NEIL YOUNG Le Noise (Reprise records, 2010)
Le Noise va ascoltato di notte, quando il buio si impossessa della vista e rimaniamo solitari con i nostri dubbi e pensieri. Le luci delle case si spengono una ad una, lasciando alla luna il compito di indicare la via ai solitari vagabondi in strada. Quando le azioni della giornata sono già archiviate nel cassetto del passato e si fanno i conti con le future. Soli, come questo disco che emana un fascino particolare è stato registrato. Questa volta Young ha fatto centro, dopo la delusione di album come l'ultimo Fork in the road uscito solo un anno fa, sì istintivi, come nel suo classico modo di operare ma in qualche modo poveri se confrontati con il passato del canadese. Ci voleva la mano di un produttore di grido come Daniel Lanois per dare, ancora una volta, una sterzata alla carriera di Young. Questo sarà un disco che verrà ricordato alla pari dei suoi migliori lavori. Young e Lanois sono riusciti nel costruire qualcosa che il grande canadese non aveva mai fatto uscire durante i suoi quarant'anni di carriera. Una simbiosi che ha funzionato.
Di esperimenti Young ne ha sempre fatti, mettendo in discussione ogni volta la sua carriera ma seguendo sempre il proprio istinto, dischi registrati e mai pubblicati negli anni settanta, i criticati e bizzarri dischi dei primi anni ottanta come Re-ac-tor e Trans a dischi di pura sperimentazione e noise come Arc o la colonna sonora di Dead man.
Neil Young da solo e la sua chitarra, acustica ed elettrica. Tutti qua gli ingredienti su cui Lanois ha lavorato.
Registrato nella casa del produttore, questo è un disco chitarristico al cento per cento, tutto ciò che si sente è stato prodotto dalla chitarra di Young: riverberi, note basse, rumori ed effetti che costruiscono canzoni su cui si stagliano i testi di Young. Canzoni per buona parte nate acustiche e trasformate in elettriche, un esperimento che ha dato buoni frutti. L'amore e la consapevolezza di non poter invecchiare senza la persona amata, dopo una vita in cui molti amici non ci sono più in Walk with me. E' un disco in cui Young mette a nudo la sua vita, l'amore verso la compagna Pegi, da trent'anni al suo fianco, il rifuggire alla vecchiaia (argomento che si porta dietro fin dalla gioventù) e lo spettro della morte che come avvenuto in passato, gli ha tolto molti amici, non ultimo il fedele compagno di band Ben Keith, la rabbia verso il mondo in It's an angry world dove la chitarra è tagliente e si staglia chiara e forte in mezzo al nulla, così come in Sign of Love e Someone's going to rescue you.
Notte e brividi, ascoltando Peaceful Valley Boulevard, quasi una preghiera affinchè qualcuno si accorga di cosa sta succedendo in terra o l'acustica Love and war, dove Young si accorge di aver passato una vita a cantare di amore e guerra quando le persone continuano in modo perpetuo a pregare volontariamente o meno per amore e guerra.
Poi Young tira fuori dai cassetti una piccola autobiografia in musica che si ferma nel 1975, anno in cui fu composta The Hitchhicker. Chitarra elettrica , voce effettata ed echi, piccolo capolavoro tra confessioni di paranoia e droga. Il tutto si conclude con Rumblin', toccanti parole metaforiche tra terremoti terrestri e amore.
Le otto canzoni di Le noise saranno accompagnate da altrettanti video , in bianco e nero e suggestivi , girati dal regista Adam Vollick e che sembrano rappresentare alla meglio le canzoni in immagini. Ancora una volta Young sembra indicare una strada, ottenendo il massimo con uno stile minimale e una concezione artistica ed ispirazione che lo porta ogni volta a mettere in musica le sue idee, andando spesso incontro a critiche che questa volta ne sono sicuro non arriveranno. Prendere o lasciare.
mercoledì 29 settembre 2010
sabato 25 settembre 2010
RECENSIONE: NO GURU (Milano Original Soundtrack)
NO GURU Milano Original Soundtrack (Bagana Records, distrib. Fnac,2010)
Ci eravamo lasciati undici anni fa alle Bahamas, con l'oceano che a volte dorme e con la paura della nuova società del duemila e ci ritroviamo qui in mezzo ad una tangenziale congestionata dal traffico a festeggiare questa prima decade del nuovo secolo in mezzo a luci, ombre e rumori molesti, irreali silenzi mattutini e illusorie e tentatrici luci al neon accese al primo buio serale. E' valsa la pena aspettare perchè questo disco si riprende in mano, in un solo colpo, la migliore scena rock musicale che negli anni novanta ha infestato lo stivale. Come diversamente aspettarsi da quattro membri dei Ritmo Tribale (Scaglia, voce e chitarra, Briegel al basso, Marcheschi alla batteria e Talia alle tastiere) più Xabier Iriondo, chitarra dei primi e inarrivabili Afterhours e con la presenza del sax impazzito e disturbante di Bruno Romani ex componente dei friulani Detonazione . Un ponte ideale tra la vecchia guardia, con un occhio puntato alla New York di fine anni settanta e alla new wave dei primi ottanta e i nuovi italiani che avanzano, mi vengono in mente Zu e Il Teatro degli Orrori.
Ci vuole coraggio a reinventarsi e rimettersi in gioco con nuove idee, nuovi suoni e nuovo nome, NO GURU, quando il tuo passato è marchiato sotto un monicker indelebile come Ritmo Tribale. Ci avevano già provato con il loro ultimo disco Bahamas del 1999, a cambiare coordinate, ma se allora i suoni erano liquidi e fluidi con forte venature di elettronica e accenti progressive, questa volta ci si trova schiavi e inglobati dentro ad un vortice sonoro fatto di chitarre taglienti con i "germi" del professor Xabier Iriondo sparsi lungo tutte le tracce, semi industriali, sax noise che vagano creando quel caos allucinante da coda delle ore sei in tangenziale ovest a Milano.
Milano Original Soundtrack nasce in una città che fa da base per ogni singolo brano, la bellezza del viverci che può diventare stress, paranoia, soffocamento, con la musica come grande e unica via di fuga.Alienazione che nasce nel guardare al passato, agli sbagli fatti senza sapere il domani che ci attende in Ieri è un altro giorno , traccia post punk messa in apertura tanto per inquadrare il discorso.
Vivere oggi, vuol dire anche provare a fare i conti con un sentimento come l'amore, Amore mutuo, bilanciare la frenesia del vivere quotidiano con un sentimento che per quanto nominato e tirato in causa continuamente, rimane ancora troppo sconosciuto, rischiando molto spesso di perdere occasioni (...Quanto devo e quanto do...Amore mutuo...La tua punizione ..C'è un buco nel mio polmone ...ma non si placa...) e finendo ancora più spesso per pagare scotto.
Ossessione, tensione e urgenza è palpabile in Non si passa (Malattia mentale la sento che cresce e non lo faccio vedere temo la comunità della vita matrimoniale) e nei ganci indirizzati alla new wave più oscura degli anni ottanta. La quasi industriale Cammino con le mani, sicuramente un successo nei prossimi live e canzone simbolo del progetto No Guru, la splendida cover di Complications dei Killing Joke, per l'occasione riscritta da Scaglia che diventa Complicato e la citazione dei Joy Division in Mare Divano, sax, chitarre e ricordi da uccidere, non sono certamente casuali. Angosce, cercate e subite. Il primo singolo Fuoco ai pescecani, accompagnato da un originale video è un buon lasciapassare che ti penetra piano piano la mente e il cuore.
Lo sballo "bianco" preferito della metropoli Milano nel quasi funk di Neve(...una spirale bianca è entrata dentro la mia testa e mescola tutto in un'unica enorme minestra...), il divertissement strumentale di Perle ai porci che ci proietta in atmosfere care a certi b-movies italiani anni settanta che tanto piacerebbero ai Calibro 35.
E se Il deserto degli dei (...ho una bomba nel cuore e i piedi sul ghiaccio...), mi riporta in mente gli ultimi Ritmo Tribale senza Edda, la finale Bassa fedeltà è un bell'esperimento che può candidarsi ad essere una canzone beat degli anni duemila.
Un disco che non ama catalogazioni, che fugge in tutte le direzioni ma che arriva là dove si è prefissato di arrivare, non facile, non commerciale ma che alla fine arriva anche con la difficoltà dei suoi cambi di tempo dispari, le sue divagazioni quasi jazzistiche, le sue citazioni, i suoi rimandi e i suoi testi per nulla scontati e banali.
Dopo Edda l'anno scorso e i No guru di quest'anno, la famiglia tribale si è riunita e ha dimostrato la forza che la vecchia guardia può ancora sprigionare. Il leone, a fine disco, può continuare a ruggire, fiero.
vedi anche RECENSIONE: RITMO TRIBALE-Bahamas (1999)
vedi anche RECENSIONE: EDDA-Odio i vivi (2012)
domenica 19 settembre 2010
EELS: recensione concerto Alcatraz, Milano 15 Settembre 2010
C'era attesa per questo tour che doveva presentare sul palco la trilogia di dischi usciti nel corso dell'ultimo anno che hanno dimostrato l'assoluta prolificità e libertà di movimento della one man/band, incurante di critiche e leggi del mercato.
L'uomo lupo è tornato, con i suoi quattro lupacchiotti al seguito. Dopo aver raccontato al mondo le sue eterne disgrazie attraverso dischi, libri e film ed essere stato tacciato di perenne depressione tramutata in tristezza cosmica, con l'ultimo disco voleva dimostrare al mondo che anche l' hombre lobo, Mark Oliver Everett , alias Mr.E sa godere delle bellezze della vita. Allontanare i tempi dove paranoie, violenze e inni ai farmaci come cure disintossicanti dai problemi della psiche e sostituirli con odi di vita raccontando di canarini e ragazze spettacolari. Per chi lo aspettava al varco ecco la dimostrazione sopra ad un palco.
Palco, che in un Alcatraz ancora semivuoto, ospita l'improbabile esibizione di un ventriloquo e il concerto della giovane, bionda, bella e anche brava Alice Gold, inglese a cui spetta il diffile compito di traghettare un pubblico sempre più numeroso verso l'agognata meta. Alice sta attraversando l'Europa con il suo camper per promuovere il disco in uscita e lo fa presentandosi sola sul palco in compagnia della sua chitarra elettrica. Finita la sua esibizione c'è ancora il tempo per sorbirsi quasi mezz'ora di canti tricolori, alla faccia della lega, che escono dalle casse. Da O sole mio ad una bamba italianizzata in Lasagna dal folle Weird Al Yankovic. Forse uno scherzo di mister E?
Eccolo, sale sul palco, da solo, vestito di tuta da lavoro rigorosamente bianca, bandana calata su occhiali scuri, barba da fare invidia agli ZZ top ed una pletora di chitarre che cambierà in modo quasi maniacale durante ogni pezzo.
Sembra il solito Mr.E per le prime tre canzoni solitarie e intimiste come Grace Kelly blues e Little bird, poi con l'entrata del gruppo, quattro elementi agghindati come gangsters americani degli anni venti e anche loro con barbe annesse, il concerto decolla e sarà una tirata unica fino alla fine.
Chi pensava di trovarsi gli Eels, musicalmente scarni ed elettronici dell'ultimo album si trova di fronte un gruppo affiatato che spara rock-blues con punte di veemenza che sfiorano il garage punk come nella riproposizione della stoniana She said yeah o nei pesantissimi blues presi in gran parte da Hombre Lobo, come Prizefighter, Tremendous Dynamite o Fresh blood dove gli ululati riecheggiano tra la folla o ancora Dog faced boy e Souljacker. Dopo aver stemperato la tensione iniziale, sfogandosi con una pedata alle transenne ed un'incazzatura per via di una scaletta che evidentemente non corrispondeva con le altre, Mr.E prende in mano la situazione e da vero sciamano, conduce il concerto con salti e balli che non fanno che testimoniarne il suo momento positivo che evidentemente riesce a comunicare solamente sparando in faccia al pubblico tre chitarre elettriche e una sezione ritmica martellante, a dir poco eccezionale il bassista.
Ma i momenti intimi non mancano grazie a In my younger days, In my dreams, That look you give that guy,, con tanto di steel guitar, spezzati da momenti di puro funk e latin rock con una Mr.E's beautiful blues mascherata da La Bamba o la cover irriconoscibile di Summer in the city dei The Lovin' Spoonful. Prima dei tre bis c'è il tempo di un quantomeno inaspettato lancio di ghiaccioli verso il pubblico e chiudere con Oh so lovely dall'ultimo album "Tomorrow morning".
Un concerto che dimostra ancora una volta l'assoluta imprevedibilità di Mr.E e che certamente non ha lasciato andare a casa nessuno scontento, anche chi si aspettava pessimismo e malinconia, si è rassegnato al trionfo della positività.
SETLIST
grace kelly blues
little bird
end times
prizefighter
she said yeah (rolling stones cover)
gone man
summer in the city (Lovin' spoonful cover)
tremendous dynamite
in my dreams
in my younger days
paradise blues
jungle telegraph
my beloved monster
spectacular girl
fresh blood
dog faced boy
that look you give that guy
souljacker part I
talkin 'bout knuckles
mr. E's beautiful blues
i like birds
summertime (george gershwin cover)
looking up
i'm gonna stop pretending that i didn't break your heart
oh so lovely
domenica 12 settembre 2010
RECENSIONE: TOM JONES (Praise & Blame)
TOM JONES Praise & blame (Island, 2010)
A volte fidarsi del proprio istinto musicale può metterti di fronte a piacevoli sorprese che la ragione non mette nemmeno in discussione. Chi l'avrebbe mai detto che un disco di Tom Jones potesse essere una rivelazione. Le prime indiscrezioni su questo disco erano le colorite frasi dei dirigenti della Island records, etichetta di Jones, che pensarono subito ad uno scherzo dopo che il gallese dalla voce d'oro presentò loro le nuove canzoni. Gli echi di quella Sex Bomb che tanto lo rilanciarono nel mercato discografico aleggiavano ancora nell'aria intorno ai dirigenti Island come al sottoscritto, per finire immediatamente schiacciati e azzerati appena parte la prima traccia di questo disco.
Che con quella voce Jones potesse permettersi di cantare ciò che vuole è fuori di dubbio, che la sua frequentazione di Elvis dai metà anni sessanta con le paillettes e le luci di Las Vegas incluse e il primo tentativo fallito di avvicinarsi al country negli anni ottanta, non sono credenziali valide a giustificare un disco perfetto come questo.
Jones si cala tra la polvere delle highways e l'odore del legno tarlato di vecchie chiese abbandonate, proprio come quella di copertina, fa un giro a New Orleans e ne esce vincitore con un album "americano" che tanto sarebbe piaciuto a Johnny Cash.
Jones è un animale camaleontico, ancora piacente a settantanni ma che finalmente ha deciso di mostrare i piccoli e veri segni del tempo che hanno attecchito anche sul suo corpo lasciando però intatta quel dono di Dio che è la sua voce.
Proprio a Dio, alla ricerca di redenzione, sembra improntarsi tutto il lavoro e la scelta delle canzoni. Sacro gospel, blues, rock'n'roll, Rockabilly e country sono gli ingredienti di questo disco.
Prodotto da Ethan Johns, uno dei produttori più richiesti degli ultimi anni, già al lavoro con Ryan Adams, Ray Lamontagne, Kings of leon e Paolo Nutini tra i tanti e suonato da grandi musicisti tra cui spicca lo stesso produttore alle chitarre e Booker T. Jones al piano.
Il disco si apre con una canzone di Dylan ripescata da quel grande disco che fu Oh Mercy(1989),What good am i?, forse messa lì in apertura a dare un significato profondo a questo lavoro, ponendosi e facendo sua la domanda che si pose Dylan(Come posso dirmi buono se dico cose sciocche?/E rido in faccia a ciò che il dolore crea?). Che Jones abbia voglia di voltare pagina veramente? O si tratta solamente di un piacevole e divertente presa in giro?
Le canzoni che seguono sono una buona risposta , a chi ascolta cercare la bontà della proposta. Io ne sono stato conquistato.
Le canzoni più rock che vanno dall'invocazione al Signore del gospel-blues di Lord Help scritta da Jesse May Hemphill, con chitarre in crescendo e bene in evidenza che diventano sferraglianti in Burning Hell, un blues di John Lee Hooker che Jones canta come se avesse sempre avuto il diavolo dalla sua parte e che non ti saresti mai aspettato. E che dire se Strange things è trasformata in un Rockabilly con tanto di cori femminili così come Don't knock e Didn't it rain che avrebbero reso felice il vecchio amico Elvis. A controbilanciare il testoterone rock'n'roll di queste tracce, Jones piazza alcune chicche di dark country ballads come la preghiera If i give my soul di quell'autentico outsider cristiano che è Billy Joe Shaver, Did trouble me o Nobody's fault but mine dove la voce di jones si esalta in una interpretazione da applauso. A chiudere il disco, forse un ringranziamento e omaggio a chi da questi tipi di dischi ha saputo riinventarsi la carriera cantando forse con più cognizione di causa, questo bisogna ammetterlo, la sofferenza e la fede nel signore. Ain't no grave e Run on (la God's gonna cut you down del man in black, qui diventa un blues) hanno più di un collegamento all'ultimo Johhny Cash delle American recordings. Dischi che sembrano aver indicato la strada da seguire per artisti in rilancio di carriera vedi le ultime prove di Neil Diamond, Kris Kristofferson, Robert Plant e da oggi mister Jones. Alla prossima mossa per capire dove colllocare questo disco che comunque merita più di un ascolto.
mercoledì 8 settembre 2010
RECENSIONE:EDDA : IN ORBITA (Niegazowana, 2010)
Edda come vorrei...Edda come vorrei...cantavano gli Afterhours in Come vorrei da "Hai paura del buio?"(1997)
Un anno esatto. A settembre di un anno fa uscì Semper Biot(http://www.debaser.it/recensionidb/ID_28979/Edda_Semper_Biot.htm), quello che senza mezzi termini è stato l'album italiano che più mi ha accompagnato durante il mio continuo ascolto di musica giornaliero. Dall'autoradio, dalle cuffiette dell'i pod o dall'impianto stereo casalingo, la voce di Edda è uscita e invaso l'aria, trasmettendo positività e voglia di vivere a scadenze regolari. Se lo spiazzamento iniziale fu tanto e paradossalmente equivalente alla voglia di riascoltare il cantante della band italiana che più di altre mi ha accompagnato durante gli anni che mi hanno condotto verso la maggiore età, la consapevolezza di avere davanti agli occhi un oggetto di rara bellezza non è tardata ad arrivare.
Un anno esatto. A settembre di un anno fa uscì Semper Biot(http://www.debaser.it/recensionidb/ID_28979/Edda_Semper_Biot.htm), quello che senza mezzi termini è stato l'album italiano che più mi ha accompagnato durante il mio continuo ascolto di musica giornaliero. Dall'autoradio, dalle cuffiette dell'i pod o dall'impianto stereo casalingo, la voce di Edda è uscita e invaso l'aria, trasmettendo positività e voglia di vivere a scadenze regolari. Se lo spiazzamento iniziale fu tanto e paradossalmente equivalente alla voglia di riascoltare il cantante della band italiana che più di altre mi ha accompagnato durante gli anni che mi hanno condotto verso la maggiore età, la consapevolezza di avere davanti agli occhi un oggetto di rara bellezza non è tardata ad arrivare.
I primi video casalinghi apparsi su Youtube, le indiscrezioni rubate a chi lo conosce di persona che mi parlava di un Edda "patentato" alla guida di un furgone per le vie di Milano (grazie Zymbah), hanno spazzato in un solo colpo tutte quelle "voci" che aleggiavano intorno all'uomo Stefano Rampoldi. Dalla sua fuoriuscita dal gruppo si è detto di tutto e il contrario di tutto mettendo intorno alla figura di quel cantante così carismatico nella sua sgraziata postura sul palco, un velo di leggenda appartenente solamente ai grandi illustri cantanti dimorati nel paradiso degli artisti. Apparizioni, sparizioni, avvistamenti, smentite, viaggi e terre promesse e la verità mai così vicina a noi comuni mortali sempre attratti dalle pruriginose fantasticherie piuttosto che affrontare la cruda realtà.
L'omaggio che questo piccolo disco formato da cinque canzoni vuole essere verso il suo interprete è quello di spronare l'artista Edda a continuare su questa strada, lui sempre così dubbioso sulla riuscita di questa rinascita artistica e sul suo futuro musicale. L'omaggio nasce da un breve set acustico in compagnia degli amici Andrea Rabuffetti e Sebastiano De Gennaro , tenuto nel mese di Marzo per RadioCapodistria, all'interno della trasmissione In Orbita condotta da Elisa e Ricky Russo.
Un anno trascorso tra le coccole dei vecchi fans, che non hanno mai smesso di pensare al giorno del suo ritorno, tra comparsate nella tv nazional popolare, con telespettatori che facevano la sua conoscenza per la prima volta e ignari di quello che Edda rappresentò per il rock italiano con i Ritmo Tribale nei primi anni novanta. Vecchi amici come Manuel Agnelli che non hanno esitato nel ridare all'uomo Stefano Rampoldi la ribalta che merita, invitandolo ad aprire alcuni concerti dei suoi Afterhours e poi ancora concerti su concerti, grandi festival e piccoli luoghi. Ribalta che Edda, da anni impegnato come operaio in una ditta che piazza ponteggi, non si sarebbe più sognato di avere. Mantenendo sempre il basso profilo e la modestia che lo contraddistingue e che esce anche da queste cinque performances tra cui la riproposizione di Suprema di Moltheni, artista apprezzato da Edda e tra i pochi cantautori di questa generazione che lo abbiano colpito, lui ancorato alla musica dei suoi primi trent'anni, come spesso ama ripetere. Le altre quattro canzoni( Io e te, L'innamorato, Fango di Dio e Snigdelina) sono prese dal suo debutto solista e scritte a quattro mani con Walter Somà. Il disco pur nella sua brevità, riesce a cogliere quello che Edda riesce a trasmettere durante i suoi set acustici, fatti di improvvisazioni, di taglia ed incolla con altre canzoni di altri artisti, di cambi di frasi e parole, di scatti repentini e fulminei, di pause che la sua voce, senz'altro unica e originale in Italia, riesce ad accompagnare e seguire.
Statene certi, se il giorno in cui è stato registrato il mini concerto, Edda durante l'esecuzione di Fango di Dio ci ha visto bene inserire delle strofe di Mogol/Battisti e durante L'innamorato ha omaggiato Ferretti e i suoi CSI, in un altro concerto vi saprà stupire con altre citazioni lasciando andare la sua fantasia musicale, seguendo il solo canovaccio che i grandi artisti sanno seguire, quello dell'improvvisazione.
Ora non resta altro che dare a Stefano il segnale che siamo ancora in tanti a ricordarci di lui, cercando questo piccolo disco, che però come le più belle cose andrà conquistato andando ai suoi concerti o cercandolo sul sito della sua etichetta.
martedì 7 settembre 2010
DISCHI IN ASCOLTO E NUOVE USCITE...in rigoroso ordine casuale...
EELS Tomorrow morning (Eworks Records, 2010)
Con Tomorrow Morning, Mister E conclude la trilogia partita con il garage-rock-blues di Hombre Lobo e continuata con l' ancora fresco e acustico End Times. Far uscire tre dischi nel giro di poco più di un anno è impresa di altri tempi, ma soprattutto mette davanti un artista ad eventuali critiche sulla bontà data dalla velocità delle opere pubblicate. A Mark Everett , tutto questo non interessa e conclude questo prolifico periodo di ispirazione, dettato dalle sue sventure di vita, dando alle stampe un disco che finalmente sembra dare un pò di luce positiva alle sue composizioni. Baby loves me e Spectacular girl sono lì a dimostrarlo. Cauta elettronica ed orchestrazioni si sovrappongono al classico pop rock , anche se in alcune occasioni sembra cavalcare l'autoplagio, rimane ancora quanto di meglio si possa ascoltare nel suo genere, soprattutto da un artista che non ha paura di mettere la sua vita in musica.
BLACK MOUNTAIN Wilderness Heart (Jagjaguwar, 2010)
Terzo album dei canadesi, dopo il buon successo del precedente In the future. Pur rimanendo fedeli al loro trademark atto nel pescare le sonorità del passato, che sia l'hard rock sabbathiano o purpleiano, la psichedelia o il folk ed unirli insieme in canzoni ipnotiche e dal sapore vintage, sfruttando le due voci maschile-femminile. In questo nuovo lavoro si nota una certa snellezza nelle composizioni, il singolo Old fangs ne è una prova, riff hard e tastiere devote al miglior Jon Lord. Le canzoni che prime erano un meltin' pot delle varie influenze ora seguono tutte una linea diretta e omogenea, quelle più propriamente legate al rock( con influenze che vanno dal hard rock '70 allo stoner) sembrano poste a inizio album, quelle più legate a certo prog-folk ( la finale Sadie) nella seconda metà del lavoro.
Certo i puristi del vecchio rock, non vi troveranno nulla di nuovo, ma quello che c'è è fatto molto molto bene.
IRON MAIDEN The final frontier (EMI, 2010)
Per quanto la loro carriera sia ormai più che trentennale, ai Maiden, bisogna dare atto di aver a loro modo continuato a sperimentare qualcosa di nuovo in ogni disco. Ricevendo spesso critiche che con gli anni hanno dato ragione a loro, vi ricorda nulla Seventh son of a seventh son? Se i capolavori sono già stati scritti e digeriti e l'ispirazione non li porterà più a scrivere gli inni metallici degli anni ottanta, dopo il ritorno di Dickinson alla voce e il buon Brave new World, un pesante calo di ispirazione sembrava abbattersi nei due dischi successivi. Ora a grande sorpresa ritornano con un album ambizioso, sicuramente la cosa migliore fatta uscire dai tempi di X Factor dell'era Blaze Bayley. La durata media dei brani continua ad essere lunga ma le canzoni sembrano reggere alla grande. L'apertura quasi tribale di Satellite 15...The final frontier, le atmosfere folkeggianti presenti in alcuni brani, la melodia di Coming home e la riproposizione di alcune cavalcate che li hanno resi quel che sono oggi( The Alchemist) fanno di questo album, un viaggio completo nel loro universo sonoro che si conclude con una When the wild wind blows da antologia. Un disco, sicuramente, non immediato ma da scoprire con calma ad ogni ascolto.
CYPRESS HILL Rise up (EMI, 2010)
Dopo la sbandata latina del precedente e lontano Till death do us part, i Cypress Hill cercano di rimettersi in careggiata. Sempre difficile per un gruppo che ha fatto la storia di un un certo Hip Hop con album epocali quali furono Temples of Boom e Black Sunday , rimanere a galla dopo tanti anni. I Cypress Hill possono sempre contare sul mestiere e l'aiuto di amici provenienti dal mondo rock per far sì che i loro dischi superino la sufficienza. Così se alcune canzone scivolano via abbastanza stancamente, risultando "vecchie", altre grazie all'innesto della chitarra pazza di Tom Morello(presente in Rise up e Shut 'em down) o all'aiuto di Daron Malakian dei System of a Down in Trouble Seeker sembrano riportare ai tempi del buon crossover di album come Skull & Bones e Stoned Raiders. Certamente non tra le loro migliori uscite ma sicuramente superiore alla media dei dischi del genere.
THE REVEREND PEYTON'S BIG DAMN BAND The Wages (Side One Dummy, 2010)
Reverend Peyton è uno dei più bizzarri e genuini personaggi che popolano la roots music americana. Armato di chitarra ed accompagnato solamente dalle dita della moglie Breezy impegnata alla Washboard e Aron Persinger alla batteria, il corpulento e barbuto reverendo ci stramazza con il suo country-blues da festa campestre. Immaginate di essere nella più classica delle case nella prateria tra fieno, galline starnazzanti e maiali intimoriti dalla sarabanda sonora messa in scena da questo trio di pazzi. Slide, armoniche, cori avvinazzati e tanto blues scorrono in Clap your hands,Everything's raising e nelle restanti canzoni di questo gruppo dell'Indiana. Un disco che potrebbe mettere ancora il buon umore nell'autunno alle porte.
BLACK COUNTRY COMMUNION Black Country (Mascot, 2010)
Se il 2009 è stato l'anno del supergruppo Chickenfoot, il 2010 sarà sicuramente l'anno dei Black Country Communion, nome sotto cui si celano "the voice of rock" Glenn Hughes alla voce e basso, il blues guitar-hero Joe Bonamassa, il figliol prodigo Jason Bohman alla batteria e Derek Sherinian, già tastierista dei Dream Theater. Dopo le convincenti ultime prove soliste, Hughes aveva voglia di tornare a suonare in un vero e proprio gruppo e se si esclude la parentesi nei Black Sabbath in coppia con Iommi negli anni ottanta, era dai tempi dei Deep Purple mark III che il bassista e cantante non si cimentava al servizio di altre persone. Non è difficile, visto i personaggi coinvolti, capire dove va a parare il gruppo, Hard blues settantiano, tanto melodico quanto carico e vibrante con un Bonamassa che spesso prende in mano le redini del gioco , permettendosi di duettare con mister Hughes. Disco che potrebbe rivaleggiare benissimo con l'altro supergruppo citato. Li aspettiamo alla prova del nove in sede live ma viste le premesse ci sarà di che divertirsi.
EDDA In Orbita (Niegazowana, 2010)
Ad un anno esatto dalla pubblicazione di quella splendida perla a titolo Semper biot, che sanciva il ritorno al disco di Edda, ex cantante dei Ritmo Tribale, l'undici settembre uscirà In orbita, ep contenente cinque pezzi registrati live durante la trasmissione In Orbita, trasmessa da Radio Capodistria e condotta da Elisa e Ricky Russo. Edda, in questo anno trascorso, ha visto il suo nome ritornare alla ribalta come ai bei tempi, forse anche di più, apparendo in televisione sulle reti pubbliche, chiamato ad aprire i concerti dei sempre amici Afterhours e ottenendo un successo che forse nemmeno lui, da anni impegnato a lavorare in una ditta che piazza ponteggi, si sarebbe mai immaginato. Mantenendo sempre il basso profilo e la modestia che lo contraddistingue e che esce anche da queste cinque performances tra cui la riproposizione di Suprema di Moltheni, artista apprezzato da Edda. Le altre quattro canzoni( Io e te, L'innamorato, Fango di Dio e Snigdelina) sono prese dal suo debutto solista e scritte a quattro mani con Walter Somà. Il disco pur nella sua brevità, riesce a cogliere quello che Edda riesce a trasmettere durante i suoi set acustici, fatti di improvvisazioni, di taglia ed incolla con altre canzoni di altri artisti, di scatti repentini e fulminei, di pause che la sua voce, senz'altro unica e originale in Italia, riesce ad accompagnare e seguire. Il disco si potrà trovare solamente ai suoi concerti o presso il sito dell'etichetta Niegazowama.
DEATH ANGEL Relentless Retribution (Nuclear Blast, 2010)
A volte anche quelle che sembrano delle grandi famiglie indivisibili, si rompono, vedi Sepultura. I Death Angel, fenomenale band ispano-filippina della seconda ondata thrash americana di metà anni ottanta, ritornano più feroci che mai dopo la perdita di bassista e batterista storici, facendo uscire quello che si può considerare senza ombra di dubbio il miglior disco dopo la reunion. Assalti alla vecchia maniera come Truce, Where day lay, River of rapture non si sentivano da tempo come originale è l'ospitata dei menestrelli Rodrigo & Gabriela, un duo di chitarristi acustici che non rinnega mai il loro passato metallico. Un disco urgente e spontaneo che grida vendetta per una delle band più originali uscite dalla Bay area californiana.
Con Tomorrow Morning, Mister E conclude la trilogia partita con il garage-rock-blues di Hombre Lobo e continuata con l' ancora fresco e acustico End Times. Far uscire tre dischi nel giro di poco più di un anno è impresa di altri tempi, ma soprattutto mette davanti un artista ad eventuali critiche sulla bontà data dalla velocità delle opere pubblicate. A Mark Everett , tutto questo non interessa e conclude questo prolifico periodo di ispirazione, dettato dalle sue sventure di vita, dando alle stampe un disco che finalmente sembra dare un pò di luce positiva alle sue composizioni. Baby loves me e Spectacular girl sono lì a dimostrarlo. Cauta elettronica ed orchestrazioni si sovrappongono al classico pop rock , anche se in alcune occasioni sembra cavalcare l'autoplagio, rimane ancora quanto di meglio si possa ascoltare nel suo genere, soprattutto da un artista che non ha paura di mettere la sua vita in musica.
BLACK MOUNTAIN Wilderness Heart (Jagjaguwar, 2010)
Terzo album dei canadesi, dopo il buon successo del precedente In the future. Pur rimanendo fedeli al loro trademark atto nel pescare le sonorità del passato, che sia l'hard rock sabbathiano o purpleiano, la psichedelia o il folk ed unirli insieme in canzoni ipnotiche e dal sapore vintage, sfruttando le due voci maschile-femminile. In questo nuovo lavoro si nota una certa snellezza nelle composizioni, il singolo Old fangs ne è una prova, riff hard e tastiere devote al miglior Jon Lord. Le canzoni che prime erano un meltin' pot delle varie influenze ora seguono tutte una linea diretta e omogenea, quelle più propriamente legate al rock( con influenze che vanno dal hard rock '70 allo stoner) sembrano poste a inizio album, quelle più legate a certo prog-folk ( la finale Sadie) nella seconda metà del lavoro.
Certo i puristi del vecchio rock, non vi troveranno nulla di nuovo, ma quello che c'è è fatto molto molto bene.
IRON MAIDEN The final frontier (EMI, 2010)
Per quanto la loro carriera sia ormai più che trentennale, ai Maiden, bisogna dare atto di aver a loro modo continuato a sperimentare qualcosa di nuovo in ogni disco. Ricevendo spesso critiche che con gli anni hanno dato ragione a loro, vi ricorda nulla Seventh son of a seventh son? Se i capolavori sono già stati scritti e digeriti e l'ispirazione non li porterà più a scrivere gli inni metallici degli anni ottanta, dopo il ritorno di Dickinson alla voce e il buon Brave new World, un pesante calo di ispirazione sembrava abbattersi nei due dischi successivi. Ora a grande sorpresa ritornano con un album ambizioso, sicuramente la cosa migliore fatta uscire dai tempi di X Factor dell'era Blaze Bayley. La durata media dei brani continua ad essere lunga ma le canzoni sembrano reggere alla grande. L'apertura quasi tribale di Satellite 15...The final frontier, le atmosfere folkeggianti presenti in alcuni brani, la melodia di Coming home e la riproposizione di alcune cavalcate che li hanno resi quel che sono oggi( The Alchemist) fanno di questo album, un viaggio completo nel loro universo sonoro che si conclude con una When the wild wind blows da antologia. Un disco, sicuramente, non immediato ma da scoprire con calma ad ogni ascolto.
CYPRESS HILL Rise up (EMI, 2010)
Dopo la sbandata latina del precedente e lontano Till death do us part, i Cypress Hill cercano di rimettersi in careggiata. Sempre difficile per un gruppo che ha fatto la storia di un un certo Hip Hop con album epocali quali furono Temples of Boom e Black Sunday , rimanere a galla dopo tanti anni. I Cypress Hill possono sempre contare sul mestiere e l'aiuto di amici provenienti dal mondo rock per far sì che i loro dischi superino la sufficienza. Così se alcune canzone scivolano via abbastanza stancamente, risultando "vecchie", altre grazie all'innesto della chitarra pazza di Tom Morello(presente in Rise up e Shut 'em down) o all'aiuto di Daron Malakian dei System of a Down in Trouble Seeker sembrano riportare ai tempi del buon crossover di album come Skull & Bones e Stoned Raiders. Certamente non tra le loro migliori uscite ma sicuramente superiore alla media dei dischi del genere.
THE REVEREND PEYTON'S BIG DAMN BAND The Wages (Side One Dummy, 2010)
Reverend Peyton è uno dei più bizzarri e genuini personaggi che popolano la roots music americana. Armato di chitarra ed accompagnato solamente dalle dita della moglie Breezy impegnata alla Washboard e Aron Persinger alla batteria, il corpulento e barbuto reverendo ci stramazza con il suo country-blues da festa campestre. Immaginate di essere nella più classica delle case nella prateria tra fieno, galline starnazzanti e maiali intimoriti dalla sarabanda sonora messa in scena da questo trio di pazzi. Slide, armoniche, cori avvinazzati e tanto blues scorrono in Clap your hands,Everything's raising e nelle restanti canzoni di questo gruppo dell'Indiana. Un disco che potrebbe mettere ancora il buon umore nell'autunno alle porte.
BLACK COUNTRY COMMUNION Black Country (Mascot, 2010)
Se il 2009 è stato l'anno del supergruppo Chickenfoot, il 2010 sarà sicuramente l'anno dei Black Country Communion, nome sotto cui si celano "the voice of rock" Glenn Hughes alla voce e basso, il blues guitar-hero Joe Bonamassa, il figliol prodigo Jason Bohman alla batteria e Derek Sherinian, già tastierista dei Dream Theater. Dopo le convincenti ultime prove soliste, Hughes aveva voglia di tornare a suonare in un vero e proprio gruppo e se si esclude la parentesi nei Black Sabbath in coppia con Iommi negli anni ottanta, era dai tempi dei Deep Purple mark III che il bassista e cantante non si cimentava al servizio di altre persone. Non è difficile, visto i personaggi coinvolti, capire dove va a parare il gruppo, Hard blues settantiano, tanto melodico quanto carico e vibrante con un Bonamassa che spesso prende in mano le redini del gioco , permettendosi di duettare con mister Hughes. Disco che potrebbe rivaleggiare benissimo con l'altro supergruppo citato. Li aspettiamo alla prova del nove in sede live ma viste le premesse ci sarà di che divertirsi.
EDDA In Orbita (Niegazowana, 2010)
Ad un anno esatto dalla pubblicazione di quella splendida perla a titolo Semper biot, che sanciva il ritorno al disco di Edda, ex cantante dei Ritmo Tribale, l'undici settembre uscirà In orbita, ep contenente cinque pezzi registrati live durante la trasmissione In Orbita, trasmessa da Radio Capodistria e condotta da Elisa e Ricky Russo. Edda, in questo anno trascorso, ha visto il suo nome ritornare alla ribalta come ai bei tempi, forse anche di più, apparendo in televisione sulle reti pubbliche, chiamato ad aprire i concerti dei sempre amici Afterhours e ottenendo un successo che forse nemmeno lui, da anni impegnato a lavorare in una ditta che piazza ponteggi, si sarebbe mai immaginato. Mantenendo sempre il basso profilo e la modestia che lo contraddistingue e che esce anche da queste cinque performances tra cui la riproposizione di Suprema di Moltheni, artista apprezzato da Edda. Le altre quattro canzoni( Io e te, L'innamorato, Fango di Dio e Snigdelina) sono prese dal suo debutto solista e scritte a quattro mani con Walter Somà. Il disco pur nella sua brevità, riesce a cogliere quello che Edda riesce a trasmettere durante i suoi set acustici, fatti di improvvisazioni, di taglia ed incolla con altre canzoni di altri artisti, di scatti repentini e fulminei, di pause che la sua voce, senz'altro unica e originale in Italia, riesce ad accompagnare e seguire. Il disco si potrà trovare solamente ai suoi concerti o presso il sito dell'etichetta Niegazowama.
DEATH ANGEL Relentless Retribution (Nuclear Blast, 2010)
A volte anche quelle che sembrano delle grandi famiglie indivisibili, si rompono, vedi Sepultura. I Death Angel, fenomenale band ispano-filippina della seconda ondata thrash americana di metà anni ottanta, ritornano più feroci che mai dopo la perdita di bassista e batterista storici, facendo uscire quello che si può considerare senza ombra di dubbio il miglior disco dopo la reunion. Assalti alla vecchia maniera come Truce, Where day lay, River of rapture non si sentivano da tempo come originale è l'ospitata dei menestrelli Rodrigo & Gabriela, un duo di chitarristi acustici che non rinnega mai il loro passato metallico. Un disco urgente e spontaneo che grida vendetta per una delle band più originali uscite dalla Bay area californiana.
lunedì 30 agosto 2010
EUGENIO FINARDI: gli ANNI '70
Uno dei suoi ultimi e splendidi dischi, "Anima blues" uscito nel 2005, è stato definito dal suo autore come il "il mio primo vero disco". Finardi si cimenta con canzoni originali, tanto vicine al delta del Mississipi, sfiorando anche l'hard blues, e scrivendo interamente in inglese, sua madrelingua, lui nato da madre americana nel 1952.
Questa sua affermazione, però, non è un rinnegare il passato ma il momentaneo punto di arrivo nel presente di un artista che ama la musica a 360 gradi, che ha vissuto sulla pelle tutte le fasi che un musicista di successo, a volte, è anche condannato a vivere. Gli inizi ribelli in un'Italia veramente sotto il terrore, gli anni ottanta di plastica con le pressioni delle case discografiche e la popolarità in declino, la rinascita degli anni novanta e lo sperimentalismo degli ultimi anni che lo hanno portato oltre che sulle vie del blues ad avvicinarsi alla musica sacra e alla classica. Il suo continuo mettersi in gioco lo ha fatto uscire dai grandi circuiti: mentre suoi affermati colleghi continuano a riproporre la solita minestra riscaldata, sicura e finanziariamente conveniente, Finardi segue il suo istinto da esploratore.
Il grande merito e l'importanza di Finardi negli anni settanta, quando in Italia dominava la classica figura del cantautore, è stata quella di abbinare ai testi, i suoni provenienti da oltreoceano che fossero soul, blues, rock, punk o reggae. Musicalità che aveva già nel suo DNA, essendo nato e cresciuto in America e cresciuto da una madre cantante lirica ed un padre tecnico del suono. Era quindi normale comporre canzoni in un certo modo, affrontando nei testi quei temi fino ad allora sconosciuti ai grandi cantautori dell'epoca.
Se dobbiamo far nascere l'alternative rock in Italia, Finardi fu senza ombra di dubbio uno dei precursori: poco incline agli schemi fissi ma voglioso di raccontare le cronache e gli avvenimenti sociali con la musica senza tralasciare argomenti in quegli anni tabù come droga e sesso, legandoli spesso e volentieri alle proprie esperienze personali. L'esperienza con la prima e più importante etichetta alternativa indipendente italiana, la Cramps, il forte clima politico dell'epoca (spararono anche sul palco ad una sua esibizione), l'omaggiare i grandi del rock facendo cover durante i concerti, bastano a fare di Finardi uno dei più importanti musicisti italiani, purtropppo spesso in secondo piano.
Ecco allora una veloce discografia commentata dei suoi primi cinque dischi, tutti incisi negli anni settanta e a loro modo, tutti degni di essere ascoltati da chi ora ascolta il cosidetto rock alternativo italiano( proprio Finardi, sempre attento alla musica che lo circonda, indicò in Manuel Agnelli degli Afterhours il suo successore).
NON GETTATE ALCUN OGGETTO DAI FINESTRINI (1975)
Cresciuto a pane e musica, Finardi dopo aver collaborato come musicista con diversi gruppi tra cui Stormy Six, Biglietto perl'inferno, forma insieme all'amico fraterno Alberto Camerini il gruppo Il Pacco. Della band uscirà solamente un 45 giri per la Numero Uno di Mogol/Battisti. Nel 1975, la sua frequentazione nel circuito rock italiano dell'epoca e l'amicizia con gli Area lo porta a firmare un nuovo contratto con la Cramps di Gianni Sassi. Esce così il suo primo disco solista, un album che coniuga alla perfezione il cantautorato tradizionale italiano con il rock anglosassone. Aiutato dagli amici di sempre tra cui Camerini alle chitarre, Walter Calloni alla batteria e Lucio Fabbri al violino, l'album si compone di otto pezzi di denuncia sociale come la rivisitazione rock di Saluteremo il signor padrone (scritta dalla coppia di folk singer nostrani Marini/Della Mea) l'antimilitarista Quando stai per cominciare (...ma quando stai per cominciare, ti chiamano a fare il militare e lì ti tolgono ogni diritto, puoi solo stare zitto ed obbedire e li ti insegnano che il dovere è solo rispettare chi ha il potere...), la sempre attualissima Afghanistan, Se solo avessi o l'invettiva sulle forze dell'ordine Caramba. C'é spazio anche per cimentarsi con la west coast californiana di Taking it easy in inglese.
SUGO (1976)
Se l'esordio destabilizzò il mondo musicale italiano, la seconda prova Sugo, solo un anno dopo, rafforza e consolida Finardi come una delle migliori promesse del rock italiano. Forte dell'esperienza live, aprendo i concerti di un De Andrè che appariva per la prima volta in pubblico, iniziano ad affiorare le prime canzoni che diverranno dei classici. Gli amici Area aiutano in fase di composizione e si sente: ascoltare Quasar.
La musica ribelle apre il disco in modo teso e pesante,con il messaggio ed invito quasi punk ad usare la musica come un fucile, musica che esce dalle radio libere di quei tempi. A questi mezzi di comunicazione dedica La Radio, lui che nei primissimi anni settanta fu tra i primi dj a far passare alcuni tipi di musica in Italia (il reggae di Bob Marley). E poi ancora il consumismo trattato in Soldi e la vita "on the road" del musicista raccontata in Sulla strada. Il bel invito che traspare da Oggi ho imparato a volare (...sembra strano ma è vero, c'ho pensato e mi son sentito sollevare come da uno strano capogiro il cuore mi si è quasi fermato e ho avuto paura e sono caduto ma per fortuna mi sono rialzato e ho riprovato...) e il rock-reggae di la C.I.A.. Il disco si chiude con La paura del domani, un monito ad unire le forze per cambiare il futuro.
DIESEL (1977)
E' un Finardi inarrestabile quello che si presenta alla terza prova in tre anni: testi scomodi e politicamente contro. Attacco rock'n'roll con Tutto subito, contro le false promesse della classe politica. Attacca anche la pubblica istruzione in Scuola, rea di non formare i ragazzi alla vera vita. La guerra del Vietnam trattata in Giai Phong e la droga con l'invito e la speranza di riuscire ad uscirne in Scimmia, cronaca di vita da tossico ed uno dei più riusciti testi sulla droga mai composti in Italia . Uno squarcio nell'Italia che si rimbocca le maniche, vera forza propulsiva di un paese in Diesel e la speranza in Si può vivere anche a Milano. Ma c'è anche l'amore in Zucchero e il sesso in Non è il cuore, canzone in grado di trattare l'argomento senza banalismi ma con veritiera analisi (...e non può esistere l'affetto senza un minimo di rispetto e siccome non si può fare senza devi avere un pò di pazienza perchè l'amore è vivere insieme, l'amore è si volersi bene ma l'amore è fatto di goia ma anche di noia...). Uno sguardo totalitario verso la società con i suoi mille difetti e un disco tra i più significativi usciti in Italia negli anni settanta. Sarà anche l'ultimo disco così totalmente anticonformista .
BLITZ (1978)
Voglia di cambiamento. Scompaiono i collaboratori dei primi tre dischi ( Area e Alberto Camerini, che inizia una carriera solista che lo porterà ai successi degli anni ottanta) e la musica si fa più attenta a certi ricami negli arrangiamenti.
Accompagnato da una nuova band, i Crisalide, è l'album di Extraterrestre, la sua canzone più famosa in assoluto, di Come un animale, invito a rivivere l'amore come istinto, lasciando da parte quegli inutili calcoli che lo spengono.
Spassoso rock'n'roll con piano in evidenza è Drop out rock mentre Affetto mette in piazza tutto l'anticonformismo che serpeggia in Finardi. Atmosfere caraibiche-reggaeggianti in Cuba e testi di giustizia sociale in Op.29 in do maggiore e Guerra lampo, mentre in Northampton, Genn.'78, analizza la sua vita dall'adolescenza e i conflitti con il padre durante la raggiunta maturità con i suoi cambiamenti di visione sulla vita.
ROCCANDO ROLLANDO (1979)
Ultimo disco del decennio e ultimo uscito per la Cramps, negli anni ottanta si accaserà alla Fonit. Disco musicalmente vario e contenente alcune canzoni di puro divertissment come la primordiale, ritmata e scanzonata Lasciati andare, in verità un'analisa del rapporto con i fan schierati e la finale Ridendo scherzando .
Legalizzatela è un po' la versione italiana dell'omonima canzone di Peter Tosh, un invito a legalizzare le droghe leggere in un periodo dove le cosidette "droghe pesanti" iniziavano a mietere vittime su vittime ed erano considerate sullo stesso piano. Poco è cambiato nel tempo. La dolcezza contenuta in La canzone dell'acqua che indica il futuro artistico degli anni a venire. Zerbo contiene l'utopia della musica che può cambiare il mondo mentre Why love e il rock di Song fly high sono interamente in inglese. Con il successivo omonimo Finardi, si entrerà negli anni ottanta, anni di alti e bassi sia umani che musicali.
giovedì 26 agosto 2010
KULA SHAKER: recensione Pilgrims Progress, maturità raggiunta...
KULA SHAKER Pilgrims Progress (Strange F.O.L.K. LLP, 2010)
Ora che anche Peter Pan riposa in pace e intorno alla sua lapide, immersa nel verde e adagiata su un manto di foglie secche circondata da alberi, bambini incantati osservano dove riposa colui che fino a poco tempo prima era il loro pifferaio magico e rappresentante in giro per mondo.
Ora che l'età adulta è arrivata e il passato ha lasciato solo ricordi color seppia come quelle fotografie a cui non si riesce a dare un'età.
Ora che il clamore dell'invasione "brit-pop" è lontano e risuona solamente negli scaffali dove riposano i dischi.
Ora e solo ora, i Kula Shaker fanno uscire il lavoro che li consegna alla maturità. Non cercate facili melodie pop o hit da classifica. Crispian Mills e soci consegnano ai loro fans un disco intriso di folk a quattro anni dal loro ultimo disco.
Seppur qualche legame con il passato rimane, come nella orientaleggiante Figure it out, memore di quel viaggio in India che cambiò la prospettiva musicale di Mills negli anni novanta.
Il resto è una continua sorpresa, in un disco che viaggia dritto verso l'autunno alle porte, portandosi dietro visioni fiabesche, qualche rimpianto per il tempo andato e tanti appigli musicali degli anni sessanta-settanta.
I violoncelli che aprono Peter Pan RIP, canzone a dir poco perfetta per la sensazione di melanconia che trasmette. Modern blues è debitrice al suono folk/beat dei Byrds, mentre Ophelia risente di quelle atmosfere bucoliche presenti in alcune composizioni zeppeliniane. Registrato nel verde delle campagne del Belgio, da cui ha ereditato la rilassatezza delle composizioni, il disco sorprende ancora nella strumentale e western When a brave needs a maid, ipotetico incontro tra Morricone e gli Shadows di Apache( qualcuno se li ricorda?) o nella finale Winter's call che sfiora la psichedelia californiana di fine anni sessanta.
Un disco che ha decisamente anticipato di qualche mese l'autunno, quindi destinato a durare negli ascolti ancora per qualche mese.
lunedì 23 agosto 2010
NEIL YOUNG:...ora sembra ufficiale...28 Settembre, esce il nuovo album "Le Noise"
Dopo, il mezzo passo falso di Fork in the road e l'uscita della prima parte dei monumentali archivi, il 28 settembre, sembra la data ufficiale dell'uscita del nuovo album del canadese, intitolato Le Noise. Prodotto da Daniel Lanois, dalle prime indiscrezioni, si tratterà di un album senza band di supporto, ma suonato interamente da Young stesso, che comunque conterrà delle tracce elettriche e rock.
Alcune canzoni sono già state presentate live, come da tradizione, durante il Twisted road tour di quest'anno. Secondo alcune recenti testimonianze rilasciate da Lanois, si tratta di uno dei migliori dischi registrati da Young negli ultimi anni.
Staremo a vedere.
RECENSIONE: JOHN MELLENCAMP (No Better Than This)...un microfono per riscoprire le radici
JOHN MELLENCAMP No better than this (Rounder Records, 2010)
Mellencamp con questo disco riesce , forse, a spiegare e dare al viaggio il suo giusto significato, quello di vivere i luoghi che si visitano non da semplici turisti, a volte insospettiti da usi e costumi diversi dai propri, ma di vivere i luoghi, entrandoci dentro, confondendosi, mettendosi alla prova con quegli usi e costumi. Il suo è un viaggio riuscitissimo nel tempo e nei posti che hanno fatto degli Stati Uniti la moderna madre del rock.
Se non si tratta di uno dei suoi capolavori, veramente poco ci manca. Il precedente Life death love and freedom era già un grande album, ma questa nuova prova lo supera se non altro per il modo in cui è stata concepita, progettata e suonata.
Mellencamp è da alcuni anni alla ricerca di quel suono vintage che l'incontro con il musicista e produttore T Bone Burnett ha fatto venire a galla trasformando questo disco in un viaggio attraverso l'America compresa tra gli anni venti e gli anni cinquanta. Superando di gran lunga i lavori dell'ultimo Dylan, che stanno battendo la stessa strada di ricerca sonora.
Un soffio alla polvere che ricopre i vecchi strumenti dimenticati in soffitta, rifornimento di carburante al primo distributore aperto e il disco parte regalando un viaggio ad occhi chiusi in un'America sorpassata ma che rappresenta ancora la libertà e il sogno che la modernità non potrà mai cancellare.
Quello che fa la differenza in questo disco è il suo concepimento. Mellencamp ha voluto lasciarsi andare alle emozioni che particolari luoghi e situazioni cari alla vecchia musica americana hanno suscitato in lui. Così è partito con un solo vecchio microfono verso tre mete piene di significato, lasciando che queste influissero sulla sua scrittura. Un viaggio dove country, folk, rock'n'roll e cantautorato segnano il percorso suo e di qualunque americano che si avvicini alla musica. Chi non ha mai immaginato cosa si potesse provare ad entrare nella mitica stanza 414 del Gunter Hotel a San Antonio dove nel 1936 un giovane di colore inventò il blues, lasciando ai posteri poche canzoni che divennero l'ispirazione per tutte le generazioni a venire. Calatosi nei panni di Robert Johnson e seduto nello stesso punto dela stanza dove si sedette il bluesman, Mellencamp compone Right behind me un blues sorretto dal violino di Miriam Sturm, dove l'invocazione del diavolo è quasi d'obbligo.
Prossima tappa i Sun Studio di Menphis dove negli anni cinquanta quattro ragazzotti dalla spiccata personalità iniziarono a viziare il mondo musicale con il rock'n'roll. Qui Mellencamp compone la maggioranza delle canzoni, registrate in presa diretta proprio come si faceva una volta. Aiutato da Andy York, Marc Ribot e lo stesso Burnett alle chitarre, David Roe, mitico bassista di Johnny Cash al basso e Jay Bellerose alla batteria. Ne escono canzoni dalla spiccata vena Rockabilly come il primo singolo che da il titolo all'album No better than this, Coming down the road o Each day of sorrow.
Canzoni folk come l'iniziale Save some time to dream dove l'invito a cercare di ritagliarsi del tempo per sognare è palese, o la profonda oscurità folk di The west end.Infine la tappa nella prima chiesa battista americana a Savannah in Georgia, luogo simbolo per gli schiavi afroamericani che cercavano la fuga durante la guerra civile. Qui, sopra le assi sacre del pavimento, prendono vita canzoni acustiche e d'amore come la melanconica Thinking about you, la dylaniana che più dylaniana non si può Love at first sight e la finale Clumsy of world. A suggellare il tutto, proprio durante le registrazioni, Mellencamp e compagna si sono fatti battezzare in questo luogo speciale, a testimonianza di una tappa importante per la carriera e la vita.
Un disco vissuto e un viaggio completo, fisico ed emozionale che è stato immortalato in queste tredici canzoni ed in almeno un'altra dozzina che si spera, vedano la luce prima o poi. Mellencamp in questo lavoro lascia un pezzo importante del suo cuore, a noi cercare di raccoglierlo.
giovedì 5 agosto 2010
NO GURU: a metà settembre esce il nuovo progetto di ex Ritmo Tribale con Xabier Iriondo (ex Afterhours)
E niente, NoGuRu è marmellata di traffico, tram perduti insieme alle occasioni. Vita da Milano, dissonante-per-abitudine-schizofrenica-per-necessità, una frenata del metrò, chitarre taglienti e ritmi spezzati che poi scattano su veloce acidume finto punk e ri-rallentano fin quasi a svenire.
Ex componenti di Ritmo Tribale e Afterhours uniti in un progetto che anche sentirebbe di avere parecchie cose da dire, ma nemmeno sa se riuscirà a farlo completamente.
NoGuRu non vuole essere capito, nasce come sottofondo per disturbare la conversazione apparente.
NoGuRu per ora sa soltanto che cosa non vuole essere.
Non mettetelo come sottofondo a una cena con amici.
Non va bene per rilassarsi dopo dieci ore di lavoro.
Queste le parole usate sul loro sito MySpace, per descivere il progetto. http://www.myspace.com/nogurumilano
Sotto il nome NO GURU si nasconde una nuova band che di fatto è costituita da musicisti che hanno fatto la storia del rock italiano tra la fine degli anni ottanta e il decennio dei '90. Dopo la temporanea reunion del 2007 che riportò in auge il nome per alcuni concerti e l'uscita discografica di una raccolta, i Ritmo Tribale si separano dal loro chitarrista storico Fabrizio Rioda e inglobano al loro interno un'altro personaggio, protagonista del rock alternativo italiano, quel Xabier Iriondo, chitarrista e partner di Agnelli negli Afterhours dei primi tre dischi.
Il tutto sotto un nuovo nome, No GURU, appunto. Dopo alcuni concerti di rodaggio, in questi due ultimi anni, a fine maggio è stato completato l'album che vedrà la luce a metà settembre, anticipato dal video Fuoco ai pescecani, già in rotazione su rock tv.
Faranno parte del progetto Andrea Scaglia( voce e chitarra), Xabier Iriondo( chitarra), Andrea "Briegel" Filipazzi(basso), Alex Marcheschi(batteria), Luca "Talia" Accardi( tastiere), Bruno Romani (sax) e Zymbah "il guerriero".
Il 21 Settembre alla Fnac di Milano, ci sarà la presentazione del disco, per cui, chi si trovasse nei paraggi quel giorno, sappia che è in prossimità della nascita di qualcosa di nuovo da ascoltare e seguire. A Settembre per la recensione dell'album...
lunedì 2 agosto 2010
RECENSIONE: LEONARD COHEN(Death of a Ladie's Man)...1977: anno cruciale anche per il grande poeta canadese...
...l'uscita di Death of a Ladies' man portò scompiglio tra i fans di Cohen, unanimemente considerato come il suo peggior disco, tra le pieghe dei suoi suoni, si nasconde però il futuro musicale da metà anni ottanta ad oggi...
LEONARD COHEN Death of a ladies's man (1977)
Ogni grande artista ha tra i propri album , una pecora nera che rinnega. Leonard Cohen, a più di trent'anni dalla sua uscita, considera Death of a ladies' man un mezzo passo falso. Quando uscì i fans più accaniti di Cohen gridarono allo scandalo ascoltando il famoso wall of sound che il produttore Phil Spector costruì intorno alle canzoni di Cohen. Quelle che fino ad allora erano poesie musicate dalla sola voce e chitarra di Cohen( in verità un primo cenno di cambiamento vi era già nel precedente New skin for the old ceremony), sotto la cura di Spector diventano canzoni piene di strumenti, suoni, cori e controcori che nessuno si sarebbe mai aspettato. Quello che andava bene per gruppi come le Ronettes o Tina Turner, strideva al cospetto di artisti come Cohen, senza dimenticare i mezzi disastri che Spector combinò con Let it be dei Beatles e successivamente con End of the Centuty dei Ramones.
Cohen dopo quattro album di grande spessore lirico, costruiti attorno al suono folk, sente la necessità di dare una sterzata alla propria musica ma commette l'errore di fare il passo più lungo della gamba, cosichè il cambiamento è talmente evidente da lasciare molte perplessità e domande che però troveranno senso compiuto e risposte qualche anno dopo, quando questo disco di rottura divenne un punto di partenza per il cambiamento dei dischi successivi.
Il lavoro in comunione tra Cohen e Spector portò alla stesura del doppio delle canzoni che finiranno poi su disco. Lavoro che alla fine venne pubblicato in modo incompiuto, dando per buone registrazioni vocali che necessitavano ancora di molto lavoro e questo non andò molto a genio a Cohen. Spector circondò l'artista di un numero infinito di musicisti riuscendo a far partecipare Bob Dylan e il poeta beat Alan Ginsberg, in quegli anni collaboratori nel bestseller dylaniano Desire, nei cori di Don't go home with your hard -on.Le ririche di questo album parlano di amori, persi, ritrovati, fugaci che poi sono una costante nei testi di Cohen." Come la nebbia non lascia ferite nell'oscurità della collina , così il mio corpo non lascia ferite su di te e mai lo farà". Si apre così True love leaves no traces, prima traccia di un album dedicato all'amore e ai falllimenti amorosi(Iodine). Amore accecante e pieno di gelosia, quando l'oggetto del desiderio è vicino ma irrangiungibile(Paper-Thin Hotel), amore pruriginoso e fugace, tra il sacro e il profano di uno studente che alla festa della scuola , darebbe in cambio la sua fede pur di vedere la sua preda amorosa nuda(Memories), amore oramai spento che cerca un punto d'incontro che non esiste più(I left a woman waiting).
Canzoni, forse troppo appesantite dalla mano di Spector ma che mantengono la peculiarità testuale e stilistica che ha fatto di Cohen un compositore, sì sofisticato, ma in grado di raggiungere quella profondità dell'animo e darne una sua interpretazione, facendola raggiungere anche a chi trova tutto ciò sfuggente.
Dopo soli due anni, Cohen si riprese dalla sbornia Spector con un disco che musicalmente voleva tornare alla semplicità come Recent songs.
Rimane un esperimento che alla luce dei lavori futuri sembra essere un capostipite da cui rubare nuove soluzioni sonore.
LEONARD COHEN Death of a ladies's man (1977)
Ogni grande artista ha tra i propri album , una pecora nera che rinnega. Leonard Cohen, a più di trent'anni dalla sua uscita, considera Death of a ladies' man un mezzo passo falso. Quando uscì i fans più accaniti di Cohen gridarono allo scandalo ascoltando il famoso wall of sound che il produttore Phil Spector costruì intorno alle canzoni di Cohen. Quelle che fino ad allora erano poesie musicate dalla sola voce e chitarra di Cohen( in verità un primo cenno di cambiamento vi era già nel precedente New skin for the old ceremony), sotto la cura di Spector diventano canzoni piene di strumenti, suoni, cori e controcori che nessuno si sarebbe mai aspettato. Quello che andava bene per gruppi come le Ronettes o Tina Turner, strideva al cospetto di artisti come Cohen, senza dimenticare i mezzi disastri che Spector combinò con Let it be dei Beatles e successivamente con End of the Centuty dei Ramones.
Cohen dopo quattro album di grande spessore lirico, costruiti attorno al suono folk, sente la necessità di dare una sterzata alla propria musica ma commette l'errore di fare il passo più lungo della gamba, cosichè il cambiamento è talmente evidente da lasciare molte perplessità e domande che però troveranno senso compiuto e risposte qualche anno dopo, quando questo disco di rottura divenne un punto di partenza per il cambiamento dei dischi successivi.
Il lavoro in comunione tra Cohen e Spector portò alla stesura del doppio delle canzoni che finiranno poi su disco. Lavoro che alla fine venne pubblicato in modo incompiuto, dando per buone registrazioni vocali che necessitavano ancora di molto lavoro e questo non andò molto a genio a Cohen. Spector circondò l'artista di un numero infinito di musicisti riuscendo a far partecipare Bob Dylan e il poeta beat Alan Ginsberg, in quegli anni collaboratori nel bestseller dylaniano Desire, nei cori di Don't go home with your hard -on.Le ririche di questo album parlano di amori, persi, ritrovati, fugaci che poi sono una costante nei testi di Cohen." Come la nebbia non lascia ferite nell'oscurità della collina , così il mio corpo non lascia ferite su di te e mai lo farà". Si apre così True love leaves no traces, prima traccia di un album dedicato all'amore e ai falllimenti amorosi(Iodine). Amore accecante e pieno di gelosia, quando l'oggetto del desiderio è vicino ma irrangiungibile(Paper-Thin Hotel), amore pruriginoso e fugace, tra il sacro e il profano di uno studente che alla festa della scuola , darebbe in cambio la sua fede pur di vedere la sua preda amorosa nuda(Memories), amore oramai spento che cerca un punto d'incontro che non esiste più(I left a woman waiting).
Canzoni, forse troppo appesantite dalla mano di Spector ma che mantengono la peculiarità testuale e stilistica che ha fatto di Cohen un compositore, sì sofisticato, ma in grado di raggiungere quella profondità dell'animo e darne una sua interpretazione, facendola raggiungere anche a chi trova tutto ciò sfuggente.
Dopo soli due anni, Cohen si riprese dalla sbornia Spector con un disco che musicalmente voleva tornare alla semplicità come Recent songs.
Rimane un esperimento che alla luce dei lavori futuri sembra essere un capostipite da cui rubare nuove soluzioni sonore.
mercoledì 28 luglio 2010
DISCHI IN ASCOLTO...in rigoroso ordine casuale...
THE BLACK CROWES Croweology (Silver Arrow Records, 2010)
Poco tempo per apprezzarne il ritorno, i due album Warpaint e Before the frost...until the freeze che i Black Crowes decidono di salutarci per un pò.
Croweology è un doppio album umplugged registrato live nel 2009 ed esce per festeggiare i 20 anni trascorsi dal loro debutto discografico Shake your money maker e si candida ad essere il lavoro che mette un freno alla loro carriera, si spera momentaneo.
L'album ripercorre l'intera carriera della band dei fratelli Robinson, mostrando il lato puramente roots ed acustico che già si intravedeva in Until the breeze, la seconda parte della precedente uscita discografica.
Mandolini, lap steel, pedal steel e violini colorano di americana grandi canzoni del loro repertorio come She talks to angels, Remedy, Soul singing, Sister luck, per un totale di venti canzoni tra cui la cover di She di Gram Parsons e alcune chicche. Registrato al Sunset Sound di Los Angeles ci mostra una band mai così unita e soprattutto alla continua ricerca di semplicità come testimoniano le loro ultime uscite, suonate e registrate dal vivo , lontane da sovraincisioni da studio.
La brutta notizia che ci rimane è quella di perderli nuovamente dopo il lungo tour che li terrà impegnati fino a dicembre negli states e che naturalmente non toccherà l'Europa.
LOS LOBOS Tin Can Trust (Shout! Factory, 2010)
Dopo il divertente antipasto Los Lobos goes Disney, album di cover dei classici Walt Dysney, i Los Lobos tornano a fare sul serio, incidendo un album che musicalmente racchiude tutte le caratteristiche poliedriche del loro sound.
Rock quasi oscuro e younghiano come nell'iniziale Burn it down(con l'ospitata di Susan Tedeschi)e nella finale 27 Spanishes, blues profondo in Jupiter or the moon il latino-messicano festaiolo e ballabile di Mujer ingrata, con tanto di fisarmonica e di Yo canto. Le ballate come All my bridges burning, la strumentale Do the murray che potrebbe essere benissimo una outtakes del miglior Santana anni settanta e in più la cover di West L.A. Fadeaway dei Grateful Dead.
Insomma un buon ritorno, vario e pieno di sfumature, per un disco che si candida ad essere il mio disco dell'estate.
JOHNNY FLYNN Been Listening (Transgressive, 2010)
Il debutto di due anni fa,A Larum,aveva già fatto intravedere le qualità di questo giovane ragazzo londinese che si candidò ad essere il portabandiera della nuova scena neo-folk britannica. Passato recentemente in Italia insieme ai Mumford & sons, altra rivelazione dell'anno 2009, ora ci stupisce con un lavoro che si stacca quasi totalmente dall'esordio, per colorare le sue canzoni folk con strumenti a fiato e ritmi provenienti da mondi lontani. Il primo paragone che salta in mente è il Paul Simon del periodo Graceland/The rhythm of the saints. Se alcune canzoni rimangono legate al precedente disco come Lost and found e Been listening, l'ascolto di Churlish May, dove percussioni e fiati arricchiscono i suoni di calore sudamericano, quasi stupisce. Sempre accompagnato dai fidi e giovani musicisti del debutto, Johnny Flynn con questo lavoro si conferma artista a tutto tondo, voglioso e curioso di dare alla sua musica sempre spunti nuovi da cui partire ed arrivare.
lunedì 19 luglio 2010
CROSBY, STILLS & NASH: recensione CONCERTO Milano Jazzin' festival 16 Luglio 2010
Quando la puntina del giradischi finiva la sua corsa dopo l'ultima nota di Pre-Road Downs capitava, a volte, che continuasse a girare all'infinito in un continuo fruscio. Si accorreva velocemente e si riaccompagnava la leva a mano, si girava il disco e ripartiva Wooden Ships. Si riprendeva in mano la copertina doppia apribile e si guardava quell'enorme foto interna con tre teste che spuntavano fuori da pellicce abbottonate fino al collo. Doveva fare parecchio freddo quel giorno quando fecero lo scatto.
Quelle tre teste sono, stasera 17 Luglio 2010, proiettate sul palco dell'arena civica di Milano: non fa freddo , la temperatura supera i trenta gradi, le zanzare sono appostate come killers e sopra quelle teste il colore dominante è il bianco. Insomma, sono passati 40 anni da quel luccicante esordio ma una cosa è rimasta intatta: gli impasti vocali e le caratteristiche che hanno fatto di Crosby, Stills & Nash una leggenda della musica.
David Crosby è chiaramente il meno in forma dei tre fisicamente, starà fermo per tutto il concerto, come dargli torto dopo tutto quello che ha subito in vita, rimane un sopravvissuto del rock'n'roll che assume ancor di più quell'aria da guru che gli venne tributata all'epoca, tanto che molti videro la sua figura nel personaggio di Dennis Hopper in Easy Rider. Il carisma e la voce però sono rimaste quelle di allora.
Stephen Stills rimane il rocker del gruppo, anche lui sembra ben ristabilito, sempre pronto a colorare i suoni con la sua chitarra e impreziosire il tutto con i suoi assoli.
Graham Nash è il cerimoniere, il più attivo fisicamente, scalzo, si sposta da una parte all'altra del palco, dialoga con il pubblico e delizia con la sua romantica delicatezza canora presentandosi spesso in scena con un calice di buon vino rosso.
La setlist è quella che stanno portando in giro per l'Europa e comprende quelle cover che presto usciranno in disco con la produzione di mister Rick Rubin e che sembrano aver ridato nuovi stimoli al gruppo.
La partezza è bruciante, con il sole che sta calando, irrompe Woodstock. La canzone della Mitchell è diventata il simbolo di una generazione che si illudeva di cambiare il brutto del mondo con la musica ma che ora è rassegnata a cercare di tappare il greggio che fuoriesce da una piattaforma, consapevole che meno lo si fa uscire, più anni di vita daremo a questo povero mondo.
La prima ora di musica vedrà anche una strepitosa Wooden Ships con grande coda finale e Stills protagonista, Long Time Gone , Southern Cross dal sempre sottovalutato "Daylight again" del 1982, Military Madness e In your name dal repertorio solista di Nash, Bluebird dei Buffalo Springfield, Marrakesh Express e una sorpresa come Long May you run dal disco omonimo del duo Young-Stills.
A dare man forte: i fidi Joe Vitale alla batteria e Bob Glaub al basso più i due tastieristi.
Dopo una pausa di circa 20 minuti, il concerto riprende in modo acustico e qui il tutto si colora. Gli strepitosi impasti vocali dei tre galleggiano nel silenzio assorto dell'arena creando quella magia che solo le loro tre voci insieme riescono ad emanare. Possiamo così ascoltare una succulenta anteprima del prossimo disco in uscita a fine anno: Girl from the north country (Bob Dylan), Ruby Tuesday (Rolling Stones), Norwegian wood (Beatles) tra le altre e poi una stupenda Guinnevere cantata in coppia da Crosby-Nash che da sola vale l'intero concerto. La potenza vocale di Crosby, con i suoi capelli brizzolati sventolati da un ventilatore, irrompe in Delta mentre Nash ci delizia con Our House cantatissima dai fan e una epica Cathedral ripescata dall'omonimo del 1977. Bellissima.
C'è ancora il tempo per l'elettricità di Behynd blue eyes dal repertorio Who, che non ha nulla da invidiare all'originale, la richiestissima Almost cut my hair e il finale con, finalmente, tutto il pubblico che lascia le sedie, sotto richiesta di Nash, e si avvicina alle transenne sottopalco.
Ovazione e messaggio recepito, il trio vuole sentire il calore e ora io mi chiedo perchè non poteva essere tutto il concerto così? Si tratta sempre e comunque di rock e le sedie mal si adattano al caso.
Love the one you're with e Teach your children , cantate da tutto il pubblico, pongono fine a più di due ore di grande musica consacrata a rimanere tale nei secoli dei secoli. Punto.
giovedì 15 luglio 2010
WILLIE NILE: recensione CONCERTO Asti Musica 14 Luglio 2010
...prima tappa del tour che presenterà il nuovo album "The innocent ones" di prossima pubblicazione,...sotto l'incantevole cattedrale di Asti...
Willie Nile è un portatore sano di rock'n'roll, schietto, diretto, sincero, glielo si legge negli occhi, lo si vede dalla sua camminata, dai gesti e dal suo look. Il piccolo sessantenne di New York ha confermato anche questa sera tutto il bene che ha saputo costruirsi durante una carriera irta di ostacoli che il nostro ha saputo superare venendo fuori alla distanza e riconfermando il tutto, complice un pubblico costretto a stare seduto per buona parte del concerto ma che , forse un pò in ritardo si è lasciato catturare dal piccolo man in black , catapultandosi in piedi per portarlo in trionfo nel finale.
Asti musica è una rassegna che vuole essere una carrellata quantomai esaustiva e varia sulle diverse sfacettature dei generi musicali sotto la stupenda e suggestiva cornice della cattedrale gotica. Quindici giorni di musica ininterrotta che stasera fa tappa negli States presentando due cantautori, purtroppo sconosciuti al grande pubblico.
Ad aprire per Nile il coscritto Dirk Hamilton, un passato da stella nascente dellla west coast californiana degli anni settanta, con un futuro radioso da scrivere, si perse o meglio preferì continuare la sua ricerca musicale nel sottobosco e per certi versi, questo lo accomuna a Nile. Folk, blues e soul sono i suoi mezzi di comunicazione e una voce tutta da riscoprire, il tutto unito da una profonda simpatia e amore verso l'Italia e per i musicisti italiani che lo accompagnano.
E' un peccato che pochi giovani abbiano assistito al concerto di Nile. Il piccolo folletto newyorchese ha impartito una lezione di rock, lui nato artisticamente nella New York di metà anni settanta, quando il CBGB's della grande mela ospitava Television, Ramones, Talking Heads e Patty Smith. Nile è la congiunzione tra il cantautorato profetico di papà Dylan, gli Stones del "...but i like it" e il punk rock urbano dei Ramones a cui il nostro non manca mai di fare omaggio, stasera è stata la volta di I wanna be Sedated.
Willie Nile è un grande comunicatore, attraverso le parole delle sue canzoni e cercando a più riprese il dialogo con il suo pubblico. Spiega le canzoni e abbozza qualche parola in Italiano, visto che l'Italia in questi ultimi anni sembra proprio piacergli. Accanto ai suoi cavalli di battaglia vecchi e nuovi, Vagabond moon, una richiestissima e scatenata She's so cold nel finale, Run, una trascinante Cell phone ringing scritta dopo il fatidico 11 settembre,Give me tomorrow e la nuova Innocent ones dal prossimo disco in uscita, Willie omaggia a più riprese amici, icone e suoi idoli, a dimostrazione di quanto sia ancora lui stesso un fan della musica.Omaggia Jeff Buckley con On the road to calvary scritta nel 1999 per l'artista dal futuro spezzato, suona e fa cantare al pubblico Hit the road Jack di Ray Charles, spiegando di come lui e la sua band decisero di metterla in scaletta dopo averla ascoltata in radio durante uno spostamento lungo le autostrade italiane, cita l'amico Roger Mcguinn a cui dedica la commovente e pianistica Across the river.
Scatena la sua esile e nervosa figura omaggiando gli Who con Substitute e finendo alla grande con gli Stones di Satisfaction. A questo punto il pubblico è tutto dalla sua e nonostante la stanchezza visibile, a cinque minuti da fine concerto si presenta al banco del merchandise per riconcedersi un'altra volta. Dischi, foto, autografi in quantità e nuovi fans conquistati. Questa è la politica del piccolo Willie che ha sempre preferito i piccoli passi, fatti senza svendere nulla agli aguzzini mercenari della musica e il suo esilio discografico di quasi dieci anni negli eighties parla chiaro.
Come ebbe a dire nella prefazione di un libro:" Non importa che sia un club, uno stadio, un angolo di strada. A New York, Dublino o San Francisco: la musica che arriva dal cuore vive e respira nelle voci e nelle canzoni di chi fa il viaggio."
Bravo Willie.
vedi anche RECENSIONE: WILLIE NILE-American Ride (2013)
Willie Nile è un portatore sano di rock'n'roll, schietto, diretto, sincero, glielo si legge negli occhi, lo si vede dalla sua camminata, dai gesti e dal suo look. Il piccolo sessantenne di New York ha confermato anche questa sera tutto il bene che ha saputo costruirsi durante una carriera irta di ostacoli che il nostro ha saputo superare venendo fuori alla distanza e riconfermando il tutto, complice un pubblico costretto a stare seduto per buona parte del concerto ma che , forse un pò in ritardo si è lasciato catturare dal piccolo man in black , catapultandosi in piedi per portarlo in trionfo nel finale.
Asti musica è una rassegna che vuole essere una carrellata quantomai esaustiva e varia sulle diverse sfacettature dei generi musicali sotto la stupenda e suggestiva cornice della cattedrale gotica. Quindici giorni di musica ininterrotta che stasera fa tappa negli States presentando due cantautori, purtroppo sconosciuti al grande pubblico.
Ad aprire per Nile il coscritto Dirk Hamilton, un passato da stella nascente dellla west coast californiana degli anni settanta, con un futuro radioso da scrivere, si perse o meglio preferì continuare la sua ricerca musicale nel sottobosco e per certi versi, questo lo accomuna a Nile. Folk, blues e soul sono i suoi mezzi di comunicazione e una voce tutta da riscoprire, il tutto unito da una profonda simpatia e amore verso l'Italia e per i musicisti italiani che lo accompagnano.
E' un peccato che pochi giovani abbiano assistito al concerto di Nile. Il piccolo folletto newyorchese ha impartito una lezione di rock, lui nato artisticamente nella New York di metà anni settanta, quando il CBGB's della grande mela ospitava Television, Ramones, Talking Heads e Patty Smith. Nile è la congiunzione tra il cantautorato profetico di papà Dylan, gli Stones del "...but i like it" e il punk rock urbano dei Ramones a cui il nostro non manca mai di fare omaggio, stasera è stata la volta di I wanna be Sedated.
Willie Nile è un grande comunicatore, attraverso le parole delle sue canzoni e cercando a più riprese il dialogo con il suo pubblico. Spiega le canzoni e abbozza qualche parola in Italiano, visto che l'Italia in questi ultimi anni sembra proprio piacergli. Accanto ai suoi cavalli di battaglia vecchi e nuovi, Vagabond moon, una richiestissima e scatenata She's so cold nel finale, Run, una trascinante Cell phone ringing scritta dopo il fatidico 11 settembre,Give me tomorrow e la nuova Innocent ones dal prossimo disco in uscita, Willie omaggia a più riprese amici, icone e suoi idoli, a dimostrazione di quanto sia ancora lui stesso un fan della musica.Omaggia Jeff Buckley con On the road to calvary scritta nel 1999 per l'artista dal futuro spezzato, suona e fa cantare al pubblico Hit the road Jack di Ray Charles, spiegando di come lui e la sua band decisero di metterla in scaletta dopo averla ascoltata in radio durante uno spostamento lungo le autostrade italiane, cita l'amico Roger Mcguinn a cui dedica la commovente e pianistica Across the river.
Scatena la sua esile e nervosa figura omaggiando gli Who con Substitute e finendo alla grande con gli Stones di Satisfaction. A questo punto il pubblico è tutto dalla sua e nonostante la stanchezza visibile, a cinque minuti da fine concerto si presenta al banco del merchandise per riconcedersi un'altra volta. Dischi, foto, autografi in quantità e nuovi fans conquistati. Questa è la politica del piccolo Willie che ha sempre preferito i piccoli passi, fatti senza svendere nulla agli aguzzini mercenari della musica e il suo esilio discografico di quasi dieci anni negli eighties parla chiaro.
Come ebbe a dire nella prefazione di un libro:" Non importa che sia un club, uno stadio, un angolo di strada. A New York, Dublino o San Francisco: la musica che arriva dal cuore vive e respira nelle voci e nelle canzoni di chi fa il viaggio."
Bravo Willie.
vedi anche RECENSIONE: WILLIE NILE-American Ride (2013)
Iscriviti a:
Post (Atom)