domenica 28 agosto 2022

RECENSIONE: PAOLO NUTINI (Last Night In The Bittersweet)

PAOLO NUTINI   Last Night In The Bittersweet (Atlantic, 2022)



quando un disco è bello non ha bisogno di etichette. E Last Night In The Bittersweet è bello!

Paolo Nutini ha sempre avuto tutto dalla sua parte: una voce incredibilmente soul (ah quelle voci bluesy scozzesi!), una rara capacità di scrittura pop, l'indole e il carisma per arrivare all'ascoltatore più distratto. La presenza. Nonostante tutto, partendo dalle cose più facili ottenute con il minimo sforzo in gioventù, negli anni non ha mai smesso di crescere, sperimentare, imboccare nuove strade che partendo da una buona base pop potessero raggiungere altri generi. Il percorso inverso di tanti altri. Last Night In Bittersweet esce a ben otto anni dal suo ultimo disco Caustic Love (che fu una dichiarazione d'amore per il soul) e tocca il vertice di questa sua instancabile, preziosa ricerca -e crescita- che  se volessimo delimitare da due punti fermi dentro a questo disco si potrebbero visualizzare concretamente nel crescendo soul di 'Through The Echoes' al battito elettro di kraut rock in 'Lose It'. Il passato e il futuro. Tutto il presente dentro.

In mezzo 70 minuti di canzoni scritte in modo sublime che non danno troppi punti di riferimento ma ottengono punti al valore. Scritte e suonate in modo impeccabile nuotando con disinvoltura dentto una vasta gamma di emozioni e turbolenze che ha raccolto negli otto anni di assenza discografica: gli anni settanta di 'Everywhere' e 'Children Of The Stars' con belle chitarre e tutta quella brezza West coast che ci soffia sopra, una 'Radio' che non dispiacerebbe al canzoniere di Ryan Adams, il country folk alla Johnny Cash di 'Abigail', un inno alla felicità da (ri)trovare, la psichedelia di 'Heart Filled Up', la marzialità indie rock di  'Shine A Light', la ballata al pianoforte 'Julienne', una piccola gemma, che potrebbe essere il vero anello di congiunzione tra Paul McCartney e John Lennon più introspettivi, il tranquillo folk finale di 'Writer' che va a cozzare con 'Afterneath' il modo quasi violento e disturbato, con i suoi gorgheggi alla Robert Plant, con il quale il disco si apre e che contiene  un dialogo rubato al film True Romance (Una Vita Al Massimo) sceneggiato da Quentin Tarantino.

Un disco in movimento, ricco di spunti, certamente ambizioso, che non contiene tormentoni (come lo furono in passato 'New Shoes' e 'Candy') che potrebbe insegnare molto a tanti nomi più blasonati e sulla breccia da decenni su come si possano portare a termine  settanta minuti di musica senza perdersi per strada. Certo ci sono voluti otto anni ma ne è valsa la pena.





giovedì 25 agosto 2022

RECENSIONE: NAZARETH (Surviving The Law)

NAZARETH  Surviving The Law (Frontiers Records, 2022)



verso il futuro

Quando hai un cantante dalla voce unica e caratteristica come fu quella di Dan McCafferty, che però ad un certo punto della carriera (più di cinquant'anni) è costretto a lasciare per motivi di salute, hai una mazzo di scelte per proseguire la strada: ti ritiri perché il meglio lo hai già dato e quel cantante è insostituibile, continui con un altro cantante che cerca di scopiazzare l'ugola altrui, oppure continui con un altro cantante dal timbro diverso e cambi il sound pur mantenendo continuità con il passato. Gli scozzesi Nazareth hanno optato per la terza via, hanno rischiato ma in qualche modo stanno avendo ragione. Guidati dal veterano e unico superstite della formazione storica, il bassista Pete Agnew, Surviving The Law è un album solido e compatto di hard rock con puntate metal e blues racchiuso in una orribile e anonima copertina che non fa il suo dovere. E qui un giorno qualcuno ci racconterà perché nessuno investe più nella nobile arte delle copertine. Carl Sentance (già Krokus, Don Airey Band) è un cantante esperto e formato, con caratteristiche tutte sue. Dopo il rodaggio del precedente Tattooed In My Brain, qui riesce a prendere in mano le redini del gruppo e trasportarlo verso una nuova fase di carriera, il tutto registrando le sue parti vocali lontano dalla band in piena pandemia. Un disco quadrato che fin dall'apertura 'Strange Days' mostra muscoli e dinamicità. 

Un suono sempre fresco sia quando accelerano in 'Runaway', dai vaghi sentori NWOBHM, nel blues pesante 'Sweet Kiss', nel grido d'indipendenza scozzese che esce chiaro e forte nella sincopata 'Let The Whisky Flow', nel blues finale 'You Made Me' con Agnew che si impadronisce del microfono. Quattordici canzoni che non fanno gridare al miracolo ma mantengono in vita un gruppo onesto e dalla scorza dura e forte come lo stomaco di chi accompagna un piatto di Angus con il migliore dei Whisky invecchiati.





sabato 20 agosto 2022

DISCHI in BREVE: BEN HARPER (Bloodline Maintenance)

BEN HARPER  Bloodline Maintenance (Chrysalis, 2022)


ritorno al passato

Che bello Bloodline Maintenance il nuovo album di BEN HARPER. Un disco quasi ostico (nessun singolone acchiappa masse) che si apre con un gospel a cappella ('Below Sea Level'), personale (già dalla copertina che lo ritrae in una vecchia e bella foto in compagnia del padre Leonard, molto assente nella sua vita, nel testo di 'Problem Child' con i fiati di Geoff Burke) e combattivo il giusto: in 'We Need To Talk About It' tratta il razzismo con frasi dure (" immagino che chiunque dica che il tempo guarisce tutte le ferite non fosse uno schiavo"), in 'Where Did We Go Wrong' denuncia e da una voce a chi non vuole farsi piegare dalle direzioni sbagliate che la sua America e più in generale il mondo stanno prendendo.

Un disco che solo i grandi possono permettersi a una certa età ma che non tutti hanno il coraggio di fare. Un ritorno forte alle radici. Tutte le radici.

Guarda al Blues dei padri ('Knew The Day Was Comin') e alla black music dall'inizio alla fine (bello il soul di 'Honey Honey'), con Harper che suona quasi tutto da solo e l'anima gentile del compianto Juan Nelson che gira intorno e fa da ispirazione. Un gran bel ritorno. 



mercoledì 17 agosto 2022

NEBULA: disco (Transmission From Mother Earth) e concerto Live@Blah Blah, Torino, 4 Agosto 2022

 

NEBULA  Transmission From Mother Earth (Heavy Pych Sounds, 2022)

Transmission From Mother Earth è il settimo album dei californiani NEBULA, il secondo dopo la reunion del 2019. Registrato nel deserto del Mojave, la band guidata da Eddie Glass sembra aver ritrovato l'antica forma. Certo, meno irruenza rispetto agli anni d'oro di To The Center (disco imprescindibile dello stoner anni novanta) ma tutta la maturità che permette di costruire canzoni stratificate, cangianti ('Transmission from the Mothership' alterna riff giganteschi alla melodia) che fluttuano tra psichedelia ('Wilted Flowers'), space rock ('Highwired') e stoner blues ('Existential Blues'), pure rileggendo a modo loro lo spaghetti western (la conclusiva 'The Four Horseman') con l'apice raggiunto nei sette minuti di 'Warzone Speedwulf' che riassume lo status operandi dei Nebula annata 2022, alternanza tra scosse elettriche cariche di fuzz e morbidi trip sopra a tappeti psych che volano alti da terra. Stooges meets Hawkwind. Tra i migliori viaggi lisergici di questa torrida estate (forse dell'anno, chissà chi farà meglio?) che lì vedrà protagonisti in Italia tra pochi giorni per una serie di date certamente da non perdere.


CONCERTO: NEBULA live@Blah Blah, Torino, 4 Agosto 2022

Eddie Glass si presenta sul palco con occhiali da sole e kefiah tirata su fino al naso, come se stesse surfando di notte attraverso la terra e la sabbia del suo deserto del Mojave in California, una tazza di the sul pavimento fa bella mostra di sé accanto alla pedaliera, il batterista Mike Amster indossa la stessa t shirt di Paranoid dei Black Sabbath vista proprio qui quando accompagnò i Mondo Generator di Nick Oliveri e picchia sempre come un fabbro sul ferro, mentre Tom Davies è imponente come il suo basso.

Siamo invece in pieno centro a Torino città, il caldo interminabile di questi mesi è stemperato dall'aria condizionata e dentro al Blah Blah, nonostante le piccole dimensioni, si sta sempre da dio. Ci ho visto tanti concerti in questi mesi. Un set che dura poco più di un'ora per dimostrare quanto l'ultimo album fresco di pochi giorni Transmission From Mother Earth, abbia ridato al gruppo californiano quella centralità che compete loro tra le band stoner più legate al blues psichedelico dei seventies. La copertina del loro primo disco To The Center, invece, in venticinque anni ha guadagnato la vetrina della storia. Difficile scalzarla o solo dimenticarla.

Poche parole, il cantato di Glass non è certamente la loro arma forte, a parlare è sempre la musica. 

Glass guida sempre le danze, la ritmica lo segue con fedeltà anche nelle improvvisazioni e divagazioni.


Si intrecciano riff pesanti, carichi di fuzz e si ondeggia con la testa, con divagazioni space psichedeliche, fumose, acide, si chiudono gli occhi cercando di immaginarsi con una kefiah sulla bocca, surfando tra la sabbia, le rocce, il cielo blu e le stelle sopra. Blue Cheer, Black Sabbath, Hawkwind, Jimi Hendrix e Stooges giocano la loro partita a poker. Glass incassa. 

Forse dieci minuti in più avrebbero fatto la felicità di tutti ma agli artisti va sempre l'ultima parola. Il banchetto del merchandise è ricco, i prezzi ragionevoli (il nuovo disco in cd a dieci euro): si paga anche per uscire, anche se dentro, tra fresco e musica, si sta molto meglio. Però realizzo che domani è venerdì, ed è pure l'ultimo giorno prima delle ferie...




sabato 13 agosto 2022

RECENSIONE: ZZ TOP (That Little Ol' Band From Texas- Original Soundtrack)

 

ZZ TOP  That Little Ol' Band From Texas- Original Soundtrack (BMG, 2022)




l'ultima suonata di Dusty Hill

Nudi e crudi come papà Texas li aveva cresciuti. Poi vabbè hanno deviato alcune strade durante il percorso verso la notorietà mondiale. Però se il cerchio doveva chiudersi, bello ritrovarli così, in un disco pulito senza colpi di straccio, grezzo e imperfetto il giusto.

"Un ritorno alle nostre radici" scrivono nelle note al disco "solo noi e la musica". Nemmeno il pubblico in queste registrazioni live avvenute al Gruene Hall, la più vecchia sala da ballo del Texas. Solo i "tre uomini": Billy Gibbons, Dusty Hill e Frank Beard. Sembra che i tre fossero li per altre cose ma non vuoi mica non suonare quando trovi gli strumenti già sul palco?

Sono le ultime registrazioni di Dusty Hill (naturalmente il disco è a lui dedicato) e vengono alla luce sottoforma di colonna sonora per il documentario Netflix That Little Ol' Band From Texas andato in onda nel 2019 ma ancora assente in Italia. Si parte dalla vecchia 'Brown Sugar' e si toccano le immancabili 'La Grange', 'Tush' fino alla sensuale e notturna 'Blue Jean Blues'. E anche quando negli anni ottanta le luci di Las Vegas sembravano offuscare e avere la meglio sulla polvere texana, qui 'Gimme All Your Lovin' diventa calda e torrida come a inizio carriera. Domani sarà passato un anno esatto dalla scomparsa di Dusty Hill e l'omaggio mi sembra puntuale e perfetto. 





martedì 9 agosto 2022

RECENSIONE: WHISKEY MYERS (Tornillo)

 

WHISKEY MYERS   Tornillo (Thirty Tigers, 2022)



veterani del nuovo southern

Il precedente disco uscito nel 2019 aveva tutte le caratteristiche di un nuovo inizio: intitolato semplicemente con il nome della band, presentato da una candida copertina bianca in stile "white album", novità come l'autoproduzione dopo gli anni insieme a David Cobb e infine un suono sempre più caratteristico che faceva proprio southern rock, soul di casa muscle shoals, country e rock'n'roll. Il nuovo album intitolato Tornillo, nome preso in prestito dal luogo in Texas che ospita gli studi di registrazione Sonic Ranch dove il disco ha preso vita, conferma quegli indizi dando più vigore al tutto, cominciando dalla splendida copertina disegnata dall'artista texano Zachary EZ Nelson, in netta contrapposizione con la precedente, che richiama il Texas e alcuni simboli cari agli ZZ Top. Ecco: la cura delle copertine non guasta mai in questi tempi sempre più asettici.

Che Cody Cannon (cantante e autore) e compagni sappiano scrivere canzoni lo si intuisce fin dal trittico iniziale: quando l'intro 'Tornillo' breve strumentale dai sapori tex mex e tromba mariachi lascia il posto al trascinante southern funky 'John Wayne' dove la band sconsolata sembra "guardare il mondo andare in fiamme" e dalla successiva e tosta 'Antioch', con il soul che insegue il rock'n'roll. Con la presenza dei cori delle McCrary Sisters e il largo uso di strumenti a fiato le canzoni della band si sono riempite, colorate di mille sfumature (il bel blues nero di 'Bad Medicine'), anche se non mancano episodi più veloci e boogie ('Feet's') hard come ' The Wolf' e 'Other Side' o ballad come 'When World Gone Crazy', l'arioso e epico country di 'For The Kids', un atto d'amore, 'Heavy In Me', la malinconica 'Heart Of Stone' che chiude il disco.

Tornillo si candida a diventare il nuovo punto di riferimento per la band di Palestine e se ciò succede dopo quindici anni di carriera, vuol dire che in questi anni hanno lavorato bene. E lasciatemelo dire, oggi come oggi, per me i Whiskey Myers si siedono sullo scettro di miglior southern rock band americana superando di gran lunga i Blackberry Smoke a cui voglio molto bene ma ai quali ho sempre imputato la mancanza di "canzoni".





sabato 6 agosto 2022

RECENSIONE: HANK WILLIAMS JR. (Rich White Honky Blues)

 

HANK WILLIAMS JR.  Rich White Honky Blues (Easy Eye Records, 2022)



figli

Appena uscito, Rich White Honky Blues ha debuttato al numero uno delle classifiche country americane. Questo per farci capire quanto Hank Williams Jr. conti ancora in patria. Uno che in vita ha dovuto trascinarsi dietro il fardello del pesante nome del padre (per poi darlo anche a suo figlio Hank III)  ma che in qualche modo si è costruito la sua onesta carriera tra country, southern rock e idee patriottiche che solo se vivi in America puoi capire e forse condividere. Dentro di lui però ha sempre bruciato il fuoco nero del Blues e un disco del genere arrivato a 73 anni sa di sfogo e liberazione. Non si sa se resterà solo un divertimento o un nuovo inizio. Intanto c'è!

Di country dentro a queste dodici canzoni, quindi, non sentirete nulla: questo è un omaggio al blues dall'inizio alla fine. Accanto a tre canzoni originali scritte da Williams ('Rich White Honky Blues', I Like It When It's Stormy', l'autobiografica ' Call Me Thunderhead') trovano posto composizioni di Robert Johnson, Muddy Waters, R.J.Burnside, Lightnin' Hopkins, Jimmy Reed. Quello che sorprende maggiormente è il suono catturato: grezzo, sontuoso, vero che Dan Auerbach è riuscito a cogliere in poche sedute di registrazione senza portarlo, una volta tanto, in territori Black Keys a lui cari. Registrato a Nashville all' Easy Eye Sound di Auerbach insieme a vere e proprie leggende del North Mississippi Country Blues come i chitarristi Kenny Brown e Eric Deaton, il batterista Kinney Kimbrough, l'armonicista Tim Quinne, Rich White Honky Blues pur non presentando sorprese ha la forza di sorprendere e tenerti incollato all'ascolto. Si sente l'amore, la devozione e il divertimento (pure qualche parola) girare tra i solchi delle canzoni. 

"Quando siamo entrati in studio, più abbiamo suonato, più siamo entrati in profondità – e più siamo entrati in profondità, più volevamo andarci".

E divertente è pure l'aneddoto che ha dato il titolo all'album e alla canzone omonima. Williams, "ma chiamatemi pure Thunderhead", dice sia arrivato in dono da un incontro che fece da adolescente con l'attore Redd Foxx, ossia il burbero rigattiere Fred Sanford della sit com americana Sanford and Son (ve la ricordate?) andata in onda nella prima metà degli anni settanta in America e nei primi anni ottanta in Italia. Una serie coraggiosa per l'epoca: gli attori erano tutti afroamericani e temi sociali e razziali non erano rari.

Il vecchio Redd disse di avere tutti i dischi papà Hank, così Thunderhead si immaginò Fred Sanford alle prese con il figlio Lamont nella sitcom:" Lamont! Why you hanging out with all those old rich white honkies for?'". Ecco il titolo! Una delle mie serie tv preferite che mi ricorda pomeriggi casalinghi davanti alla tv e i libri di scuola chiusi. Poi, scopro che la serie fu musicata da Quincy Jones. Tutto torna. Viva la musica.




domenica 31 luglio 2022

RECENSIONE: JACK WHITE (Entering Heaven Alive)

 

JACK WHITE  Entering Heaven Alive (Third Man Records, 2022)

hit the road Jack

Esistono tanti Jack White, o forse solo due tanto differenti con molte sfumature intorno. O ancora solo uno a cui piace giocare così tanto con la musica da spiazzare ad ogni occasione. 

Fatto sta che quest'anno ha deciso di separarsi veramemte in due e consegnarci la sua arte in due dischi ben distinti. Diversi. Molto diversi. Pochi mesi fa uscì Fear Of The Dawn, dove il lato più bizzarro e modernista si impossessava delle canzoni fino quasi a renderle delle non canzoni. Elettrico, rumoroso, confuso, onanista all'inverosimile e  spiazzante. Forse troppo di tutto. Ora a qualche mese di distanza ci regala il lato easy, vintage, caldo e classico della sua arte, fatto di canzoni semi acustiche ma ricche di strumenti, quasi sempre suonati da lui stesso. Un disco dall'accento quasi pop, confidenziale dove l'amore in tutte le sue forme regna sovrano soprattutto quello di White per i grandi classici del rock come gli Stones ('A Tip From You To Me' potrebbe essere una classica ballata di Jagger e soci di metà anni settanta), i sixties ('Help Me Along' dedicata alla figlia Scarlett, con i suoi crescendo di archi è una deliziosa canzone pop che unisce Paul McCartney ai Kinks), gli amati Led Zeppelin (la bucolica 'Love Is Selfish').

Atmosfere calde, vere, analogiche dove il superbo trip primitivo di 'I've Got You Surrounded (With My Love)', con una meravigliosa chitarra che si manifesta impetuosa su un tappeto jazz, convive con la notturna e waitsiana 'Queen Of The Bees' dedicata alla moglie Olivia Jean. Le ballate imperversano ma proponendosi sempre in modo diverso grazie all'aggiunta di diversi colpi di genio:  'If I Die Tomorrow' conquista al primo ascolto,  'Please God, Don't Tell Anyone' sprigiona folk,  'Madman From Manhattan' gioca di swing in modo gentile, 'Taking Me Back (Gently)' riprende la canzone che apriva il precedente disco, trasformandola però in un travolgente swing country che chiude un disco sorprendente riconsegnandoci un Jack White in forma smagliante. A questo punto quale sia dei tanti White poco importa. La libertà regna sovrana.






martedì 26 luglio 2022

RECENSIONE: JOHN DOE (Fables In A Foreign Land)

 

JOHN DOE  Fables In A Foreign Land (Fat Possum Records, 2022)



il fattore X

John Doe difficilmente ha sbagliato un disco negli ultimi tempi, sia quando ha dettato le cordinate degli X, sia quando ha vestito i panni del cantastorie in versione solista. E non c'è bisogno di andare troppo indietro nel tempo, il ritorno della band nel 2020 con Alphabetland era un buon disco, cosa non scontata per dei ritorni, l'ultimo solista The Westerner uscito sei anni fa fu una delle migliori uscite cantautorali del 2016 . E pure Fables In A Foreign Land si gioca le sue degne carte: nell'idea di fondo nei testi delle canzoni, ambientati tutti negli anni novanta del 1800 creando un parallelismo di perdite e desolazione con i due recenti anni di lockdown, "c'è molto da dormire per terra, molta fame, molto isolamento. Tutto ciò si inserisce nel tipo di isolamento e mancanza di stimoli moderni  che le persone penso abbiano iniziato a riscoprire durante il blocco della pandemia" racconta Doe, nei suoni minimali su cui l'album si tiene benissimo in piedi, la sua forza, grazie all'aiuto del bassista Kevin Smith e del batterista Conrad Choucroun, sulle canzoni oggettivamente tutte belle. Difficile trovare pecche in questi tredici brani d'impalcatura folk (l'iniziale 'Never Coming Back'), dove il violino seduce in 'Down South', che scivolano nel tex mex (la fisarmonica in 'Guilty Bystander'), che cavalcano l'epopea Western ('The Cowboy And The Hot Air Balloon'), in fondo il protagonista principale di tutto l'album è un cowboy errante, o a sostenuto ritmo Hillbilly ('Travellin So Hard). Collaborano Terry Allen, Louie Perez (Los Lobos), la compagna di mille battaglie Exene Cervenka e Shirley Manson (Garbage).

Parlando ancora del periodo pre industriale nel quale sono ambientate le canzoni, John Doe dice: "dovevi lottare per sbarcare il lunario, tenere un tetto sopra la testa e tenere il cibo in tavola". Apro il giornale, lo sfoglio e quello che che ci trovo sono queste cose.

Un disco dai messaggi attuali con vecchi suoni folk intorno.





domenica 17 luglio 2022

RECENSIONE: THE SHEEPDOGS (Outta Sight)

 

THE SHEEPDOGS   Outta Sight (Dine Alone/Warner2022)



un disco per l'estate

Con una copertina da cestino di vinili usati rigorosamente anni settanta, quelli a pochi euro con la copertina rovinata perché graffiata dalle unghie del gatto e con il segno di un bicchiere bagnato lasciato per troppo tempo sopra al cartone, sì insomma quelli che non si fila nessuno ma che sicuramente mi sarei portato a casa io, i canadesi Sheepdogs si riaffacciano al mondo dopo la pandemia con il loro settimo disco, il più marcatamente divertito, divertente e spensierato della loro carriera. "Una zattera di salvataggio" come loro stessi l'hanno definito, perché li ha salvati dalle loro ansie. Un po' anche nostre. E quella copertina così colorata, un mix daltonico tra cosmic country, pop rock e febbre del sabato sera, oppure da sigla di telefilm seventies,  sembra confermare il carattere delle canzoni.

Quando anni fa la rivista americana Rolling Stone regalò loro la copertina, Patrick Carney dei Black Keys si adoperò per produrre il loro album omonimo e la Atlantic li mise sotto contratto, la band sembrò per un attimo lanciata verso la notorietà mondiale. Niente di tutto questo naturalmente, ma la band guidata da Ewan Currie rimane una delle più credibili realtà in circolazione a masticare suoni, mood ed estetica anni settanta, risputando fuori tutto in modo credibile e pure originale con tour e live che ne misurano la temperatura a intervalli più che regolari.

Non ci sono barriere o confini nella loro musica, l'importante è suonare rock’n’roll, puro, diretto e senza troppe menate: puoi sentirci i Thin Lizzy nelle chitarre di 'Find The Truth', il fantasma di J.J.Cale sembra apparire  in 'So Far Gone' con tanto di batteria elettronica proprio come piaceva all'artista di Tulsa, il boogie glam nell'aperura 'Here I Am', i primi Kiss che amareggiano con i Doobie Brothers in I Wanna Know You'.

Ma è naturalmente il southern rock a dominare la scena: in 'Scarborough Street Fight', nell'assalto alla Lynyrd Skynyrd di 'Gooddamn Money', nei cori in stile Outlaws di 'Carrying On', nel soul intinto di psichedelia di 'Don't I', e nella rutilante jam finale 'Roughrider '89' che accelera nell'honky tonk mettendo in fila le loro capacità strumentali.

"Con il rock 'n' roll ci tiriamo su il morale" dice Ewan Currie. E non è mai stato così bello e facile farsi contagiare. Questa estate così torrida, poi, aiuta queste canzoni.






sabato 9 luglio 2022

RECENSIONE: NEIL YOUNG with CRAZY HORSE (Toast)

NEIL YOUNG with CRAZY HORSE   Toast (Reprise, 2001/2022)


facciamo colazione (anche) con un toast del resto

Quando Toast venne registrato, l'undici Settembre sembrava ancora la fantasiosa bozza per la sceneggiatura di un film di fantascienza. Eppure mancavano veramente pochi mesi all'avvenimento che ancora oggi  considero l'inizio di tutto quello che stiamo vivendo in questi ultimi anni. Un avvertimento. L'inizio di qualcosa che andrà sempre più peggiorando. Ma in quelle ultime settimane del 2000 e prime del 2001 quando Neil Young chiama a sé i fidati Crazy Horse (Billy Talbot, Poncho Sampedro e Ralph Molina) nessuno poteva immaginare il futuro. Si chiudono nei Toast Studios di San Francisco ("un vecchio studio a SoMa, un bel quartiere di artisti che stava per essere sopraffatto dai loft e dai nuovi palazzi generati dal boom del puntocom, la bolla dell'era digitale" racconterà su Special Deluxe) e registrano una manciata di canzoni che dovranno confluire in un album chiamato appunto Toast che lo stesso Young anticipò pure alla stampa. Ma come spesso accade Neil Young è vittima di mille ripensamenti, dubbi, incertezze. Le versioni grezze, rockeggianti ma anche l'atmosfera "umorale e jazzata" che animano le canzoni sembrano non andare bene con l'idea che ha in testa. A detta del canadese suonavano "troppo deprimenti" e si respirava un senso di "precarietà" che coinvolgeva "persino i Crazy Horse". "In studio non andava bene, nonostante i momenti grandiosi e intensi la musica non era felice e neanche ben definita" racconterà sempre su Special Deluxe. Neil Young e i Crazy Horse decidono di fermare le registrazioni e partire per un tour in Sud America.

Al ritorno, continuano le registrazioni ma alla fine si arrendono :" era un album desolato, molto triste, senza risposte. Penso abbiate capito che non ho voglia di parlarne". 

Decide di riregistrare alcune canzoni già provate con i Crazy Horse insieme a Booker T.&The Mg's dando loro un'impronta più r&b e soul, perdendo in immediatezza e profondità.

 Intanto il tempo passa, l'undici Settembre arriva lasciando il suo segno e Are You Passionate? esce nei negozi come tutti lo conosciamo. E Toast che fine ha fatto? La lunga, epica cavalcata elettrica 'Goin Home' è l'unica suonata con i Crazy Horse a ricordare quelle prime session di registrazioni. La canzone si stacca notevolmente dal mood dell'intero disco e si sente chiaramente. Da quelle session a San Francisco vengono riprese anche  'Quit', 'How Ya Doin' (che diventerà 'Mr.Disappointment') e 'Boom Boom Boom' (ribattezzata 'She's A Healer') che però subiranno il trattamento di Booker T.


Ora che abbiamo in mano l'intero progetto Toast, possiamo affermare che le sette canzoni avevano un'anima, che lo stesso Young ha spiegato così: "la musica di Toast riguarda le relazioni. C’ è un momento in molte relazioni in cui le cose vanno male, molto prima della rottura vera e propria, quando diventa chiaro per uno dei due, o forse entrambi, che è finita. Questo era quel momento". C'è un velo di solitudine e tristezza che riposa sopra le canzoni, certamente un lascito di una crisi amorosa con la moglie Pegy (tra l'altro presente insieme a Istrid Young in alcuni cori) con la quale si era trasferito a San Francisco, in un appartamento a Green Street.

La tambureggiante 'Goin Home' dentro a Toast non è più una mosca bianca sola come lo era su Are You Passionate? ma è circondata dall'assalto hard garage di 'Standing In The Light Of Love' con l'Old Black che tiene testa ai "cavalli", dai dieci minuti di 'Gateway Of Love', dai tredici di 'Boom Boom Boom', esercizio jammato e jazzato, che ci regala dei Crazy Horse profondi, accompagnati da percussioni, cori femminili, pianoforte e tromba e da una bella, confidenziale e malinconica versione di 'How Ya Doin'.

In conclusione  tra pezzi ripescati su Are You Passionate?, e pezzi già presentati in versione live, l'unico veramente inedito rimane 'Timberline', un rock sferragliante e divertente, dal coro ripetuto infinite volte, un organo a canna sullo sfondo e la storia di "un tizio religioso che ha perso il lavoro. Così si vota a Gesù. Non può più tagliare alberi. È un taglialegna".

Alla fine la migliore definizione dell'album la da Neil Young tra le pagine di Special Deluxe, dedicando a quel periodo un buon pezzo di capitolo:"il titolo dell'album avrebbe dovuto essere Toast e quello sembrava: un Toast con dentro tanta sostanza. Suonai la chitarra come un vecchio ottone, con un suono enorme, slabbrato, triste. Ralphie, Billy e Poncho gli avevano dato il classico passo funky e potrebbe anche essere un gioiellino. I fantasmi di Coltrane e dei suoi musicisti erano dappertutto in quello studio. Fu un'esperienza spirituale, depressa, quasi fuori".

Un disco certamente per fan accaniti, un po' come tutti gli archivi ma anche un chiaro manifesto della straripante vena artistica di Neil Young, che si perde in vasi sanguigni sempre "troppo" carichi di passione, esuberanza, dubbi, ripensamenti. Vita.





sabato 2 luglio 2022

RECENSIONE: FANTASTIC NEGRITO (White Jesus Black Problems)

 

FANTASTIC NEGRITO  White Jesus Black Problems (Storefront, 2002)


ambizione

Certamente lo sforzo creativo più ambizioso fino ad ora. E chi lo conosce bene sa quanto già in precedenza mister Xavier Dphrepaulezz (un premio a chi lo pronuncia esattamente) uno che alla soglia dei cinquant'anni si reinventò battezzandosi Fantastic Negrito facendo iniziare una carriera dalle basi delle sue tante vite precedenti cariche di complicazioni di ogni sorta, non sia un personaggio inquadrabile con poche parole. E se lo avete visto almeno una volta in concerto sapete anche quanto sia istrionico e includente il suo modo di fare musica: trasformista, predicatore, aizzatore di folle, comico, pensatore, attore impegnato e ballerino. Tutto in uno spettacolo. Ne vale la pena.

Questa volta si spinge indietro nel tempo per concepire un concept dove musica, testi e immagini (ogni canzone sarà accompagnata da un video, formando una sorta di film) viaggiano all'unisono per rafforzare il più possibile il messaggio universale d'amore. Tutto nasce quando in pieno lockdown con tanto tempo a disposizione decide di esplorare le sue origini, scoprendo che i suoi antenati di settima generazione, siamo nel 1750 in Virginia, furono una serva bianca di origini scozzesi e uno schiavo nero. I due contro ogni logica e legge dell'epoca si amarono.

"Le persone ascoltano il titolo dell’album e sono pronte a sfoggiare giacche militanti, ma questo è un disco sull’amore e sulla ricerca di modi per usare il passato come cura per il futuro. Sto sulle spalle dei miei antenati, bianchi e neri, che mi hanno mostrato che tutto è possibile” racconta.

C'è talmente tanta roba in questa storia da scriverne un romanzo che tocca libertà, razzismo, capitalismo, arrivando ai giorni nostri con tante e nessuna risposta. I passi avanti ci sono stati ma i risultati se ci sono sono ancora troppo ben nascosti. E Fantastic Negrito lo fa alla sua maniera  mettendoci dentro un'enorme carico di influenze musicali (partendo sempre dalla black music) dove i Beatles immersi in una cascata di gospel nell'apertura 'Venomous Dogma', il soul ('They Go Low'), il pop sixties ('Nibbadip'), il doo woop a ritmo di  funky ('In My Head'), il rock bianco ('Man With No Name'), le ballate RnB ('You Better Have A Gun'), il funky sporcato di  country ('Trudoo'), il gospel ('Virginia Soil') e il Blues più sperimentale e cosmico ('In My Head') si sporcano, amalgamano e contaminano che è un piacere. 

Suonato come fosse il 1973 con chitarre, basso e batteria con interventi di Moog, banjo e un vecchio organo transistor Yamaha, Fantastic Negrito racchiude in sole tredici tracce una buona parte degli ultimi cinquant'anni di musica e tre secoli di storia americana. Il tutto con disarmante semplicità. Bello sapere che nel 2022 c'è ancora chi fa uscire dischi con belle e "pesanti" storie dietro.






domenica 26 giugno 2022

NASHVILLE PUSSY live@Blah Blah, Torino, 24 Giugno 2022


In una Torino affollatissima e blindatissima intenta a festeggiare il proprio patrono San Giovanni a suon di fuochi d'artificio in Piazza Vittorio, nel piccolo locale di via Po, a pochi passi dall'inferno di un caldo sabato sera, i Nashville Pussy  hanno celebrato l'ennesimo rito rock'n'roll alla loro consueta maniera. Nessun effetto speciale in aria ma solo strumenti, carne e sudore. Persa per strada la componente visiva più sporca e "sessuale" degli esordi (la copertina del debutto Let Them Eat Pussy, 1998, rimarrà negli annali) all'epoca ben rappresentata dalla ex bassista Corey Banks, alla band di Atlanta è rimasto il rock’n’roll che dal vivo, rispetto ai dischi, è ancora una faccenda ruvida, grezza e molto punk. Guidati dalla coppia di fatto formata da Blane Cartwright e Ruyter Suys, i Nashville Pussy continuano a non avere peli sulla lingua, sì insomma per dirla alla loro maniera: Pussy's Not A Dirty Word.

Blane è il solito "zio d'America", poco raccomandabile compagno di bevute e di sbronze, pancia da trucker alcolizzato, voce passata sotto un foglio di carta vetrata, cappellaccio in testa a coprire la pelata che comunque mostra con "orgoglio" e disinvoltura ogni tanto e numeri da monello di terza media in gita: quando toglie le sue sudicie Converse per rimanere scalzo, quando gioca con l'asta del microfono, quando rovescia due bottiglie di Beck's nel cappellaccio da cowboy per poi tracannare il contenuto tutto d'un fiato. Il seno di Ruyter Suys, invece, rimane sempre ben in vista ma schiacciato sotto alla fiammeggiante chitarra, incontrollabile manico della perversione che tanto la trasforma in un indemoniato Angus Young in reggiseno. A completare la formazione la base ritmica formata dalla bassista Bonnie Buitrago, solida e piazzata, un continuo headbanging il suo e dal batterista Dusty Watson, nuovo entrato in formazione, simpatico e metronomo indispensabile per gli altri tre e con un lungo curriculum alle spalle (Dick Dale, Agent Orange, Sonics, Supersuckers, Lita Ford, Rhino Bucket, Concrete Blonde, The Bellrays).


Il concerto è un treno in corsa, tirato e scalciante dove hard rock, punk e una certa attitudine southern si mischiano a sudore, birra di quart'ordine, doppi sensi, allusioni e riff di chitarra. I loro inni perversi li impari in pochi secondi come quando da piccoli si viene attratti dalla parolacce ('Come On, Come On', 'Struttin Cock', 'Gone Home And Die') e dal cadenzato blues "da barbecue" in stile Ac Dc di 'Til the Meat Falls Off the Bone' al veloce punk 'Go Motherfucker Go', il loro inno storico che chiude la serata, il passo è brevissimo. La Suys strappa tutte le corde della sua chitarra e le dona al pubblico. Due piccole bimbe sono davanti al palco, il loro papà ha pensato che stasera un concerto rock'n'roll fosse per loro più interessante dei fuochi d'artificio in onore del patrono che stanno scoppiando nei cieli sopra Torino. E chi li ha solo sentiti? La band apprezza. Le due bimbe torneranno a casa cariche di doni: plettri, bacchette, corde. Per vedere i fuochi d'artificio hanno tutta la vita davanti.





martedì 21 giugno 2022

BLACK LABEL SOCIETY live@Alcatraz, Milano, 19 Giugno 2022




Tanti segni della croce come fosse una lunga processione, dito puntato al cielo quando parte l'immancabile 'In This River' al pianoforte dedicata agli sfortunati fratelli Abbott (che si materializzano sul palco con due gigantografie), barba che non taglia da quel di, kilt d'ordinanza, muscoli in evidenza , pose e rituali da vichingo del New Jersey che fanno contenti i telefonini di tutti (ho visto tanti genitori con figli al seguito. Bene!), cambio di chitarra ad ogni canzone, generosità infinita a fine concerto con doni di ogni sorta lanciati al pubblico. Ecco: forse gli asciugamani neri con i quali  Zakk Wylde si asciuga la fronte per poi darli in pasto ai fan potevano essere evitati in periodi ancora così incerti e con il covid ancora lì alla porta. 



Insomma, un rito che i BLS (John "JD" DeServio al basso, Dario Lorina alla chitarra e Jeff Fabb alla  batteria) officiano senza indugi e senza soste dall'inizio alla fine. Come sempre. L'ultimo album Doom Crew Inc., il più Sabbathiano della carriera e tra le loro migliori cose di sempre, viene presentato con tre brani tra cui quella 'Set You Free', attesa da molti, che pare già un classico fin dall'introduzione alla pari di 'Suicide Messiah' e 'Stillborn' che chiudono la serata. E poi quella 'Whole Lotta Sabbath' che invece introduce il concerto, in grado di dare sempre bene e in modo chiaro le coordinate dell'infinito amore che Zakk Wylde nutre per la musica, anche da inguaribile fan romantico.

E nell'estate dei miei concerti "ignoranti" questo raggiunge il podio un po' come fa Zakk quando sale in piedi sul pianoforte e inizia a suonare la chitarra tenendola dietro al collo, a centro palco Lorina gli tiene testa allo stesso modo. Il duello: il clou della tamarraggine rock.



E poi, fatemelo dire: ma quanto sono belli e più vivibili i concerti estivi con 40 gradi esterni quando si svolgono all'interno di un locale perfetto per la musica live come l'Alcatraz di Milano (il suono, il suono è importante, la vista del palco pure). Condizionatori accesi e la guerra tenuta ben fuori, alla faccia delle prediche di Mario Draghi. 






Setlist

Intro: Whole Lotta Sabbath                                        


Bleed for Me

Demise of Sanity

Destroy & Conquer

Heart of Darkness

A Love Unreal

You Made Me Want to Live

The Blessed Hellride

Spoke in the Wheel

In This River

Trampled Down Below

Set You Free

Fire It Up

Suicide Messiah

Stillborn





sabato 18 giugno 2022

RECENSIONE: MICHAEL MONROE (I Live Too Fast To Die Young!)

MICHAEL MONROE
   I Live Too Fast To Die Young! (Silver Lining Music, 2022) 



mai troppo vecchio 

Ormai i veri rocker rimasti si contano nelle dita di una mano. E non sto parlando di rocker miliardari, benestanti, ma di gente che continua a lottare con i gomiti ben larghi su palchi di qualsiasi dimensione per portare avanti il verbo, quelli a cui l'aggettivo "loser" (nel mio vocabolario quelli che avrebbero meritato di più) è ancora prima di un complimento, un marchio impresso a fuoco. 
Michael Monroe, sessant'anni appena compiuti e più di quaranta di carriera è uno di questi, tanto da permettersi di intitolare il suo dodicesimo disco in carriera I Live Too Fast To Die Young. Una carriera in corsia di sorpasso. Salutista e ripulito da alcuni anni, continua a macinare quel rock'n'roll che partendo dagli Stooges, passa dai New York Dolls, non è un caso che nella sua band ci suonino Steve Conte alla chitarra e Sammy Yaffa al basso, due componenti dell'ultima incarnazione delle bambole, tocca gli Hanoi Rocks la sua band mai troppo lodata ma tanto influente e arriva ai giorni nostri con intatta freschezza ed energia. Lo si capisce immediatamente appena parte 'Murder The Summer Of Love', un hard rock'n'roll che prende spunto dai noti fatti successi ad Altamont durante il concerto dei Rolling Stones nel 1969 per marcare quanto le belle utopie vadano vissute al massimo coniugate al presente, perché non possono durare in eterno. Quel giorno fu la fine di un sogno. 
 "Vuoi una rivoluzione, devi alzare quel culo, la controcultura sta svanendo velocemente” canta Monroe. Undici canzoni varie che passano con disinvoltura dal punk veloce e cattivo di 'All Fighter' e 'Pagan Prayer', alle ombre dark wave di 'Derelict Palace' (certamente tra le più particolari, a riportare in mente gruppi come i Lords Of New Church), l'incrocio tra Stones e Social Distortion di 'Can't Stop Falling Apart', al rock anthem 'Everybody's Nobody' con tanto di armonica e la title track che vede ospite la chitarra di Slash, ballate al pianoforte ('Antisocialite') e strani esperimenti come la malinconica 'Dearly Departed' che chiude il disco in modo algido e velatamente elettronico, in netto contrasto con il calore umano fatto di sudore, lacrime e sangue che esce da ogni nota suonata qua dentro e registrata nella fredda Helsinki tra il Novembre e Dicembre del 2021. 
Michael Monroe sa scrivere canzoni, testi, ha ancora una buona voce, tiene il palco come pochi, imbracciando il suo fedele sax, e tra poche settimane aprirà il concerto di Alice Cooper a Milano. Serve altro? Per ora I Live Too Fast To Die Young! se la gioca con il ritorno degli Hellacopters per il disco rock'n'roll dell'anno.








domenica 5 giugno 2022

RECENSIONE: THE BLACK KEYS (Dropout Boogie)

THE BLACK KEYS   Dropout Boogie (Easy Eye Sound, 2022)



estate a tutto boogie

La storia musicale dei Black Keys non è poi diversa da quella di tanti altri gruppi blasonati con ormai tanti anni e dischi alle spalle: una prima parte di carriera fresca ed elettrizzante dettata dall'entusiasmo della gioventù (Rubber Factory del 2004 e Attack & Release del 2008 i miei preferiti), una seconda parte con una importante virata verso territori più accessibili a portarli sulle vette del mondo (Brothers del 2010, El Camino del 2011), una terza parte, quella in corso, di consolidamento e con tutta la consapevolezza di aver già dato il meglio e di poter pescare a proprio piacimento tra i dischi passati, mescolare vecchie idee e farle uscire ancora come nuove. Sappiamo che non è cosi ma chiudiamo un occhio. A tenere incollato tutto la maturità del tempo e dell'esperienza: Dan Auerbach e Patrick Carney hanno una vita super impegnata fuori dalla band, producono, scoprono, rilanciano, dissotterrano personaggi e artisti dimenticati dal tempo, creano etichette discografiche e costruiscono studi di registrazione. Un'amore per la musica che va ben oltre la band madre.

E di amore per la musica ce n'è tanto anche dentro a Dropout Boogie, sebbene ad un ascolto distratto non parrebbe, figlio bastardo del precedente omaggio al blues Delta Kream del quale riprende qualche buon seme di tradizione (la finale 'Didn't Love You', una 'Burn The Damn Thing Down' che scalpita che è una meraviglia, 'Happiness' è più slow e strisciante) ma dove  la c'erano vecchie cover da riportare in vita, qui ci sono nuove canzoni da mandare a memoria. E poco importa se 'Wild Child', un po' Doobie Brothers un po' I Love Rock'n'roll' di Joan Jett & The Blackhearts è ruffiana e svolge bene il compito di riempi pista, 'For The Love Of Money' è un funky boogie già masticato mille volte, 'Your Team Is Looking Good' un boogie rock che pare uscito da The Slider dei T.Rex di Marc Bolan, 'Good Love' uno slow blues con la presenza della  infuocata chitarra di  Billy Gibbons (anche autore) che si interrompe improvvisamente, 'How Long' un soul che prende sembianze rock e 'Baby I'm Coming Home' è ruffiana come da titolo. 

Poco importa se Dropout Boogie è suonato e registrato meravigliosamente, senza pecche, perché ancora una volta diverte, si fa ascoltare con piacere mentre guidi una vecchia Pontiac tra le campagne fuori dalla tentacolare città, mentre cucini svogliatamente burritos al lunedì sera o mentre scambi effusioni con l'amata al sabato mattina,  finita l'ultima traccia hai voglia di rimetterlo ancora una volta su perché nella vita bisogna pur divertirsi e lasciarsi andare senza pescare l'ennesimo pelo nell'uovo. Ormai la raccolta (di peli) si fa noiosa e la vita a ben guardare non è così lunga come ci è stata dipinta da chi crede di saperne sempre di più.





domenica 29 maggio 2022

RECENSIONE: STEVE FORBERT (Moving Through America)

STEVE FORBERT  Moving Through America (BlueRose Music, 2022)



on the road (again)

Steve Forbert non si è mai fermato. Ha sempre amato viaggiare fin da quando giovanissimo lasciò il natio Mississippi per cercare fortuna a New York, incidendo il suo bel debutto nel 1978. Quattro anni fa lo trovai a suonare nella sala consiliare di un comune del bresciano, sinonimo che durante la sua carriera non ha mai veramente conosciuto la fortuna dei grandi numeri ma una buona dose di caparbietà, onestà e coerenza gli hanno permesso di poter continuare il suo viaggio, magari non percorrendo l'autostrada del successo in corsia di sorpasso ma comunque su vie sempre dignitose dove il suo folk rock contornato da liriche sempre intelligenti e ironiche non è mai sceso a facili compromessi. Oggi a 67 anni eccolo nuovamente con la valigia in mano a raccontarci un viaggio lungo il Midwest dell'America compiuto poco prima che la pandemia chiudesse tutti i caselli. Un viaggio importante perché avvenuto dopo un periodo difficile per la sua salute e dopo aver tirato una riga sulla carriera con l'uscita di un'autobiografia, e di due dischi di vecchi ricordi: uno raccoglieva vecchie canzoni dimenticate nel cassetto (The Magic Tree del 2018), l'altro cover di canzoni che lo accompagnarono in gioventù (Early Morning Rain del 2020). 

In Moving Through America invece ritorna alla scrittura con undici canzoni che contengono tutta la freschezza, l' ironia e la leggerezza di sempre spalmate su un impianto folk rock,  collaudato e rilassato,  con qualche escursione soul, aiutato anche da musicisti come Gary Tallent, Hugh McDonald e Gurf Morlix.

Istantanee e quadretti legati all'America e ai suoi comuni abitanti, spiati dal finestrino o incontrati lungo i marciapiedi o i diner lungo la strada. Canzoni dove passato e presente si incrociano ('Buffalo Nickel'), dove c'è ancora chi cerca fortuna al gioco per svoltare la vita, rischiando tutto quello che ha ('It's Too Bad (You Super Freak')), dove chi non ha avuto fortuna  diventa uno senzatetto ('Times Likes These'), dove c'è ancora spazio per l'amore di coppia ('Fried Oysters') e per il riscatto dopo aver passato gran parte della vita in gabbia per spaccio ('Living The Dream'),  dove i cambiamenti climatici non possono essere ignorati ('Please Don't Eat The Daisies') e dove un pensiero all'amico Tom Petty  è d'obbligo passando attraverso i luoghi che lo videro crescere ('Say Hello To Gainesville').

Buon viaggio con Steve Forbert nell'autoradio.






venerdì 20 maggio 2022

RECENSIONE: DON MICHAEL SAMPSON (The Fall Of The Western Sun)

 

DON MICHAEL SAMPSON  The Fall Of The Western Sun (Appaloosa Records, 2022)


non è mai troppo tardi

La giostra del tempo concede un altro giro a Don Michael Sampson, settantacinquenne cantautore americano, di casa tra il New Mexico e Nashville. Lo sa bene e lo canta nella canzone 'Rolling Time Train' che apre questo suo quindicesimo disco in carriera. Una carriera iniziata a fine anni settanta sulla scia dei grandi cantautori country "fuorilegge" che popolavano gli States. Pur dotato di una penna felice e ispirata, il suo nome non ha mai preso copertine e prime pagine, nonostante la stima incondizionata di colleghi più blasonati. Quindi non è un caso che leggendo i crediti dei musicisti che hanno lasciato le loro tracce qua dentro si possano incontrare grandi nomi come Ben Keith, Warren Haynes, Paulinho Da Costa, Chad Cromwell e Michael Rhodes. Cantautorato americano di prima grandezza con il passo dylaniano ('Wedding Song' cammina dalle parti di Knockin On Heaven's Door), dove a volte i numerosi cori femminili virano il tutto verso il soul, ma l'alternanza tra canzoni scarne, folk ('Cast Off The Lines' mette in fila i giorni di una vita) e country (l'evocativa steel guitar di 'Everybody's Leaving This Old Town') e momenti più rock e movimentati come 'New Book', un un honky tonk con il testo ben radicato nel presente, rendono il disco estremamente piacevole.

Sampson sa scrivere alla grande, infila parole in modo poetico ('Crimson Sparkle Of High Wind Wheels') e tagliente, a tratti ricorda John Prine, 'Bad Water' è un incalzante rock desertico con chitarre ficcanti e un testo che ben combacia, impresso a fuoco, su queste settimane di conflitti. E la finale 'Sweet Tennesse Nights' un country che oltre ad essere un'ode al Tennesse, alla bellezza della solitudine di campagna, sembra anche dipingere la carriera di Sampson, vissuta ai margini della musica che conta, osservatore da lontano di quello che capita giù in città ("scommetto che il centro di Nashville sta saltando, suonano alla Ole Opry House, e riesco a sentire le canzoni di tanto tempo fa, nate nel cuore del Sud, un cane randagio risale la mia via camminando" canta).

Ma a lui sembra importare poco, perché nella vita ha sempre inseguito il suo sogno e registrato la sua musica, proprio come qui, in modo quasi impulsivo, lasciando che anche asprezze e difetti raccontino qualcosa di lui. 



martedì 17 maggio 2022

RECENSIONE: THE ROLLING STONES (Live At El Mocambo 1977)

THE ROLLING STONES  Live At El Mocambo 1977 (Polydor, 2022)


tesori nascosti

Ascoltando Love You Live sembra palese: il vero divertimento  arriva sempre quando si posa la puntina sul lato C. "La Mocambo side" , registrata a Toronto, faceva portare a casa la partita e fare del doppio Love You Live un disco imperdibile. Anche se molti non sono mai stati d'accordo.

Quando venne pianificato il disco dal vivo che doveva contenere canzoni registrate nel corso del tour 1975/76 nelle grandi arene, quello a supporto di Black And Blue -in verità quasi del tutto ignorato per essere giustamente rivalutato in seguito - un po' tutti si accorsero che mancava qualcosa in mezzo a una scaletta comunque di qualità (Honky Tonk Women, Happy, Star Star, Tumbling Dice, It's Only Rock’n’roll, Jumping Jack Flash, Simpathy For The Devil...). 

Sicuramente mancava Keith Richards, impegnato a vivere tra arresti per droga e lutti che lasciarono il segno (la morte del piccolo figlio a causa di un virus). 

Quel qualcosa venne quindi deciso a tavolino: perché non programmare due serate segrete sotto il nome "The Cockroaches" in un piccolo locale con il pubblico alle calcagne  e vedere cosa ne esce fuori? I The Cockroaches avrebbero dovuto aprire per gli April Wine, invece-sorpresa!- successe il contrario.



Si parte tutti per il Canada e nonostante Keith Richards e Anita Pallenberg ce la misero tutta per far saltare la festa (i due vennero arrestati per spaccio appena misero piede sulla terra ferma "mi feci una pera in aereo e in qualche modo il cucchiaino finì nella tasca di Anita" raccontò Richards), la missione venne portata a termine: serviva un ritorno forte e deciso alle radici, al blues di Muddy Waters ('Mannish Boy'), Willie Dixon ('Little Red Rooster'), Big Maceo Mereiweather ('Worried Life Blues') e Bo Diddley ('Crackin'Up').

Una mossa alquanto controcorrente per combattere l'esplosione della scena punk. 

"Il 4 Marzo 1977, facemmo il primo dei due concerti a El Mocambo Club a Toronto. Il locale teneva solo qualche centinaio di persone, quindi era strapieno per entrambe le date. Suonammo alcuni pezzi che di solito non facciamo, Route 66, Little Red Rooster, Crackin'Up, Dance Little Sister e Worried About You, e finimmo per divertirci un sacco. Il pubblico ballava sui tavoli e stava in piedi sulle sedie, versandosi addosso vino e birra. Tutti si facevano le canne, anche se l'edificio era circondato di polizia, che manteneva l'ordine all'esterno. A Keith sembrava di essere tornato ai bei vecchi tempi, quando gli Stones avevano suonato per la prima volta al Crawdaddy", questo il racconto entusiasta di Ron Wood. Parole capaci di  immergere l'ascoltatore nell'atmosfera che si respirava nel club dal soffitto basso e palme sullo sfondo e che ora trova finalmente anche il lato più importante: la musica.

Si sale sopra al palco, si suona blues come ai vecchi tempi, qualche immancabile canzone del repertorio ('Let's Spend the Night Together', 'Jumpin' Jack Flash', 'Brown Sugar') e si registra. Ora, a distanza di quarantacinque anni l'intera serata del 5 Marzo e qualche estratto (tre) da quella del 4 vedono la luce ufficialmente.

Ecco così che anche Black And Blue ha il suo meritato spazio ('Hot Stuff', 'Hand of Fate', 'Melody', una straordinaria 'Fool To Cry') insieme a una 'Worried About You' che vedrà la luce solo anni dopo su Tattoo You.



E Ronnie Wood ha dannatamente ragione: la batteria di Charlie Watts ti entra nelle tempie, le tastiere di Billy Preston e Ian Stewart sono vive e pulsanti, le percussioni di Ollie Brown danno il ritmo, Bill Wyman fa la sua parte con diligente professionalità, le chitarre di Ronnie e Keith sferragliano che è un piacere, Mick è in forma smagliante, come sempre. All'uscita del Mocambo c'è confusione: qualcuno si dirige al parcheggio e non crede a quel che ha visto, altri si fermano fuori dal locale a farsi un'ultima birra, qualcuno si chiede se la serata è stata registrata. Il 23 Settembre del 1977 esce Love You Live ma di quelle serate contiene solamente quattro canzoni.

Chissà se qualcuno presente ai tempi, selezionato con una specie di concorso radiofonico, oggi ascolterà queste registrazioni vantandosi con un "io c'ero". E vederli in un ambiente così piccolo e raccolto non era cosa da tutti i giorni: osservare da vicino le smorfie di Watts, ammirare i passi di Mick di bianco vestito, scrutare gli accordi di Keith, muoversi con la zazzera di Ron, contemplare la serafica calma di Bill, seguire le dita sui tasti di Billy e Ian, scoprirel'imponente stazza di Ollie lì dietro a tutti.

Per tutti gli altri basta chiudere gli occhi e aprire le orecchie ed è un po' "come esserci stati".





sabato 7 maggio 2022

RECENSIONE: NEIL YOUNG (Citizen Kane Jr.Blues)

NEIL YOUNG  Citizen Kane Jr.Blues (The Bottom Line, New York City, May 16, 1974)  (Shakey Pictures Records, 1974/2022)



che sorpresa!

Visto che Neil Young ci marcia su e non ha intenzione di smettere, dovendo scegliere una sola delle tre uscite simultanee di bootleg ufficiali in commercio in questi giorni (ma sono anni che circolano in maniera non ufficiale) non ho avuto dubbi nel buttarmi su questo concerto "a sorpresa" del 16 Maggio 1974, visto che gli altri due battono ancora l'anno 1971.

Una foto sfocata e sgranata, Neil Young e la sua chitarra sono davanti alle poche centinaia di persone che popolano il Bottom Line, locale del Greenwich Village a Manhattan, New York, aperto solo due mesi primi. Quella sera prima di lui ha già suonato Ry Cooder, Neil era lì per il concerto dell'amico ma quando gli si presenta l'occasione di salire sopra al palco al termine di Cooder non si tira indietro. Erano le due di notte. Ha un sacco di nuove canzoni da far ascoltare, arrivano da un disco che aveva appena finito di registrare, pochi  le conoscono, alcune le aveva già suonate in pubblico ma evidentemente quell'atmosfera intima a tarda notte era propizia per suonarne quattro.

'Ambulance Blues', 'Revolution Blues', e le ancora inedite in pubblico 'On The Beach' e 'Motion Pictures' (che rimarrà l'unica esibizione live) andranno a comporre On The Beach che uscirà da lì a poco. Canzoni intimiste, quasi strazianti tanto da indurre Young a scusarsi con il pubblico, presumibilmente alticcio, per quanto erano tristi. 

"Nella mia mente è un ricordo confuso ma questo momento cattura davvero l'essenza di dove mi trovavo nel 1974. Due mesi dopo, è stato pubblicato l'album On the Beach…" ha detto recentemente.

Nel suo set, voce, chitarra e armonica, non concede nulla di Harvest, l'album che lo sdoganò al grande pubblico solo due anni prima. In una vecchia intervista dopo Harvest e il grande successo di 'Heart Of Gold' arriverà a dire:"spero non ci sia nessun singolo di successo nel mio prossimo disco". E così sarà.

Ma Neil Young fa di più: anticipa altre sue future mosse: oltre a On The Beach, ecco una 'Roll Another Number (For The Road)' che uscirà in Tonight's The Night con il pubblico partecipe e rumoroso, lo stesso pubblico che invece sghignazza e sorride ascoltando 'Long May You Run', saluto alla sua vecchia Pontiac del ’53 che intitolerà il disco in coppia con Stephen Stills.

Poi ecco 'Pushed It Over The End', ispirata al rapimento di Patti Hearst (figlia del magnate americano W. Randolph Hearst) che ai tempi era intitolata 'Citizen Kane Jr.Blues' e 'Pardon My Heart' che salterà fuori su Zuma. Uniche concessioni al passato sono 'Greenslevees', l'autobiografica 'Helpless' da Deja Vu, e la finale 'Dance Dance Dance' con il pubblico coinvolto e partecipe, riportando alla mente il fresco tour da cui verrà tratto Time Fades Away.

Tra colpi di tosse del pubblico, rumori di sottofondo, vociare indistinto, il concerto preso e ripulito da Young e Niko Bolas dalla cassetta registrata all'epoca da Simon Montgomery che già girava nel sottobosco è una delle testimonianze più sentite e veraci di quel periodo "scuro", tanto che a tratti sembra di stare lì davanti a lui, non certo a sghignazzare durante l'esecuzione di 'Long May You Run' come quelli intorno, ma ascoltando con la devozione di chi conosce già il radioso futuro.