VINICIO CAPOSSELA Marinai, Profeti e Balene (La Cùpa, 2011)
Sempre uguale a se stesso, nei secoli dei secoli, il mare non è mai mutato, i suoi rumori e i suoi dolci e spettrali silenzi, il sali/scendi delle onde, i suoi odori di vita e di morte sembrano materializzarsi in un disco enciclopedico che ci racconta leggende, miti e altre storie appoggiandosi spesso e volentieri su testi "alti" della grande letteratura che hanno l'acqua salata come protagonista. Se gli ultimi bollettini ci parlano di un mare rivoltoso ed assassino (Tsunami) o di un mare "autostrada" e ugualmente assassino per disperati alla ricerca di lidi felici, il mare di Vinicio è tutto questo e molto di più. Le sue acque diventano anche la nostra vita compiendo un gioco di parallelismi e metafore.
Capossela ha compiuto un impresa d'altri tempi, riuscendo a riunire 19 canzoni monotematiche in due dischi che suonano d' antico e hanno il colore mutevole dell'acqua e le sue tante sfumature, dal verde melmoso all'azzurro più limpido.
Un primo segnale lo aveva lanciato nel 2008 quando in fondo a Carried to dust, disco degli americani Calexico, vi era come bonus track la canzone Polpo, suonata in compagnia del gruppo di Tucson. Quella canzone è diventata Polpo d'amor. Vi è poi stato il tour sempre del 2008 in cui interpretò in mezzo al mare sopra ad una imbarcazione canzoni a tema marinaresco e infine la geniale intuizione che il mare nella sua oceanica vastità poteva diventare ispiratore di mille storie da appiccicare sopra alla vita di ognuno di noi. Registrato in più luoghi, prevalentemente sul mare, prodotto insieme a Taketo Gohara.
Tutto sembra grande in questo disco a partire dall'autore, passando per la innumerevole quantità di strumenti usati, anche quelli improvvisati, gli ospiti, i cori, gli stili. Capossela si veste da bucaniere e ci indirizza verso un mondo pieno di misteri che solo quando toccano terra sembrano diventare realtà. Due dischi come due parti di un solo racconto, con un solo protagonista, ma ben distinti l'uno dall'altro. La prima parte biblica e letteraria, la seconda più Omerica e terrena .
Può sembrare estremamente difficile entrare dentro al disco, come districarsi ed uscire vivi dalla stiva di una grossa nave piratesca, piena di cunicoli, botole e nascondigli. Si può partire dall'inizio e prendersi un'ora e mezza di tempo seguendolo cronologicamente così come è stato concepito oppure andare a zonzo cercando tra i bizzarri titoli delle canzoni, quelle che più ci attraggono alla prima lettura. Il consiglio è di fare l'una e l'altra cosa.
Si parte dal romanzo "Moby Dick" di Melville, quello con le traduzioni fatte da Pavese, nelle iniziali Il grande Leviatano e L'oceano Oilalà, la prima, una inquiteante e abissale overture tra romanzo e citazioni bibliche, la seconda un mix tra ballata medioevale e canto piratesco che si chiude con il più classico coro dei marinai" Date un bicchiere di rum. Noi vogliamo del rum". Il romanzo di Melville è gran protagonista nella prima parte del disco, da cui traggono ispirazione anche La bianchezza della balena, la talkin' opera Fuochi fatui e la piratesca e corale Billy Budd, un blues contagioso e guidato dall'ospite Marc Ribot (fida chitarra del maestro Waits).
La spettacolare Job, ballata con l'esplosione finale in bilico tra Dio e satana, tratta dal "Libro di Job", lo xilofono guida Lord Jim che prendendo spunto dal romanzo di Joseph Conrad, narra le gesta del marinaio inglese complessato dal suo passato (Nessuno è mai protetto dalla sua debolezza...).
In Polpo d'amor, Capossela immagina l'amore sotto le vesti di un polipo con molte braccia per "amare meglio", magari la bella sirenetta Pryntyl protagonista del primo singolo che sembra uscire direttamente da un grammofono dei primi '900, con le Sorelle Marinetti ospiti.
Con il secondo disco sembra quasi di mettere per un attimo i piedi sulla terra ferma. L'uomo ora cerca risposte e se il mare era poco rassicurante e pieno di incognite, la vita lo è nella stessa misura.
Chi smanioso di risposte, si affida agli indovini, Dimmi Tiresia (...ma è meglio sapere o non sapere...a che mi servirà sapere, saper il mio destino come già deve compiersi...), chi si butta sui nettari capaci di alterare la percezione,Vinocolo è un blues elettrico, rumorista e non sense ode al vino tra i miti dell'Odissea, dal carattere waitsiano. Non poteva mancare la citazione alle mappe dei marinai, ossia il cielo e le sue stelle, Le Pleiadi è una ballata pianistica delicata e armoniosa così come Aedo guidata dalla lyra suonata da Psarantonis, uno dei tanti picchi del disco.
La mitologia greca in Calipso si fonde con la musica caraibica, La madonna delle conchiglie, una filastrocca dedicata alla protettrice dei marinai.
Le sirene che cantano il "tempo andato e futuro" chiudono un disco senza punti deboli, dove ogni nota e ogni parola riempiono e saziano la fame di musica.
Ultimo avviso ai naviganti: il prolungato ascolto del disco produrrà dipendenza. Un 'opera che rimarrà negli annali in compagnia delle migliori opere musicali italiane e un artista che conferma la sua voglia di sperimentare con la fantasia.
venerdì 29 aprile 2011
martedì 26 aprile 2011
RECENSIONE: PENTAGRAM ( Last Rites)
PENTAGRAM Last Rites (Metal Blade ,2011)
Gli angeli ribelli sono duri da scacciare quando sono stati fedeli alleati di vita e di una carriera vissuta correndo( a passo molto lento) sul filo dello strapiombo . Ma c'è un tempo per tutto e Bobby Liebling era arrivato al punto in cui quei compagni iniziavano a diventare ingombranti seppur sempre in linea con la sua band e la sua vita artistica in generale. Può considerarsi un sopravvissuto del rock che a sessant'anni si è rimesso a camminare a centro strada, costruendosi una famiglia e guardando al cielo con una motivata speranza( anche questa conversione è successa) senza perdere il carisma e il carattere istrionico della sua figura, certamente un personaggio a tutto tondo.
I Pentagram sono in giro da quarant'anni, pochi quelli che se ne sono accorti, molti quelli che riconoscono in loro l'importanza e l'influenza esercitata verso un modo di suonare rock. Liebling si è ripulito, ha messo da parte, chissà se per sempre, alcol e droghe e dopo sette anni dall'ultima uscita dei Pentagram, si ripresenta in compagnia del chitarrista storico della band , Victor Griffin.
La storia dei Pentagram si è sempre appoggiata agli anni settanta, anni in cui i nostri non sfornarono nessuno disco ma riempirono il pentagramma musicale di innumerevoli canzoni che ancora oggi sono un profondo pozzo da cui attingere per costruire nuovi album. Non fa difetto Last Rites in bilico tra passato e presente. Veri e propri traghettatori del doom Sabbathiano dagli anni settanta agli anni ottanta , hanno contribuito in maniera sostanziale a far nascere generi come l'Heavy Doom e certo Sludge/Stoner generando centinaia di discepoli. La sapiente e intrigante mescolanza tra la pesantezza dei riff e l'acido blues in stile Blue Cheer è stata assorbita e metabolizzata da schiere di bands che in fila all'anagrafe chiedono la paternità a Liebling e soci.
In Last Rites la chitarra di Griffin è protagonista assoluta tra passeggiate nei più oscuri e sulfurei abissi fino a più rassicuranti melodie(in American dream regna sovrano), i suoi riff e i suoi assoli (che hanno fatto scuola, tanto da essere l'unico vero erede di Tony Iommi) popolano le canzoni, mai così varie e ben costruite. Un disco che gioca sulla varietà degli umori e la voce di Liebling "camaleontica" a dominare sia quando deve essere melodica ed evocativa come nella spiazzante e riuscita ballad Windmills and Chimes, che apre sconfinati spazi tra brezze di vento e campane, sia quando deve seguire la veloce, moderna e quasi stoner opener Treat me right, sfoderando cattiveria e grinta.
Rallentamenti e riff vecchia scuola in Death in 1st person, Walk in blue light, Into the ground , fumosi doom che riconciliano con il passato e consolidano il presente. Menzione per Call the man, ipnotica, cadenzata ed epica marcia con uno strepitoso Griffin che sfodera tutti i suoi effetti da metà canzone in poi e per la psichedelica e trasognante Everything's turning to night.
Dopo un disco così, che potrebbe riaprire porte e consegnare nuovi adepti alla band, si spera che la stabilità si impossessi, finalmente, del futuro consegnando ai virginiani Pentagram l'importanza che meritano al fianco dei grandi nomi del panorama Hard/Heavy mondiale. Perchè se l'Europa ha avuto i Black Sabbath, l'America ha risposto con i Pentagram.
Gli angeli ribelli sono duri da scacciare quando sono stati fedeli alleati di vita e di una carriera vissuta correndo( a passo molto lento) sul filo dello strapiombo . Ma c'è un tempo per tutto e Bobby Liebling era arrivato al punto in cui quei compagni iniziavano a diventare ingombranti seppur sempre in linea con la sua band e la sua vita artistica in generale. Può considerarsi un sopravvissuto del rock che a sessant'anni si è rimesso a camminare a centro strada, costruendosi una famiglia e guardando al cielo con una motivata speranza( anche questa conversione è successa) senza perdere il carisma e il carattere istrionico della sua figura, certamente un personaggio a tutto tondo.
I Pentagram sono in giro da quarant'anni, pochi quelli che se ne sono accorti, molti quelli che riconoscono in loro l'importanza e l'influenza esercitata verso un modo di suonare rock. Liebling si è ripulito, ha messo da parte, chissà se per sempre, alcol e droghe e dopo sette anni dall'ultima uscita dei Pentagram, si ripresenta in compagnia del chitarrista storico della band , Victor Griffin.
La storia dei Pentagram si è sempre appoggiata agli anni settanta, anni in cui i nostri non sfornarono nessuno disco ma riempirono il pentagramma musicale di innumerevoli canzoni che ancora oggi sono un profondo pozzo da cui attingere per costruire nuovi album. Non fa difetto Last Rites in bilico tra passato e presente. Veri e propri traghettatori del doom Sabbathiano dagli anni settanta agli anni ottanta , hanno contribuito in maniera sostanziale a far nascere generi come l'Heavy Doom e certo Sludge/Stoner generando centinaia di discepoli. La sapiente e intrigante mescolanza tra la pesantezza dei riff e l'acido blues in stile Blue Cheer è stata assorbita e metabolizzata da schiere di bands che in fila all'anagrafe chiedono la paternità a Liebling e soci.
In Last Rites la chitarra di Griffin è protagonista assoluta tra passeggiate nei più oscuri e sulfurei abissi fino a più rassicuranti melodie(in American dream regna sovrano), i suoi riff e i suoi assoli (che hanno fatto scuola, tanto da essere l'unico vero erede di Tony Iommi) popolano le canzoni, mai così varie e ben costruite. Un disco che gioca sulla varietà degli umori e la voce di Liebling "camaleontica" a dominare sia quando deve essere melodica ed evocativa come nella spiazzante e riuscita ballad Windmills and Chimes, che apre sconfinati spazi tra brezze di vento e campane, sia quando deve seguire la veloce, moderna e quasi stoner opener Treat me right, sfoderando cattiveria e grinta.
Rallentamenti e riff vecchia scuola in Death in 1st person, Walk in blue light, Into the ground , fumosi doom che riconciliano con il passato e consolidano il presente. Menzione per Call the man, ipnotica, cadenzata ed epica marcia con uno strepitoso Griffin che sfodera tutti i suoi effetti da metà canzone in poi e per la psichedelica e trasognante Everything's turning to night.
Dopo un disco così, che potrebbe riaprire porte e consegnare nuovi adepti alla band, si spera che la stabilità si impossessi, finalmente, del futuro consegnando ai virginiani Pentagram l'importanza che meritano al fianco dei grandi nomi del panorama Hard/Heavy mondiale. Perchè se l'Europa ha avuto i Black Sabbath, l'America ha risposto con i Pentagram.
venerdì 22 aprile 2011
COVER ART #1: BILLY JOEL (GLASS HOUSES, 1980)
artista: BILLY JOEL
album: GLASS HOUSES
anno: 1980
fotografo: JIM HOUGHTON
canzoni da ricordare: All for Leyna, It's still rock and roll to me, Sometimes a fantasy, You may be right
Anno 1980, il punk aveva già spazzato via tutto. Occorrevano grandi cambiamenti e molti artisti non rimasero a guardare, chi si buttò sulla discomusic imperante, chi sulla new wave e chi optò per una svolta rock.
Billy Joel esce dagli anni settanta con l'etichetta appiccicata addosso da crooner confidenziale, un "piano man" sulla scia dell'amico Elton John con almeno due hits mondiali come Just the way you are e Honesty che gli garantiranno diritti a vita ed un futuro radioso ed economicamente coperto.
Glass Houses è il disco delle rivincite. La sua personale mossa "punk" scagliata contro chi gli voleva male, critici in primis. Nulla cambia nel successo, confermando Joel come uno dei più straordinari hit maker americani di sempre. Glass Houses diventa presto un altro album di platino da aggiungere in bacheca grazie ai nuovi successi di You May Be Right, Sometimes A Fantasy, All For Leyna, It's Still Rock And Roll To Me, Don't Ask Me Why. Naturalmente la critica rema nuovamente contro, vedendo in questa nuova trasformazione di Joel il tentativo di cavalcare "l'onda" della nascente New Wave.
“Penso che ci sia stata la
percezione che stavo tentando di atteggiarmi come un ragazzo uscito dalla New
Wave, ma non era in alcun modo la mia intenzione. La mia intenzione era
scrivere roba più adatta da suonare nelle grandi arene”.
Joel, tutto sommato è un combattivo e la sua giovinezza passata a boxare lo sprona a far uscire un disco di rottura, diverso da quanto prodotto fino ad allora.Ecco che la copertina assume un significato particolare , svelando subito i suoi contenuti rock'n'roll.
Vestito di giubbotto e guanti di pelle nera, jeans sdruciti e stivaletti, impugna una pietra. I caratteri delle scritte, il nome e il titolo dell'album in rosso, fanno tanto "New York Dolls". Il fotografo Jim Houghton, già autore dello scatto del precedente disco di Joel 52 nd Street(1978) e di Powerage e Highway To Hell degli AC-DC, lo ritrae un attimo prima che la pietra tenuta in mano vada ad infrangersi sull'enorme vetrata davanti a lui. Un gesto che assume il significato di rottura con il passato o un atto da teppistello del Bronx, visto anche l'abbigliamento di Joel?
Sul retro copertina viene svelato l'arcano e tutto sembra tornare normale, il primo piano vede il musicista Newyorchese in giacca e cravatta però davanti ad un vetro in frantumi. La pietra , non ci sono più dubbi, è stata lanciata e gli anni ottanta, lo vedranno ancora protagonista.
giovedì 21 aprile 2011
retroRECENSIONE: KRIS KRISTOFFERSON (Closer to the bone)
KRIS KRISTOFFERSON Closer to the bone (NEW WEST Records,2009)
Il vento sbatte la porta socchiusa della veranda, un vecchio uomo texano dalla barba bianca armato di chitarra e armonica è intento ad accompagnare l'arrivo della sera seduto su una vecchia sedia cigolante. La sua voce calda ed avvolgente racconta storie di libertà, dolore e lo fa in solitudine come un vecchio zio che racconta ai suoi giovani nipoti cos'è la vita e come deve essere affrontata. Si mormora che questo uomo fu anche un attore bello e dannato che faceva cadere ai suoi piedi le donne e che scrisse quella canzone che tanto successo portò alla giovane e anch'essa dannata Janis Joplin, sì quella "Me and Bobby McGee" l'ha scritta proprio quel vecchio uomo.
Alla soglia dei settantatrè anni, Kris Kristofferson fa uscire un disco stupendo, che potrebbe essere benissimo il sesto capitolo mancante delle "American recordings" del compianto amico Johhny Cash. Proprio alle ultime registrazioni di Cash si è ispirato il produttore Don Was per far rinascere la carriera artistica di Kristofferson. Seguendo la strada di Rubin, Was con un operazione di taglio arrichisce la vena malinconica di queste undici composizioni scritte tutte dall'artista texano. Pochi strumenti e band (tra cui il recentemente somparso chitarrista Stephen Bruton e il batterista Jim Keltner) ridotta all'osso rendono le canzoni penetranti e ricche di quel feeling malinconico e struggente che l'ultimo Cash aveva creato. Proprio a Cash è dedicata una delle composizioni più solari del disco, "Good Morning John". Questa canzone è una dedica e un ricordo dell'amico scomparso, che già negli anni sessanta incoraggiò il giovane Kristofferson alla musica. E' inutile negarlo o nasconderlo, lo spettro di Cash esce un pò da tutti i solchi di questo lavoro come nelle crepuscolari "From Here To Forever" e "Holy Woman".
L'iniziale titletrack, già conosciuta ai tempi del supergruppo Highwaymen e sorretta dall'armonica di Kristofferson, protagonista in più tracce e che spesso portano alla mente le prime splendide ballate del giovane Dylan. Closer to the bone è un disco folk dall'anima country, pieno zeppo di dediche, oltre a quella per Cash, troviamo "Sister Sinead", dedicata alla O'Connor e infine la dedica finale al compagno di mille avventure Stephen Bruton, chitarrista della sua band e scomparso poco dopo le registrazioni.
Un disco d'altri tempi che ben si adatta all'arrivo di un altro inverno, in grado di scaldare anima e cuore, cullati dalla voce roca e saggia di Kristofferson che ci regala anche una traccia nascosta che non fa che confermare la bontà di questo lavoro e la nuova strada intrapresa da questo artista intento a vivere da protagonista anche questa sua fase di fine carriera. Il disco è uscito per la New West records e nella edizione limitata presenta un bonus disc con un live registrato a Dublino nel 2008 tra cui si possono ascoltare alcuni suoi vecchi successi come "Sunday Mornin' Comin' Down".
In origine compare su: http://www.debaser.it/recensionidb/ID_29489/Kris_Kristofferson_Closer_To_The_Bone.htm
Il vento sbatte la porta socchiusa della veranda, un vecchio uomo texano dalla barba bianca armato di chitarra e armonica è intento ad accompagnare l'arrivo della sera seduto su una vecchia sedia cigolante. La sua voce calda ed avvolgente racconta storie di libertà, dolore e lo fa in solitudine come un vecchio zio che racconta ai suoi giovani nipoti cos'è la vita e come deve essere affrontata. Si mormora che questo uomo fu anche un attore bello e dannato che faceva cadere ai suoi piedi le donne e che scrisse quella canzone che tanto successo portò alla giovane e anch'essa dannata Janis Joplin, sì quella "Me and Bobby McGee" l'ha scritta proprio quel vecchio uomo.
Alla soglia dei settantatrè anni, Kris Kristofferson fa uscire un disco stupendo, che potrebbe essere benissimo il sesto capitolo mancante delle "American recordings" del compianto amico Johhny Cash. Proprio alle ultime registrazioni di Cash si è ispirato il produttore Don Was per far rinascere la carriera artistica di Kristofferson. Seguendo la strada di Rubin, Was con un operazione di taglio arrichisce la vena malinconica di queste undici composizioni scritte tutte dall'artista texano. Pochi strumenti e band (tra cui il recentemente somparso chitarrista Stephen Bruton e il batterista Jim Keltner) ridotta all'osso rendono le canzoni penetranti e ricche di quel feeling malinconico e struggente che l'ultimo Cash aveva creato. Proprio a Cash è dedicata una delle composizioni più solari del disco, "Good Morning John". Questa canzone è una dedica e un ricordo dell'amico scomparso, che già negli anni sessanta incoraggiò il giovane Kristofferson alla musica. E' inutile negarlo o nasconderlo, lo spettro di Cash esce un pò da tutti i solchi di questo lavoro come nelle crepuscolari "From Here To Forever" e "Holy Woman".
L'iniziale titletrack, già conosciuta ai tempi del supergruppo Highwaymen e sorretta dall'armonica di Kristofferson, protagonista in più tracce e che spesso portano alla mente le prime splendide ballate del giovane Dylan. Closer to the bone è un disco folk dall'anima country, pieno zeppo di dediche, oltre a quella per Cash, troviamo "Sister Sinead", dedicata alla O'Connor e infine la dedica finale al compagno di mille avventure Stephen Bruton, chitarrista della sua band e scomparso poco dopo le registrazioni.
Un disco d'altri tempi che ben si adatta all'arrivo di un altro inverno, in grado di scaldare anima e cuore, cullati dalla voce roca e saggia di Kristofferson che ci regala anche una traccia nascosta che non fa che confermare la bontà di questo lavoro e la nuova strada intrapresa da questo artista intento a vivere da protagonista anche questa sua fase di fine carriera. Il disco è uscito per la New West records e nella edizione limitata presenta un bonus disc con un live registrato a Dublino nel 2008 tra cui si possono ascoltare alcuni suoi vecchi successi come "Sunday Mornin' Comin' Down".
In origine compare su: http://www.debaser.it/recensionidb/ID_29489/Kris_Kristofferson_Closer_To_The_Bone.htm
lunedì 18 aprile 2011
RECENSIONE: PAUL SIMON ( So Beautful or So What)
PAUL SIMON So beautiful or so what (Concord music group, 2011)
La migliore recensione su questo disco la trovate all'interno del libretto, scritta da Elvis Costello e anche se potrebbe sembrare di parte perchè scritta da un artista, amico e collega, riesce benissimo a rendere l'idea e le sensazioni che l'ascolto riesce a dare.
Paul Simon non conosce confini per la sua arte musicale.Se l'ultimo disco Surprise , uscito nel 2006 fu in tutti i sensi una sorpresa, questo nuovo sembra tracciare un ideale riassunto della sua carriera, raccogliendo al suo interno tutte le esperienze musicali della sua vita, dai primissimi vagiti rock'n'roll sul finire degli anni cinquanta, al pop-folk epocale con Garfunkel, infine arrivando a tutte le direzioni di world music intraprese da solista compreso il poco riuscito tentativo di sposare l'elettronica di Bryan Eno in Surprise, perchè alcune tracce di quell'ultimo strano e poco riuscito lavoro sembrano essere presenti anche qui, ma fanno tutt'altra figura.
Un viaggio senza confini quello di Simon, da sempre esploratore curioso della musica che viaggia fuori dai perimetri americani, in grado di unire il folk con i suoni provenienti dai continenti più lontani e dagli strumenti più strani ed inusuali per un americano nato con il rock'n'roll. Nessuno, forse, poteva pensare che già in canzoni come Cecilia e il Condor Pasa, dell'ultimo disco insieme ad Art Garfunkel, quel Bridge Over Troubled Water, uscito nel 1970 e celebrato a dovere quest'anno con la recente uscita deluxe,Simon stava già piantando i primi germogli della sua futura carriera solista. Una carriera che lo porterà ad abbracciare la world music, inglobandola alla perfezione nelle sue radici musicali. Graceland e The rhythm of the Saints sono stati l'apice di questa ricerca, due dischi premiati da critica e successo.
So beautiful os so what ha un sapore particolare, lieve ma allo stesso tempo pieno di pesanti domande(che vengono rivolte anche agli angeli Questions for the Angels), dove l'amore, come Costello rimarca nelle note di copertina, è presente e fa da guida ad un disco pieno di spiritualità, quella di un uomo di origine ebrea che a settant'anni cerca ancora tante risposte sul significato della vita e su quello che vi è dopo (The Afterlife).
Il sermone datato 1941, del reverendo J.M.Gates, campionato all'interno di Getting ready for Christmas Day è il pretesto per parlare dei nostri giorni e della guerra in Iraq attraverso gli occhi di un giovane soldato che passerebbe volentieri il Natale a casa piuttosto che sui campi minati. Chitarre acustiche a tessere la ritmica in primo piano e la voce sempre calda di Simon aprono il disco. Compare anche la moglie Edie Brickell ai cori (anc'essa fresca di stampa con il suo nuovo disco).
L'Africa di Graceland ritorna nei ritmi di Dizzing Blue e si mischia all'India, dove le percussioni sono anche sillabe vocali cantate da Karaikudi R. Mani.
Il piano e gli archi della ballata Love and Hard Times, tessono il momento musicale più intimo e raccolto del disco. Love is eternal sacred light è un blues che parte come un treno fischiante, il momento più propriamente rock dell'intero lavoro, armonica ed un finale che sale di ritmo.
Echi anni 50 escono dal testo di The Afterlife dove Simon immagina la vita nell'aldilà, in modo scherzoso e leggero, uscendone canticchiando "Be Bop a Lula" su un ritmo groove e trascinante. Amulet non è che un piccolo preludio acustico suonato dal solo Simon che fa da apripista a Questions for the angels, delicata e suonata in punta di piedi. Le chitarre acustiche sono protagoniste anche in Rewrite, sapori africani e un amaro testo sul passato di un veterano.
Il disco si chiude con Love and Blessings , la più americana del lotto e ancora in blues, con la title track, già un piccolo classico al primo ascolto.
Un disco pensato e nato alla vecchia maniera nella testa di Simon che è diventato working in progress, un disco ricco di sfumature anche moderne, rendendolo figlio dei suoi tempi e assolutamente degno successore dei passati capolavori del piccolo artista americano. Testi come al solito superiori alla media e classe da vendere. Finito l'ascolto la voglia di tornare alla prima traccia, è un segnale non trascurabile della bontà di questo lavoro.
La migliore recensione su questo disco la trovate all'interno del libretto, scritta da Elvis Costello e anche se potrebbe sembrare di parte perchè scritta da un artista, amico e collega, riesce benissimo a rendere l'idea e le sensazioni che l'ascolto riesce a dare.
Paul Simon non conosce confini per la sua arte musicale.Se l'ultimo disco Surprise , uscito nel 2006 fu in tutti i sensi una sorpresa, questo nuovo sembra tracciare un ideale riassunto della sua carriera, raccogliendo al suo interno tutte le esperienze musicali della sua vita, dai primissimi vagiti rock'n'roll sul finire degli anni cinquanta, al pop-folk epocale con Garfunkel, infine arrivando a tutte le direzioni di world music intraprese da solista compreso il poco riuscito tentativo di sposare l'elettronica di Bryan Eno in Surprise, perchè alcune tracce di quell'ultimo strano e poco riuscito lavoro sembrano essere presenti anche qui, ma fanno tutt'altra figura.
Un viaggio senza confini quello di Simon, da sempre esploratore curioso della musica che viaggia fuori dai perimetri americani, in grado di unire il folk con i suoni provenienti dai continenti più lontani e dagli strumenti più strani ed inusuali per un americano nato con il rock'n'roll. Nessuno, forse, poteva pensare che già in canzoni come Cecilia e il Condor Pasa, dell'ultimo disco insieme ad Art Garfunkel, quel Bridge Over Troubled Water, uscito nel 1970 e celebrato a dovere quest'anno con la recente uscita deluxe,Simon stava già piantando i primi germogli della sua futura carriera solista. Una carriera che lo porterà ad abbracciare la world music, inglobandola alla perfezione nelle sue radici musicali. Graceland e The rhythm of the Saints sono stati l'apice di questa ricerca, due dischi premiati da critica e successo.
So beautiful os so what ha un sapore particolare, lieve ma allo stesso tempo pieno di pesanti domande(che vengono rivolte anche agli angeli Questions for the Angels), dove l'amore, come Costello rimarca nelle note di copertina, è presente e fa da guida ad un disco pieno di spiritualità, quella di un uomo di origine ebrea che a settant'anni cerca ancora tante risposte sul significato della vita e su quello che vi è dopo (The Afterlife).
Il sermone datato 1941, del reverendo J.M.Gates, campionato all'interno di Getting ready for Christmas Day è il pretesto per parlare dei nostri giorni e della guerra in Iraq attraverso gli occhi di un giovane soldato che passerebbe volentieri il Natale a casa piuttosto che sui campi minati. Chitarre acustiche a tessere la ritmica in primo piano e la voce sempre calda di Simon aprono il disco. Compare anche la moglie Edie Brickell ai cori (anc'essa fresca di stampa con il suo nuovo disco).
L'Africa di Graceland ritorna nei ritmi di Dizzing Blue e si mischia all'India, dove le percussioni sono anche sillabe vocali cantate da Karaikudi R. Mani.
Il piano e gli archi della ballata Love and Hard Times, tessono il momento musicale più intimo e raccolto del disco. Love is eternal sacred light è un blues che parte come un treno fischiante, il momento più propriamente rock dell'intero lavoro, armonica ed un finale che sale di ritmo.
Echi anni 50 escono dal testo di The Afterlife dove Simon immagina la vita nell'aldilà, in modo scherzoso e leggero, uscendone canticchiando "Be Bop a Lula" su un ritmo groove e trascinante. Amulet non è che un piccolo preludio acustico suonato dal solo Simon che fa da apripista a Questions for the angels, delicata e suonata in punta di piedi. Le chitarre acustiche sono protagoniste anche in Rewrite, sapori africani e un amaro testo sul passato di un veterano.
Il disco si chiude con Love and Blessings , la più americana del lotto e ancora in blues, con la title track, già un piccolo classico al primo ascolto.
Un disco pensato e nato alla vecchia maniera nella testa di Simon che è diventato working in progress, un disco ricco di sfumature anche moderne, rendendolo figlio dei suoi tempi e assolutamente degno successore dei passati capolavori del piccolo artista americano. Testi come al solito superiori alla media e classe da vendere. Finito l'ascolto la voglia di tornare alla prima traccia, è un segnale non trascurabile della bontà di questo lavoro.
giovedì 14 aprile 2011
RECENSIONE: GRAVEYARD (Hisingen Blues)
GRAVEYARD Hisingen Blues (Nuclear Blast, 2011)
C'è poco da discutere, gli scandinavi hanno preso in mano le redini del rock europeo. Ogni sottogenere, dal punk, al glam, dall'hard , al metal più estremo ha dei rappresentanti in grado di rivaleggiare con le grosse ed ingombranti rockstar americane ed inglesi. Terre fredde che sanno riscaldare mente e muscoli.
Non sfuggono a tutto ciò, gli svedesi Graveyard, al loro secondo lavoro, primo per Nuclear Blast. Sono la conferma che, sì, nel 2011 ci si può ancora innamorare di una musica che ha sul groppone quarant'anni d'età. Continuare ad ascoltare il vecchio rock degli anni settanta senza andare a tirare fuori i vecchi vinili, si può, basta distinguere bene da chi lo fa con passione devota e chi salta sopra al carrozzone.
Presentato da una copertina assolutamente strepitosa, Hisingen blues dice già tutto lì, nel titolo, nell'artwork e nelle foto promozionali dei quattro ragazzi svedesi. Per chi non cerca l'originalità a tutti i costi ma solamente il calore e l'anima che l'hard blues dei settanta sapeva emanare. Led Zeppelin, Free, qualcosa dei Black Sabbath, folk, un pò di psichedelia e un suono perfetto .
Il blues che esce dall'isola di Hisingen (quartiere operaio di Goteborg da cui arrivano i nostri) ha il retro gusto, tutto scandinavo ,di chi sa darti un calcio nel sedere per poi ammagliarti con le atmosfere oniriche, malinconiche e tristi. Ascoltate No good, Mr. Holden, un hard-blues che parte lento ed acido e sale con l'ombra del "grande dirigibile" che si posa trasportando la canzone indietro nel tempo quando l'accoppiata Plant/Page rileggieva a modo suo la tradizione. Buying Truth è un rock'n'roll che nasconde in mezzo al bel riff chitarristico un coro ruffiano e un testo polemico contro l'industria discografica così come lo stesso si può dire di RSS.Ain't fit to live here, posta in apertura possiede quell'urgenza compositiva che avevano i grandi classici di Deep Purple e Uriah Heep, un benvenuto di tre minuti tre folgorante ed accattivante.
The Siren è una sporca ballad blues che si illumina di lampi improvvisi e si incendia come una chitarra di Hendrix lasciata a bruciare sopra ad un palco di quei festival lontani nel tempo. Così come Uncomfortably Numb dove le capacità vocali del singer Joakim Nilsson esplodono in un smisurato feeling rock, canzone dalla quale ti aspetti il crescendo che puntualmente arriva appagandoti con l'assolo finale. Perfetta.
Longing è psichedelica e l'Hammond in sottofondo gioca pienamente le sue carte, in una sorta di strumentale psycho-western che solo il nostro Morricone potrebbe scrivere, mentre con Cooking Brew( presente come bonus track ) si va a parare nello Space hardrock.
Per capire in che epoca pensano di vivere questi quattro ragazzi, guardate poi il video della title track, puro hard rock settantiano.
Un disco capace di appagare i nostalgici del vecchio hard rock in tutte le sue vecchie forme, come un disco del Led Zeppelin registrato nel 2011 e capace di infilare nei retaggi dei suoni vintage la modenità e il calore dello stoner, i rallentamenti del doom metal e la passione di certo rock sudista. Più che una sorpresa.
lunedì 11 aprile 2011
RECENSIONE: MIDDLE BROTHER
MIDDLE BROTHER Middle Brother (Partisan Records, 2011)
Sempre difficile riuscire a venir fuori con un buon album, quando i caratteri, le esperienze e l'arte di diversi musicisti si uniscono per formare un'unica entità. Prendendo come metro di paragone i soliti Crosby-Stills, Nash & Young, l'unico supergruppo che ha resistito per fama nel tempo, poco altro rimane. Tornando in tempi recenti, in ambito alternative-folk, l'ultima delusione furono quei Monsters of folk che non mantennero tutte le promesse date anche dall'altisonante e provocatorio nome.
I Middle Brother riescono invece a non stancare per tutta la durata del disco.
12 canzoni che fanno di varietà e freschezza la loro forza, senza essere tuttavia dei capolavori da tramandare. McCauley, Goldsmith e Vasquez, rispettivamente leaders dei loro guppi Deer Trick, Delta Spirit e Dawes lasciano la loro personale impronta in ogni brano.
Dall'iniziale e sognante folk Daydreaming di McCauley, alla seguente Blue Eyes di Vasquez che ruba letteralmente tutto al miglior Neil Young degli anni settanta, in bilico tra chitarra elettrica ed un impianto country/folk. Atmosfere da west coast californiana in Thanks for Nothing di Goldsmith così come in Million Dollar Bill e Wildnerness. Poi delle incursioni nel rock'n'roll anni '50 che danno forza e vigore ad un disco suonato con divertimento e spensieratezza. Middle Brother e il singolo Me,me,me rimandano al primordiale honk-tonk rock'n'roll, mentre Someday con i suoi cori, ci porta alla fun-music della california dei Beach Boys e alle grandi band vocali dei '50. Inclusa anche la cover di Portland dei Replacements.
Brezza fresca che soffia su canzoni calde ed avvolgenti, un progetto che forse rimarrà ancorato a questo solo disco, mantenendo la tradizione che vuole i supergruppi sempre in lotta con la breve longevità dei progetti. Da ascoltare in tutta rilassatezza in questa primavera afosa come non mai. Pensieri azzerati, sole e basta.
Sempre difficile riuscire a venir fuori con un buon album, quando i caratteri, le esperienze e l'arte di diversi musicisti si uniscono per formare un'unica entità. Prendendo come metro di paragone i soliti Crosby-Stills, Nash & Young, l'unico supergruppo che ha resistito per fama nel tempo, poco altro rimane. Tornando in tempi recenti, in ambito alternative-folk, l'ultima delusione furono quei Monsters of folk che non mantennero tutte le promesse date anche dall'altisonante e provocatorio nome.
I Middle Brother riescono invece a non stancare per tutta la durata del disco.
12 canzoni che fanno di varietà e freschezza la loro forza, senza essere tuttavia dei capolavori da tramandare. McCauley, Goldsmith e Vasquez, rispettivamente leaders dei loro guppi Deer Trick, Delta Spirit e Dawes lasciano la loro personale impronta in ogni brano.
Dall'iniziale e sognante folk Daydreaming di McCauley, alla seguente Blue Eyes di Vasquez che ruba letteralmente tutto al miglior Neil Young degli anni settanta, in bilico tra chitarra elettrica ed un impianto country/folk. Atmosfere da west coast californiana in Thanks for Nothing di Goldsmith così come in Million Dollar Bill e Wildnerness. Poi delle incursioni nel rock'n'roll anni '50 che danno forza e vigore ad un disco suonato con divertimento e spensieratezza. Middle Brother e il singolo Me,me,me rimandano al primordiale honk-tonk rock'n'roll, mentre Someday con i suoi cori, ci porta alla fun-music della california dei Beach Boys e alle grandi band vocali dei '50. Inclusa anche la cover di Portland dei Replacements.
Brezza fresca che soffia su canzoni calde ed avvolgenti, un progetto che forse rimarrà ancorato a questo solo disco, mantenendo la tradizione che vuole i supergruppi sempre in lotta con la breve longevità dei progetti. Da ascoltare in tutta rilassatezza in questa primavera afosa come non mai. Pensieri azzerati, sole e basta.
venerdì 8 aprile 2011
retroRECENSIONE: KEITH CAPUTO (Died Laughing)
KEITH CAPUTO Died Laughing (Roadrunner Records,2000)
In questi giorni mi sono perso nell'ascolto del primo disco solista di quel piccolo grande personaggio di nome Keith Caputo. Ai piu' il suo nome dirà poco o nulla, a qualcuno ricorderà essere il nome del vocalist di un gruppo dagli esordi Metal-core di New York, i "Life Of Agony", un po' i figli minori dei piu' fortunati "Type O Negative".
Uscito nel 2000 rappresenta il primo disco solista della sua carriera a cui faranno seguito altre tre uscite, aprofittando dello scioglimento della band madre ritornata nel 2005 e tuttora attiva. Nei suoi lavori solisti Caputo prende totalmente le distanze dal suono della band newyorchese preferendo suoni acustici e intimistici. Poche schitarrate quindi ma molte ballad malinconiche e spesso minimali con testi spesso autobiografici.
Keith Caputo è figlio di una adolescenza da non augurare a nessuno.
Figlio di genitori distrutti e sconfitti dall'eroina, Keith si è dovuto costruire una vita da solo con le proprie forze e nella musica ha trovato una via di uscita ed una risposta al suo vivere. Dotato di una delle migliori voci che il rock abbia partorito negli anni novanta, Caputo sfoga la sua rabbia e i suoi pensieri d'esistenza in queste dodici canzoni mature e mai urlate.
Con i Life Of Agony , Caputo urla la sua rabbia, da solista cerca di scavare nell'anima facendo uscire perle come la stupenda "Razzberry Mockery", canzone che avrebbe meritato di più. Ballad che ti si stampa in testa con la descrizione amara della sua triste infanzia negata da certe cose che in età adulta o abbracci con rassegnazione o tieni lontano con tutte le tue forze ancor di più se queste hanno tolto di mezzo la vita dei tuoi genitori.
Poco rock in questo disco, dicevo, giusto l'iniziale "Honeycomb" e le finali "Lollipop" e "Upsy Daisy". Canzoni dal forte sapore grunge e unici pezzi dove compaiono chitarre elettriche. Ad un martire del grunge è poi dedicata la quasi jazzata "Cobain (Rainbow Deadhead)", quasi a voler accumunare la sua vita a quella di Cobain. Ma Caputo non arriverebbe mai a certi compromessi con la vita, la sua voglia di esserci traspare da tutte le tracce e a vederlo non si può provare che ammirazione e simpatia per quest'uomo minuto e quasi buffo dotato di una voce unica.
Nell'ascolto del disco vengono a galla certi amori di Caputo per la west coast californiana come in "Selfish", "New York City", "Home" o per i Beatles psichedelici come in "Just Be" e "Brandy Duval" dove l'uso di strumenti ad arco e orchestrazioni fanno la loro comparsa. Disco in tutto e per tutto intimista che ti entra dentro poco a poco, suonato con passione dall'inizio alla fine, bandito l'uso dell'elettronica a favore di veri strumenti a rendere il tutto più caldo e avvolgente.
Uscito per la Roadrunner, etichetta anche dei Life Of Agony, ai tempi, passò quasi del tutto inosservato così come quasi è sconosciuto Keith Caputo, talento non ancora compreso. Di lui si sono però ricordati i suoi amici musicisti. Possiamo così trovare Caputo nelle backing vocals del fortunato Bloody kisses degli amici Type O Negative (a cui i Life Of Agony sottrarranno il batterista Sal Abruscato), oppure a duettare nel singolo dei gothmetallers Within Temptation "What have you done". Non si è dimenticata di lui nemmeno la Roadrunner che lo chiamò insieme ad altre decine di artisti per la compilation fatta per festeggiare i 25 anni dell'etichetta. Caputo scrisse le lirics e suonò il piano nella canzone "Tired'n'lonely".
Ora sta a voi scoprirlo se già non lo conoscete.
In Origine su Debaser.it http://www.debaser.it/recensionidb/ID_27958/Keith_Caputo_Died_Laughing.htm
In questi giorni mi sono perso nell'ascolto del primo disco solista di quel piccolo grande personaggio di nome Keith Caputo. Ai piu' il suo nome dirà poco o nulla, a qualcuno ricorderà essere il nome del vocalist di un gruppo dagli esordi Metal-core di New York, i "Life Of Agony", un po' i figli minori dei piu' fortunati "Type O Negative".
Uscito nel 2000 rappresenta il primo disco solista della sua carriera a cui faranno seguito altre tre uscite, aprofittando dello scioglimento della band madre ritornata nel 2005 e tuttora attiva. Nei suoi lavori solisti Caputo prende totalmente le distanze dal suono della band newyorchese preferendo suoni acustici e intimistici. Poche schitarrate quindi ma molte ballad malinconiche e spesso minimali con testi spesso autobiografici.
Keith Caputo è figlio di una adolescenza da non augurare a nessuno.
Figlio di genitori distrutti e sconfitti dall'eroina, Keith si è dovuto costruire una vita da solo con le proprie forze e nella musica ha trovato una via di uscita ed una risposta al suo vivere. Dotato di una delle migliori voci che il rock abbia partorito negli anni novanta, Caputo sfoga la sua rabbia e i suoi pensieri d'esistenza in queste dodici canzoni mature e mai urlate.
Con i Life Of Agony , Caputo urla la sua rabbia, da solista cerca di scavare nell'anima facendo uscire perle come la stupenda "Razzberry Mockery", canzone che avrebbe meritato di più. Ballad che ti si stampa in testa con la descrizione amara della sua triste infanzia negata da certe cose che in età adulta o abbracci con rassegnazione o tieni lontano con tutte le tue forze ancor di più se queste hanno tolto di mezzo la vita dei tuoi genitori.
Poco rock in questo disco, dicevo, giusto l'iniziale "Honeycomb" e le finali "Lollipop" e "Upsy Daisy". Canzoni dal forte sapore grunge e unici pezzi dove compaiono chitarre elettriche. Ad un martire del grunge è poi dedicata la quasi jazzata "Cobain (Rainbow Deadhead)", quasi a voler accumunare la sua vita a quella di Cobain. Ma Caputo non arriverebbe mai a certi compromessi con la vita, la sua voglia di esserci traspare da tutte le tracce e a vederlo non si può provare che ammirazione e simpatia per quest'uomo minuto e quasi buffo dotato di una voce unica.
Nell'ascolto del disco vengono a galla certi amori di Caputo per la west coast californiana come in "Selfish", "New York City", "Home" o per i Beatles psichedelici come in "Just Be" e "Brandy Duval" dove l'uso di strumenti ad arco e orchestrazioni fanno la loro comparsa. Disco in tutto e per tutto intimista che ti entra dentro poco a poco, suonato con passione dall'inizio alla fine, bandito l'uso dell'elettronica a favore di veri strumenti a rendere il tutto più caldo e avvolgente.
Uscito per la Roadrunner, etichetta anche dei Life Of Agony, ai tempi, passò quasi del tutto inosservato così come quasi è sconosciuto Keith Caputo, talento non ancora compreso. Di lui si sono però ricordati i suoi amici musicisti. Possiamo così trovare Caputo nelle backing vocals del fortunato Bloody kisses degli amici Type O Negative (a cui i Life Of Agony sottrarranno il batterista Sal Abruscato), oppure a duettare nel singolo dei gothmetallers Within Temptation "What have you done". Non si è dimenticata di lui nemmeno la Roadrunner che lo chiamò insieme ad altre decine di artisti per la compilation fatta per festeggiare i 25 anni dell'etichetta. Caputo scrisse le lirics e suonò il piano nella canzone "Tired'n'lonely".
Ora sta a voi scoprirlo se già non lo conoscete.
In Origine su Debaser.it http://www.debaser.it/recensionidb/ID_27958/Keith_Caputo_Died_Laughing.htm
lunedì 4 aprile 2011
RECENSIONE: MANNARINO (Supersantos)
ROMANITÀ Un giorno una Signora forastiera, passanno còr marito sotto l'arco de Tito, vidde una Gatta nera spaparacchiata fra l'antichità. -Micia che fai?- je chiese: e je buttò; un pezzettino de biscotto ingrese; ma la Gatta, scocciata, nu' lo prese: e manco l'odorò. Anzi la guardò male e disse con un' aria strafottente: Grazzie, madama, nun me serve gnente: io nun magno che trippa nazzionale! Trilussa
Roma, per chi ci vive o ha provato a viverla da turista curioso lontano dai cataloghi che promettono meraviglie, ha un magnetismo che difficilmente chi la cerca solamente per i suoi monumenti, riuscirà a scovare. Fortunatamente, in tanti hanno provato a raccontarcela in modo diverso. La Roma nascosta, quella del quartiere Monteverde di Pasolini, quella poetica e bizzarra di Fellini, quella dei rioni cantati negli stornelli romani ed interpretati da Lando Fiorini e Gabriella Ferri, rivive un po' anche nelle canzoni di Mannarino, un cantore che coniuga tutto questo come un Tom Waits nato tra i colli e il Vaticano. Con lui i perdenti hanno la ribalta, anche chi vive a Trastevere e si affaccia alla finestra può diventare protagonista di una sua canzone, basta avere poche prerogative: non essere famoso, tirare a campare e avere qualche vecchia bella storia da raccontare, meglio se d'amore anche se il finale è tragico e fa soffrire. Alessandro Mannarino ha percorso tutte le strade meno battute della sua Roma. Quelle che i turisti americani non toccano. Partendo da Casilina arrivando alla stazione Termini, ha incontrato i vecchi e giovani ubriachi che popolano il bar della "rabbia", le donne di strada, ha fatto amicizia con la comunità rom che popola casilino 900 e ora si è fermato al Vaticano a contemplarne la grandezza e a farsi molte domande. Perchè se sei di Roma , lo stato pontificio è nella tua pelle, nel bene e nel male e devi conviverci. Ed ecco che Supersantos diventa, oltre che il più acerrimo nemico del Super tele, palloni da poche lire, appesi fuori dalle edicole, indimenticati protagonisti di tante partitelle a calcio nei più malandati campetti di periferia, anche un santo "tanto", in carne ed ossa, quello a cui appellarci per liberarci dalla rovina imminente. Mannarino racconta un'apocalisse fatta di distruzione del libero pensiero e costruita su dogmi a volte inconcepibili e difficili da decifrare. Nascoste tra le pieghe delle canzoni sono tante le stoccate indirizzate alla chiesa, alcune sottili da cogliere, altre senza mandarle a dire.
"Serenata lacrimosa-sui gradini della chiesa-ma chi me sente-er vescovo c'ha er microfono e io niente- e lui vorebbe una cosa solamente-che se seccassero tutte le donne- che fà l'amore fosse un incidente..." da Serenata Lacrimosa "C'è chi ha detto " m'hanno derubato i preti e lo stato"- l'hanno condannato più le spese-e adesso fa la questua nelle chiese" da Serenata Silenziosa
In Maddalena ricostruisce a modo suo le sacre scritture, attraverso una tresca amorosa tra la Santa e Giuda arrivando ad una interessante conclusione. Ma in Supersantos, che rappresenta un grande balzo in avanti , anche a livello musicale, il viaggio di Mannarino tocca anche l'Europa e la patchanka di Manu Chao in L'era della gran pubblicitè , il sudamerica, spunti di Capossela ( il quale non ha mancato di benedire il suo figliol prodigo con belle parole), che escono a più riprese in canzoni quali Quando l'amore se ne va o la bella favola Merlo rosso, cantata in coppia con Claudia Angelucci. La tradizione degli stornelli nell'accorata dichiarazione d'amore di State zitta e la romanità che esce prepotente nell'iniziale Rumba magica e il suo colorato e a volte desolato ritratto della Roma di oggi.
"Chi per strada vape strada mòre sotto tangenziali di città e dal policlinico al Verano tutta vita tocca camminà da Gerusalemme al Vaticano tutti quanti fanno inginocchià alzati e balla contromano questa nuova rumba magica"
Mannarino è un personaggio umile ed onesto che ha confermato tutto il buono dell'esordio e si appresta a fare il grande balzo di popolarità.
vedi anche RECENSIONE: VINICIO CAPOSSELA- Marinai Profeti e Balene
giovedì 31 marzo 2011
RECENSIONE: STOOP (Freeze Frames)
STOOP Freeze Frames (Bugbite Records ,2011)
La sensazione di entrare in un lungo e buio tunnel di cemento, lasciarsi alle spalle la vita che hai condotto fino ad ora, affrontare un percorso tortuoso con la fioca luce dell'uscita solo impressa nella tua testa come desiderio più imminente e simbolo di nuove buone cose che possano far dimenticare il passato. Una luce non poi così lontana nella realtà, pochi minuti, quelli che compongono le prime due tracce di Freeze Frames, il secondo lavoro degli Stoop. Our Modern Assaults e Migrations , dopo una breve intro, ti avvolgono con le loro atmosfere elettriche, dove l'alternative indie rock europeo dei primi anni novanta incontra sprazzi di folk con i bagliori di una psichedelia che trova supporto nell'originale uso di uno strumento come la tromba che di tanto in tanto (Trainwrecks e Fever is a ghost) colora canzoni architettamente perfette.
Ora, arbusti verdi, fiori color pastello e luce si sostituiscono al freddo gelo del cemento, l'acido folk nell'inizio di Remote, la magia ipnotizzante della bella Machine e le suggestioni quasi pinkfloydiane della finale We carry the fire con la sua coda noise, fanno da punti guida di un disco che gioca sul forte connubio elettro-acustico a livello musicale e sul passato-contemporaneo nei testi, per nulla banali, dove il forte richiamo al tempo passato, alle occasioni perdute, alle esperienze negative (Freeze frame), da vivere senza rimorso (10000 Bugs) diventa fuga da un mondo sempre più apocalittico fatto di soldi e potere ( Our modern Assault) ma colmo di speranze (Migrations).
Un disco che fa della omogeneità dei suoi chiaro-scuri ipnotici, disseminati per tutta la durata, il proprio punto di forza, dove anche gli accenni pop nell'uso particolare delle voci fanno la loro figura, incastrandosi perfettamente nelle trame delle canzoni. Manca, forse, quel tocco di cattiveria in più che potrebbe renderlo perfetto e con un'altra sfumatura da aggiungere alle tante già presenti, se proprio bisogna trovare un appunto.
Ora posso dirlo, sottovoce, gli Stoop sono italiani, sanno scrivere belle canzoni dal tratto internazionale e proprio all'estero hanno già ottenuto importanti riconoscimenti che sono valsi l'importante collaborazione con Davide Bortolini (Kings of convenience) che ha mixato il loro brano In the cave in Norvegia e la partecipazione del loro brano We carry the fire( con ospiti membri di Julie's haircut,Zeta bum, Slugs) nella colonna sonora di Cenere, film di Martino Pompili. Nascono a Reggio Emilia nel 2003 e hanno all'attivo già un album, Stoopid monkeys in the house(uscito per Prismopaco records) nel 2008. Canzoni da bruciare lentamente per assaporarne le sfumature che gli ascolti fanno emergere, lontano dal quel tunnel di cemento che ingabbia certa musica italiana.
Dal 6 Maggio disponibile su iTunes, in anteprima esclusiva per due settimane, la Special Edition dell’album contenente 4 inedite live bonus tracks.
Dal 20 Maggio disponibile in versione digitale in tutti i migliori Digital Store e in download gratuito per una settimana su Nokia Music Store il singolo "Fever Is A Ghost"
INTERVISTA su impattosonoro.it
Per saperne di più visitate l'indirizzo http://www.prismopaco.com/home.php?l=it
La sensazione di entrare in un lungo e buio tunnel di cemento, lasciarsi alle spalle la vita che hai condotto fino ad ora, affrontare un percorso tortuoso con la fioca luce dell'uscita solo impressa nella tua testa come desiderio più imminente e simbolo di nuove buone cose che possano far dimenticare il passato. Una luce non poi così lontana nella realtà, pochi minuti, quelli che compongono le prime due tracce di Freeze Frames, il secondo lavoro degli Stoop. Our Modern Assaults e Migrations , dopo una breve intro, ti avvolgono con le loro atmosfere elettriche, dove l'alternative indie rock europeo dei primi anni novanta incontra sprazzi di folk con i bagliori di una psichedelia che trova supporto nell'originale uso di uno strumento come la tromba che di tanto in tanto (Trainwrecks e Fever is a ghost) colora canzoni architettamente perfette.
Ora, arbusti verdi, fiori color pastello e luce si sostituiscono al freddo gelo del cemento, l'acido folk nell'inizio di Remote, la magia ipnotizzante della bella Machine e le suggestioni quasi pinkfloydiane della finale We carry the fire con la sua coda noise, fanno da punti guida di un disco che gioca sul forte connubio elettro-acustico a livello musicale e sul passato-contemporaneo nei testi, per nulla banali, dove il forte richiamo al tempo passato, alle occasioni perdute, alle esperienze negative (Freeze frame), da vivere senza rimorso (10000 Bugs) diventa fuga da un mondo sempre più apocalittico fatto di soldi e potere ( Our modern Assault) ma colmo di speranze (Migrations).
Un disco che fa della omogeneità dei suoi chiaro-scuri ipnotici, disseminati per tutta la durata, il proprio punto di forza, dove anche gli accenni pop nell'uso particolare delle voci fanno la loro figura, incastrandosi perfettamente nelle trame delle canzoni. Manca, forse, quel tocco di cattiveria in più che potrebbe renderlo perfetto e con un'altra sfumatura da aggiungere alle tante già presenti, se proprio bisogna trovare un appunto.
Ora posso dirlo, sottovoce, gli Stoop sono italiani, sanno scrivere belle canzoni dal tratto internazionale e proprio all'estero hanno già ottenuto importanti riconoscimenti che sono valsi l'importante collaborazione con Davide Bortolini (Kings of convenience) che ha mixato il loro brano In the cave in Norvegia e la partecipazione del loro brano We carry the fire( con ospiti membri di Julie's haircut,Zeta bum, Slugs) nella colonna sonora di Cenere, film di Martino Pompili. Nascono a Reggio Emilia nel 2003 e hanno all'attivo già un album, Stoopid monkeys in the house(uscito per Prismopaco records) nel 2008. Canzoni da bruciare lentamente per assaporarne le sfumature che gli ascolti fanno emergere, lontano dal quel tunnel di cemento che ingabbia certa musica italiana.
Dal 6 Maggio disponibile su iTunes, in anteprima esclusiva per due settimane, la Special Edition dell’album contenente 4 inedite live bonus tracks.
Dal 20 Maggio disponibile in versione digitale in tutti i migliori Digital Store e in download gratuito per una settimana su Nokia Music Store il singolo "Fever Is A Ghost"
INTERVISTA su impattosonoro.it
Per saperne di più visitate l'indirizzo http://www.prismopaco.com/home.php?l=it
lunedì 28 marzo 2011
RECENSIONE: MODENA CITY RAMBLERS ( Sul tetto del mondo)
MODENA CITY RAMBLERS Sul tetto del mondo ( Mescal, 2011)
Il tour di "Riportando tutto a casa, quindici anni dopo" era un importante segnale che si è materializzato in questo nuovo "Sul tetto del mondo". Il riavvicinamento a quella semplicità di suonare folk, come agli esordi, riguardando all'Irlanda e al combat -folk come principali fonti di ispirazione. Dall'uscita di Cisco, in seno al gruppo di Modena, sono successe tante cose, arrivi e partenze che hanno trasformato e rivoluzionato la band, senza però far perdere l'idea di base della grande famiglia. Persa per strada la voce femminile di Betty Vezzani, il "tuttofare" Angelo Kaba Cavazzuti e riassorbita la ferita per la prematura scomparsa di Luca Giacometti, due sono le nuove entrate, già presenti nel precedente tour, Luciano Gaetani già membro fondatore della band nel lontano 1991 e rientrato in pianta stabile e Luca Serio Bertolini, cantautore di professione che si presta alla chitarra.
Lontani i tempi della lotta politica, sempre più stemperata e moderata con il tempo, i Modena city Ramblers del 2011, sono un gruppo alla ricerca della semplicità, nei suoni e nei testi, pur non mancando di punzecchiare nel sociale. Sul tetto del mondo si vanta d'essere l'ultimo disco registrato negli studi Esagono di Rubiera (Reggio Emilia), a cui dedicano Il posto dell'Airone e proprio da questo suono vintage, privo di orpelli o tentazioni di modernità che avevano caratterizzato, anche troppo, le ultime produzioni dell'era Cisco, si riparte.
Senza dubbio il migliore album con la voce di Andrea "Dudu" Morandi, dove traspare chiaramente la voglia di suonare quel folk che aveva fatto nascere la band, con i traditionals irlandesi,i Pogues e i Waterboys come faro guida. Il violino torna protagonista e la dolce melodia costruita in Seduto sul tetto del mondo, accompagna una delle migliori ballad mai composte dalla band. Non solo violino, ma anche fisarmonica e flauto, come nella migliore tradizione folk britannica tornano al centro della proposta musicale, subito dall'apertura con AltrItalia, I giorni della crisi e Interessi Zero che lasciano poco spazio a fantasia e sogno, ma raccontano uno spaccato di contemporaneità da cui però si vorrebbe uscire volentieri. Qualcuno potrebbe fare dell'ironia sui testi retorici, ma va da sè che il momento socio-politico che stiamo vivendo in Italia lascia pochi spazi a dubbi o confusioni. Prendere o lasciare. Chiamiamolo ancora combat folk e andiamo avanti. Appunti partigiani nel dialetto di S'ciop e Picòun mentre le uniche strade che portano fuori dal verde irlandese sono l'orientaleggiante Povero Diavolo, il folk in levare di Camminare e la caraibica e piratesca Que viva Tortuga con tanto di citazione di Capitan uncino di Bennato e la presenza di Tony Esposito che proprio con Bennato lasciò il suo segno negli anni settanta.
I Modena city Ramblers, continuano a fare i Modena City Ramblers, non cercate altro da loro, chi li ama continuerà a seguirli, chi li ha abbandonati dopo l'uscita di Cisco potrebbe dare loro un ascolto e chi li ha sempre odiati continuerà a farlo. Anche questa è coerenza nel bene e nel male.
Il tour di "Riportando tutto a casa, quindici anni dopo" era un importante segnale che si è materializzato in questo nuovo "Sul tetto del mondo". Il riavvicinamento a quella semplicità di suonare folk, come agli esordi, riguardando all'Irlanda e al combat -folk come principali fonti di ispirazione. Dall'uscita di Cisco, in seno al gruppo di Modena, sono successe tante cose, arrivi e partenze che hanno trasformato e rivoluzionato la band, senza però far perdere l'idea di base della grande famiglia. Persa per strada la voce femminile di Betty Vezzani, il "tuttofare" Angelo Kaba Cavazzuti e riassorbita la ferita per la prematura scomparsa di Luca Giacometti, due sono le nuove entrate, già presenti nel precedente tour, Luciano Gaetani già membro fondatore della band nel lontano 1991 e rientrato in pianta stabile e Luca Serio Bertolini, cantautore di professione che si presta alla chitarra.
Lontani i tempi della lotta politica, sempre più stemperata e moderata con il tempo, i Modena city Ramblers del 2011, sono un gruppo alla ricerca della semplicità, nei suoni e nei testi, pur non mancando di punzecchiare nel sociale. Sul tetto del mondo si vanta d'essere l'ultimo disco registrato negli studi Esagono di Rubiera (Reggio Emilia), a cui dedicano Il posto dell'Airone e proprio da questo suono vintage, privo di orpelli o tentazioni di modernità che avevano caratterizzato, anche troppo, le ultime produzioni dell'era Cisco, si riparte.
Senza dubbio il migliore album con la voce di Andrea "Dudu" Morandi, dove traspare chiaramente la voglia di suonare quel folk che aveva fatto nascere la band, con i traditionals irlandesi,i Pogues e i Waterboys come faro guida. Il violino torna protagonista e la dolce melodia costruita in Seduto sul tetto del mondo, accompagna una delle migliori ballad mai composte dalla band. Non solo violino, ma anche fisarmonica e flauto, come nella migliore tradizione folk britannica tornano al centro della proposta musicale, subito dall'apertura con AltrItalia, I giorni della crisi e Interessi Zero che lasciano poco spazio a fantasia e sogno, ma raccontano uno spaccato di contemporaneità da cui però si vorrebbe uscire volentieri. Qualcuno potrebbe fare dell'ironia sui testi retorici, ma va da sè che il momento socio-politico che stiamo vivendo in Italia lascia pochi spazi a dubbi o confusioni. Prendere o lasciare. Chiamiamolo ancora combat folk e andiamo avanti. Appunti partigiani nel dialetto di S'ciop e Picòun mentre le uniche strade che portano fuori dal verde irlandese sono l'orientaleggiante Povero Diavolo, il folk in levare di Camminare e la caraibica e piratesca Que viva Tortuga con tanto di citazione di Capitan uncino di Bennato e la presenza di Tony Esposito che proprio con Bennato lasciò il suo segno negli anni settanta.
I Modena city Ramblers, continuano a fare i Modena City Ramblers, non cercate altro da loro, chi li ama continuerà a seguirli, chi li ha abbandonati dopo l'uscita di Cisco potrebbe dare loro un ascolto e chi li ha sempre odiati continuerà a farlo. Anche questa è coerenza nel bene e nel male.
sabato 26 marzo 2011
RECENSIONE: BLACK JOE LEWIS & THE HONEYBEARS (Scandalous)
BLACK JOE LEWIS & THE HONEYBEARS Scandalous (Lost Highway, 2011)
Groove, fortissimamente groove. Se c'è una cosa che non si riesce a fare appena attacca Livin' in the jungle , prima traccia di Scandalous, seconda prova discografica di Black Joe Lewis e i suoi The Honeybears, è tenere il volume basso. L'istinto è alzare, alzare e muoversi. Le undici tracce che compongono l'album sono un bignami del rock, dove soul, black music, funky incontrano blues e rock'n'roll a tratti suonato con l'urgenza del garage proto-punk di Detroit, di cui Black Joe Lewis si professa grande fan. Un bel calderone, fresco ed elettrizzante, dove il "nulla di nuovo" si veste a festa e calamita l'attenzione, come una vecchia signora che detta ancora le regole. Una super band quella messa insieme dal coloured texano Black Joe Lewis. Due sax e una tromba che sul classico impianto rock, fanno la differenza, ascoltare la già citata Livin' in the jungle, dove la sagoma di James Brown sembra materializzarsi imponente e jammare con Sly & The Family Stone. Un disco dall'impronta live, chitarristico, bello da vivere sopra ad un palco, costruito per essere portato in giro e dato in pasto insieme al sudore. America, corse in autostrada, strade, vicoli malfamati e insegne al neon che indicano il nuovo locale dove esibirsi, evadere e divertirsi.
Corpi sciolti e trascinati dal suono mai domo e vivo, nei pezzi più veloci che si tratti di soul come in Booty City, funk come in Black Snake o il talkin' blues/rock di Mustang Ranch sia quando il ritmo cala come nella più oscura I'm gonna leave you, nella sensuale e ritmata perversione di She's so scandalous come insegnava papà Otis Redding.
Con Messin' , un canonico blues acustico, si gioca a fare i pionieri del blues nero, i fantasmi di Robert Johnson e Howlin Wolf sorridono compiaciuti.
You been Lyin' è cattiva, chitarre rock, stop and go R'n'B e vena funky in stile Funkadelic con i cori degli ospiti The Relatives a stemperare o elevare il tutto.
Nulla si inventa, ma tutto si trasforma e delle trasformazioni di Black Joe Lewis sentiremo ancora parlare.
Garage rock meets soul e il party abbia inizio.
Groove, fortissimamente groove. Se c'è una cosa che non si riesce a fare appena attacca Livin' in the jungle , prima traccia di Scandalous, seconda prova discografica di Black Joe Lewis e i suoi The Honeybears, è tenere il volume basso. L'istinto è alzare, alzare e muoversi. Le undici tracce che compongono l'album sono un bignami del rock, dove soul, black music, funky incontrano blues e rock'n'roll a tratti suonato con l'urgenza del garage proto-punk di Detroit, di cui Black Joe Lewis si professa grande fan. Un bel calderone, fresco ed elettrizzante, dove il "nulla di nuovo" si veste a festa e calamita l'attenzione, come una vecchia signora che detta ancora le regole. Una super band quella messa insieme dal coloured texano Black Joe Lewis. Due sax e una tromba che sul classico impianto rock, fanno la differenza, ascoltare la già citata Livin' in the jungle, dove la sagoma di James Brown sembra materializzarsi imponente e jammare con Sly & The Family Stone. Un disco dall'impronta live, chitarristico, bello da vivere sopra ad un palco, costruito per essere portato in giro e dato in pasto insieme al sudore. America, corse in autostrada, strade, vicoli malfamati e insegne al neon che indicano il nuovo locale dove esibirsi, evadere e divertirsi.
Corpi sciolti e trascinati dal suono mai domo e vivo, nei pezzi più veloci che si tratti di soul come in Booty City, funk come in Black Snake o il talkin' blues/rock di Mustang Ranch sia quando il ritmo cala come nella più oscura I'm gonna leave you, nella sensuale e ritmata perversione di She's so scandalous come insegnava papà Otis Redding.
Con Messin' , un canonico blues acustico, si gioca a fare i pionieri del blues nero, i fantasmi di Robert Johnson e Howlin Wolf sorridono compiaciuti.
You been Lyin' è cattiva, chitarre rock, stop and go R'n'B e vena funky in stile Funkadelic con i cori degli ospiti The Relatives a stemperare o elevare il tutto.
Nulla si inventa, ma tutto si trasforma e delle trasformazioni di Black Joe Lewis sentiremo ancora parlare.
Garage rock meets soul e il party abbia inizio.
giovedì 17 marzo 2011
RECENSIONE: DAVIDE VAN DE SFROOS (Yanez)
DAVIDE VAN DE FROOS Yanez ( Universal,2011)
Davide Van De Sfroos ne ha fatta di strada, giù dalla stradine del suo paese di Mezzegra che lambisce il lago di Como per arrivare al punto che ha toccato con la sua partecipazione all'ultima edizione del festival di San Remo. Tra le montagne e il lago per arrivare al mare. Chi gli dava del matto, chi del venduto e chi, invece, la maggior parte dei suoi fans (i cauboi), bisogna riconoscerlo, era convinto che questa sua esposizione non avrebbe intaccato le genuina vena poetica dei suoi testi in lagheè. La conferma arriva proprio dal nuovo album, Yanez.
Un album "del coraggio" come lo stesso Davide Bernasconi ha voluto sottolineare, consapevolezza di uomo di 46 anni che ha deciso, dopo anni, dischi e libri con protagonisti gli altri, di mettersi a nudo e di raccontare un pò di sè. Sì, perchè in mezzo alla storie raccontate in Yanez, c'è modo di trovare qualcosa di autobiografico. Il viaggio di Semm Partii(2001), il mistero dei luoghi del suo capolavoro Akuaduulza (2005) e i personaggi tra mito e realtà che animavano Pica!(2008), per rimanere agli ultimi anni, lasciano spazio, per una volta anche a delle confessioni, dediche e ritratti più personali. Un disco intimo e raccolto, forse il meno giocoso e gioioso della sua carriera, tanto per ribadire e sottolineare che non basta una settimana in Riviera ligure per distruggere una carriera. Anzì dirò di più, Yanez contiene alcuni dei testi più belli mai composti da Van De Sfroos.
Chi ha conosciuto Van De Sfroos grazie al brano Yanez, un mariachi allegro e spensierato costruito sul parallelismo tra i personaggi di Salgari (a cent'anni dalla sua morte e quasi 150 dalla nascita, tanto per rimanere in linea con gli anniversari di quest'anno) e quei vitelloni da riviera romagnola sospesi tra gli anni sessanta e il moderno , deve mettere in conto di trovarsi di fronte a uno dei dischi più profondamente cantautorali del musicista lombardo. La stessa Yanez in realtà, dietro all'allegria musicale, nasconde dediche al padre e a certi miti romantici con cui Van De Sfroos è cresciuto.
La capacità di musicare e dare parola a dei piccoli film, quasi dei cortometraggi, completi di tutti i particolari, rimane il grande pregio della scrittura di Van De Sfroos. Canzoni in grado di far vivere all'ascoltatore i sapori, gli odori, saper coinvolgere fino all' immedesimazione, usando la poesia di frasi che solo il dialetto riesce a far risaltare.
L'infanzia del cantautore con la sua passione musicale, allora nascente, esce da La macchina del ziu Toni, un blues evocativo ( con la chitarra di Francesco Piu) dove la memoria torna alla campagna e a quella macchina in disuso parcheggiata nel fienile dove l'adolescenza cavalcava a suon di ribellione fatta in musica ( citati Black Sabbath, Ramones, Rolling Stones, Bob Marley) e i sogni che presto hanno dovuto fare i conti con la dura realtà. I miti musicali di una volta ritornano e si fanno maturi nel folk sospeso tra Dylan e Guthrie di Il camionista Ghost Rider, geniale viaggio tra la via Emilia e il west dove Johnny Cash, Guthrie stesso, Robert Johnson e Jimi Hendrix diventano protagonisti di un fantomatico viaggio nella pianura padana, che sembra quasi di esserci sopra a quel tir insieme al camionista.
Tra le pieghe della ballata Dona Luseerta si nasconde la dedica al padre e la frase finale è sintomatica (E sarà menga questa polaroid cun soe una facia s'è sculurida a scancelà la mann che m'ha tegnuu in brasc) come non è difficile leggere un fiero bilancio di vita fatto in Long John Xanax (E vò innanz a ruzza la mia biglia perchè fin che gh'è tèra la voe rutulà).
Anche quando vuole raccontare spaccati di vita contadina, che sembrano arrivare da lontano, ma che nei paesi di tutta Italia continuano a vivere e sopravvivere come tradizioni da tramandare di generazione in generazione. E' il caso di Setembra , canzone dall'andatura sbilenca ed avvinazzata che rende perfettamente l'atmosfera da festa di paese, tra gioia e triste malinconia o El carnevaal de Schignan, che apre il disco e musicalmente fa il paio con la sanremese Yanez.
Il dialetto riesce a rendere meno scontata ed elevare Maria, canzone dal tema un pò abusato, sulla prostituzione imposta ad una extracomunitaria e riesce ad unire idealmente l'Italia in Dove non basta il mare. Ospiti Luigi Maieron, Patrizia Laquidara, Peppe Voltarelli e Roberta Carrieri intenti a cantare ,ognuno nel suo dialetto, una strofa della canzone.
Piedi ben piantati in terra e poca concessione a idee di successo, questo è quello che i suoi fans continuano ad aspettarsi e lui li ripaga con canzoni come El Pass del Gatt, alta vena poetica su tappeto di steel guitar e fisarmonica ( Davide Brambilla), (E ho fa'l bagn insema ai aspis, ho majà sceres o ho majà caden, gh'è anca una foto induè paar che ridi ma l'è una smorfia per la tropa luus) o la triste storia de Il Reduce, viola, violini (Angapiemage G. Persico) e tromba e la memoria torna alla guerra , ai racconti di chi porta i segni indelebili nella memoria e nel corpo (Eri mai cupaa gnaa un fasàn e ho trataa sempru bee anca i furmiigh serum in tanti cargà in sole quel trenu, cume foej destacàa e imraum la geografia...).
Un disco che nel finale nasconde le gemme più poetiche di Van De Sfroos, la pianistica e orchestrale tragedia di un amore impossibile, vissuto desfroos contro ogni maldicenza, La figlia del tenente, le chitarre di Maurizio "Gnola" Glielmo guidano il Blues di Santa Rosa, il mississippi si materializza a Como.
L'evocativa melanconia di Ciamel Amuur e Rosa del vento, chiudono un disco di conferme di un cantautore in grado di ingrandire anche le cose più piccole e semplici, grazie all'uso delle parole musicate come un folk singer americano con la fantasia tutta italiana. Un cantastorie , quasi d'altri tempi, che dopo il sold out al Forum di Assago e l'esposizione di Sanremo è tornato a guidare verso le sue due modeste strade: una porta verso il suo lago, l'altra è quella del suo percorso artistico e tutte e due sono chiare e definite con un'unica destinazione che lo porteranno in cerca di nuove storie da musicare.
Van De Sfroos, vedi anche :
http://www.impattosonoro.it/2010/05/26/reportage/davide-van-de-sfroos-koko-club-castelletto-cervobi-7-maggio-2010/
Davide Van De Sfroos ne ha fatta di strada, giù dalla stradine del suo paese di Mezzegra che lambisce il lago di Como per arrivare al punto che ha toccato con la sua partecipazione all'ultima edizione del festival di San Remo. Tra le montagne e il lago per arrivare al mare. Chi gli dava del matto, chi del venduto e chi, invece, la maggior parte dei suoi fans (i cauboi), bisogna riconoscerlo, era convinto che questa sua esposizione non avrebbe intaccato le genuina vena poetica dei suoi testi in lagheè. La conferma arriva proprio dal nuovo album, Yanez.
Un album "del coraggio" come lo stesso Davide Bernasconi ha voluto sottolineare, consapevolezza di uomo di 46 anni che ha deciso, dopo anni, dischi e libri con protagonisti gli altri, di mettersi a nudo e di raccontare un pò di sè. Sì, perchè in mezzo alla storie raccontate in Yanez, c'è modo di trovare qualcosa di autobiografico. Il viaggio di Semm Partii(2001), il mistero dei luoghi del suo capolavoro Akuaduulza (2005) e i personaggi tra mito e realtà che animavano Pica!(2008), per rimanere agli ultimi anni, lasciano spazio, per una volta anche a delle confessioni, dediche e ritratti più personali. Un disco intimo e raccolto, forse il meno giocoso e gioioso della sua carriera, tanto per ribadire e sottolineare che non basta una settimana in Riviera ligure per distruggere una carriera. Anzì dirò di più, Yanez contiene alcuni dei testi più belli mai composti da Van De Sfroos.
Chi ha conosciuto Van De Sfroos grazie al brano Yanez, un mariachi allegro e spensierato costruito sul parallelismo tra i personaggi di Salgari (a cent'anni dalla sua morte e quasi 150 dalla nascita, tanto per rimanere in linea con gli anniversari di quest'anno) e quei vitelloni da riviera romagnola sospesi tra gli anni sessanta e il moderno , deve mettere in conto di trovarsi di fronte a uno dei dischi più profondamente cantautorali del musicista lombardo. La stessa Yanez in realtà, dietro all'allegria musicale, nasconde dediche al padre e a certi miti romantici con cui Van De Sfroos è cresciuto.
La capacità di musicare e dare parola a dei piccoli film, quasi dei cortometraggi, completi di tutti i particolari, rimane il grande pregio della scrittura di Van De Sfroos. Canzoni in grado di far vivere all'ascoltatore i sapori, gli odori, saper coinvolgere fino all' immedesimazione, usando la poesia di frasi che solo il dialetto riesce a far risaltare.
L'infanzia del cantautore con la sua passione musicale, allora nascente, esce da La macchina del ziu Toni, un blues evocativo ( con la chitarra di Francesco Piu) dove la memoria torna alla campagna e a quella macchina in disuso parcheggiata nel fienile dove l'adolescenza cavalcava a suon di ribellione fatta in musica ( citati Black Sabbath, Ramones, Rolling Stones, Bob Marley) e i sogni che presto hanno dovuto fare i conti con la dura realtà. I miti musicali di una volta ritornano e si fanno maturi nel folk sospeso tra Dylan e Guthrie di Il camionista Ghost Rider, geniale viaggio tra la via Emilia e il west dove Johnny Cash, Guthrie stesso, Robert Johnson e Jimi Hendrix diventano protagonisti di un fantomatico viaggio nella pianura padana, che sembra quasi di esserci sopra a quel tir insieme al camionista.
Tra le pieghe della ballata Dona Luseerta si nasconde la dedica al padre e la frase finale è sintomatica (E sarà menga questa polaroid cun soe una facia s'è sculurida a scancelà la mann che m'ha tegnuu in brasc) come non è difficile leggere un fiero bilancio di vita fatto in Long John Xanax (E vò innanz a ruzza la mia biglia perchè fin che gh'è tèra la voe rutulà).
Anche quando vuole raccontare spaccati di vita contadina, che sembrano arrivare da lontano, ma che nei paesi di tutta Italia continuano a vivere e sopravvivere come tradizioni da tramandare di generazione in generazione. E' il caso di Setembra , canzone dall'andatura sbilenca ed avvinazzata che rende perfettamente l'atmosfera da festa di paese, tra gioia e triste malinconia o El carnevaal de Schignan, che apre il disco e musicalmente fa il paio con la sanremese Yanez.
Il dialetto riesce a rendere meno scontata ed elevare Maria, canzone dal tema un pò abusato, sulla prostituzione imposta ad una extracomunitaria e riesce ad unire idealmente l'Italia in Dove non basta il mare. Ospiti Luigi Maieron, Patrizia Laquidara, Peppe Voltarelli e Roberta Carrieri intenti a cantare ,ognuno nel suo dialetto, una strofa della canzone.
Piedi ben piantati in terra e poca concessione a idee di successo, questo è quello che i suoi fans continuano ad aspettarsi e lui li ripaga con canzoni come El Pass del Gatt, alta vena poetica su tappeto di steel guitar e fisarmonica ( Davide Brambilla), (E ho fa'l bagn insema ai aspis, ho majà sceres o ho majà caden, gh'è anca una foto induè paar che ridi ma l'è una smorfia per la tropa luus) o la triste storia de Il Reduce, viola, violini (Angapiemage G. Persico) e tromba e la memoria torna alla guerra , ai racconti di chi porta i segni indelebili nella memoria e nel corpo (Eri mai cupaa gnaa un fasàn e ho trataa sempru bee anca i furmiigh serum in tanti cargà in sole quel trenu, cume foej destacàa e imraum la geografia...).
Un disco che nel finale nasconde le gemme più poetiche di Van De Sfroos, la pianistica e orchestrale tragedia di un amore impossibile, vissuto desfroos contro ogni maldicenza, La figlia del tenente, le chitarre di Maurizio "Gnola" Glielmo guidano il Blues di Santa Rosa, il mississippi si materializza a Como.
L'evocativa melanconia di Ciamel Amuur e Rosa del vento, chiudono un disco di conferme di un cantautore in grado di ingrandire anche le cose più piccole e semplici, grazie all'uso delle parole musicate come un folk singer americano con la fantasia tutta italiana. Un cantastorie , quasi d'altri tempi, che dopo il sold out al Forum di Assago e l'esposizione di Sanremo è tornato a guidare verso le sue due modeste strade: una porta verso il suo lago, l'altra è quella del suo percorso artistico e tutte e due sono chiare e definite con un'unica destinazione che lo porteranno in cerca di nuove storie da musicare.
Van De Sfroos, vedi anche :
http://www.impattosonoro.it/2010/05/26/reportage/davide-van-de-sfroos-koko-club-castelletto-cervobi-7-maggio-2010/
mercoledì 16 marzo 2011
RECENSIONE : PAOLO BENVEGNU'( Hermann)
PAOLO BENVEGNU' Hermann ( La Pioggia Dischi, 2011)
Ci vuole del tempo, quello che si trova dopo una giornata di lavoro, la sera quando tutti i pensieri e le domande del giorno vengono accantonate. Quel tempo spesso prezioso da dedicare a se stessi, ad un libro o al disco di Paolo Benvegnù. Liberate la mente perchè il terzo disco dell'ex cantante dei Scisma ha tanto da offrire per riempirvela nuovamente. Un disco che conferma Benvegnù come uno dei migliori cantautori attualmente in Italia e uno dei pochi a poter ereditare la forma e la sostanza della cara categoria italica.
Ambizioso è l'aggettivo che forse più si addice a raccontare le tredici canzoni che compongono una sorta di concept basato sull'umanità e la sua evoluzione che come un boomerang sta trasformandosi in involuzione, tratto liberamente da un racconto di un certo Fulgenzio Innocenzi, di cui nessuno ha mai sentito parlare, esisterà veramente?
Gli spunti, gli agganci e i riferimenti storici e letterari a cui Benvegnù si affida sono molteplici e ad un primo ascolto anche intricati da cogliere. Si parte da molto lontano per arrivare al quotidiano con tutto tutto quello che vi è in mezzo. Dalla mitologia, passando per Sartre, arrivando alla frenesia del lavoro di oggi.
Uomo fatto di carne, sentimenti, ambizione,coraggio e valore,valoroso e traditore, capace di pugnalare alle spalle per l'innalzamento del proprio ego per poi affidarsi alla fede arrivando infine a negarla. Nessuno esce da questa categoria. Chi più, chi meno ci portiamo addosso la reputazione e il Dna che ci siamo costruiti nei secoli. Ecco che il tempo diventa prezioso alleato per cercare sosta ed un riparo dalla marcia di progresso , cui siamo costretti a partecipare quasi come automi senza controllo e a domandarci in quanto uomini, cosa vogliamo?
Il tempo come alleato e nemico per capire la nostra collocazione sulla terra(Non sai distinguere il tempo perso da quello vissuto) nell'iniziale Il Pianeta perfetto o come pretesto per tornare all'inizio dei secoli per raccontare l'origine dell'uomo (Ma poi finirono le terre ed inventammo Dio , lo trafiggemmo all'alba, l'ultima volta che provò a sorridere, così inventammo la notte...) in Love is talking. I secoli che passano, i posti e la gente pure ma i problemi sempre presenti e l'uomo, al centro di tutto, come sempre si accorge che le distrazioni lo hanno allontanato dal proprio essere interiore.
Se la speranza era quella che il trascorrere dell'età riuscisse a trascinare con sè il benessere, bisogna invece fare i conti con l'esatto contrario. Il dito indice accusatorio sempre pronto ad inquadrare qualcuno da sacrificare e punire in Date fuoco (Il primo dice che è stato lui a ricoprire il mondo di automobili e il terzo dice che non si vedeva niente), prendendo spunto dall'"eretico" Giordano Bruno e trasportando il tutto al presente.
La bramosia di conquista ed invicibilità di Moses (...Infliggi le tue regole, distruggere per conquistare...), l'amore , anche non a lieto fine, come evasione e rifugio da tutti i mali , Johnnie and Jane, così come il viaggio, per approdare ed affrontare qualcosa di nuovo in Il Mare è bellissimo(...e un viaggio senza destinazione significa destinazione...) ed il tempo che torna inesorabile a scandire la vita (...e intanto si è fatto tardi e tardi è legge e attendere un'attesa sempre attesa...).
L'uomo inerme davanti alla sua vita, al trascorrere degli eventi che ha visto e vissuto, la consapevolezza che poi,alla fine, l'eguaglianza tra di noi non è così lontana dall'essere trovata in Io ho visto , uno dei punti più alti del disco ( ...Ho visto il sole restare al buio e gli animali rimanere in branco fiutando il cielo più sicuro...ho visto inverni piegare gli alberi e setacciare al grembo con le mani cercando polvere e ho bestemmiato iddio perchè non si fa mai vedere e ho perso falangi nei combattimenti e nelle fabbriche...)
Un disco dall'anima rock, che si concede fughe orchestrali, suonato da una band, "i Paolo Benvegnù", appunto, alcuni tratti pop presenti nei ritornelli in inglese di Love is talking e Good Morning, Mr.Monroe, piccola messa in musica dei tempi moderni(con l'inizio che tanto mi ricorda Milano circonvallazione esterna degli Afterhours) che cercano la continuità con il suo passato in un disco impervio che vuole essere diretto nella sua complicata complessità e spronante nel metterci di fronte al punto in cui l'essere umano, perso, è arrivato a piantare la sua bandierina di evoluzione, così poco colorata da esserne poco fieri.
Ci vuole del tempo, quello che si trova dopo una giornata di lavoro, la sera quando tutti i pensieri e le domande del giorno vengono accantonate. Quel tempo spesso prezioso da dedicare a se stessi, ad un libro o al disco di Paolo Benvegnù. Liberate la mente perchè il terzo disco dell'ex cantante dei Scisma ha tanto da offrire per riempirvela nuovamente. Un disco che conferma Benvegnù come uno dei migliori cantautori attualmente in Italia e uno dei pochi a poter ereditare la forma e la sostanza della cara categoria italica.
Ambizioso è l'aggettivo che forse più si addice a raccontare le tredici canzoni che compongono una sorta di concept basato sull'umanità e la sua evoluzione che come un boomerang sta trasformandosi in involuzione, tratto liberamente da un racconto di un certo Fulgenzio Innocenzi, di cui nessuno ha mai sentito parlare, esisterà veramente?
Gli spunti, gli agganci e i riferimenti storici e letterari a cui Benvegnù si affida sono molteplici e ad un primo ascolto anche intricati da cogliere. Si parte da molto lontano per arrivare al quotidiano con tutto tutto quello che vi è in mezzo. Dalla mitologia, passando per Sartre, arrivando alla frenesia del lavoro di oggi.
Uomo fatto di carne, sentimenti, ambizione,coraggio e valore,valoroso e traditore, capace di pugnalare alle spalle per l'innalzamento del proprio ego per poi affidarsi alla fede arrivando infine a negarla. Nessuno esce da questa categoria. Chi più, chi meno ci portiamo addosso la reputazione e il Dna che ci siamo costruiti nei secoli. Ecco che il tempo diventa prezioso alleato per cercare sosta ed un riparo dalla marcia di progresso , cui siamo costretti a partecipare quasi come automi senza controllo e a domandarci in quanto uomini, cosa vogliamo?
Il tempo come alleato e nemico per capire la nostra collocazione sulla terra(Non sai distinguere il tempo perso da quello vissuto) nell'iniziale Il Pianeta perfetto o come pretesto per tornare all'inizio dei secoli per raccontare l'origine dell'uomo (Ma poi finirono le terre ed inventammo Dio , lo trafiggemmo all'alba, l'ultima volta che provò a sorridere, così inventammo la notte...) in Love is talking. I secoli che passano, i posti e la gente pure ma i problemi sempre presenti e l'uomo, al centro di tutto, come sempre si accorge che le distrazioni lo hanno allontanato dal proprio essere interiore.
Se la speranza era quella che il trascorrere dell'età riuscisse a trascinare con sè il benessere, bisogna invece fare i conti con l'esatto contrario. Il dito indice accusatorio sempre pronto ad inquadrare qualcuno da sacrificare e punire in Date fuoco (Il primo dice che è stato lui a ricoprire il mondo di automobili e il terzo dice che non si vedeva niente), prendendo spunto dall'"eretico" Giordano Bruno e trasportando il tutto al presente.
La bramosia di conquista ed invicibilità di Moses (...Infliggi le tue regole, distruggere per conquistare...), l'amore , anche non a lieto fine, come evasione e rifugio da tutti i mali , Johnnie and Jane, così come il viaggio, per approdare ed affrontare qualcosa di nuovo in Il Mare è bellissimo(...e un viaggio senza destinazione significa destinazione...) ed il tempo che torna inesorabile a scandire la vita (...e intanto si è fatto tardi e tardi è legge e attendere un'attesa sempre attesa...).
L'uomo inerme davanti alla sua vita, al trascorrere degli eventi che ha visto e vissuto, la consapevolezza che poi,alla fine, l'eguaglianza tra di noi non è così lontana dall'essere trovata in Io ho visto , uno dei punti più alti del disco ( ...Ho visto il sole restare al buio e gli animali rimanere in branco fiutando il cielo più sicuro...ho visto inverni piegare gli alberi e setacciare al grembo con le mani cercando polvere e ho bestemmiato iddio perchè non si fa mai vedere e ho perso falangi nei combattimenti e nelle fabbriche...)
Un disco dall'anima rock, che si concede fughe orchestrali, suonato da una band, "i Paolo Benvegnù", appunto, alcuni tratti pop presenti nei ritornelli in inglese di Love is talking e Good Morning, Mr.Monroe, piccola messa in musica dei tempi moderni(con l'inizio che tanto mi ricorda Milano circonvallazione esterna degli Afterhours) che cercano la continuità con il suo passato in un disco impervio che vuole essere diretto nella sua complicata complessità e spronante nel metterci di fronte al punto in cui l'essere umano, perso, è arrivato a piantare la sua bandierina di evoluzione, così poco colorata da esserne poco fieri.
venerdì 11 marzo 2011
RECENSIONE: DROPKICK MURPHYS ( Going Out in Style)
Cornelius " Connie" Larkin. Chi era costui? Going Out in Style, ultima fatica dei Dropkick Murphys è dedicato in tutto e per tutto a lui. Lo si capisce subito, dalle prime due pagine del booklet, che narrano la sua storia e dalle numerose foto interne. Pure alcune canzoni sembrano indirizzare a lui.
Larkin è un arzillo signore di 78 anni, veterano della guerra di Corea. Arrivato a sedici anni in America direttamente dall'Irlanda. Nasce così un racconto scritto insieme allo scrittore di Boston, Michael Patrick MacDonald, che fa da concept all'intero disco.Un racconto tra fantasia e realtà da parte della più famosa band irish punk americana.
Possiamo chiamarli veterani e questo loro settimo disco è senza ombra di dubbio il più folk da loro composto. Attenzione però, la componente punk-street/hardcore non è svanita ma per la prima volta gli strumenti classici del folk irlandese compaiono e accompagnano le strutture rock in tutte le canzoni. Il picco di maturità degli irlandesi di Boston. Fin dalla classica chiamata alle armi dell'iniziale Hang'em High, il disco è furente e classico dall'inizio alla fine, non senza delle sorprendenti sorprese. Il crescendo di Going Out in Style che sfocia nel velocissimo finale alterna i cori di illustri ospiti come Fat Mike(NOFX), Chris Cheney(The Living End) e Lenny Clarke(Rescue Me).
Il sangue irlandese del gruppo di Boston scorre ancora caldo e carico, sia quando bisogna scuotere gli animi a chi vuole migliorare la propria posizione di vita come traspare in Memorial Day, come se i Clash incontrassero il folk irlandese o raccontando lontane storie di emigranti di fine '800 nella evocativa, guidata dal flauto, Broken Hymns o tragedie come quelle evocate in The Hardest Mile.
La cornamusa di Scruffy Wallace e le chitarre pesanti scandiscono Deeds not Words mentre Sunday Hardcore Matinee, già dal titolo dice tutto, omaggiando la scena anni '80 con tanto di citazioni (GBH e Agnostic Front).
Le vere sorprese sono il folk acustico di Take 'em down, vera e propria chiamata in rivolta della classe operaia, con la voce di Al Barr, armonica e clap hands e l'illustre ospite Bruce Springsteen che da alcuni anni a questa parte, dalle Seeger Sessions in avanti, non manca occasione per rinverdire le proprie origini irlandesi. Il duetto con Springsteen nel traditional-amoroso Peg O' my heart è alcolico e divertente al punto giusto.Pub e pinte di Guiness sembrano materializzarsi anche nella finale e corale The Irish Rover, altro traditional che stempera le lyrics sociali delle precedenti canzoni.
Con questo disco i Dropkick Murphys giocano più del solito a fare i Pogues e il tutto sembra deporre a loro favore. Cheers e appuntamento al giorno di San Patrizio.
vedi anche RECENSIONE: FLOGGING MOLLY -Speed Of Darkness (2011)
vedi anche RECENSIONE: DROPKICK MURPHYS -Signed and Sealed In Blood (2013)
martedì 8 marzo 2011
RECENSIONE: LUCINDA WILLIAMS ( Blessed)
LUCINDA WILLIAMS Blessed (Lost Highway, 2011)
Benedetto sia l'operaio cinese che cuce in un sotteraneo di New York, benedetta la ragazza indiana che passeggia per i boulevard con il suo cagnolino di rosa vestito, benedetto il signore d'età tatuato e sfrattato che vive le sue giornate sopra ad un grosso van, benedetto il tassista con la coppola in testa figlio di emigrati, benedetti i due innamorati con zaino seduti sul marciapiede che si baciano, benedetto il maturo biker figlio degli anni sessanta che anche senza più i lunghi capelli continua a inseguire la sua utopia, benedetto il giovane emigrato arabo che studia e che da qualche anno non passa più inosservato nella grande America, benedetto l' indios in jeans e cappello che vive i tempi moderni in una riserva indiana a difendere i valori dei suoi antenati.
Benedetto sia, allora, il cantautore Vic Chesnutt, scomparso suicida, a cui Lucinda Williams dedica ispirata con tormento la rabbiosa e chitarristica Seeing Black . La tormentata vita di un cantautore che portava dentro di sè una verità e una visione di vita dai colori ben definiti.
Benedetta sia Copenhagen in Ottobre, sotto la neve, quando tristi notizie arrivano e sembrano unirsi tutt'uno con il grigiore del tempo, quasi a voler amplificare le lacrime di Lucinda che passeggia per le strade della capitale danese.
Benedetto sia il soldato di Soldier's Song, ballad malinconica ed oscura dedicata a chi vive lontano dagli affetti cari.
Benedetto sia Elvis Costello, ospite alla chitarra elettrica nell'iniziale Buttercup, forse la canzone più solare, se si può passare il termine di un disco carico di speranza vista attraverso gli occhi degli altri, dei più deboli e di chi la debolezza l'ha pagata anche a caro prezzo.
Benedetto il carattere dualistico delle canzoni. Rock e folk. Scatti di rabbia, vendetta e tenue dolcezza. Da una parte le chitarre , anche esplosive come in Awakening, un risveglio lento che sbotta in feedback, la chitarra di Costello in Convince me o il rock oscuro della title track, elegia e perno dell'intero lavoro. Lezione di vita, che insegna a cercare la bellezza nei volti, nelle persone che apparentemente di solito ignoriamo, attratti dal facile e poco abituati per pigrizia e diffidenza a scavare in profondità.
Benedetto l'amore di Sweet Love, folk di poche e dolci parole dedicate presumibilmente al neo marito o l'amore universale di Born to be Loved, i consigli e le verità di Ugly truth.
Benedetta sia allora Lucinda Williams, che fa uscire un disco bilanciatissimo e maturo, prodotto da una "vecchia volpe" come Don Was. Forse lontano dal suo capolavoro assoluto che rimane "Car Wheels on a Gravel Road" , ma sicuramente superiore alle ultime e comunque buone prove di studio.
Benedetta la versione deluxe del disco che include un secondo cd denominato Kitchen tapes, dove il carattere delle canzoni, la voce della Williams vengono fuori ancora più prepotenti nella crudezza di versioni casalinghe registrate solo voce e chitarra, stupenda Copenhagen. Uscirà in diverse copertine raffiguranti i "benedetti" e silenziosi protagonisti della vita che ci circonda. Un invito a guardarsi intorno, a scoprire le facce che ci girano a fianco, ognuna delle quali nasconde ne più ne meno quello che noi nascondiamo loro: la vita. Quando solo i silenzi di uno scatto ed un cartello dicono più di mille parole.
Benedetto sia l'operaio cinese che cuce in un sotteraneo di New York, benedetta la ragazza indiana che passeggia per i boulevard con il suo cagnolino di rosa vestito, benedetto il signore d'età tatuato e sfrattato che vive le sue giornate sopra ad un grosso van, benedetto il tassista con la coppola in testa figlio di emigrati, benedetti i due innamorati con zaino seduti sul marciapiede che si baciano, benedetto il maturo biker figlio degli anni sessanta che anche senza più i lunghi capelli continua a inseguire la sua utopia, benedetto il giovane emigrato arabo che studia e che da qualche anno non passa più inosservato nella grande America, benedetto l' indios in jeans e cappello che vive i tempi moderni in una riserva indiana a difendere i valori dei suoi antenati.
Benedetto sia, allora, il cantautore Vic Chesnutt, scomparso suicida, a cui Lucinda Williams dedica ispirata con tormento la rabbiosa e chitarristica Seeing Black . La tormentata vita di un cantautore che portava dentro di sè una verità e una visione di vita dai colori ben definiti.
Benedetta sia Copenhagen in Ottobre, sotto la neve, quando tristi notizie arrivano e sembrano unirsi tutt'uno con il grigiore del tempo, quasi a voler amplificare le lacrime di Lucinda che passeggia per le strade della capitale danese.
Benedetto sia il soldato di Soldier's Song, ballad malinconica ed oscura dedicata a chi vive lontano dagli affetti cari.
Benedetto sia Elvis Costello, ospite alla chitarra elettrica nell'iniziale Buttercup, forse la canzone più solare, se si può passare il termine di un disco carico di speranza vista attraverso gli occhi degli altri, dei più deboli e di chi la debolezza l'ha pagata anche a caro prezzo.
Benedetto il carattere dualistico delle canzoni. Rock e folk. Scatti di rabbia, vendetta e tenue dolcezza. Da una parte le chitarre , anche esplosive come in Awakening, un risveglio lento che sbotta in feedback, la chitarra di Costello in Convince me o il rock oscuro della title track, elegia e perno dell'intero lavoro. Lezione di vita, che insegna a cercare la bellezza nei volti, nelle persone che apparentemente di solito ignoriamo, attratti dal facile e poco abituati per pigrizia e diffidenza a scavare in profondità.
Benedetto l'amore di Sweet Love, folk di poche e dolci parole dedicate presumibilmente al neo marito o l'amore universale di Born to be Loved, i consigli e le verità di Ugly truth.
Benedetta sia allora Lucinda Williams, che fa uscire un disco bilanciatissimo e maturo, prodotto da una "vecchia volpe" come Don Was. Forse lontano dal suo capolavoro assoluto che rimane "Car Wheels on a Gravel Road" , ma sicuramente superiore alle ultime e comunque buone prove di studio.
Benedetta la versione deluxe del disco che include un secondo cd denominato Kitchen tapes, dove il carattere delle canzoni, la voce della Williams vengono fuori ancora più prepotenti nella crudezza di versioni casalinghe registrate solo voce e chitarra, stupenda Copenhagen. Uscirà in diverse copertine raffiguranti i "benedetti" e silenziosi protagonisti della vita che ci circonda. Un invito a guardarsi intorno, a scoprire le facce che ci girano a fianco, ognuna delle quali nasconde ne più ne meno quello che noi nascondiamo loro: la vita. Quando solo i silenzi di uno scatto ed un cartello dicono più di mille parole.
sabato 5 marzo 2011
retroRECENSIONE: GRAZIANO ROMANI (ZAGOR, king of Darkwood)
GRAZIANO ROMANI Zagor, king of darkwood (Coniglio editore, 2009)
Graziano Romani è certamente una delle voci rock italiane più profonde e vere, con più di 25 anni di carriera alle spalle: prima con i Rocking Chairs, band che attingeva a piene mani dal folk e rock'n'roll americano, poi da solista con una gran quantità di dischi, tra cui numerose presenze in tributi a Bruce Springsteen che hanno visto il suo nome affiancato ai grandi del rock mondiale, da Bowie a Willie Nile, Joe Cocker, Billy Bragg ed Elvis Costello. Partecipazioni che hanno accresciuto la sua popolarità internazionale, certamente superiore a quella ottenuta in patria.
L'idea originale di questo concept dedicato a Zagor parte, innanzitutto, dalla grande passione di Romani per i fumetti e per "l'eroe di Darkwood" principalmente, a cui fa seguito una canzone singola, Darkwood, appunto, scritta nel 2008. Quella che doveva essere una canzone unica dedicata al suo eroe preferito, piace talmente tanto agli editori del fumetto da spingere e solleticare l'artista emiliano nell'ardua ed originale impresa, riuscita, di scrivere un intero album-concept dedicato a Zagor. Senza dimenticare la grande importanza e lo spazio che la musica e le canzoni avevano all'interno delle strisce dedicate allo "spirito con la scure".
Il fumetto Zagor nasce dalla mente di Sergio Bonelli e dai disegni di Gallieno Ferri nei primissimi anni sessanta, raggiungendo il culmine di notorietà nei settanta, periodo in cui rivaleggiava in popolarità con Tex. Zagor è un eroe schierato dalla parte dei più deboli, senza distinzione di razza, viaggia con scure e pistola, indossando jeans e una maglietta rossa da nativo americano. In compagnia dell'amato e goffo amico, il messicano Cico, le sue avventure si svolgono nella foresta di Darkwood, dove vive tra amici e molti nemici da combattere e sconfiggere in nome della giustizia.
Uscito sul finire del 2009, distribuito dalla casa editrice Coniglio che pubblica attualmente le avventure di Zagor, fu venduto e distribuito, per mantenere fede alla tradizionalità dei fumetti, solamente in edicola.
In queste 15 canzoni tra cui 4 covers, i protagonisti del fumetto diventano i protagonisti di canzoni folk-rock che si spingono anche oltre toccando Irish e tex mex. Accompagnato da Lele Cavalli al basso e chitarre più Pat Bonan alla battrista e svariati ospiti in diverse canzoni.
L'apertura non poteva che essere affidata a Darkwood, la canzone che diede inizio a tutto il progetto e che ha il compito di inquadrare l'ambiente in cui si svolgeranno le avventure ma soprattutto l'animo e il carattere del protagonista (...I will let my spirit free to roam...). Un folk acustico e narrativo così come in Clear Water Home, Zagor ripercorre la sua infanzia con i ricordi che tornano al padre e alla madre (...Sometimes i recall that old familiar place,where i got to know the greatest love and pain...) e alla vecchia casa nativa. La natura, gli uomini e il loro destino escono da The Tin Star, una western song con la dobro guitar di Niki Milazzo gran protagonista, evocativa e toccante.
Non poteva mancare una canzone dedicata al grande amico di Zagor, Cico Felipe Cayetano Lopezy Martinez y Gonzales, un mariachi travolgente guidato dal violino di Giulia Nuti, da dove esce il carattere goliardico ma anche malinconico del paffuto amico (...yo quiero a la vida aunque la vida no me quiera a mi...). Ma neppure i nemici vengono risparmiati da Guitar Jim, il nemico gentil uomo e tutti gli altri elencati nella lunga sfilza di nomi della rockeggiante Bring on the bad guys.
In mezzo quattro traditionals, dall'irish di The Minstrel boy con Franco D'Aiello dei Modena City Ramblers al flauto, a Molly Malone con Andy White al canto , passando a The Willow Tree e On top of Gold Smoky con l'ospitata di Matthew Ryan alla voce e chitarra.
Un disco che sa affiancare la semplicità del folk rock alla complessità di riuscire a raccontare attraverso delle canzoni un personaggio dei fumetti . Solamente un grande amante del personaggio Zagor sarebbe riuscito a farlo. A patto che questo vorace lettore sia anche un grande musicista dalla voce stupenda come Romani. Come uno Springsteen che incontra un fumetto tutto italiano ma americano nelle sue radici.
L'unico grande rammarico è stato la poca pubblicità che un disco del genere ha avuto, rimanendo a tutt'oggi un prodotto di nicchia, forse già introvabile e per collezionisti, proprio come chi ama i fumetti. Tutto torna.
Graziano Romani è certamente una delle voci rock italiane più profonde e vere, con più di 25 anni di carriera alle spalle: prima con i Rocking Chairs, band che attingeva a piene mani dal folk e rock'n'roll americano, poi da solista con una gran quantità di dischi, tra cui numerose presenze in tributi a Bruce Springsteen che hanno visto il suo nome affiancato ai grandi del rock mondiale, da Bowie a Willie Nile, Joe Cocker, Billy Bragg ed Elvis Costello. Partecipazioni che hanno accresciuto la sua popolarità internazionale, certamente superiore a quella ottenuta in patria.
L'idea originale di questo concept dedicato a Zagor parte, innanzitutto, dalla grande passione di Romani per i fumetti e per "l'eroe di Darkwood" principalmente, a cui fa seguito una canzone singola, Darkwood, appunto, scritta nel 2008. Quella che doveva essere una canzone unica dedicata al suo eroe preferito, piace talmente tanto agli editori del fumetto da spingere e solleticare l'artista emiliano nell'ardua ed originale impresa, riuscita, di scrivere un intero album-concept dedicato a Zagor. Senza dimenticare la grande importanza e lo spazio che la musica e le canzoni avevano all'interno delle strisce dedicate allo "spirito con la scure".
Il fumetto Zagor nasce dalla mente di Sergio Bonelli e dai disegni di Gallieno Ferri nei primissimi anni sessanta, raggiungendo il culmine di notorietà nei settanta, periodo in cui rivaleggiava in popolarità con Tex. Zagor è un eroe schierato dalla parte dei più deboli, senza distinzione di razza, viaggia con scure e pistola, indossando jeans e una maglietta rossa da nativo americano. In compagnia dell'amato e goffo amico, il messicano Cico, le sue avventure si svolgono nella foresta di Darkwood, dove vive tra amici e molti nemici da combattere e sconfiggere in nome della giustizia.
Uscito sul finire del 2009, distribuito dalla casa editrice Coniglio che pubblica attualmente le avventure di Zagor, fu venduto e distribuito, per mantenere fede alla tradizionalità dei fumetti, solamente in edicola.
In queste 15 canzoni tra cui 4 covers, i protagonisti del fumetto diventano i protagonisti di canzoni folk-rock che si spingono anche oltre toccando Irish e tex mex. Accompagnato da Lele Cavalli al basso e chitarre più Pat Bonan alla battrista e svariati ospiti in diverse canzoni.
L'apertura non poteva che essere affidata a Darkwood, la canzone che diede inizio a tutto il progetto e che ha il compito di inquadrare l'ambiente in cui si svolgeranno le avventure ma soprattutto l'animo e il carattere del protagonista (...I will let my spirit free to roam...). Un folk acustico e narrativo così come in Clear Water Home, Zagor ripercorre la sua infanzia con i ricordi che tornano al padre e alla madre (...Sometimes i recall that old familiar place,where i got to know the greatest love and pain...) e alla vecchia casa nativa. La natura, gli uomini e il loro destino escono da The Tin Star, una western song con la dobro guitar di Niki Milazzo gran protagonista, evocativa e toccante.
Non poteva mancare una canzone dedicata al grande amico di Zagor, Cico Felipe Cayetano Lopezy Martinez y Gonzales, un mariachi travolgente guidato dal violino di Giulia Nuti, da dove esce il carattere goliardico ma anche malinconico del paffuto amico (...yo quiero a la vida aunque la vida no me quiera a mi...). Ma neppure i nemici vengono risparmiati da Guitar Jim, il nemico gentil uomo e tutti gli altri elencati nella lunga sfilza di nomi della rockeggiante Bring on the bad guys.
In mezzo quattro traditionals, dall'irish di The Minstrel boy con Franco D'Aiello dei Modena City Ramblers al flauto, a Molly Malone con Andy White al canto , passando a The Willow Tree e On top of Gold Smoky con l'ospitata di Matthew Ryan alla voce e chitarra.
Un disco che sa affiancare la semplicità del folk rock alla complessità di riuscire a raccontare attraverso delle canzoni un personaggio dei fumetti . Solamente un grande amante del personaggio Zagor sarebbe riuscito a farlo. A patto che questo vorace lettore sia anche un grande musicista dalla voce stupenda come Romani. Come uno Springsteen che incontra un fumetto tutto italiano ma americano nelle sue radici.
L'unico grande rammarico è stato la poca pubblicità che un disco del genere ha avuto, rimanendo a tutt'oggi un prodotto di nicchia, forse già introvabile e per collezionisti, proprio come chi ama i fumetti. Tutto torna.
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