domenica 19 marzo 2023

RECENSIONE: THE ANSWER (Sundowners)

 

THE ANSWER  Sundowners (Golden Robot Records, 2023)


dopo sette anni

I nordirlandesi The Answer hanno atteso sette lunghi anni e il giorno di San Patrizio del 2023 per tornare sulle scene più in forma che mai. Dei tempi lunghissimi per un mondo che stritola rockstar e presunte tali con la stessa velocità con la quale qualunque buon irlandese si tracanna la prima pinta di Guiness dopo il lavoro in un normale giorno feriale giù al pub. Fortunatamente la band guidata dal rosso Cormac Neeson ha alle spalle delle buone basi inchiodate con ferro, martello e alcol appiccicoso (sei i dischi usciti) e quella maturità guadagnata negli anni partendo dall'essere semplicemente dei cloni del classic rock targato seventies fino ad aprire per colossi come Rolling Stones e AC/DC.

Oggi tocca a loro tirare la carretta, cosa che sembra riuscire bene.

"Non abbiamo fatto molti concerti da quando siamo tornati insieme, ma abbiamo fatto il disco e tutte le cose extra che lo accompagnano e stiamo iniziando a fare interviste e roba adesso. Quindi per certi aspetti sembra di essere tornati sul tapis roulant come qualche anno fa" ha dichiarato il chitarrista Paul Mahon

È una partenza diesel la loro con una title track da sei minuti che in verità pare più una lunga introduzione per le restanti dieci canzoni chiamando in causa più volte i Led Zeppelin nel suo avanzare sciamanico. E fu proprio Jimmy Page a decantare le qualità e sciorinare le somiglianze del gruppo con il dirigibile ai tempi dell'esordio Rise. Correva l'anno 2006. L'influenza  Led Zeppelin ritorna prepotente più avanti in Get Back On It.

Si cambia registro nella successiva Blood Brother, marziale e sincopata nel suo incedere, ricordando gruppi come Black Keys e White Stripes. Tra riff circolari di chitarra con un Hammond a fare da morbido cuscino (California Rust), chorus micidiali in salsa street glam (Livin' On The Line), suadenti messaggi con la sezione ritmica formata da Micky Waters al basso e James Heatley alla batteria in grande evidenza (Want You To Love), incursioni soul e funky (Oh Cherry) e due ballate come la bluesy e gospel No Salvation e una finale e acustica Always Alright che sa tanto di anni novanta, il disco scorre liscio come tutte le birre spillate durante una tipica serata irlandese, anche senza avere una vera canzone traino o hit.

Un ritorno alla semplicità del passato che il cantante Cormac Neeson, voce che a tratti ricorda il compianto  Dan Mc Cafferty dei Nazareth, ha spiegato così: "dopo sei album e un sacco di chilometri abbiamo sentito il bisogno di fare un passo indietro e resettare tutto".

Ok, si può riinanziare a riempire il boccale. Cheers!





domenica 12 marzo 2023

THE DAMNED + SMALLTOWN TIGERS live@Alcatraz, Milano, 11 Marzo 2023



Era stato presentato come il tour del Black Album del 1980 che doveva essere omaggiato (solo due i pezzi suonati: Waiting For The Blackout e Lively Arts), è stato invece il concerto di presentazione del nuovo disco Darkadelic in uscita in Aprile ma con solo un paio di pezzi già fuori e conosciuti tra cui il singolo The Invisible Man.

Chi ha presenziato con queste aspettative sarà forse rimasto deluso. Per tutti gli altri non c'è stata delusione alcuna credo, i Damned sono sempre una garanzia anche quando suonano una decina di canzoni che arrivano per la prima volta alla orecchie dei fan. Che sia sempre stato un gruppo camaleontico, disimpegnato e autoironico lo si sapeva e lo capisce anche da come si presentano ancora oggi sul palco. 


Captain Sensible con la consueta maglia a righe rossonere e baschetto rosso, smorfie e sorrisi lasciano pochi dubbi su quanto si diverta ancora con una chitarra tra le mani. Dave Vanian in perfetto completo nero da vampiro dark wave, cappello da gangster e una voce che a parte i primi momenti viene fuori ancora come un tempo quando fece scuola a molti. Paul Gray, t-shirt degli MC 5 per lui, non la tocca piano con il suo basso tanto da farsi sanguinare un dito a metà concerto, Monty Oxymoron è incatalogabile dietro le tastiere, con il suo pigiama di teschi, mosse tarantolate e capelli arruffati da scienziato pazzo (si prende la scena a centro palco per pochi secondi nel finale) , mentre il giovane e compassato batterista  Will Glanville-Taylor sembra  appena uscito dall'ufficio per sfogare la sua rabbia quotidiana nel pub di turno che questa sera è il palco di un Alcatraz diviso a metà ma comunque pieno. Incredibile in cambio generazionale che avverrà a fine concerto quando prenderà inizio il sabato sera danzereccio dei teenager.


Per il resto è un concentrato di vecchi punkster con figli al seguito (ho visto i papà pogare e i figli godersi il concerto davanti alle transenne) che non aspettavano altro che l'esecuzione di pezzi come Neat Neat Neat, Smash It Up, Love Song e quella New Rose che all'epoca passò alla storia come primo vero singolo punk e oggi è giustamente l'ultima e la più attesa in scaletta. Anche se poi non sarà proprio l'ultima: ecco una inaspettata, anche per il batterista, White Rabbit. Onesti, divertenti, stoici e storici. Per presentare così un disco che ancora deve vedere la luce vuol dire credere ancora in quel che si fa. Il passato, pesante, è stato omaggiato ma il presente sembra più importante. Una buona filosofia di vita per una band con quasi cinquant'anni di storia.






Sarà perché le all female band sono sempre cosa rara da vedere sopra i palchi che contano ma le romagnole SMALLTOWN TIGERS sono state una bella scoperta. Un po' per tutti credo. Stanno aprendo tutte le date del tour europeo dei Damned (Captain Sensible seduto a bordo palco le segue attentamente e tiene il tempo con testa, mani e piedi) e oggi senza timori reverenziali suonano finalmente in casa. Appena la cantante e bassista Valli ha aperto bocca presentando la band (Monty alla chitarra, Castel alla batteria) ho sentito uno dietro di me pronunciare con stupore "ah ma sono italiane!'. Ebbene sì.


Da Suzie Quatro alle Runaways di Joan Jett fino ad arrivare agli anni novanta di L7, Hole e Donnas, il trio è un concentrato di punk rock'n'roll senza fronzoli e pronto a partire ad ogni attacco di bacchette della batterista.

Si parte dai Ramones, dal surf rock'n'roll, dal garage, arrivando fino a toccare il grunge con spensieratezza, disinvoltura e sorrisi sempre stampati in faccia che non guasta mai. Ci fanno conoscere il loro debutto Five Things e concludono con una R.A.M.O.N.E.S. dei Motorhead che racchiude bene la loro proposta musicale senza fronzoli e in your face. Applausi per loro e si alza pure un meritatissimo "belle e brave!" alla loro uscita che condivido con piacere.





mercoledì 8 marzo 2023

BLACKBERRY SMOKE live@Alcatraz, Milano, 7 Marzo 2023




Qualche tempo fa scrissi un articolo sui Blackberry Smoke su una rivista, parlai bene del loro doppio disco dal vivo Leave A Scar. Giorni dopo un mio contatto di Facebook mi scrisse "sentiti responsabile per i soldi che ho buttato". Lasciando da parte quell'accusa che negli anni duemila suona quantomeno gratuita: "ascoltateli prima gratis, non siamo nel 1973" fu più o meno la mia risposta. Non gli erano piaciuti. Questo può anche starci. 
Ecco, però: per me è veramente difficile per chi ascolta rock’n’roll di stampo classico non farsi piacere un live di un gruppo onesto come lo sono i Blackberry Smoke, che non saranno dei fuoriclasse assoluti e da prima pagina, derivativi quanto si vuole, ma che sicuramente sanno come intrattenere un'audience con gusto e mestiere, senza piedistalli o mosse da poser. A Gregg Allman piacevano un sacco, ci si può sempre fidare di lui almeno. Potrei ripetere le stesse parole che usai per descrivere il loro concerto che vidi al Fabrique di Milano nel 2017. Poco è cambiato, Charlie Starr rimane ancora l'unico motore trainante di tutta la band: carisma, voce e chitarra guidano sostanzialmente il gruppo, ecco l'unica mancanza è non avere nella band almeno un altro elemento con lo stesso carisma che possa rivaleggiare ad armi pari e portare quella "sana" rivalità che il rock conosce bene. O porta distruzione o meraviglie, il rischio è dietro l'angolo. Forse i Blackberry Smoke amano poco i rischi. Forse questa è la loro natura. Però da quel 2017 in scaletta in più possono vantare un disco come l'ultimo You Hear Georgia che viene ben saccheggiato (mi è piaciuta particolarmente una 'Hey Delilah' pregna di umori sudisti) e che di fatto è uno dei loro migliori insieme a The Whippoorwill del 2012. Nel frattempo se ne sono andati anche maestri come Tom Petty e Gary Rossington, solo pochi giorni fa, omaggiati, il primo con un accenno di 'Don't Come Around Here No More'. 

Tre chitarre, basso, batteria e percussioni, uno fondale semplice e desertico e due ore di musica che hanno la forza di portarti per un attimo lontano dalla pigra quotidianità: 'Six Ways To Sundays', 'Waiting For The Thunder', 'Pretty Little Lie', 'The Whippoorwill', schitarrate e ballate si succedono che è una meraviglia. 
 Dei Blackberry Smoke ho sempre apprezzato l'onestà musicale, il gusto melodico, la capacità di unire chitarre (tre come piace al southern rock, ecco allora Paul Jackson e Benji Shanks) con quella melodia country pop cara a gruppi come Outlaws e Eagles. Concretezza e poche seghe strumentali anche se nelle loro capacità se solo osassero un po' di più. 
Ritornando all'inizio: per me sono sempre soldi spesi bene, e nemmeno troppi di questi tempi (meno di trenta euro). 






Setlist 

All Over the Road 
Let It Burn 
Six Ways to Sunday 
Live It Down 
Good One Comin' On 
Waiting for the Thunder 
Pretty Little Lie 
Living in the Song 
Hey Delilah 
Sleeping Dogs 
The Whippoorwill 
All Rise Again 
Ain't Gonna Wait 
Ain't the Same 
Ain't Got the Blues 
Run Away From It All 
Restless 
One Horse Town 
Old Scarecrow 
Flesh and Bone 
Ain't Much Left of Me



sabato 4 marzo 2023

RECENSIONE: MYRON ELKINS (Factories, Farms & Amphetamines)

 

MYRON ELKINS  Factories, Farms & Amphetamines (Elektra, 2023)



il giovane vecchio

"Sono inciampato nei posti giusti al momento giusto e ho stretto le mani giuste" sembra ben consapevole della grande fortuna che ha avuto il ventiduenne Myron Elkins. Dal lavoro di meccanico saldatore nella contea di Allegan nel Michigan ai palchi di Nashville il passo è stato più breve del previsto. Anche se non mancano determinazione e faccia tosta che oggi gli permettono di cantare al mondo il suo universo bluecollar popolato da chi è nato dalla parte sbagliata del fiume.

Le tappe di questo novello Forrest Gump della musica, come ama definirsi lui, sono ben scandite: la sua grande passione dopo il lavoro è la musica (molte canzoni sono state pensate con un saldatore tra le mani) e alcuni amici lo iscrivono a una un concorso per band. Lui raccatta su un gruppo, vince la manifestazione e viene notato da Dave Cobb che se lo porta nel  RCA Studio A di Nashville, gli fa incidere le sue canzoni che oggi grazie a una etichetta come la Elektra escono sotto il titolo Factories, Farms & Anphetamines che sembra ben racchiudere tutto il suo micro mondo. Partito dal grande amore per la country music (Johnny Cash, Waylon Jennings ma anche Sturgill Simpson e Chis Stapleton tra i suoi primi modelli) Myron Elkins si apre musicalmente verso tante altre strade che per ora, pur piacevoli, confondono un po' le idee: derivativo ma con un futuro davanti tutto da scrivere. A suo favore l'età e la voglia di raccontare le sue storie nate dal basso e a chilometro zero. 

Ma poi si scopre che è proprio la varietà a far scorrere il disco così bene. Un disco decisamente elettrico con chitarre sempre in primo piano (oltre a Elkins ecco Caleb Stampfler e Avry Whitaker): fin dall'apertura 'Sugartooth', numero "born on the bayou" che richiama John Fogerty e i CCR, dalla title track, southern rock che ricorda i Lynyrd Skynyrd, il blues di 'Mr. Breadwinner', l'honky tonk country di 'Wrong Side Of The River', una 'Nashville Money' che sa di catrame e asfalto.

E poi ancora il funky di  'Hands To Myself' e quello più "danzereccio" di 'Machine' fino al country arioso della finale 'Good Time Girl'.

Myfon Elkins merita senza dubbio un ascolto in attesa di una seconda prova che potrebbe già svelare le sue reali intenzioni future.







domenica 26 febbraio 2023

RECENSIONE: LUCERO (Should've Learned By Now)

 

LUCERO  Should've Learned By Now (Liberty & Lament, 2023)



canzoni da tarda notte e primo mattino

Se il precedente When You Found Me (2021) visse i suoi giorni scanditi dai synth tra le nubi della pandemia e le ombre più cupe ma ben a fuoco del precedente e splendido Among The Ghosts (2018) senza dubbio il loro disco migliore della seconda parte di carriera (anche il preferito del cantante Ben Nichols che lo scrisse fresco di paternità), con questo nuovo Should've Learned By Now la band di Memphis cerca di ritornare a un suono più diretto, elettrico, essenziale e rock'n'roll certamente legato agli inizi senza però mai mollare quella corda che lega così bene la loro intera carriera costruita su una formazione inossidabile e su dodici album dove hanno toccato country, folk, punk rock, Americana e Memphis sound. I lati più oscuri e gotici della loro America raccontati negli ultimi anni sono stati lasciati da parte ma non più di tanto perché Nichols è uno che sa scrivere testi e con la sua voce rauca e vissuta sa raccontarli bene e anche qui lo dimostra: in tutte le canzoni pervadono sentimenti di rivalsa e abbandono, di bevute, rimpianti e scommesse con quel tocco di ironia che fa la differrnza. I protagonisti dipinti dall'attento osservatore Nichols vagano tra bar solitari trascinando i loro cuori infranti, tutti in cerca di compagnia, perdono e rivincita. 

"Doveva essere uno stupido disco rock 'n' roll, ma i testi sono sempre una storia diversa. Forse perché non ci stavo pensando, forse questo è un disco più personale di quanto intendessi, un disco più significativo di quanto mi aspettassi".

Musicalmente i Lucero riabbracciano quella spontaneità musicale dove l'approccio diretto del punk rock sa abbracciare l'anima rootsy cucita su  country e folk ed escono canzoni come l'apertura 'One Last F.U.' anticipata dal battere di campanacci, una canzone scritta per Among The Ghosts ma che non possedeva quel mood nero  ("quando la prima canzone dell'album si intitola "One Last Fuck You", puoi andare dove vuoi con il resto del disco dopo. Niente è off limits" scherza Nichols) 'Macon If We Make It',  'Nothing's Alright', 'Buy A Little Time' (con Cory Branan ai cori), la title track potrebbe entrare nel canzoniere di qualsiasi heartland rocker americano, dove la chitarra di Brian Venable è sempre protagonista così come il piano di Rick Steff ricama dietro come nella migliore tradizione rock'n'roll ('Raining For Weeks'). Non mancano ballate di pura americana: la springsteeniana 'At The Show', in grado di mischiare romantico amore e ricordi adolescenziali, 'She Leads Me', una  malinconica 'Drunken Moon' e la finale 'Time To Go Home', un country con tanto di pedal steel e fisarmonica che ci avverte che dopo ogni sbronza "di vita" arriva sempre il tempo di ritornarsene a casa. I Lucero dopo 25 anni di onorata carriera rimangono una garanzia: prima ti fanno ubriacare ma poi ti riaccompagnano a casa sano e salvo.







domenica 19 febbraio 2023

WILLIE NILE live@il Magazzino di Gilgamesh, Torino, 18 Febbraio 2023



Willie Nile è sempre (e ancora) una garanzia di ottima e trasudante passione rock’n’roll. Sia quando seduto al pianoforte (il suo primo grande amore  a cui ha dedicato un disco, il sempre troppo dimenticato If I Was A River), accompagnato dalla chitarra sempre ispirata e ricamata di Marco Limido ("sono fortunato ad avere Marco" ripete spesso Willie), esegue una intensa Across The River da quel debutto incorniciato e appeso tra i dischi della mia vita, sia quando nel finale omaggia i suoi vecchi amici Ramones con Sheena is Punk Rocker agganciata a California Sun accompagnato dai torinesi Wooden Brothers di Renato Tammi che in precedenza avevano aperto.la serata: la "one guitar" di venta la house of thousand guitars che si costruisce le fondamenta sul piccolo palco del Gilgamesh.

Poi per un attimo ho chiuso gli occhi e immaginato a cosa potessero essere i locali newyorchesi in quei fine anni settanta: stasera il Magazzino di Gilgamesh credo proprio sia stata quella cosa lì. Quella dimensione ideale piena di antiche vibrazioni che ti avvicina e non crea barriere. Willie è  lo stesso che divide il palco con Springsteen e Steve Earle ma che poi impegna il suo tempo a stringere mani, fare foto e firmare vecchi dischi mentre lo reclamano al banchetto del merchandising dove presumibilmente continuerà fare le stesse cose. Sempre un grande.




sabato 11 febbraio 2023

RECENSIONE: CARLO LANCINI & ELISA MARIANI (Alive & Well)

CARLO LANCINI & ELISA MARIANI   Alive & Well (2022)


strade positive

Ho conosciuto Carlo ai tempi dei Mojo Filter, band  lombarda che si cimentava in un classic rock a tinte hard, southern blues totalmente devoto ai seventies e che ebbe modo di mettersi in mostra aprendo per alcuni grandi nomi americani ( Willie Nile, North Misssissippi All Stars). Ci siamo pure incrociati un paio di volte in qualche concerto dei nostri idoli musicali (Calexico e Ryan Adams se ricordo bene), l'ho seguito nei suoi altri vari progetti musicali e collaborazioni (i più  duri Stone Garden). Un chitarrista e autore che lavora sempre bene e sodo, lontano dalle grandi luci, ma con la grande passione che pulsa e pompa rock’n’roll e derivati. Ora rieccolo con un nuovo progetto figlio dei precedenti Godspell Twins ma questa volta ci mette il nome in copertina condividendolo con la brava Elisa Mariani al microfono. Alive & Well è un disco caldo, carico di calore rock (la bella apertura 'Time To Go' sembra bussare alla porta degli Stones, 'Gypsy Dancer' è la più movimentata del disco), di blues ('Flowers From A Stone' mi ha ricordato i Dr.Feelgood di Wilko Johnson, pace all'anima sua), di R&B ('Rock Me Off'), southern rock ('Sugar Mama' con la bella prova vocale di Elisa), country con la ballata finale 'April'.

Suonato e registrato benissimo insieme a un ben nutrito gruppo di amici tra cui spiccano certamente Jono Manson, cantautore e produttore di Santa Fe ormai di casa in Italia che lascia la sua voce nella tambureggiante e psichedelica  'Love Revolution' che mi ha ricordato i Crazy Horse, il sax di Pasquale Brolis e la chitarra di Stefano Galli.

In scaletta anche due cover: 'The Letter' dei Box Tops e 'Angel From Montgomery' di John Prine, una delle sue canzoni più saccheggiate. Ta le versioni più famose da ricordare quella di Bonnie Raitt, fresca vincitrice di un Grammy. La cantautrice disse che quella canzone di Prine le cambiò la vita, ecco: spero possa succedere qualcosa di simile anche a Carlo e Elisa.




domenica 5 febbraio 2023

RECENSIONE: DEWOLFF (Love, Death & In Between)

DEWOLFF  Love, Death & In Between (Nuclear Blast, 2023)



pausa soul

Conquistare una platea quando non suoni per il tuo pubblico ma aprendo per star mondiali come i Black Crowes, o quel resta di loro, non è mai facile. Si rischia sempre grosso e già solo l'indifferenza di chi si fa i cazzi suoi con una birra al bar sembra una conquista.

Il trio di olandesi DEWOLFF oltre a suonare senza timore reverenziale quella sera d'autunno conquistò il pubblico al suono di un hard blues con venature sudiste e psichedeliche super seventies tutto chitarra, voce  (Pablo Van De Poel), hammond (Robin Piso) e batteria (Luka Van De Poel). Fu un'ovazione meritata e le birre in alto sotto al palco, non al bar, servirono a salutarli sperando di rivederli presto con un concerto tutto loro.

Ecco uscire a pochi mesi da quel bel biglietto da visita (per quanto mi riguarda) il loro ottavo album in carriera, un disco che però mostra un altro lato, meno rock e irruento, più  riflessivo e sfumato. Maturo. Diverso. Canzoni nate dopo l'ascolto di tanto soul, gospel e R&b, dopo aver assistito a un sermone di Al Green e dopo la lettura di molta letteratura americana. 

"Perché, dopo tutto, la musica ci sembra una religione. È qualcosa che è nella nostra mente tutto il tempo. È ciò a cui dedichiamo tutta la nostra vita” spiega Pablo Van De Poel. E i giovani Dewolff, comunque in pista dal 2007, sembrano veramente aver barattato l'anima nel nome del rock'n'roll, lo si capisce sul palco e lo confermano in studio, che poi sembra quasi la stessa cosa.

Il risultato sono dodici canzoni registrate senza troppe sovrastrutture dietro, dal vivo su nastro analogico, in uno studio di Kerwax nella Bretagna in compagnia di una nutrita sezione fiati e coristi. Un disco che gira intorno a 'Rosita', pezzo da sedici muniti che racchiude bene tutte le influenze del trio: si sente il southern rock, la Motown, la Stax, il rock’n’roll, il gospel. Fughe strumentali, acidità psichedelica e terra blues si susseguono in un brano che è un vero monumento eretto alla musica. Difficile che qualcuno ci pisci sopra, potrebbe accontentare tutti.

Il disco si apre invece ad alta velocità con 'Night Train' e subito lo spirito di James Brown sembra volare e sbuffare aria black sopra a fiati e chitarre. Si prosegue tra boogie blues che chiamano in causa gli Stones di Exile e Joe Cocker con i suoi cani pazzi (la bella e convincente 'Heart Stopping Kinda Show'), soul ('Will O' The Wisp', Gilded (Ruin Of Love')), blues notturni e piangenti ('Mr. Garage Man'), gospel trascinanti e esaltanti ('Counterfeit Love'), R&B tosti e pieni di chitarre e fiati ('Message For My Baby', 'Wontcha Wontcha') fino alla soffusa 'Queen Of Space &Time' dove i Doors amoreggiano con i Jethro Tull e ne nasce il finale di disco perfetto.

Un disco caldo, corposo, pieno di sfumature e bei suoni che mantiene alte le quotazioni di questi tre olandesi pieni di talento e totalmente innamorati e devoti a tutta la musica, naturalmente con data di scadenza 1979.

Guardo le date del loro tour per curiosità, dell'Italia neppure l'ombra e come sempre ci si domanda: perché?



sabato 28 gennaio 2023

RECENSIONE: URIAH HEEP (Chaos & Colour)

URIAH HEEP   Chaos & Colour (Silver Lining, 2023)



inossidabili

Guidati dall'inossidabile Mick Box, compositore e chitarrista mai troppo lodato, gli Uriah Heep ritornano a riprendersi la "vecchia" scena hard rock dopo gli anni di pandemia che hanno visto crescere e germogliare questo Chaos & Colour che ne vuole raccontare luci, ombre, incubi e speranze. 

"Quando il blocco ha iniziato ad allentarsi nel Regno Unito, siamo stati in grado di andare in studio (Chapel Studios, Lincolnshire) e registrare il nuovo album con il produttore Jay Ruston che era arrivato dall'America. Jay aveva anche registrato il nostro precedente album Living The Dream e siamo rimasti molto contenti del risultato. Quindi volevamo lavorare di nuovo con Jay su questo progetto" racconta il batterista Russell Gilbrook in una recente intervista.

Un album che prosegue in qualche modo il trend del precedente Living The Dream (2018) e se possibile migliorandone ancor di più ispirazione, freschezza e tiro. Con più di cinquant'anni di carriera, arrivati al venticinquesimo album, chiunque potrebbe sedersi sugli allori e godersi i fasti del passato, anche se bisogna dirla tutta, gli Uriah Heep hanno sempre dovuto lottare per farsi largo tra critica, cangianti mode musicali e cambi di formazioni.

Eppure, quando parte 'Save Me Tonight' scritta insieme a Jeff Scott Soto, capisci subito che non sarà così, ancora una volta. L'essere ancora qui, presenti e scalcianti nel 2023 è la loro miglior risposta e vittoria. La straordinaria voce di Bernie Shaw e le tastiere di Phil Lanzon, entrambi in formazione dell'ormai lontano 1986 sono diventate un nuovo marchio di fabbrica degli ultimi trent'anni di carriera ma in perfetta continuità con la storia della band. La freschezza della sezione ritmica formata dal batterista Russell Gilbrook e dal bassista Davey Rimmer donano invece dinamicità a un suono che cerca di legare la tradizione del passato con i nostri tempi. In mezzo alla già citata apertura e alla finale 'Close To Your Dreams', che sembra iniziare là dove finiva la vecchia 'Easy Livin', c'è tutto il loro universo fatto di massiccio hard rock ('Hurricane', 'Fly Like An Eagle'), di incalzante groove melodico ('Silver Sunlight'), break psichedelici ('Hail The Sunrise' con il suo Hammond imperante sembra uscita dai 70, la cangiante e fantasy 'You'll Never Be Alone'), fughe progressive (gli otto minuti di 'Freedom To Be Free', 'Golden Light', 'Age Of Changes') e ballate (il pianoforte e la voce si Shaw sono protagoniste di 'One Nation, One Sun').

Un album compatto che cerca di unire tanti anni di carriera e tutte le sfumature musicali che hanno da sempre caratterizzato il loro suono. L'inconfondibile miscela di chitarre e tastiere, le fughe strumentali, l'intersecarsi perfetto tra potenza e melodia, le armonie vocali e le atmosfere epiche  sono quelle di sempre. Riconoscibili.

Potrebbe essere impresa difficile dopo tanti anni, e invece il miracolo continua a compiersi con rigenerante vivacità.




giovedì 26 gennaio 2023

DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA # 86: DAVID CROSBY (Croz)

DAVID CROSBY  Croz (Blue Castle Records, 2014)


un ricordo

Quando lo vedi sopra al palco catalizza l'attenzione con il solo carisma senza spostarsi di un centimetro, tanto da mettere in ombra i suoi fidi compagni di sempre: il lunatico e bizzoso Stephen Stills e l'etereo e più ginnico Graham Nash. I pochi ma sempre lunghi e candidi capelli bianchi al vento, i baffoni come li portava già nel 1969-gli manca solamente la giacca di renna scamosciata con le frange, la stessa indossata poi da Dennis Hopper in Easy Rider-la voce inconfondibilmente pura che fluttua nell'aria, il fisico segnato dalla vita- ma poi nemmeno troppo diverso rispetto a noi comuni mortali-David Crosby ha sempre incarnato lo spirito del suo tempo "migliore", quello sognante, quello ancora lontano da una tentata autodistruzione culminata negli anni ottanta e costruita su abusi, armi da fuoco illegali, galere e dalle inevitabili conseguenze prodotte da un trapianto di fegato avvenuto nel 1994 e da ripetuti attacchi al suo debole ma roccioso cuore. Nonostante tutto sembra ancora lo specchio di quel periodo, epoca che apriva e chiudeva il sogno americano con la conseguente rassegnazione di chi si è bruciato tutto, troppo in fretta, per troppi ideali disattesi e troppe utopie. Una generazione che ci ha provato: "un grande uomo disse 'ho un sogno'. Un altro arriva e gli spara in testa" canta in Time I Have. La fortuna di guardarsi indietro e spiare in avanti fa spesso capolino tra i testi (Slice Of Time, Holding On To Nothing). La  fortuna di un sopravvissuto. Crosby ringrazia. Di tutte queste cadute con relative rinascite canta nella personale Set That Baggage Down, uno dei picchi confessionali e musicali del disco con una chitarra elettrica che fa il suo, un groove che sale ed un'esortazione ad alzarsi sempre e comunque davanti ad ogni sciagura: "Rise Up, Rise Up" canta nel finale.

Dopo un capolavoro epocale e tanto "malato" da non fargli nemmeno ricordare il proprio nome (If I Could Only Remember My Name del 1971), disco che lo consacrò guida spirituale dell'intero movimento della West Coast Californiana e tra i manifesti più puri e lisergici dell'epoca, dopo la risposta a quella domanda avvenuta a quasi vent'anni di distanza, anni di rinascita soprattutto fisica (Oh,Yes I Can del 1989), dopo le tante strade percorse, anche sbagliate, del poco significativo disco di cover Thousand Roads del 1993: ad altri vent'anni dal quest'ultimo disco, ci rivela il nome, la sua identità. Chiamatemi tutti Croz sembra voler dire, sbattendo un significativo primo piano del suo faccione in copertina senza nessuna remora nel mostrare rughe e segni di vecchiaia (il CD è avvolto in un digipack veramente ben rifinito). Con l'unico rimpianto-suo e nostro-di essere arrivato al solo quarto disco solista in cinquant'anni di carriera, trascorsi come si farebbe sopra ad una montagna russa senza fine, dai fasti inarrivabili di Byrds e CSN & Y ai buchi degli anni ottanta pur con qualche sporadica e buona perla da cercare nei dischi targati CSN (Delta, Compass, Dream From Him).



Un disco che non lascia sorprese epocali, non si avvicina minimamente al capolavoro della vita anche se ha in comune quella impalpabile flessuosità che lo accompagna da sempre, ma  è una foto fedele del suo autore negli ultimi anni, uno sguardo attento alla sua anima interiore e a quello che lo circonda, perché lontano dalle scene e dalla vita, nell'ultimo ventennio, non ci è mai stato veramente. In pista sia con i compagni di una vita girando il mondo in tour, con il solo fraterno Nash (bello e spesso dimenticato è il loro disco del 2004), e con il gruppo CPR messo in piedi con il figlio ritrovato James Raymond (qui arrangia, produce e suona molto). Proprio da qui si riparte. Scritto interamente con il figlio, Croz è un album  dal passo lento, armonico, dal feeling jazzato che non ha fretta di arrivare, che non cerca i facili consensi: "l'ho scritto per me stesso" dice Crosby.

Un album contemplativo fin dall'iniziale What's Broken con la chitarra carezzevole di Mark Knopfler, brano piacevole anche se i due non si sono mai incontrati veramente-hanno collaborato a distanza-un qualcosa che ai tempi d'oro non sarebbe mai successo. A pensarci si perde un po' di quella antica magia che invece sembra avvolgere tutto il lavoro. Se ne prende atto e si va avanti tra stoccate alla moderna politica militare USA (la fumosa Morning Falling); acuti quadretti sulla prostituzione giovanile condotti con sola voce e chitarra arpeggiata (If She Called) e dipinti con la saggezza paterna dopo aver visto delle giovani ragazze al lavoro in un marciapiede fuori da un hotel dove soggiornava in Belgio; le immancabili armonie vocali che escono da Radio; i raffinati velluti jazzistici sia in Holding On To Nothing offerti dalla tromba di Wynton Marsalis che si mescola ad una chitarra acustica e nella finale Find A Heart vetrina musicale per i virtuosi ospiti Steve Taglione (sax) e Leland Sklar (basso); ma anche la sorprendente esplosione elettrica nella seconda metà di The Clearing, tra le più rock delle undici tracce -insieme a Set That Baggage Down- con il synth del figlio James Raymond e le chitarre di Marcus Eaton e di Shane Fontayne (che qualcuno ricorderà alla corte di Bruce Springsteen nel tour del 1993) a  dar battaglia. Però non tutto gira bene e Dangerous Night cade nello scalino di un AOR stanco e poco incisivo.

Eterno rispetto per un uomo (superstite) che ci fa visita solo quando ha qualcosa da dire. Un disco che avrà scritto solamente per se stesso, come dice, ma con la classe appartenente a pochi e la capacità di arrivare ancora a molti.




giovedì 12 gennaio 2023

LUCINDA WILLIAMS live@Teatro Lirico Giorgio Gaber, Milano, 10 Gennaio 2023

 


Quando parte 'Blessed', la prima canzone ma dopo poche parole Lucinda si ferma confusa in preda a chissà quali fantasmi, si capisce che sarà un concerto tutto in salita. Fortunatamente il caos mentale (oltre alla deambulazione sofferente lascito dell'ictus che l'ha colpita un paio di anni fa) dura circa un quarto d'ora  infarcito da colpi di tosse, soffiate di naso, strofe e attacchi  di canzoni sbagliate e così anche l'esecuzione della mia tanto attesa 'Drunken Angel' va a farsi "benedire". I suoi bravi musicisti con Doug Pettibone in prima fila cercano di metterci una pezza. A questo punto o va tutto in vacca, ciao e arrivederci, o ci si aggrappa a un miracolo. E qualcosa avviene veramente. Come quelle partite di calcio che si mettono subito male dopo il fischio d'inizio: dopo pochi minuti perdi due a zero e giochi pure in dieci perché un giocatore viene espulso. Ma con il cuore e la caparbietà a fine partita porti a casa un pareggio che vale come una vittoria. Lucinda Williams da metà concerto e soprattutto nel finale rinasce e pareggia ciò che ha fatto, o non  ha fatto all'inizio. La sua voce, a tratti straordinaria, e l'esecuzione di 'Essence', 'Copenhagen', 'Honey Bee' e 'Joy' pareggiano il conto. Dalla truffa al trionfo il passo è stato breve ma sudato. Un po' cone nella vita e stasera Lucinda ce l'ha messa tutta davanti agli occhi la sua vita, le sue debolezze, il suo fisico, il suo cervello e il suo cuore. 

Ecco, io il finale non lo avrei regalato a Neil Young, ma sono particolari e Rockin' In The Free World sembra messa lì come atto simbolico e Lucinda Williams con la mano in alto e le dita a "v" di vittoria con il teatro in piedi è il fotogramma che mi porto a casa di una serata sofferente che verrà ricordata, non come una delle migliori ma una delle più umane certamente.

Setlist

Blessed

Protection

Right in Time

Stolen Moments

Drunken Angel

Lake Charles

Big Black Train

Born to Be Loved

Copenhagen

All I Want

Essence

Pray the Devil Back to Hell

Honey Bee

Joy

Righteously

Rockin' in the Free World



domenica 8 gennaio 2023

THE LU SILVER STRING BAND live@Blah Blah, Torino, 5 Gennaio 2023



Primo concerto del 2023 all'insegna del puro rock’n’roll. Un battesimo ben'augurante, speriamo, con una delle migliori band italiane del settore.

Lu Silver (Luca Donini), una carriera trentennale alla spalle, divisa tra gli Small Jackets che lasciò nel 2010 per intraprendere una carriera solista che a sua volta si divide in due facciate "ma della stessa medaglia" come dice lui. E ieri sera le ha presentate entrambe in un concerto diviso in due set.

La prima faccia, quella "soft rock" del suo album solista Luneliness, frutto del lockdown, è più intimista e legata al folk, al country e a un certo west coast sound anni settanta. Ad accompagnarlo i fidi El Xicano, flemmatico, al basso, il tarantolato Ale Tedesco alla chitarra e Riccardo Bufalini alla batteria. Una maniera diesel per scaldare il pubblico in attesa della seconda faccia rockista ed elettrica. Veloce cambio di batteria ed ecco arrivare la furia di Danny Savanas direttamente dagli Small Jackets.


Un set incendiario quello dei romagnoli che ripercorre l'ultimo album intitolato citando e rubando  dal canzoniere di Neil Young: Rock'N'Roll Is Here To Stay, uscito nel 2020 per la GoDown Records, è il loro secondo disco.

Lu Silver è carismatico e il boogie rock'n'roll che esce instancabile è un treno in corsa che ha poche soste, quando lo fa, si ferma nelle più calde stazioni rock popolate da Faces, Status Quo, Stones, Quireboys, Grand Funk e il caldo southern rock americano. Un set viscerale e vibrante con un pubblico partecipe e pure il sipario per una sorpresa "indigena" sul palco. Torino, "la Detroit d'Italia" come Lu Silver apostrafa la città, ha risposto alla grande.

In scaletta anche 'Hard Road' dell'australiano Stevie Wright "papà non accreditato" degli AcDc e una elettrica e sempre terremotante Ramblin' Rose degli MC 5 posta in chiusura.

Buon 2023!


venerdì 6 gennaio 2023

RECENSIONE: IGGY POP (Every Loser)

IGGY POP   Every Loser (Atlantic Records/Gold Tooth Records, 2023)


il primo disco del 2023

Parlando del suo ultimo album Free uscito nel 2019 Iggy Pop disse: "questo album in qualche modo mi è capitato e ho lasciato che accadesse". Ne venne fuori un disco amaro, contemplativo, meditativo, dal carattere musicale vicino al jazz.

Ora non so se si potrà dire la stessa cosa di queste nuove undici canzoni (ma due sono brevi interludi parlati) visto il dispiegamento di forze che c'è dietro. In regia c'è il produttore e musicista Andrew Watt, il novello Rick Rubin che non si fa problemi a passare dal pop di Justin Bieber e Ed Sheran a leggende del rock. Facendo incetta di premi. Sue sono le flebo che hanno tenuto in piedi gli ultimi due dischi di Ozzy Osbourne. E visto che dietro si è creato un bel impero, ecco la sua etichetta e alcuni musicisti come Chad Smith e Duff McKagan che porta sempre con sé (c'erano anche sull'ultimo Patient Number 9 di Ozzy). In più per non farsi mancare nulla  una parata di stelle del rock che comprendono Travis Barker dei Blink 182 , Stone Gossard dei Pearl Jam, l'ex chitarrista dei Red Hot Chili Peppers Josh Klinghoffer, Dave Navarro ed Eric Avery dei Jane's Addiction e Taylor Hawkins dei Foo Fighters forse in una delle sue ultime performance in studio di registrazione.

"Persone che conosco fin da quando erano bambini e la musica vi farà impazzire" ha lasciato detto un raggiante Iggy Pop.

Quando attacca 'Frenzy' però capisci che Iggy Pop si è lasciato alle spalle lo sguardo contemplativo sul trascorrere del tempo, quasi una dichiarazione di sopraggiunta vecchiaia che permeavano gli ultimi dischi (toccando il top con Post Pop Depression, il progetto insieme a Josh Homme) per riprendersi, fosse anche solo per l'ultima volta, la paternità di certi suoni. Dentro ha ancora qualcosa da sputare fuori e si fa aiutare volentieri da Watt, la sua chitarra e la sua nutrita squadra.

 Every Loser saccheggia qua e là nella sua carriera con gli Stogees e solista. Non lo sentivamo così dentro a certi suoni dai tempi di Skull Ring, un disco che abbracciava il punk ma che poi non fu così memorabile. Meglio tornare indietro ai tempi di Naughty Little Doggie (1996) e del sempre bistrattato Beat Em Up (2001).

Le prime parole che si sentono quando attacca 'Frenzy', un rock contagioso e ululante ma abbastanza scontato con cori da arena rock, è "got a dick and two balls"!  Come tutti noi uomini ma lui è Iggy Pop. Naturalmente a dispetto dei suoi 75 anni sembra funzionare ancora tutto bene.

Tra assalti rock'n'roll in stile Detroit sound come 'Modern Day Rip Off', che ricorda da vicino Alice Cooper, il punk tout court di 'Neo Punk', i suoni eighties con reminiscenze New wave di 'Strung Out Johnny' e 'Comments' (una riflessione sui social media), a colpire nel segno sono però le canzoni dove la sua vecchia voce da crooner si piazza davanti a tutto e la musica dietro si quieta: 'New Atlantis' (un'ode a Miami), la ballata acustica 'New Morning', tra i picchi melodici e malinconici del disco e la finale 'Regency', la più lunga e sfaccettata che parte lenta per poi aprirsi ad una invettiva contro un certo potere imperante.

Non farà compagnia ai suoi grandi dischi ma Every Loser suona comunque fresco e battagliero per essere uscito da un settantacinquenne che in vita ne ha viste di tutti i colori e con le ultime uscite sembrava godersi la meritata pensione dei rocker crogiolandosi su territori e colline più dolci e meno aspre.

Un disco spassoso e divertente per aprire un nuovo anno di musica.





lunedì 2 gennaio 2023

RECENSIONE: MESSA (Close)

MESSA  Close (Svart Records, 2022)


davanti a una scelta: ecco il mio disco del 2022

Ecco il disco che smentisce tante persone: chi con troppa facilità ripete "non escono più dischi rock con qualcosa da dire", chi "in Italia non si fa rock", chi "ascolto solo cose vecchie che tanto...", chi "il rock italiano non sfonda all'estero", chi "i giovani non suonano più rock". 

In giorni dove i confini sono teatro di sanguinose atrocità nel nome della supremazia è bello rifugiarsi in dischi come questo. Sì, i Messa sono italiani e qualcuno dall'alto del loro stupendo terzo album Close li ha innalzati a suprema eccellenza tutta italiana. Certo, fa piacere. Però c'è veramente di più. Lo si capisce osservando la danza tribale Nakh delle donne nordafricane nella bella foto di copertina (e libretto compreso): agitano i capelli, muovono il collo, sono in movimento. Ecco: "movimento senza confini" sono parole che ben si adattano a questo disco e alla filosofia "aperta" della band. I Messa hanno fatto un lavoro straordinario: partendo dalla base heavy doom non hanno posto limiti (come la voce della brava Sara Bianchin) alla loro visione musicale che serpeggia senza guardare l'orologio tra il blues americano e il folk africano e mediorientale, il prog anglosassone, la psichedelia e il jazz (qui sale in cattedra il chitarrista Alberto Piccolo) in un vortice emozionale che non respinge ma ingloba. Dove luce e oscurità, occulto e sensualità, mistico e terreno, drammaticità e nostalgia flirtano in continuazione senza dare riferimenti, senza prevaricazioni. Dai territori carsici del loro Veneto ai deserti sahariani e poi ancora in qualunque parte voi vogliate.

I loro live poi, sono un'esperienza da vivere fino in fondo: catartici, ispirati, coinvolgenti anche per orecchie non avvezze a certi suoni. Se entri in sintonia con il loro vortice è fatta. Ne esci solo a concerto finito. Forse. È lì che vincono e convincono. La capacità innata di assorbire cinquant'anni di rock  sprigionandoli fuori in modo originale è virtù rara concessa a pochi. Sara tocca vette vocali con disarmante facilità, Alberto con la chitarra spadroneggia passando dal doom al jazz con tutto quello che c'è in mezzo (sua maestà il blues), il basso distorto e psichedelico di  Marco e la batteria di Rocco disegnano lo scenario intorno.

Si insomma, se l'Italia avesse la cultura rock di altri paesi europei, i MESSA sarebbero  venerati come si deve. Un patrimonio da difendere con passione ma con ancora tutta una carriera davanti.

Coraggiosi, interessanti, sorprendenti.





domenica 1 gennaio 2023

32 DISCHI per ricordare il mio 2022




LEE FIELDS - Sentimental Fool

KEVIN MORBY - This Is A Photograph

BUDDY GUY - The Blues Don't Lie

THE HELLACOPTERS - Eyes Of Oblivion

MEGADETH - The Sick, The Dying And The Dead!

JONATHAN JEREMIAH - Horsepower For The Streets

JOHN MELLENCAMP - Strictly A One- Eyed Jack

JACK WHITE - Entering Heaven Alive

THE AFGHAN WHIGS - How Do You Burn?

MADRUGADA - Chimes At Midnight

THE BLACK ANGELS - Wilderness Of Mirrors

THE HANGING STARS - Hollow Heart

SCORPIONS - Rock Believer

MICHAEL MONROE - I Live Too Fast To Die Young!

FANTASTIC NEGRITO - White Jesus Black Problems

JOHN DOE - Fables In A Foreign Land

KING'S X - Three Sides Of One

BEN HARPER - Bloodline Maintenance

MESSA - Close

EDDA - Illusion

NEBULA - Transmission From Mothership Earth

PAOLO NUTINI - Last Night In The Bittersweet

TEARS FOR FEARS - The Tipping Point

MANUEL AGNELLI - Ama Il Prossimo Tuo Come Te Stesso

THE CULT - Under The Midnight Sun

KREATOR - Hate Uber Alles

OZZY OSBOURNE - Patent Number 9

MICAH P.HINSON - I Lie To 

TOM PETTY And The HEARTBREAKERS - Live At The Fillmore 1997

JOHN NORUM - Gone To Stay

OLD CROW MEDICINE SHOW - Paint This Town

ZZ TOP - Raw

martedì 27 dicembre 2022

RECENSIONE: STEVE RUDIVELLI (Calypso Gin)

STEVE RUDIVELLI  Calypso Gin (2022)


un cocktail a mezzanotte

È stato un anno "strano" per me questo 2022. Pieno di persone e cose che hanno sostituito persone e cose. Un gioco di scambi che non ho ancora messo bene a fuoco. Sicuramente non noioso ma...c'è sempre un ma a rompere i coglioni.

Tanti chilometri come sempre, a piedi e in auto, perché ho imparato che nessuno ti viene incontro. Devi sempre muovere il culo e l'importante è non venderlo mai.

E combinazione l'anno si chiude con questo "piccolo" disco di Steve Rudivelli. Combinazione perché Steve, "il cowboy" della Brianza è un personaggio difficile da mettere a fuoco un po' come il mio 2022. Perché per incontrarlo devi andargli tu incontro nel suo Texas brianzolo. L'ho fatto una volta ma ritornerò. Lo prometto e non è una minaccia. Sicuramente un piacere.

Quando scrivo "piccolo", invece,  è perché Steve si fa bastare ancora l'antica magia artigianale: non rompe le palle a nessuno e registra i suoi dischi con la passione di sempre. Calypso Gin è il fratello del precedente Gasoline Beauty (2021) che a sua volte era fratello del precedente Metropolitan Chewingum (2020). "Un disco alcolico" mi ha scritto Steve. Non avevo dubbi.

Tante canzoni me le ha mandate in anteprima in questi mesi e per questo lo ringrazio pubblicamente.

Io aggiungo un disco dai tratti malinconici che fa battaglia con la spiaggia di copertina. E quando il mare c'è, è quello più triste e malinconico dell'inverno. 


Un disco folk di armonica e chitarre acustiche, ad aiutare le ficcanti incursioni delle chitarre elettriche di Andy D ('Tabacco Kentucky'), che mi ha riportato in mente quelle serate invernali di provincia, proprio come quella di oggi mentre scrivo, avvolte nella nebbia trafitta dalla luce gialla proveniente dalla vetrina di un bar tabacchi (in un paese "c'e sempre un bar tabacchi" canta) aperto fino a tarda sera: c'è chi gioca a carte, chi ancora a scacchi. Chi ordina due Negroni, chi compra tabacco, ci sono bicchieri vuoti e mezzi pieni, c'è chi indossa stivali "made in Mexico" e chi un pullover. Non fatevi illusioni "esotiche": siamo a Oreno city, frazione di Vimercate. Ogni mondo è paese. E il paese è bello, tranquillo e puoi tenere in mano un bicchiere con più scioltezza.

Le atmosfere da Sergio Leone di 'Caterina Malibu', quelle esotiche di 'Bikini Pub', quelle da frontiera americana alla Tom Russell di 'Mexico Boots', le atmosfere da Nashville Skyline dylaniano che si fondono con i cantautori milanesi in 'Timo It'. Jannacci meets Dylan.

Il disco si conclude con una serenata d'amore chitarra e armonica ('Serenade Of Love') che non può che essere di buon auspicio a tutti per un sereno 2023. "...la luna è sempre stanca, la luna è sempre lì da lunedi" canta Steve. Guardo fuori dalla finestra per cercare 'sta luna: c'è solo nebbia stasera, che fregatura la vita, ma è bello ugualmente.



RECENSIONE: STEVE RUDIVELLI - Metropolitan Chewingum (2020)

domenica 25 dicembre 2022

RECENSIONE: MICAH P. HINSON (I Lie To You)

MICAH P.HINSON  I Lie To You (Ponderosa Records, 2022)


punto e a capo

Così, a conferma di quanto le classifiche di fine anno contino veramente poco se fatte già a Novembre, il nuovo disco di Micah P Hinson esce a Dicembre e pretende tutte le attenzioni possibili. Uno, perché l'autore titorna a incidere dopo una pausa di quattro anni; due, perché c'è molta Italia dentro (anche se fare i patrioti non è mai bello, figuriamoci di 'sti tempi con i politici che girano in giaccia mimetica); tre, perché è un disco da groppo in gola che rischia di mandare di traverso il gran cenone di Natale e dare un cazzotto ben calibrato a tutto il finto perbenismo di questi giorni di festa. Dopo il sei Gennaio si torna alla "finta normalità" tanto vale non perdersi in illusioni e rimanere a combattere nella dura normalità.

A proposito, da oggi in avanti 'Please Daddy, Don't Get Drunk This Christmas', la canzone natalizia anomala di John Denver avrà la sua versione firmata da Micah P. HInson.

Nato e finito nel giro di una settimana in Irpinia, questa estate quando il cantautore è stato ospite di Vinicio Capossela allo Sponz festival, Lie To You, che esce per la Ponderosa Records, è un disco confessionale pieno di passato ma anche di visioni proiettate nel presente, con la voce profonda che scava nella vita  riportando a galla attimi, rimpianti, sensazioni, fallimenti e tutti quei demoni che hanno accompagnato la sua vita, dall'adolescenza in avanti. Una voce che pressa sulla musica tirata all'osso e preparata con dovizia da Asso Stefana che oltre a metterci la sua "benedetta" chitarra, produce il tutto e chiama a raccolta musicisti come Raffaele Tisero (la sua viola d'amore è un punto cardine su tutto il disco), Zeno De Rossi (batteria), Greg Cohen (contrabbasso).

Arrangiamenti d'archi che tessono trama e ordito di melodie da cui scaturiscono candide  lenzuola, leggere e svolazzanti su cui si adagiano grevi le parole di Hinson. 

Alla cupa, ipnotica e struggente 'What Does It Matter Now', uno dei momenti più intensi di questa mezz'ora di canzoni si contrappone il banjo della folkish 'Wasted Days And Wasted Nights'.

Agli scatti elettrici di 'Find Way Out' risponde 'People', opera di David Bazan che Hinson fa sua apportando alcune modifiche.

E se nel lento valzer di 'Carelessly' trova solo ora il coraggio di esplorare una triste parentesi del suo passato (l'aborto di una sua ex ragazza), "essendo giovani umani, abbiamo preso misure che, all'epoca, capivamo poco: ha abortito. Solo nella forma di una canzone sono stato davvero in grado di esprimere le mie emozioni e i miei pensieri sull'argomento" ha raccontato recentemente, in  '500 Miles' sembra calarsi nelle American Recordings di Johnny Cash, con l'unica differenza che Cash all'epoca ultra sessantenne entrava nell'ultima fase della sua vita mentre Micah P Hinson di anni ne ha solo quarantuno e prima dei vent'anni pare abbia già vissuto quattro vite.

Un disco che chiude la parentesi dei suoi primi quarant'anni come annuncia in 'Ignore The Days', l'unica veramente proiettata nel suo nuovo futuro.

"Come puoi progredire come essere umano nel futuro se tutto ciò che stai facendo è scrivere di tutta la merda che ti incatena al passato?". Una dichiarazione che sa di nuova rinascita.

(Rimane il mistero del perché  una canzone come 'You And Me', voce e pianoforte sia reperibile solo in versione digitale).






sabato 17 dicembre 2022

RECENSIONE: CORY BRANAN (When I Go I Ghost)


CORY BRANAN   When I Go I Ghost (Blue Elan Records, 2022)



Mi è sempre piaciuto Cory Branan, uno dei migliori cantautori americani di quella generazione di quasi cinquantenni che seguendo le orme dei grandi songwriter a stelle e strisce è riuscita creare una piccola scena. Branan non è certamente tra i più prolifici: questo è solo il suo sesto album e esce a cinque anni dal precedente Adios, che non era un addio ma un arrivederci a data da destinarsi. Ci siamo.

Nativo della terra del Misssissippi, figlio di un batterista, inizio carriera in una metal band e folgorazione cantautorale ascoltando John Prine da cui eredita quel modo di scrivere disincantato, la cinica lettura della vita con in primo piano i sentimenti compresi cuori spezzati, malesseri e storie intriganti, tanto che i Lucero lo citarono in una loro vecchia canzone 'Tears don't Matter Much' contenuta in That Much Further West(2003).

Per questo disco ha scelto undici canzoni dalle cinquanta che aveva a disposizione, lascito del tanto tempo creato dalla pandemia.

"Brani che parlano di dubbi esistenziali, della perdita di persone care, di depressione e di ansia generalizzata" dice. Per farlo mette in campo tutto il suo estro musicale che tocca sempre con disinvoltura il rock dalle influenze springsteeniane come avviene nell'apertura 'When in Rome, When in Memphis' che ospita  Jason Isbell e Brian Fallon. Per chi ama Springsteen consiglio però l'album Mutt uscito nel 2012, forse il suo migliore. Su di giri anche la tesa 'When I Leave Here'  e una 'One Happy New Year' che gravita invece dalle parti di John Mellencamp. 

Mentre in 'O Charlene' escono tutte le influenze ereditate da John Prine, 'Angels in the Details' e 'That Look I Lost' si muovono sinuose nel soul. A conferma della sua grande bontà di scrittura che ama spaziare nei generi, a una ballata notturna e malinconica come 'Pocket Of God', certamente tra le più riuscite del disco, contrappone due pezzi dal retrogusto pop come 'Waterfront', cantata insieme alla cantautrice Garrison Starr e 'Come on If You Wanna Come'.

Branan si conferma un cantautore randagio e poco omologato, libero di muoversi nello scacchiere musicale americano senza troppi obblighi di tempo e generi.




venerdì 9 dicembre 2022

VOIVOD live@Bloom, Mezzago, 6 Dicembre 2022

 

"Siete leggenda", grida uno dietro di me a fine concerto quando i canadesi a centro palco distribuiscono strette di mano e ringraziamenti a un pubblico caloroso. Sono realmente commossi per l'accoglienza e per come è andata la serata. Lo si capisce dalle loro facce.

Perché i Voivod non frequentino i grandi palazzetti del rock rimane uno dei tanti misteri della musica pesante (e non). Ci sarebbero tante risposte per capire questo mistero ma guardandoli questa sera sul palco, divertirsi come dei ragazzini alle prime armi si capisce tutto, anche che a loro, pur con una carriera lunga quarant'anni piena di attestati di stima da parte di critica e pubblico, interessa solo stare lì davanti  e suonare. La storia e i loro dischi parlano per loro. Non  c'è bisogno d'altro.

E allora mi capita di osservare spesso Michel "Away" Langevin dietro alla sua batteria essenziale e pratica, sorridere in continuazione mentre suona, si diverte ancora una cifra, potrebbe tirarsela come la più celebre delle rockstar e invece puoi incontrarlo dentro ai cessi del Bloom, timido, pacato e riservato. Denis  "Snake" Belanger potrebbe invece essere il compagno di bevute ideale, il mattacchione della compagnia, con la battuta sempre pronta, le mosse da scemo e le smorfie pure, Daniel "Chewy" Mongrain (chitarra) e Dominique "Rocky" Laroche (basso) sono gli uomini affidabili su  cui puoi contare sempre, rispettosi dei ruoli che stanno coprendo e di chi è venuto prima di loro. Denis Piggy D'Amour è stato ricordato, come sempre.


I Voivod hanno sempre avuto uno strano destino, quasi maledetto, che però è sempre stato combattuto, avendone in cambio l'assoluta certezza di essere uno dei gruppi più inimitabili della scena rock. I Voivod hanno avuto il merito artistico di elevare il metal, portarlo in un altra dimensione, a volte troppo avanti ed "intelligenti"per essere capiti ma alla fine dei conti irrangiungibili ed inimitabili.

Hanno elevato il metal, l'hanno complicato così tanto che l'unico modo per presentarlo al pubblico è quello di svestirlo di certi luoghi comuni, di abbandonare certe pose da duri e puri e giocare tutto sulla spontaneità, la generosità e l'umiltà. Ai loro concerti ci si diverte. E poco importa se suonano la vecchissima e tirata Voivod, le nuove canzoni del loro ultimo album Synchro Anarchy (tra i dischi dell'anno come ogni anno che esce un loro disco) o quelle di album epocali come Nothingface, Dimension Atross, Angel Rat o Outer Limits, la loro carriera è sempre stata livellata sull'eccellenza. Non hanno scheletri da nascondere.

Ma poi, chi altri si è impossessato di una canzone dei Pink Floyd ( Astronomy Domine) così bene da farla propria?

Setlist

Experiment

The Unknown Knows

Tribal Convictions

Synchro Anarchy

Iconspiracy

The Prow

Holographic Thinking

Overreaction

Pre-Ignition

Sleeves Off

Astronomy Domine 

Voivod

Fix My Heart




sabato 3 dicembre 2022

RECENSIONE: TOM PETTY And The HEARTBREAKERS - Live At Fillmore 1997

TOM PETTY And The HEARTBREAKERS  Live At Fillmore 1997 (Warner Records, 2022)



il concerto infinito...

Abbiamo assistito a tanti concerti nella nostra vita, così tanti da riuscire ad acquisire quella capacità che ti fa capire quando gli artisti e le band sopra al palco si divertono o stanno solamente suonando per contratto, per portare a casa l'agognata pagnotta: tanto domani siamo in un'altra città. "Un'altra città, un altro posto, un'altra ragazza, un'altra faccia" ringhiava Lemmy. "Caffè al mattino, cocaina al pomeriggio" gli fa eco Jackson Browne. È la routine che serpeggia, in qualche modo deve essere spezzata e alleviata. 


Sbirciare le scalette da già un'idea: se è sempre la stessa, sera dopo sera, la noia può far visita. Figuriamoci se la città è sempre la stessa, il palco anche e l'hotel dove si alloggia, il Miyako Hotel, pure. 

Al Fillmore di San Francisco in quelle venti date consecutive sold out comprese tra il 10 Gennaio e il 7 Febbraio del 1997 non c'era nessuno di noi (se sì fatevi avanti e raccontate per dio!) ma il divertimento è palese, si sente, ti entra sotto pelle anche solo ascoltando le canzoni senza vedere gli sguardi complici dei musicisti. E la scalette furono messe giù sul momento (per un totale di 85 canzoni eseguite), sera dopo sera, (per la felicità dell'ultimo entrato in formazione, il batterista Steve Ferrone), così piene di tanti devoti  omaggi alla musica (da Bob Dylan ai Kinks, da J.J.Cale agli Everly Brothers, da Bill Withers a Chuck Berry, dagli Stones a Booker T. & the M.G.’s), una narrazione avvincente ed esaltante di tutte le corde che può solleticare, toccare e stringere forte il rock’n’roll.

Gli Heartbreakers uniscono i puntini che separano John Lee Hooker dai Byrds ( ospiti sul palco il bluesman e Roger McGuinn) compreso tutto quello che sta in mezzo (peccato non vi sia la testimonianza dell'altro ospite Carl Perkins), agli Heartbreakers, invece, il compito di proseguire a tratteggiare la strada futura, almeno fino a quando hanno potuto, fino alla prematura morte di Petty.

Ed è stato già tanto. Ma tanto è anche quello che potevano ancora dare. 

Un gioco di squadra che non ha boss (anche nei dischi "solisti" di Petty gli Heartbreakers in qualche modo c'erano sempre). E quella solida unione la si percepisce guardando e ascoltando quella American Girl così straziante che sta girando in rete in questi giorni, eseguita da Benmont Tench e Mike Campbell, solo piano e chitarra. Tom dove sei?

E tutto sembra riportare a quel club a Gainesville in Florida quando Tom, Mike e Benmont nel 1970 erano la resident band di un locale. Iniziò tutto lì. Questa è la chiusura del cerchio o forse meglio ancora la continuità con in più l'esperienza.

Paragoni e assolutismi li lascio volentieri ad altri, perché ho hai ascoltato tutti i live della storia o si finisce per tirare in ballo i soliti cinque titoli. (A proposito: ma perché nessuno cita mai live di band hard rock e heavy?).

L'importante è che queste date abbiano smesso di circolare nel sottobosco dei fan sottoforma di bootleg ma abbiano incominciato a volare sopra alle teste di tutti, encomiabile esempio di cosa voglia dire suonare sopra a un palco. Palestra, manifesto, enciclopedia per chiunque si avvicini al rock'n'roll.

"Ho pensato che il Fillmore sarebbe stato il posto migliore per farlo, perché il pubblico qui è molto più indulgente nel permetterti di sperimentare. E si è rivelato vero. Sono semplicemente venuti con noi, al punto che ci siamo sentiti molto a nostro agio in quel lungo periodo. Penso che il lungo termine sia stata una grande idea, perché non stavamo promuovendo nulla e non avevamo motivo di farlo, a parte il fatto che volevamo farlo" disse in una vecchia intervista Petty.

E poi c'è una cosa che Tom Petty, suo malgrado mi ha insegnato: ogni lasciata è persa. Me lo persi stupidamente a Lucca nel 2012. E il finale è stato quello che è stato.

Di questo disco avevo ordinato la versione con due CD. Qualcosa mi diceva che me ne sarei pentito, nuovamente: l'ho subito cambiata con il cofanetto da quattro dischi. Al diavolo anche il vile denaro. Ogni lasciata è persa e questo è veramente imperdibile.