spenti 'Driving In The Rain', il pianoforte e l'acustica la spoglia 'Streets Of Galilee', gli stacchi funky si impossessano di una magnifica 'Sweet Honey Brown' e il lavoro dei fidi Andy York e Mike Wanchic alle chitarre, Dane Clark (batteria), Troye Kinnett (piano e fisarmonica), John Gunnell (basso), Merritt Liar (violino) e Miriam Sturm (violino) è una certezza su cui contare sempre. 

Certo, la presenza di Springsteen potrebbe riportare Mellencamp sulle prime pagine dopo molto tempo ma questo album non ha nessuna caratteristica dei dischi che si fanno comprare, ascoltare e amare con troppa facilità dal mainstream. La scelta di non segnalare la presenza di Springsteen con nessun adesivo e nemmeno con un semplice "feauturing" dopo le canzoni la dice lunga: nessuna scorciatoia. Questo è un grande disco e Mellencamp ha sbagliato poche volte in carriera.

D'altronde Mellencamp lo dice spiegando il significato della canzone che da il titolo all'album: "non sono per tutti".







lunedì 10 gennaio 2022

RECENSIONE: NEAL FRANCIS (In Plain Sight)

NEAL FRANCIS 
 In Plain Sight (Pias, 2021)


il pianista visionario 

Neal Francis tappa i tanti buchi della sua esistenza, affettivi ed esistenziali, giocando con la musica e tutto gli riesce dannatamente bene. L'apertura in pieno stile seventies (alla Elton John o Billy Joel) con 'Alameda Apartments' è significativa ed esplicita nel raccontarci un buon pezzo della sua cifra stilistica e del suo umore ma c'è molto di più. Se il debutto Changes tradiva la sua provenienza, Chicago, con spesse dosi di funky e soul in stile New Orleans, questa volta dentro a quegli anfratti riesce a metterci veramente di tutto: colate di colori pop ('Problems', l'easy listening molto eighties di 'BNYLV' in stile Joe Jackson), sintetizzatori usati in modo fantasioso (ancora i settanta di 'Prometheus', funk con una chitarra acida il giusto), funky cosmico ('Say Your Prayers') e gran verniciate di psichedelia che spesso sfociano in lunghe jam ('Sentimental Garbage'). In 'Can't Stop The Rain' sembra bagnarsi dentro le stesse acque frequentate dalla Allman Brothers Band e la presenza di un vivace Derek Trucks alla chitarra innalza la canzone tra quelle da sottolineare in rosso nella lista delle migliori di  2021 appena concluso. Francis imperversa con il suo pianoforte, lo fa da quando aveva quattro anni, quando venne perfino definito un piccolo genio, dentro a queste nove canzoni nate e suonate dentro a una chiesa di Chicago, St. Peter's UCC. "Pensavo che sarei rimasto solo pochi mesi, ma è diventato più di un anno e sapevo che dovevo fare qualcosa per approfittare di questo dono miracoloso di questa situazione". Lo ha fatto. Un disco dalle mille sfumature che piacerà a chi si approccia alla musica senza troppi paraocchi.






martedì 4 gennaio 2022

RECENSIONE: MDOU MOCTAR (Afrique Victime)

 

MDOU MOCTAR   Afrique Victime (Matador, 2021)



libertà

Non più di due anni fa sorpresero le parole scritte da Mario Balotelli nei suoi canali social (rimbalzate dalle mie parti in questi giorni, non si sa bene come), uno a cui le cose attaccate alle parole non sono riuscite sempre benissimo: "non pensate che se non aveste messo prima e ora le mani sulle ricchezze in Africa non ci sarebbe mai stata nessuna immigrazione dal continente? Nel mio paese nativo, l'Italia, si sente dire: 'l'Italia agli italiani'. Sarebbe giusto se anche l'Africa fosse degli africani...". 

Parole sagge quella volta e verità inconfutabile. Nel brano che da il titolo al nuovo album di Mdou Moctar, la travolgente 'Afrique Victime' (una delle tracce più rock con la sua lunga coda noise), si dicono esattamente le stesse cose, questa volta cantate anche in francese (il resto del disco è cantato in Tamasheq) per far arrivare il messaggio a più persone possibili. 

Nonostante i contatti sempre più frequenti con la musica occidentale, "libertà" è la parola che meglio si addice alle canzoni di Mdou Moctar, il chitarrista del Tuareg di casa in Niger, che con il suo quinto disco conferma a pieno titolo di essere tra i musicisti più dotati e innovativi della scena desert blues africana sempre più numerosa e agguerrita. Uno stile di chitarra tutto suo (è mancino, adora Hendrix ma ancor di più Van Halen) in grado di far convivere il folk tradizionale delle sue terre ('Tala Tannam'), il blues, il rock'n'roll e la psichedelia, riff ipnotici ('Bismilahi Atagah'), assoli ('Chismiten') e code jam. Si viaggia alti conquistati dai ritmi magnetici e persuasivi tra gioia e consapevolezza, triste realtà e radiosa speranza. Ed è forse quest'ultima, che spesso manca alle nostre latitudini, a rendere tutto così fresco.





domenica 26 dicembre 2021

IL MIO 2021

24 dischi per ricordare il mio 2021




ISRAEL NASH - Topaz (Recensione)
THE DIVORCEES - Drop Of Blood
THE COLD STARES - Heavy Shoes (Recensione)
ANDERS OSBORNE - Orpheus And The Mermaids (Recensione)
JAMES MCMURTRY - The Horses And The Hounds (Recensione)
BILLY BRAGG - The Million Things That Never Happened (Recensione)
GUY DAVIS - Be Ready When I Call You (Recensione)
JERRY CANTRELL - Brighten (Recensione)
SAMY IAFFA - The Innermost Journey To Your Outermost Mind (Recensione)
SON VOLT - Electro Melodier (Recensione)
WILLIE NELSON - That's Life
JESSE MALIN - Sad And Beautiful World (Recensione)
VELVET INSANE - Rock'n'roll Glitter Suit (Recensione)
RODNEY CROWELL - Triage (Recensione)
MALCOLM HOLCOMBE - Tricks Of The Trade
LUKAS NELSON & PROMISE OF THE REAL - A Few Stars Apart (Recensione)
THE WALLFLOWERS - Exit Wounds (Recensione)
ROBERT FINLEY - Sharecropper's Son (Recensione)
MDOU MOCTAR - Afrique Victime (Recensione)
HOWLIN RAIN - The Dharma Wheel (Recensione)
SWEET CRISIS - Tricks On My Mind (Recensione)
DAVID OLNEY and ANANA KAYE - Whispers And Sighs (Recensione)
STEVE EARLE AND THE JUKES - J. T. (Recensione)
NEIL YOUNG - Barn (Recensione)

12 Dischi "very (H)eavy very umble" per ricordare il mio 2021

COUNT RAVEN - The Sixth Storm
ALICE COOPER - Detroit Stories (Recensione) DEE SNIDER - Leave A Scar ROB ZOMBIE - The Lunar Injection Kool Aid Eclipse Conspiracy GREEN LUNG - Black Harvest BLACK LABEL SOCIETY - Doom Crew Inc. (Recensione) CARCASS - Torn Arteries ADRIAN SMITH/RICHIE KOTZEN - Smith/Kotzen (Recensione) MASTODON - Hushed And Grim THE VINTAGE CARAVAN - Monuments (Recensione) MONSTER MAGNET - A Better Dystopia MELVINS - Working With God





12 Dischi Italiani

CEK FRANCESCHETTI - Sarneghera Stomp (Recensione)
MASSIMO PRIVIERO - Essenziale GANG - Ritorno Al Fuoco EXTRALISCIO - È Bello Perdersi STEVE RUDIVELLI - Gasoline Beauty (Recensione) LUCA ROVINI & COMPANEROS - L'ora Del Vero (Recensione) VASCO ROSSI - Siamo Qui FRANZONI/ZAMBONI - La Signora Marron ANDREA VAN CLEEF/DIEGO POTRON - Safari Station (Recensione) DAVIDE VAN DE SFROOS - Maader Folk



12 Ristampe, Live e Amenità varie

ROLLING STONES - Tattoo You-40th Anniversary (Recensione)
BLACK CROWES - Shake Your Money Maker BRUCE SPRINGSTEEN E STREET BAND - The Legendary 1979 No Nukes Concerts NEIL YOUNG - Carnegie Hall 1970 NEIL YOUNG - Way Down In The Rust Bucket (Recensione) BOB DYLAN - Springtime In New York - The Bootleg Series Vol. 16, 1980-1985 ROCKETS - Alienation (Recensione) NICK CAVE & THE BAD SEEDS - B-Sides & Rarities II SCRUFFY DUFFY - Duffy GARY MOORE - How Blue Can You Get (Recensione) JOHN MELLENCAMP - The Good Samaritan Tour 2000 DAVID CROSBY - If I Could Remember My Name… 50th Anniversary


Libri Musicali


Confesso, l'autobiografia- Rob Halford Blackness - Carlo Badando Memoir - Stevie Van Zandt The Allman Brothers Band, i Ribelli del Southern RocK - Mauro Zambellini L'altra Metà del Pop - Paolo Mazzucchelli (il mio Metti il Disco Che Sto Arrivando!, se non altro perchè è uscito





sabato 18 dicembre 2021

RECENSIONE: THE COLD STARES (Heavy Shoes)

THE COLD STARES 
Heavy Shoes (Mascot Records, 2021) 


in due è meglio

Tra i dischi più torridi e bollenti ascoltati nell' estate del 2021, c'è certamente il quinto album dei Cold Stares, duo dell'Indiana formato da Chris Tapp (chitarra e voce) e Brian Mullins (batteria), dediti a un hard blues bello tosto, dal piglio heavy che ama spesso sconfinare nello stoner. Niente Black Keys o White Stripes, qui si pesta giù duro, riuscendo comunque a tenere dritta la barra della melodia. Chi non ha mai dovuto indossare delle "scarpe pesanti" durante alcuni periodi della propria vita? Il cantante e chitarrista Chris Tapp le indossa fin da quando a dieci anni scopre di essere stato adottato, un bel colpo bissato poco dopo quando il nonno a cui era molto affezionato si suicidò non prima di avergli raccontato la storia del bisnonno, assassino di due sceriffi per legittima difesa. Ma la battaglia più grande Tapp l'ha vinta recentemente sconfiggendo il cancro che gli fu diagnosticato nel 2009. "Heavy Shoes è quella sensazione di ogni passo più pesante del precedente e di non essere in grado di portare oltre il bagaglio" dice. Ecco che tutta la rivalsa verso la vita si riversa nei testi e nel mood, gotico, scuro, a tratti violento di queste dodici canzoni. A parte qualche raro rallentamento come nella desertica 'Dust In My Hands', è una continua lava di riff e ritmi pesanti, dalla potente accoppiata iniziale con 'Heavy Shoes', carica di fuzz e '40 Dead Men' debitrice dei Black Sabbath con i suoi rallentamenti e le ripartenze, 'Take This Body From Me' suona come suonerebbero i Free se fossero arrivati intatti agli anni duemila (naturalmente senza Paul Rodgers), 'Prosecution Blues' è hard blues devoto al verbo di sua maestà Jimi Hendrix, nella cadenzata in 'The Night Time' ci si toglie qualche peso dalle scarpe ma è solo questione di minuti. Su tutto il disco divampa l'hard blues da vecchio power trio anche se poi sono solo in due ma con le scarpe ben piantate sul terreno.





giovedì 9 dicembre 2021

RECENSIONE: NEIL YOUNG & CRAZY HORSE (Barn)

NEIL YOUNG & CRAZY HORSE   Barn (Reprise, 2021)


too old to rock'n'roll, too young to die

Guardando spezzoni del documentario girato da Daryl Hannah che racconta come è nato Barn si è colti immediatamente da uno strano effetto di amarcord che sembra riportare indietro le lancette al retro copertina di Harvest: siamo nel 1972, la foto dai toni seppia scattata da Joel Bernstein ritrae Neil Young e i suoi musicisti, in quell'occasione erano gli Stray Gators, dentro al fienile del suo ranch dove il disco fu imbastito. Una rapida fuga nel presente ci mostra quattro ultra settantenni a colori (Neil Young 76, Billy Talbot e Ralph Molina 78, Nils Lofgren, il più giovane con i suoi 70) che invece di ritrovarsi dopocena al bar sotto casa per una briscola e un bianchetto, si ritrovano in una stalla dispersa tra le Montagne Rocciose del Colorado insieme al co-produttore Niko Bolas (che insieme a Young forma l'accoppiata Volume Dealers) per lasciarci l'ennesima testimonianza della loro consolidata unione artistica.

"Un fienile costruito per replicare il fienile del 1850 che era crollato esattamente nello stesso posto, in alto tra le montagne del Colorado. È una replica esatta dell'originale, costruita con pini Ponderosa da Ted Moews e dal suo grande equipaggio di artigiani” fa sapere un convinto e orgoglioso Neil Young. 

Sembrano divertirsi ancora tanto con gli strumenti in mano, suonando sotto l'influsso di una luna piena già alta e abbagliati dai tramonti da cartolina che appaiono all'orizzonte tra i lineamenti delle montagne. E poco importa se le grandi canzoni le hanno già scritte e suonate trent'anni fa, quaranta o anche di più, lo spirito sembra essere sempre lo stesso: il ciclo della natura che li circonda e la strana umanità che cerca di impossessarsene nei modi peggiori che ha a disposizione. 



"Questi sono tempi nuovi, con nuove canzoni e sentimenti dopo quello che il nostro mondo ha passato e continua ad affrontare. Questa musica la stiamo facendo per le nostre anime. È come l'acqua dolce in un deserto. La vita va avanti"racconta Young.


E non è passato molto tempo dal precedente Colorado, il primo disco con i Crazy Horse senza la chitarra di  Poncho Sampedro da molti anni (il vecchio Poncho ha dignitosamente scelto la pensione alle Hawaii), sostituito per l'occasione dal sempre duttile Nils Lofgren, un ritorno, quasi una staffetta, che però ha portato nuove soluzioni musicali all'interno della band. 

Nonostante il disco sembri rilasciare odore di paglia, sterco e fumo, lo sguardo di Neil Young è spesso proiettato fuori verso la strada, a questi due anni di pandemia. Nell'iniziale 'Song Of The Seasons' lo si capisce bene ("guardando attraverso questa finestra di vinile trasparente, la città e le sue luci, persone mascherate che camminano ovunque"), una canzone acustica rafforzata dalla fisarmonica di Lofgren e che troverebbe la sua collocazione ideale in album come Comes A Time o Harvest Moon. Invece è qui, testimonianza di una delle due facce musicali su cui Young ha costruito tutta la carriera. Quella acustica, replicata dalla finale 'Don' t Forget Love' al pianoforte e da un coro quasi sussurato e dal ciondolante country a ritmo di valzer 'They Might Be Lost', amara riflessione sul tempo che passa portandosi via dei pezzi importanti  e quella elettrica che qui culmina negli otto minuti di 'Welcome Back', palestra per tutta la band ma con le due chitarre a dialogare in un' atmosfera di costante tensione, quasi mistica, ma in tutta rilassatezza. Effetto delle pillole psichedeliche? 

Non sono da meno l'assalto rumoroso di 'Human Race', consueta e immancabile canzone ecologista, l' honky tonk sbilenco e zoppicante con fisarmonica e pianoforte di 'Change Ain't Never Gonna' e il garage rock di  'Canerican' dove Young sostiene con forza la sua seconda cittadinanza, quella statunitense, avuta alla faccia dell'allora odiato presidente Donald Trump. 

Ma ci sono anche cose più intime e personali come l'altro honky tonk blues 'Shape Of You', lettera d'amore rivolta alla compagna Daryl Hannah, il pianoforte saltellante che accompagna la vita che passa in 'Thumblin Thru The Years' e uno sguardo malinconico verso l'adolescenza cercando i "bei vecchi tempi" nascosto tra le sferraglianti chitarre di 'Heading West' "una canzone su di me e mia madre e quei tempi di crescita. È così bello ricordarla in questo modo!” e dove canta "ero quasi adolescente, mamma e papà si separarono, mio fratello rimase quando partimmo quel giorno, dirigendosi a ovest per trovare i bei vecchi tempi". 

Barn è un disco che non aggiunge nulla alla storia musicale di Neil Young  ma è una testimonianza vitale di un artista instancabile che vive con passione il presente, alla sua maniera, con semplicità, a volte con disarmante ingenuità, in maniera raffazzonata (molte canzoni sembrano tranciato sul più bello), immerso nella natura, circondato da animali, caminetti scoppiettanti (ricordate le sue suonate in pieno lockdown?) ma sempre proiettato nel futuro anche se i suoi infiniti archivi che ci sta donando a più riprese (in verità costosi per le tasche dei fan) potrebbero far pensare il contrario. 

Anche il 2021 passerà alla storia come un altro "anno del cavallo". E a noi, in fondo, va bene così, vero'? È sempre bello ritrovare un vecchio amico.







sabato 4 dicembre 2021

RECENSIONE: BLACK LABEL SOCIETY (Doom Crew Inc.)

BLACK LABEL SOCIETY   Doom Crew Inc. (eOne, 2021)


Zakk Bloody Sabbath

Ormai sembra chiaro: la creatura Black Label Society non è più quel masso pesante e monolitico dietro cui Zakk Wylde celava la sua anima più greve e animalesca, fatta di riff heavy e intransigenza sonora, a volte portata allo spasimo. Dentro ai Black Label Society odierni c'è concentrato l'intero universo musicale dell'ex ragazzone del New Jersey che durante l'ultra trentennale carriera aveva sempre cercato di dividere le sue tante sfaccettature musicali in progetti diversi: ricordiamo il southern rock dei Pride And Glory inseguendo gli amati Lynyrd Skynyrd e Allman Brothers (con i quali suonò pure in concerto nei primi anni novanta, alla sua maniera ovviamente), e poi gli anfratti acustici, tra ballate country e folk dei due Book Of Shadows. 

Dentro al vario Doom Crew Inc., l'undicesimo disco uscito a nome BLS convivono bene il sempre ben ostentato amore per i Black Sabbath (ah quella voce che ricorda sempre l'amico Ozzy Osbourne), quelli più groove nell'apertura 'Set You Free', accompagnato da un video in cui ci si prende poco sul serio, e quelli doom come si può ascoltare nella sulfurea 'Gospel Of Lies', più Sabbath di così solo Tony Iommi potrebbe fare. 

C'è l'heavy  blues di 'Gather All My Sins' con la sua coda finale di assolo, il southern rock duro e pesante di 'Ruins' che riporta alla mente proprio il progetto Pride And Glory, durato lo spazio di un solo disco, ma poi  si aggiungono ben tre momenti acustici ad abbassare il volume: la ballata dall'accento beatlesiano 'Forever And A Day', il piano e voce di 'Forsaken' e il lento blues finale 'Farewell Ballad', chitarra e pianoforte, ennesima dimostrazione della sua accentuata vena cantautorale intimista che qualche anno fa lo portò a girare pure i teatri in solitaria. 

L'album è dedicato alla "crew", gente che lavora in seconda linea ma indispensabile e che in questi anni di pandemia ha risentito maggiormente della situazione di stallo su cui hanno cercato di navigare gli eventi live.





giovedì 25 novembre 2021

RECENSIONE: HANDSOME JACK (Get Humble)

HANDSOME JACK  Get Humble (Alive NaturalSound, 2021)


il groove nelle ossa

Sono in giro dal 2004 ma solo in tempi recenti la band di Lockport (stato di New York) sembra riscuotere elogi e apprezzamenti. Loro hanno sempre fatto poco per attirare la gente dalla loro parte. Sono ancora di quelli che l'immagine non conta poi molto: se ti piacciamo è perché ti facciamo muovere il culo e passare un'ora diversa dal tuo quotidiano sembrano ribadire dagli sguardi nella foto di copertina. Questo è il quarto album ufficiale che non si allontana troppo dal precedente Everything's Gonna Be Alright Uscito nel 2018, disco che li vedeva per la prima volta nella ormai consolidata formazione a tre composta da Jamison Passuite (chitarra, voce), Joey Verdonselli (basso voce) e Bennie Hayes (batteria, voce). 

E loro continuano a suonare con convinzione la loro musica come se il tempo si fosse fermato all'ultimo disco buono dei Creedence Clearwater Revival  in quei primi anni settanta: c'è  tutto quello straordinario e ipnotico swamp rock ereditato da zio John Fogerty. Ma attenzione perché la loro proposta è tutto fuorché vintage. Il dono di arricchire ogni traccia è la loro carta vincente. Si parte da lì si arriva da altre parti, spesso nelle zone dii Chicago : dal trascinante groove soul di 'Old Familiar Places' o della corale 'Roll It' (i cori qui presenti sono una prerogativa del disco), i fiati che aprono il disco con 'Got You Where I Want You' o quelli della sontuosa 'Shoulder To Lean On', il boogie di 'Hard Luck Karma', la suadente 'High Class Man', il R&B di 'Servin'Somebody', il gospel della title track ("una melodia gospel a tre accordi davvero semplice che avevo registrato sui miei memo vocali una sera tardi e che aveva l'atmosfera perfetta per il messaggio", racconta Passuite), il blues di 'New Home In The Sky', lo stomp 'Let Me Know' che chiude il disco. 

Gli Handsome Jack tengono in vita il rock’n’roll senza uso di trucchi e inganni. Fidatevi di quelle facce all'apparenza poco raccomandabili: melodie e suoni caldi vi stringeranno in un forte abbraccio in questo inverno alle porte.





sabato 20 novembre 2021

RECENSIONE: HOWLIN RAIN (The Dharma Wheel)

 

HOWLIN RAIN  The Dharma Wheel (Silver Current Records, 2021)

visionari

Il primo strumento che si sente quando parte 'Prelude' è il violino di Scarlet Rivera, iconica violinista del Bob Dylan che fu dentro a Desire (1976) e a quel fantastico carrozzone denominato Rolling Thunder Revue. Un tour colorato, sgangherato, pieno di comparse ma estremamente eccitante e tentacolare. Proprio come la musica disegnata dalla penna del visionario Ethan Miller, un fromboliere che con questo nuovo album porta la sua ispirazione ai massimi livelli di libertà, estremizzando ancor di più le vedute già ampie del precedente The Alligator Bride. 

Sì, libertà è la parola d'ordine che ha caratterizzato fin dall'inizio la band di San Francisco (The Russian Wilds del 2012, il loro picco) e verrà rispettata anche durante le sole sei tracce che dividono i 52 minuti di flussi musicali dove visioni psichedeliche, la  calda brezza della West Coast music datata seventies, divagazioni prog, ritmi di funky cosmico, lunghe jammate e country si baciano e amoreggiano in un'orgia di suoni dove non è difficile tirare fuori dal cilindro nomi importanti come Grateful Dead, Little Feat, Allman Brothers Band, Doobie Brothers, CSN, Eagles come spunti, fonti di ispirazione e mete d'arrivo. 

Dopo il lungo "preludio" strumentale si parte dallo straniante synth dell'ospite Adam MacDougall (già con Chris Robinson Brotherhood) in 'Don' t Let The Tears', porta principale che conduce nella  personale rappresentazione del loro decennio preferito: i settanta. Le canzoni sono lunghe: 'Under The Wheels' è un lento viaggio di melodia west coast che esplode nel finale, 'Rotoscope' un honky tonk sui generis, 'Annabelle' una ballata dove compare ancora il violino di  Scarlet Rivera, i sedici lunghi minuti di 'Dharma Wheel' si concludono in una sarabanda di feedback e cori gospel. 

"Siamo riusciti a fare un disco che contiene molta gioia: la gioia di suonare musica, la gioia di sperimentare con la musica, la gioia della narrazione e della poesia" racconta Miller, un tipo  sicuro, determinato e visionario.






domenica 14 novembre 2021

RECENSIONE: JERRY CANTRELL (Brighten)

JERRY CANTRELL  Brighten (Warner Bros, 2021)


giochi di luce al buio

Brighten è un album alla vecchia maniera: nove canzoni, essenziali, registrate proprio come si faceva quando il rock "tirava" ancora e gli album si ascoltavano dall'inizio alla fine. Di queste nove canzoni, l'ultima dura solo un minuto e quaranta ed è la cover di 'Goodbye' di Elton John, estrapolata dal fresco cinquantenne Madman Across The Water (anche lì chiudeva l'album), uno dei dischi più ascoltati e amati da Cantrell sin dai tempi dell'adolescenza  quando ancora il suo futuro era un sogno tutto da imbastire. 

Dopo aver ridato una nuova e dignitosa vita alla sua creatura più importante, a quasi vent'anni dal secondo disco solista Degradation Trip (2002), Cantrell si ritaglia nuovamente del tempo tutto per lui accompagnato da musicisti come Duff McKagan, Michael Rozon, Abe Laboriel Jr., Jordan Lewis, e Tyler Bates. 

Come sempre, a dispetto di un titolo che pare più "luminoso" del solito, dentro a Brighten ci lascia ancora alcune zone d'ombra. Lì le luci, se ci sono, si vedono di più. Un gioco di contrasti vincente. 

Con la voce di Greg Pucciato (ex Dillinger Escape Plan) a fare le veci di Stanley o William DuVall dietro. Un disco malinconico dove certamente spiccano i due omaggi al maestro Ennio Morricone: l'apertura 'Atone', un blues elettrico, marziale e desertico e 'Siren Song' con le sue atmosfere western. 

"Da fan delle colonne sonore di Ennio Morricone e dei film di Sergio Leone, ha un po' di quell'atmosfera da fuorilegge, con un bel passo da hillbilly psicopatico" ha raccontato. 

I suoni scelti sono un chiaro omaggio agli anni settanta, lo si sente nelle acustiche 'Prism Of Doubt' e nel country 'Black Hearts And Evil Done' dove gioca le sue carte dalle parti di Neil Young. Lascia i momenti più elettrici alla sola 'Had To Know', mentre 'Dismembered' è a tutti gli effetti una figlia degli anni novanta e del grunge. Un marchio di fabbrica. 

Forse non c'è l'intensità e la disperazione del suo esordio Boggy Depot (1998) quando la vita era ancora dura con un piede nelle sabbie mobili e gli Alice In Chains in attesa di qualche segnale di vita da parte di Layne Staley, segnali che non arrivereranno più, ma di Cantrell, serio, eclettico ed ispirato, ci si può sempre fidare. Uno dei maggiori talenti di quella generazione che ha tenuto in vita gli anni novanta (anche se per qualcuno è l'esatto contrario) segnando in modo indelebile una parentesi importante della musica rock.






sabato 6 novembre 2021

RECENSIONE: BILLY BRAGG (The Million Things That Never Happened)

BILLY BRAGG
  The Million Things That Never Happened (Coocking Vinyl, 2021) 




lo sguardo della maturità

È  difficile voler male a Billy Bragg ,soprattutto quando ascoltando a ripetizione quel suo "difficile terzo disco" sei diventato un po' più grande, anche quando, ormai da anni, non alza troppo la voce, la chitarra non è più manovrata come una baionetta tagliente puntata verso i nemici e gli slogan non si possono più usare per strada per manifestare con un megafono in mano. Le strade ci sono sempre, spesso portano in America (la riflessiva 'The Buck Doesn't Stop Here No More') e ora in mano c'è una tazza di thè inglese, sorseggiato con paciosa calma. Siamo diventati tutti più grandi.  
THE MILLION THINGS THAT NEVER HAPPENED è uno dei suoi dischi più riflessivi e personali di sempre, eppure dentro a queste canzoni dal retrogusto country soul, dominate da Hammond, pianoforte, un vecchio mellotron degli anni 60, archi, lap e pedal steel, la presenza di suo figlio Jack Valero, anche co-autore della finale e musicalmente giocosa 'Ten Mysterious Photos That Can' t Be Explained' ("è bello avere qualcosa in comune con i tuoi figli. Non è mai stato interessato al calcio, quindi deve essere così") c'è ancora tutta la forza sconquassante delle parole che si mescolano in quel binomio politico - personale che ce lo fece conoscere negli anni ottanta e che continua a battere forte e pompare sangue sano. 
L'uomo di Barking continua a tirare avanti per la propria strada senza troppi ripensamenti ma con la consapevolezza dei tanti cambiamenti avvenuti da allora. Come una bussola del tempo ci dà le coordinate del suo essere uomo in 'Mid-Century Modern'. "La mia linea di fondo è comunicare, sia che scriva una canzone o un libro o un articolo o un lungo post della domenica pomeriggio per i social media" ha detto recentemente in un'intervista. 
 Capelli e barba sono imbiancati così come sono cambiate prospettive e abitudini durante questi due anni di pandemia. Proprio lì dentro si va a cercare, portando in superficie empatia ('Will Be Your Shield') e condivisione come nuove armi per sconfiggere l'arrivismo e certe scelte egoiste (ridicole e imbarazzanti se viste dall'altro lato. Quello giusto?) che dominano questi strani giorni raccontati in 'Good Days and Bad Days'. La vera libertà è impossibile senza responsabilità, dice. Tocca a noi fare la mossa più appropriata per il bene della collettività, se i risultati non sono a breve termine, arriveranno. È sempre solo una questione di tempo.








martedì 26 ottobre 2021

RECENSIONE: TAYLOR McCALL (Black Powder Soul)

TAYLOR McCALL   Black Powder Soul  (Black Powder Soul/Thirty Tigers, 2021)


un debuttante da tenere d'occhio

Il giovane Taylor McCall, faccia pulita e un baseball cap calato in testa, sembra inciampato dentro alla musica per puro caso, quasi fosse stato trasportato da un oscuro incantesimo. Ma ci sta da dio. Il passo  dalla cameretta di casa nel Carolina del Sud dove viveva con i genitori e strimpellava le sue prime canzoni  a questo primo album, dopo due EP già editi, è stato breve ma senza moderne scorciatoie. Un ragazzino timido e riservato che viveva con difficoltà l'approccio con il prossimo ma che improvvisamente scopre di avere così tanto talento per la musica, così gli dicevano quelli che lo ascoltavano, che lasciare morire quelle canzoni dentro a quattro mura sarebbe stato imperdonabile. Per tutti. 

La musica diventa terapia, forza, sogno. La sua vita. 

"Considero la mia arte e la mia musica prima di tutto la mia terapia" ha raccontato recentemente in un'intervista. Gli si crede e si va avanti. 


Insieme a lui ha sempre la fida chitarra, la prima gliela regalò il nonno materno quando aveva solo sette anni. Il nonno è quello che si sente, doppiato dalla voce dell'allora giovane madre di McCall nel breve gospel di introduzione al disco 'Old Ship Of Zion Prelude', una vecchia registrazione che McCall ha pensato di mettere all'inizio (ma, anche alla fine) per rendere omaggio al suo primo vero fan. 

McCall è un autodidatta della chitarra ma in queste dodici canzoni di folk blues oscuro e country arcano, a tratti minaccioso e inquisitorio, riesce a fare un lavoro che sa di straordinario. Una prima opera  matura, prodotta da Sean McConnell, in grado di proiettarlo tra le figure più promettenti del cantautorato americano. In una continua lotta tra il bene e il male, il diavolo e l'acqua santa, le sue canzoni cantate con voce giovane ma tenebrosa e rauca il giusto, alternano i momenti elettrici del gospel sporco 'Black Powder Soul' con le traiettorie desertiche e misteriose di 'White Wine', i blues minacciosi e neri ('Surrender Blues', Hell's Half Acre') con sipari di folk acustico, con sola voce e chitarra ('Man Out Of Time', 'So Damn Lucky'), il passo lento di 'South Of Broadway' con la più movimentata 'Cooked Lanes, fino ad arrivare ai nove minuti di 'Lucifer' con i suoi riverberi carichi di nuvole pesanti pronte ad esplodere da un momento all'altro. 

Un viaggio spigoloso ma intenso. La meta è estremamente appagante anche se nelle atmosfere western da ultimo duello della bella 'Highway Will' canta "If The Devil Don't Kill Me Then The Highway Will". Non c'è via di scampo, insomma.





sabato 23 ottobre 2021

RECENSIONE: THE ROLLING STONES (Tattoo You, 40th Anniversary)

THE ROLLING STONES  Tattoo You - 40th Anniversary (Interscope, 1981/2021)



40 anni di scarti di valore

Nonostante Emotional Rescue non fosse andato così male in fatto di vendite, i Rolling Stones ridussero al minimo la promozione senza fare tour. Quando arrivò il momento di girare nuovamente  il mondo, Mick Jagger e Keith Richards si rinchiusero invece in uno studio insieme a Chris Kimsey, rispolverando vecchie canzoni per fare qualcosa di nuovo da portare in giro, come se non avessero già abbastanza materiale da cui attingere. Le sedute di registrazione di Black And Blue, Some Girls e Emotional Rescue furono prolifiche tanto da lasciare in eredità un sacco di outtake, ma si andò a pescare ancora più indietro, recuperando in annate lontane come il 1972: saltarono fuori canzoni come 'Tops' con la chitarra di Mick Taylor che venne lasciata senza essere accreditata. Naturalmente il chitarrista rivendicò le sue royalties appena ascoltò il disco. 

Jagger fu quello che lavorò di più in studio, sopra incidendo gran parte delle voci, in alcune venne aggiunto il sax di Sonny Rollins (in 'Slave' dove c'è pure Pete Townshend ai cori, nella scatenata 'Neighbors' scritta da Jagger "è la prima canzone che Mick scrive per me" dirà Richards. E nella conclusiva 'Waiting On A Friend'). 

Come le migliori case che custodiscono in cantina  pezzi vecchi ma ancora pregiati, i Rolling Stones avevano da parte canzoni così buone da farci un disco che per qualcuno diventò l’ultimo grande album della band, per altri addirittura la chiusura della loro migliore stagione rock. C'era chi già li considerava dei vecchi dinosauri, è bene ricordarlo. 



"Quelle canzoni non si prestavano ad essere inserite in nessun altro album. Ma sono belle canzoni" dirà Mick Jagger. 

Il disco fu lanciato dal  primo singolo apripista  ‘Start Me Up’, una canzone nata con sonorità reggae addirittura ai tempi di Black And Blue nel 1975 e registrata lo stesso giorno di 'Miss You' come raccontato dal produttore  Chris Kimsey. 

"Start Me Up è il motivo per cui l'album rimase nove settimane in cima alle classifiche" ironizzò Ron Wood. 

In verità Tattoo You pur nella sua apparente disomogeneità (convivono bene il rock'n'roll di 'Little T&A' cantata da Richards con il blues ispirato da Hop Wilson di' Black Limousine' e ballate come la notturna 'Heaven' e 'Worried About Me' con il falsetto di Jagger a dominare)  è un disco che funziona alla grande, incartato dentro al lavoro grafico minuzioso del trio Peter Corriston (grafico), Hubert Kretzschmar (fotografo) e Christian Piper (disegnatore), diventato in poco tempo uno dei più amati dai fan. 

"È un disco onesto. La maggior parte delle canzoni sono state scritte in pochissimo tempo" Mick Jagger. 

Uno scatto in avanti messo in piedi con il minimo degli sforzi.

A quarant'anni dall'uscita anche un disco fatto di scarti ha la sua bella nuova vetrina: è stato oggi rimasterizzato e per mettere bene in mostra il quantitativo di canzoni su cui si stava lavorando all'epoca, sono state aggiunte ulteriori nove canzoni (Lost & Found) tra cui spicca sicuramente 'Living In The Heart Of Love', dimostrazione di quanto bastasse loro poco per tirare giù un singolo che funzionasse. Questo funziona in qualsiasi decennio lo si ascolti. Il brano non trovò posto nella scaletta originale così come il rock blues tirato e tagliente di 'Fiji Jim', il blues 'It's A Lie' con l'armonica di Sugar Blue, lo sgangherato honk tonk 'Come To The Ball' con il piano di Nicky Hopkins, la bella e notturna ballata 'Fast Talking, Slow Walking' con la presenza di Mick Taylor e Billy Preston e una versione alternativa di 'Start Me Up'. 

Più una serie di cover: 'Trouble's A-Comin' della band di Chicago CH-Lites registrata a Parigi nel 1979, una basica 'Shame, Shame, Shame' di Jimmy Reed, la cui versione originale è del 1963 e la ballata 'Drift Away' portata al successo da Dobie Gray nel 1973 e che gli Stones già registrarono in studio un anno dopo durante le session di It's Only Rock'n'roll. 


Naturalmente rimangono fuori altre innumerevoli tracce. Troveranno un loro posto nel cinquantennale. 

"Sono solo tracce che sono state registrate in qualsiasi momento dal 1972 al 1981. Non era proprio un album. Era dappertutto. Non ha una sorta di centro" ha detto recentemente Mick Jagger. 

A completare l'operazione nostalgia, il concerto allo stadio di Wembley del 25 Giugno 1982 (fratello dell'edito Still Life), concerto che in scaletta presenta per la prima volta qualche canzone di Tattoo You ma anche alcune cover ('Just My Imagination' dei Temptations, 'Twenty Flight Rock' di Eddie Cochran, 'Going To A Go Go' dei Miracles e 'Chantilly Lace' di Big Bopper, mai apparsa prima ufficialmente).

L'operazione uscita in vari formati per accontentare tutte le tasche, da uno spaccato reale di cos'era la band in quegli anni, scanditi da album in studio e tour. I "già vecchi" Stones erano veramente dappertutto in quei primissimi anni ottanta. Ancora oggi, nonostante tutto.





lunedì 18 ottobre 2021

RECENSIONE: SWEET CRISIS (Tricks On My Mind)

SWEET CRISIS   Tricks On My Mind (Headline, 2021)


lo chiamano (ancora) rock and roll

Ai Sweet Crisis manca giusto una manciata di sporcizia in più per essere la perfetta band di retro rock di questo 2021. Tutti gli altri ingredienti sembrano essere al loro posto: un cantante, Leo Robarts, dalla voce hard soul che ha come punto di riferimento Paul Rodgers tanto da riuscire a intrufolarsi all'interno della sua roulotte dopo un concerto, anni fa, quando il cantante si era unito a quel che rimaneva dei Queen, un chitarrista, Piers Mortimer, innamorato dell'hard rock dei seventies, un Hammond (suonato da Dom Briggs-Fish) dietro a tappare ogni buco lasciato dai due sopra, una sezione ritmica precisa e presente (Matt Duduryn al basso e Joe Taylor alla batteria), una manciata di canzoni che funzionano da qualunque parte le si prenda: hard rock, blues, soul, psichedelia, funk. 

Venduti sbrigativamente come un incrocio tra i Free e i Black Keys, la band inglese nata a Cambridge nel 2015 in verità è molto di più e ha tutte le carte in regola per ritagliarsi un posto da protagonista nel mappamondo odierno del rock'n'roll sempre più bisognoso di nuove facce da mettere in vetrina. Sia quando giocano ad emulare i Fleetwood Mac periodo Peter Green nella strumentale e psichedelica  'Living Life On The Edge' che chiude il disco, quando  indossano gli abiti soul imbastiti dalla voce di Leo Robarts   in 'Love Me Like Sugar' e nella straordinaria 'Black Magic' con la voce di Sarah Brown (già corista dei Pink Floyd, Roxy Music e tanti altri) e Don Airey (attuale tastierista dei Deep Purple) ospiti illustri più che graditi, quando accarezzano le pieghe acustiche in 'Misty Haze', o quando vanno giù duro in 'One Way Traffic', gli Sweet Crisis sembrano maneggiare bene con cura e devozione queste vecchie materie quasi dimenticate dai giovani d'oggi, unendo in modo sopraffino il passato con il loro presente. Queste dieci canzoni sono il frutto dei primi cinque anni di esistenza della band, se con il secondo album sapranno confermarsi non vi è dubbio che l'Inghilterra abbia trovato il proprio antidoto agli statunitensi e più parodistici Greta Van Fleet.






domenica 10 ottobre 2021

RECENSIONE: SAMI YAFFA (The Innermost Journey To Your Outermost Mind )

SAMI YAFFA  The Innermost Journey To Your Outermost Mind (Live Wire, 2021)



se ami il rock'n'roll, passa di qui

Sarebbe veramente un delitto dimenticarsi di questo disco, tra le cose più rock'n'roll ascoltate quest'anno. A proposito: è uscito anche il ritorno dei Wildhearts di Ginger. 

Sami Yaffa non ha bisogno di troppe presentazioni. Per i più distratti si possono citare alcuni nomi: bassista dei seminali Hanoi Rocks, degli ancor più seminali New York Dolls riformati negli anni duemila, dei sempre dimenticati Jetboy, ha collaborato e suonato nei progetti dell'amico Michael Monroe (solista, Jerusalem Slim, Demolition 23), con Joan Jett, Johnny Thunders, i Murphy'Law. Insomma, negli ultimi quarant'anni si è dato da fare, lasciando le impronte del suo basso un po' ovunque. 

Per questo suo primo disco solista, arrivato all'età di cinquantotto anni (ha pure trovato il tempo di dare alle stampe un'autobiografia uscita nel 2016), si circonda di tanti amici con i quali ha diviso una buona parte di carriera nei sotterranei dei locali sparsi tra States e Europa a suonare sleaze rock: da Michael Monroe che imprime il suo inseparabile sax nella psychobilly 'Fortunate One', al vecchio compagno d'infanzia e di mille avventure Janne Haavisto alla batteria. I chitarristi Rich Jones, Christian Martucci (Stone Sour) e Rane degli Smack. 

"L'idea per l'album solista ha iniziato a prendere forma qualche anno fa. In precedenza avevo scritto musica per i New York Dolls e la Michael Monroe Band, ma ora alcune delle canzoni che stavo scrivendo e che avevo scritto iniziavano a sembrare sempre più cose mie invece di quelle che avrei scritto per quelle band " racconta il finlandese. 

The Innermost Journey To Your Outermost Mind è così un compendio della sua carriera, un diario di vita che raccoglie tutte le sue influenze musicali:  nell'apertura 'Armageddon Togheter' misura la temperatura dell'attuale stato delle cose là fuori, Iu8ii8o9b 9in pieno stile Stooges, 'Selling Me Shit' è un rantolo punk hardcore con una parentesi dub reggae nel mezzo, parentesi sviluppata meglio nei ritmi in levare di 'You Gimme Fever' (con una bella chitarra solista) e in 'Rotten Roots' che raccoglie i semi crossover seminati da Joe Strummer. In mezzo al punk veloce di  'Germinator', al rock'n'roll psichedelico di 'The Lady Time', all'hard rock pesante di 'I Can' t Stand It' con alla chitarra Timo Kaltio, scomparso recentemente (co autore di 'Right Next Door To Hell' insieme a Izzy Stradlin, canzone presente su Use Your Illusion dei Guns N' Roses), troviamo 'Down At St. Joe' s', ballata dagli umori americani con slide e pianoforte e parole vissute sulla dipendenza da alcol, una curiosa, meticcia e ben riuscita  'Look Ahead' patchanka gypsy con tanto di fiati e la finale 'Cancel The End Of The World', epica, gospel, positiva risposta alla canzone che apre il disco. 

Un disco che per quaranta minuti fa riaffiorare ricordi di quel rock'n'roll che sembrava dimenticato in questi due ultimi anni senza concerti: si respira l'aria del CBGB, c'è l'alito di Johnny Thunders che sbuffa dietro, i nervi tesi e sudati di Iggy Pop che si piegano e si allungano, la Jamaica vista in prospettiva Clash, i bicchieri pieni a festa dei Faces un po' alticci e la santa benedizione degli eterni Glimmer Twins. Insomma: quasi tutto quello che serve.





mercoledì 6 ottobre 2021

RECENSIONE: ROCKETS (Alienation)

ROCKETS   Alienation (Recording Arts/Intermezzo, 1981/2021)



ritorno al futuro con il  disco dimenticato

Primi giorni di Agosto del 1980, nel piccolo stadio  di Caorle atterrano i francesi Rockets, proprio pochi giorni dopo la strage di Bologna. Avevo sette anni ma i dischi dei Rockets li ricordo nitidamente, conoscevo le canzoni, la cassetta di Plasteroid mandata a memoria, le copertine, loro mi facevano pure paura, e ricordo che mio fratello, sette anni più di me, nel pieno della sua adolescenza, a quel concerto ci andò. Io rimasi in campeggio con il mio pallone super tele, le mie bocce piene d'acqua, il frisbee nero con un fulmine come adesivo e i miei soldatini di plastica colorata ma con le orecchie ben tese sperando di intercettare qualche suono proveniente dalla lontana galassia della periferia della cittadina balneare. Nulla. Solo stelle e nemmeno cadenti. Andai a dormire deluso dopo aver certamente spento uno zampirone ma con la curiosità di sapere i dettagli. Il giorno dopo mi fu raccontato tutto nei minimi particolari: loro che uscirono da delle grosse uova, i famigerati raggi laser raccontati come fossero delle armi letali in grado di trapassarti il corpo. La ghigna sempre incazzata del cantante Christian Le Bartz, con il suo collo taurino che pareva un mix alieno tra Mussolini e Mastro Lindo. Il biglietto di quel concerto che conservai come se ci fossi andato io. 

Era il tour di Galaxy il loro album del 1980. Un successo incredibile soprattutto qui in Italia, grazie a canzoni come 'Galactica', 'Universal Band' e 'In The Galaxy'. 



Questo Agosto, a quarant'anni di distanza mentre ero sdraiato su un prato a godermi il sole estivo con il cellulare in mano (ecco il futuro che cantavano), da una pagina social scopro che ai primi di Ottobre avrebbe fatto capolino il famigerato "ghost album" dei Rockets, ossia l'album che sarebbe dovuto uscire dopo Galaxy nel 1981 ma che la casa discografica CGD bloccò perché non troppo in linea con il loro passato. Strano per una band che guardava al futuro. Subito dopo uscì il controverso p greco, 3,14 con due canzoni ('Hypnotic Reality' e 'King Of The Universe' ) prese dal disco abortito, rivedute e corrette, ma qui non sono presenti. 

Oggi tengo in mano quel disco in versione Cd che avevo immediatamente prenotato sdraiato sull'erba appena saputa la notizia. Le comodità del futuro. In quel 1980 pure il CD, sebbene già inventato dal signor James Russell sembrava una cosa da futuro lontano, almeno una manciata di anni. 

Si presenta bene con una copertina disegnata per l'occasione dallo scenografo e artista Victor Togliani, il logo è quello dei bei tempi, anche se le vecchie copertine avevano sicuramente un altro fascino vintage. Fabrice Quagliotti, unico membro che porta ancora avanti il marchio Rockets (esistono ancora sotto altra forma) ha acquistato i diritti di queste vecchie otto canzoni registrate tra la fine del 1980 a Parigi e i primi mesi del 1981 a Saint Souplet sotto la produzione del mentore Claude Lemoine

Otto canzoni recuperate da vecchie bobine 24 piste, scritte in comunione dalla formazione storica che oltre a Quagliotti alle tastiere e vocoder e al fantasma di Le Bartz alla voce (l'unico a non firmare nessuna canzone, pure assente al canto ma presente nei credits), comprendeva la mente di "Little" Gerard L'Her al basso e voce, Alain Maratrat alle chitarre e Alain Groetzinger alla batteria. 

A parte un paio di pezzi che si riallacciano ai precedenti dischi (l'apertura 'Non - Stop' è uno space electro rock, solido e alla loro maniera, sicuramente con le caratteristiche del singolo vincente), i Rockets in quel momento si stavano guardando intorno cercando di assorbire gli umori musicali che gravitavano intorno alla  loro galassia: ecco così l'elettro pop di 'Venus Queen' e 'Talk About', ficcanti e melodiche il giusto per entrare bene in testa, l'immancabile strumentale 'Electromental' che anticipava i Daft Punk, una stupefacente 'Children Of Time', il vero gioiello del disco che indica la via alle ballate synth pop dei futuri Depeche Mode, e una  'Sky Invaders', schizzata come se i Talking Heads amoreggiassero con i Kraftwerk che a loro volta flirtano con i Devo. Quanto amore. 

A sorprendere però è  'Skared', canzone totalmente avulsa dal loro repertorio e che pare uscire da Sandinista dei Clash, una patchanka tra ska, punk e reggae, che presenta alla voce un ospite misterioso: tale Johnny X (from London) che ad un primo ascolto pare proprio un ibrido tra Mick Jones e Joe Strummer. Suggestioni? Chissà? Il futuro non è scritto. 

Per un attimo sono tornato indietro a quella serata estiva del 1980 in campeggio, ho allungato ancora una volta il collo e sturato le oreccchie. Sento una voce provenire da molto vicino, questa volta, cantare: "to be on the run, dangerous game, all upside down, never the same".

Non li vedrò anche questa volta. Ma li sento. Sono tornati. Rimarremo con un solo grande dubbio: questo disco avrebbe cambiato la sorte della loro carriera?







sabato 25 settembre 2021

RECENSIONE: JESSE MALIN (Sad And Beautiful World)

JESSE MALIN
  Sad And Beautiful World (Wicked Cool Records, 2021)



la bellezza nell'oscurità

Durante il primo lockdown quando si cercava di vivere e portare a casa la giornata in qualche modo, sospesi in ore tutte uguali in cerca di un sussulto che svoltasse le giornata ma che spesso tardava ad arrivare, abbiamo cercato sollievo come si cerca acqua fresca nel deserto, a volte guardando cosa si inventavano i nostri musicisti preferiti, in difficoltà come e spesso più di noi. Bisogna dire la verità: non sempre tutto era spassoso e dopo un po' la noia e un senso di tristezza avevano la meglio anche lì. Ecco, tra tutti gli spettacoli livestream, The Fine Art of Self Distancing di Jesse Malin mi è sembrato il più divertente e gioioso, autoironico, sempre aperto al dialogo con il pubblico, seppur a distanza. E poi stava in piedi mica seduto come tutti. E chi ha già visto Malin da vivo sa quanto sia un imbonitore che non bada al risparmio durante le sue esibizioni. Non l'ha fatto nemmeno trasmettendo dal salotto di casa. 
 Evidentemente al cantautore newyorchese la pandemia ha pure portato in dono un po' di nuove canzoni (anche se dai vecchi cassetti pesca la bella 'Tall Black Horses' e omaggia Tom Petty con 'Crawling Back To You' da Wildflowers), talmente numerose da essere divise in due dischi (ma la durata totale è contenuta nei 60 minuti) racchiusi in un titolo rubato da un dialogo di Dawn By Law di Jim Jarmusch, e stampato dalla Wicked Cool Records, l'etichetta di Little Steven: da una parte nove canzoni dal carattere più mite e country folk ('Dance Of My Grave'), calde e distese, malinconiche, con un non raro pianoforte ad accompagnare, dall'altro otto canzoni urbane, sbarazzine, sospese tra rock (la tirata elettrica, l'unica vera del disco, di 'Dance With The System') e con tutti gli umori meticci della grande mela, un crocevia tra R&B (bella 'The Way We Used To Roll'), soul e funk ('A Little Death'). Naturalmente dietro, di contorno, ci sono sempre le luci, le ombre, il giorno, la notte, i rumori, i silenzi della sua New York e i tanti artisti che l'hanno raccontata negli anni: Lou Reed, Billy Joel, Bruce Springsteen, Willie Nile, Ryan Adams. E Jesse Malin è ancora un grande fan della musica e dei suoi artisti preferiti. 
Perchè la vita con tutte le sue differenze, è un grande viaggio "dal sole splendente della California a New York sotto la pioggia" come canta nella finale 'Saint Christopher'.
 "Beh, non ho mai fatto un doppio disco prima, ma non è un motivo per farlo! Tipo, 'Oh, non ho mai suonato metal quindi suoniamo metal! Era davvero qualcosa che, quando abbiamo fatto Sunset Kids (album precedente) avevamo venticinque canzoni, ma l'etichetta ci supportava e mi ha incoraggiato, dicendomi: 'Perché non fai questo doppio disco? ". 
Un disco che butta fuori un occhio dalla finestra in piena pandemia (' State Of The Art') ma sa essere ottimista per il futuro (l'apertura 'Greener Pastures'), autobiografico ('Backstabbers') ma che sa omaggiare anche gli amici che non ci sono più come nella clashiana 'Todd Youth', il suo chitarrista scomparso nel 2018 (con la partecipazione di HR, cantante dei Bad Brains). E sono tanti anche gli amici che vi partecipano attivamente lasciando voci e strumenti: da Lucinda Williams che aveva prodotto il precedente Sunset Kids a Derek Cruz (produttore e co autore di molti pezzi), Ryan Adams, Tommy Stinson, Don DiLego, Joseph Arthur
 Jesse Malin dal precedente Sunset Kids sembra aver dato un'impronta più matura alla sua scrittura, recuperando radici profonde, senza però snaturare il suo approccio alla musica continuamente sospeso tra il songwriter folk maturo e il rocker sbarazzino di inizio carriera. Due anime che continuano a convivere bene, cercando costantemente di "vedere la bellezza nell'oscurità".