lunedì 15 dicembre 2025

RECENSIONE: LUCIO CORSI (La Chitarra Nella Roccia)

 

LUCIO CORSI  La Chitarra Nella Roccia (Sugar Music/Universal, 2025)




anno da incorniciare

"Il mondo si divide in due: chi ama Lucio Corsi e chi non l'ha mai visto dal vivo". Prendo a prestito questa frase usata per una grande rockstar (e voi sapete chi), per concludere questo 2025 che ha visto il buon Corsi entrare nelle case di tutti, con permesso ma anche no, dopo dieci anni di onorata carriera. Naturalmente quando il tuo nome diventa mainstream, iniziano a piovere  paragoni altisonanti (chiamiamole citazioni o riferimenti perché qualcuno s'incazza veramente) ma anche critiche pesanti. Mi sono accorto, però, che le critiche maggiori spesso sono arrivate da chi non ha mai visto un suo concerto. Lucio Corsi ci mette una pezza facendo uscire questo live album che in qualche modo sa di antico proprio come i suoi live vissuti sul campo. Per me è incredibile che un ragazzo di trentadue anni sia riuscito a farmi vivere una sala da concerti degli anni settanta. Cose che né io né lui abbiamo mai vissuto veramente in diretta.

La Chitarra Nella Roccia è un lungo excursus sulla sua carriera che tocca tutti i suoi dischi pubblicati in studio, aggiunge il canto sociale e politico dell'ottocento 'Maremma Amara' ma dimentica le tante cover e citazioni  che ama eseguire nei suoi concerti (Battisti, Ivan Graziani, Randy Newman, T.Rex, ma pure gli Allman Brothers). Un peccato. Forse per problemi di copyright? La splendida cornice dell' Abbazia di San Galgano  (è stato pure girato in analogico un film documentario sulla serata), edificio gotico senza tetto piantato nel centro della Toscana e un packaging curato nei minimi dettagli con inserto e poster che mi ricorda tanto  quei vecchi vinili di Edoardo Bennato, ricchi di foto e fumetti.

Sedici musicisti sul palco (con tanto di fiati) che pare quelle carovane live un po' Joe Cocker Mad Dogs & Englishmen, un po' Rolling Thunder Revue  di Bob Dylan, scenografia con casse giganti che rimanda dritto al Rust Never Sleeps Tour di Neil Young, 21 canzoni eseguite, i soliti amici di sempre sul palco, quelli del liceo, "la banda" come li chiama lui e a tratti compaiono quattro chitarre elettriche   come le grandi band del southern rock. Rocker con tanto di stage diving o menestrello folk con armonica e chitarra acustica tenuta insieme con lo scotch, stella glitter e vanitosa del glam o piano man raccontastorie. Quasi tanti personaggi in uno. Lucio Corsi gioca con la musica, è una spugna, un bulimico di arte musicale. Ha trent'anni ma potrebbe benissimo viaggiare verso i settanta. Ha sempre vissuto sopra un vinile che girava. Continua a farlo anche ora che il vinile sembra essersi trasformato in un disco volante che lo trasporta intorno al mondo.

Omaggia i suoi miti, si ispira (Ivan Graziani, Paolo Conte, Flavio Giurato, Lucio Dalla, Neil Young, Randy Newman, Bob Dylan) ma poi nei suoi testi riesce a creare un mondo che è tutto suo. Solo suo.  Dagli animali della campagna protagonisti del suo Bestiario Musicale, agli elementi della terra che prendono voce e volto (Gli Alberi, il vento di Lugano, la bora di Trieste), a personaggi umani che diventano trasparenti o talmente leggeri da essere trasportati via dal vento, case che diventano astronavi spaziali, fino al più personale e autobiografico Volevo Essere Un Duro dove canta pezzi di vita (Sigarette), di strani amici (l'ormai leggendario Francis Delacroix), compagni di scuola, amore (Tu Sei Il Mattino) e amicizia (Nel Cuore Della Notte).

Eppure no, anche questo live, dove sembra mancare un po' il pubblico con il quale si relaziona parecchio, non riesce a rendere l'idea di quale festa rock'n'roll siano i suoi concerti. A volte pure sgangherati, con pause ed errori che ne risaltano l'umanità.

Credo che gli scettici per ricredersi debbano andare a un suo concerto. Per tutti gli altri il coronamento ideale di un anno importante. Tutti i grandi della musica hanno segnato nel calendario l'anno cruciale della loro carriera: per Lucio Corsi sarà il 2025!





lunedì 8 dicembre 2025

RECENSIONE: THE AVETT BTOTHERS / MIKE PATTON - (AVTT PTTN)

THE AVETT BTOTHERS / MIKE PATTON  AVTT PTTN (2025)




facciamolo strano ma non troppo

Diciamo subito che l'acronimo scelto per il progetto e le diverse radici di provenienza delle due parti coinvolte non aiutano affatto alla buona diffusione dell'opera. AVTT - PTTN potrebbe essere tutto o nulla, i fan degli Avett Brothers potrebbero aver paura di una strana e incatalogabile creatura come solo sa essere Mike Patton, mentre i sostenitori di quest'ultimo chissà se hanno mai ascoltato un disco di Americana Bluegrass? Questo disco lo sto ascoltando da alcune settimane ma come a volte accade è il luogo ad aprire le porte alla musica. Un tragitto in montagna, all'alba,  con l'ascolto di questa collaborazione frutto di reciproco rispetto musicale (soprattutto i due fratelli Avett si sono proclamati grandi fan di Patton e dei suoi mille progetti fin dagli anni novanta, Mr.Bungle in testa) ha sprigionato tutta la forza di un disco che fa proprio dell'uniforme pacatezza il suo maggior pregio (o difetto come ho letto in giro). Togliendo subito ogni dubbio: in queste nove canzoni è maggiormente Mike Patton ad entrare dentro al mondo dei fratelli Avett, d'altronde con la duttilità della sua voce potrebbe entrare senza permesso in ogni genere musicale. E un po' è quello che ha fatto durante tutta la sua carriera. Nove canzoni dai tratti malinconici e che mostrano pochi veri sorrisi, dipingendo quadri  dai sapori agrodolci e dalla successione cinematografica. 'Dark Night Of My Soul' è una lenta cavalcata western al crepuscolo con armonica e intreccio di voci con il baritono di Patton a creare profondità così come il country di 'Eternal Love' e 'The Things I Do' che stringono un patto con il pop.

'Disappearing' è la più oscura con delle aperture quasi sinfoniche e non sarebbe dispiaciuta a Johnny Cash. 'To Be Know' è invece appesa alla malinconia dei tasti di un pianoforte, mentre 'Too Awesome' accarezza e si avvolge in parole d'amore, ballata pop dalle armonie vocali che sembrano perdersi nei sixties. 'Received' conclude il disco con un canto corale di redenzione.

La bizzarria di Patton appare nettamente solo in due tracce: 'Heaven's Breath' con le sue chitarre distorte ci mostra cosa sarebbe potuto succedere se il volante l'avesse preso in mano Patton, mentre 'The Ox Driver's Song', l'unica canzone non scritta da loro, essendo un vecchio traditional, è un canto di lavoro rivisitato che batte ancora dove deve battere.

Finito il disco capisci le cause del perché di questo disco si parla così poco: oltre all'acronimo difficile da memorizzare e oltre all'apertura mentale di chi si approccia all'opera, non fa assolutamente nulla per attirare l'attenzione su di sé. Se avrete il prezioso tempo da concedergli (al giorno d'oggi buttiamo tanta musica nel cestino dopo un solo acolto) potrebbe catturarvi lentamente e rivelarsi come una delle collaborazioni più ardite e riuscite dell'anno al termine. Con ancora tante vie da esplorare per un futuro successore. Se nemmeno un determinato luogo in un determinato momento riusciranno a farvi entrare dentro a queste nove canzoni vorrà dire che è piaciuto solo a me.





domenica 7 dicembre 2025

DANKO JONES live@Legend Club, Milano, 6 Dicembre 2025


John Calabrese
, bassista storico che con Danko Jones ha messo in piedi la band quasi trent'anni fa, è il più felice di tutti questa sera. Indossa una t shirt delle nostrane glorie hardcore Raw Power e in sala ci sono dei suoi conterranei calabresi che lo hanno raggiunto a Milano ( lui ormai si divide tra le radici italiane il Canada e la Finlandia), amici che gli donano una bandiera con la scritta Cosenza Rock City immediatamente appesa per abbellire la scenografia, completamente inesistente. In fondo quel che conta per la band è solo la musica. Calabrese dispensa sorrisi ad ogni canzone. Ed è un po' l'effetto della musica di Danko Jones: dispensare buone vibrazioni in mezzo al brutto mondo lasciato fuori dal locale.

Lo fanno da sempre. Rock'n'roll senza troppe menate con  testi dozzinali (chi è qui stasera non cerca certamente Bob Dylan in una canzone), dodici album incisi come ricorda Danko Jones in uno dei suoi sermoni autoindulgenti che lanciano sempre il più semplice dei messaggi: divertitevi! E l'ultimo album Leo Rising, il più saccheggiato giustamente, che nel titolo cita il debutto Born A Lion sembra confermarlo: il leone è nato, è cresciuto ma di morire non ha assolutamente voglia finché ci sarà gente che balla e canta sotto i colpi di hard rock'n'roll a volte veloce come il garage punk altre pesante come l'heavy metal, altre ancora suadente e allusivo come il blues. Coerenti con la propria storia Danko Jones portano avanti il loro verbo buono per ogni occasione. Ieri, oggi e domani. Inni semplici e diretti da portarsi fuori dal locale (il power trio rende meglio su questi palchi ridotti) e continuare a cantare durante il viaggio di ritorno in auto: domani non sarà già più sabato sera ("I say, Mondays are now Fridays, Tuesdays are my birthday, Every day is Saturday night" cantano ed è già un piccolo inno) ma cosa importa, il rock'n'roll non conosce ferie e Code Of The Road, Lovercall funzioneranno ancora anche tra cent'anni. "È solo rock'n'roll" e "il rock'n'roll non morirà mai" cantavano negli anni settanta. Nonostante tutto avevano ragione, chi è qui stasera ha l'irrefrenabile bisogno di sentire la musica in modo fisico: basso roboante, colpi di batteria (il bravo Rich Knox) che arrivano al cuore, riff di chitarra penetranti e chorus cantabili. Danko Jones ti da tutto questo, sempre, e non delude mai perché sai quel che vuoi trovare e lo trovi. Sempre. Come canta nell'opener dell'ultimo slbum What You Need.

A conferma della serata ad alto voltaggio, ad aprire Tuk Smith (ex Biters) con i suoi Restless Hearts con la loro capacità di trascinarti indietro nei seventies con un'orgia  rock'n'roll tra Stones e Thin Lizzy e taglio di capelli alla Keith Richards anno 1973. Non a caso, consapevole di tutto ciò, Tuk Smith presenta i suoi compagni come Keith Richards alla chitarra, Peter Criss alla battetia e Dave Davies al basso. Il giusto tributo di chi sa da dove proviene ma anche dove vuole arrivare.




sabato 29 novembre 2025

RECENSIONE: DANKO JONES (Leo Rising)

DANKO JONES  Leo Rising (Perception, 2025)







same old song and dance

Passano gli anni, e sono trenta , passano i dischi, Leo Rising è il dodicesimo album in studio, ma Danko Jones è quello di sempre, quello che vive "ogni giorno come fosse sabato sera". Everyday Is Saturday Night ha già l'imprinting del classico da cantare sotto palco. Qui sono dei campioni perché il palco per loro è aria e acqua vitale.

 In una recente intervista alla domanda "di cosa trattano i nuovi testi?" ha risposto: "sono le stesse cose degli ultimi undici dischi". Consapevole di ciò tira dritto a testa bassa, chitarra in fiamme e ghigno da sberleffo imminente.

Dischi buoni per caricare il van e ripartire per l'ennesimo tour mondiale. Danko Jones insieme all' inseparabile bassista John Calabrese e al batterista Rich Knox sono depositari di quell'antico modo di vivere il rock'n'roll dove potenza, sguaiatezza,vizi e paraculaggine tengono ancora testa e fanno la differenza restando in piedi nonostante il passare del tempo e rimanendo, nonostante tutto, sempre di moda.

"Mi piace la routine di registrare, andare in tour, scrivere, ripetere… potrei farlo fino alla morte. Può sembrare noioso, ma è così difficile per una band riuscirci".

E allora Leo Rising, prodotto da Eric Ratz, che nel titolo riprende quello che per me rimane ancora il loro miglior disco, quel Born A Lion uscito nel 2002 , è il consueto carico di attitudine e adrenalina rock'n'roll a cui il trio canadese ci ha abituati. Di quei primi tempi di garage blues rimane l'attitudine mentre a prevalere è sempre il binomio riff-chorus sparati ad alti volumi che si tratti di hard rock belli quadrati come l'iniziale What You Need dove canta " ti daremo ciò di cui hai bisogno" citazione e manifesto degli amati Kiss, una viziosoa e spigolosa Hot Fox, una Pretty Stuff che cavalca Thin Lizzy e Nazareth o che si tratti di punk pestoni come Gonna Let It Go e I Love It Louder che ha Ramones e Motorhead tra i padri putativi.

Ma nei dischi di Danko Jones ci sono sempre due o tre momenti da ricordare. Questa volta sono: l'ospitata della chitarra virtuosa dell'ex Megadeth Marty Friedman nella kissiana Diamond In The Rough con il video  ispirato al film "Kiss Meets the Phantom of the Park", una I'm Going Blind che pare di sentire i Creedence Clearwater Revival di John Fogerty con i volumi tarati al massimo e la finale Too Slick For Love che avanza baldanzosa come un carrarmato stoner rock con l'adesivo degli amici Qotsa appiccicato sopra.

Si insomma il solito gioco di carte dove  riff, sudore e volume si intrecciano, si mischiano e amoreggiano assieme. Non è roba per palati fini del rock ma per chi vuole testare di essere ancora in vita.

Alla fine, senza troppe pretese,  la migliore definizione la da lo stesso Danko Jones: "Niente fronzoli, solo musica di base pensata per strapparvi un sorriso appagante, preferibilmente con i finestrini abbassati". Con sto freddo, caro Danko, facciamo che i finestrini rimangono su sarà bellissimo ugualmente.






domenica 23 novembre 2025

MICAH P. HINSON live@Spazio 211, Torino, 22 Novembre 2025


Serata forte questa allo Spazio 211. Un sold out che potrebbe lasciar presagire rumore e confusione in sala e invece regala momenti di assoluta attenzione, concentrazione e devoto silenzio che raramente si percepiscono a un concerto. Sì, insomma, qui nessuno ha il coraggio di farsi gli affari  suoi con il compagno a fianco.

Succede soprattutto quando Micah P. Hinson in tre occasioni, accendendosi una sigaretta, si concede al monologo aggiungendo e completando ciò che già le sue canzoni ci raccontano di lui da anni: storie di morte, peccati, fede e redenzione dove si intrufolano rapporti finiti e presenti, romanticismo e depressione, infanzia e famiglia, discendenze e lo stato di salute attuale di quel sogno americano che ha illuso generazioni, compresa la sua.

Micah P. Hinson dal precedente disco I Lie To You del 2022 sembra aver iniziato a percorrere la lunga strada della rinascita umana e artistica dove il pesante passato si fa strada verso un futuro da affrontare con più consapevolezza e saggezza. Ci sono ancora tanti demoni a circondare il percorso ma l'età e l'esperienza sembrano insegnare come affrontarli e lo canta bene in 'Ignore The Days', proiezione nel suo nuovo futuro.


Per la rinascita artistica è impossibile non pensare al nostro Alessandro "Asso" Stefana che fin dal precedente disco lo ha accolto in un forte abbraccio di sostegno come strumentista e produttore, donando la sua infinita genialità musicale. A farla da padrone è l'ultimo disco The Tomorrow Man uscito da pochissimo che parla quasi interamente italiano nei crediti (luoghi, musicisti, etichetta) e che viene  presentato interamente. Canzoni che private degli arrangiamenti d'archi, presenti su disco, ad opera del Benevento Ensemble, diventano scarne con Asso a suonare tastiere, armonica, lap steel e banjo e Paolo Mongardi (attuale batterista degli Zu) a giocare spesso di fino con spazzole e colpi ad effetto. Un concerto da crooner condotto con quella voce baritonale che sa essere potente e fragile contemporaneamente ma che non manca di condurre anche accelerazioni e crescendo radicati nel country bluegrass.

Ipnotici, cupi e struggenti in 'What Does It Matter Now', con grande gioco di squadra in 'People', canzone di David Bazan che sembra sempre indicare la via lungo la quale si sta dirigendo l'umanità, americani fino all'osso mentre eseguono 'The Last Train to Texas'.

Qualche concessione ai vecchi dischi c'è  stata, quell'esordio del 2004 sembrò battezzare un nuovo eroe dell'alt country per gli anni duemila ma il qui e ora sembra prevalere.

Mostra con orgoglio quel taglio di capelli che riporta alle sue origini dei nativi americani Chickasaw, anche se lo tiene nascosto sotto il grande cappello bianco che lo fa sudare parecchio, accorda in continuazione la chitarra e ci scherza pure su: "negli anni sessanta siamo andati sulla luna ma io sono ancora qui a perdere tempo per accordare 'sta fottuta chitarra".

Inizia il concerto con 'Oh, Sleepyhead' full band che poi riprenderà in solitaria come primo bis, forse la canzone simbolo di questa sua nuova rinascita, nata come ninna nanna per sua figlia ma simbolo di un nuovo approccio alla vita, quasi illuminato, dove canta:

"Alright

Wake up, sleepyhead

It's early morning

And all our lives are new

Cheer up, sleepyhead

It's still morning

And i'm disappointed in jesus too

We don't need to be so sad


We don't need to be so mad"

Conclude il concerto con '500 Miles', ormai un traditional scritto da Hedy West e cantato da tanti nel tempo . Chissà quanta altra strada avrà percorso, tra il Texas e la Spagna, e dove troveremo Micah P.Hinson la prossima volta che lo incontreremo? Fosse anche solo fermo da queste parti sarebbe una gran cosa.


Foto: Enzo Curelli




mercoledì 19 novembre 2025

RECENSIONE: CHEAP TRICK (All Washed Up)

 

CHEAP TRICK   All Washed Up (BMG, 2025)






la cetrifuga perfetta

Solo tre anni fa il loro concerto a Milano fu annullato una settimana prima dell'evento, il motivo lo sto ancora aspettando ora. Era il tour del loro ventesimo disco In Another  World uscito nel 2021. Sono passati quattro anni, loro in Italia non sono più tornati ma in questi giorni è uscito il nuovo disco All Washed Up che con un gioco di parole e assonanze riprende il titolo del loro vecchio disco All Shock Up del 1980. Insomma passano anni ( 51!), tour e dischi ma i Cheap Trick sembrano essere usciti nuovi di zecca da quelle lavatrici che campeggiano in copertina. Ancora freschi, profumati e stimolanti come fosse il 1977. A parte l'uscita del vecchio batterista/impiegato Bun E.Carlos avvenuta nel 2016, quando la band entrò nella Rock And Roll Hall Of Fame, la loro musica continua ad essere quel movimentato, frizzante e fresco ibrido tra hard rock e pop senza fronzoli e troppe menate dove i riff di chitarra elettrica tengono per mano la melodia, accompagnandola per le strade degli States, dal Midwest di Rockford, Illinois, attraversano l'oceano, e arrivano là lontano, in Inghilterra, direzione Liverpool.

Se ti piace il rock'n'roll allora è molto probabile che ti piaccia il gruppo dell'Illinois guidato dalla voce del biondo Robin Zander che pare sempre in ottima forma, dal basso del tenebroso Tom Petersson, dalla chitarra del monello Rick Nielsen e dall'ultimo entrato alla batteria Daxx Nielsen, figlio del monello. 

Un disco che parte in quarta con un poker di canzoni ad alto voltaggio: la title track è  un hard rock con Nielsen che stampa il riff più pesante e moderno del disco e con Zander che canta "cattivo",  'All Wrong Long Gone' è la canzone che gli Ac/Dc non scrivono più da una ventina d'anni, 'The Riff That Won't Quit' ha tutto scritto nel suo titolo mentre in 'Bet It All' giocano a fare i Black Sabbath che giocano a fare i Cheap Trick. Da metà disco in avanti esplodono i vividi e classici colori pop di sempre dove le melodie beatlesiane sembrano prevalere su tutto: 'The Best Thing', 'Twelve Gates', 'Bad Blood', 'Love Gone', 'A Long Way To Worcester' sono pop rock ballad forse messe troppo vicine una con l'altra e  scritte con mestiere ma è anche vero che il mestiere te lo guadagni solo con anni di duro lavoro e dei Cheap Trick che di andare in pensione non ci pensano nemmeno, ti puoi sempre fidare così come ti fideresti di un vecchio operaio assunto fin dal primo giorno di vita di un'azienda. Ne sanno tante, conoscono trucchi e segreti.

Giustamente lo aggiungo io, finché fanno uscire dischi che si mangiano in un sol boccone una buona fetta delle band rock odierne per scrittura, impatto e freschezza perché mandarli a passeggiare al parco?

 C'è ancora tempo per la più sbarazzina 'Dancin'With The Band' e per la finale 'Wham Boom Bang', uno swing jazzato, senza troppe pretese,  dove i nostri, però, sembrano divertirsi ancora molto. Noi con loro. Lunga vita ai Cheap Trick!





venerdì 14 novembre 2025

RECENSIONE: EDDA (Messe Sporche)

 

EDDA  Messe Sporche (Woodworm/Universal, 2025)




un diavoletto

"Iniziamo il concerto con una canzone dei No Guru". Esordì così , quasi sottovoce, Edda, mentre con gli occhi  tra il pubblico vide una t-shirt del gruppo. La mia. No, non suonerà nulla della band formata dai suoi ex compagni dei Ritmo Tribale insieme a Xabier Iriondo e il compianto Bruno Romani, ma non mancherà, durante e dopo la serata, di ricordarsi di loro, spendendo buone parole e mantenendo intatto il filo che lo collega al suo passato. "Loro sono bravi" aggiunse, quasi come a dire " mica come me".

Era il lontano 2011,  era tornato da poco, aveva le nuove canzoni del suo straordinario esordio solista Semper Biot, scritto a quattro mani con Walter Somà, e le scalette le infarciva di cover, ricordo 'Strada' di Finardi, 'Laura' di Ciro Sebastianelli e 'Sogna' dei "suoi" Ritmo Tribale.

Poche settimane fa, e qui torniamo al presente di questo 2025, (quattordici anni dopo!) una nuova reunion live dei Ritmo Tribale si è concretizzata in quel del Legend a Milano, naturalmente in formazione tipo ma senza Edda e quasi in contemporanea ecco arrivare nei negozi (si perché uscito solo in formato fisico, driblando e lasciando a bocca asciutta chi si abbevera di musica liquida! Bravo!) Messe Sporche di Edda, il suo settimo album in studio.

Tutto questo intreccio tra Ritmo Tribale e Edda per dire che Messe Sporche è uno dei dischi più rock e diretti della sua discografia, musicalmente il più vicino alla sua vecchia band, anche se Stavolta Come Mi Ammazzerai non scherzava e insieme al debutto e a Graziosa Utopia rimangono per me i suoi vertici, contornati da altri quattro diversamente capolavori.

Se aggiungete che in questi giorni si sono concretizzate le reunion di Litfiba e CSI, è inevitabile che si stia dipingendo da solo un quadro in tinta amarcord che si spinge al passato per guardare al futuro. Ricordando che una reunion, al giorno d'oggi, non si nega a nessuno,  lascio le chiacchiere da Alta Fedeltà ai diretti interessati che certamente ne sanno più di me. 

Messe Sporche che si presenta con una copertina alla Fausto Papetti, ideata da Paolo Proserpio e Marta Biasi (dopo le tette di Odio i Vivi mancavano le parti basse), è stato lavorato e arrangiato insieme a Luca Bossi, musicista e produttore, che da anni collabora e lo segue live, costruendo intorno alla sempre straordinaria voce, agli incastri impossibili di parole e melodia, e testi anarchicamente liberi da ogni preconcetto, pieni di rimandi e citazioni "vintage", e intimamente visionari di Edda dove gli "strani" sentimenti fanno a cazzotti con il sesso ("la tua bocca sa di cazzo, adesivo come il sole scioglie il ghiaccio, aggressivo come il sole"), un rock lo-fi diretto quasi da garage band ma che non manca di smarcarsi con intuizioni e voli pindarici. A suonare oltre a Bossi al basso, troviamo l'essenzialità di Alberto Moscone e Simone Galassi alle chitarre, Teo Canali alla batteria, mentre ai fiati di Mauro Ottolini è affidato il compito del disturbo.

Sul lato rock sono buone testimoni canzoni come 'Diavoletto', con la musica a elevare le sfighe della vita, 'Giorni Di Gloria' quando la quotidianità si traveste quasi da inno, quando Gloria è un'amica ma fa lo stesso, la più acida e perversa 'Family Day', il blues pestone di 'Cinque Meno Meno' ("l'uomo che teme il confronto con la donna" dice) e il punk Made in Italy  di 'Belisotta' che tanto sarebbe piaciuto a Freak Antoni con i suoi Skiantos, canzone questa che contiene pure uno dei versi must del disco ("stai attento a te, Fedez non è Hegel, però i russi sono de coccio").

Ma non manca il lato intimista, cantautorale e quasi amaro in canzoni come 'Mucca Rossa' che insegue il pop perfetto dal retrogusto sixties,  lasciando nel finale due piccole perle intime e nostalgiche come l'acustica 'Ezechiele' (dedica ad un amico dove si chiede: "cambia qualcosa se muore Dalla?") e 'Macchia' la più ardita con il suo crescendo, i suoi fiati e vocalizzi impossibili.

Passano gli anni, i dischi e le canzoni ma Edda continua e rimanere puro e genuino, istintivo, nudo proprio come lo era all'inizio con Semper Biot. Questa è la sua forza. Non toccategliela. Non inquinategliela. Sarà solo quintupliclata nei live imminenti a cui si aggiungeranno Killa alle chitarre e Diego Galeri (ex Timoria) alla batteria. 





domenica 2 novembre 2025

DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #89: THE BLACK CROWES (Amorica)

 

THE BLACK CROWES   Amorica  (American, 1994)




aria di libertà

"L' America è, spesso, un luogo di paura. Amorica invece è l'America che noi sogniamo, cioè un posto dove la gente sia libera di vivere senza paure" così Rich Robinson spiegò il titolo del terzo album dei Black Crowes, presentato da una copertina tanto acchiappa sguardi, rubata da una vecchia copertina della rivista Hustler, anno 1976, quanto ostacolo per la buona diffusione del prodotto che infatti venne censurato. Chissà se per quella bandiera americana messa lì davanti oppure per quello che c'era sotto o tutto l'insieme? 

A proposito, Chris Robinson appena dopo l'uscita disse: "sarà raffigurata una ragazza abbigliata in classico bikini a stelle e strisce… Staremo a vedere. L'America, essendo un paese giovane, cerca di aggrapparsi a dei valori, stanno ancora cercando di capire cosa accade nel mondo e penso che la mentalità europea sia diversa". Non si sbagliava. 

E pensare che se possiamo accarezzare la copertina di Amorica è solo grazie a quei due fratelli serpenti che mandarono in fumo un album fatto e finito, nato sul finire del 1993 dopo i tour che seguirono The Southern Harmony and Musical Companion. Tall non vide mai la luce se non anni dopo quando uscì con l'altro album perduto Band, registrato nel 1997: raccolti sotto The Lost Crowes. Dentro Amorica ci finirono un po' di quelle canzoni perdute. 

"Vogliamo davvero vedere fino a che punto possiamo spingere la nostra espressione". Con queste parole Chris Robinson cercò di spiegare il balzo in avanti che la band provò a fare con Amorica, alla perenne ricerca di un suono identificativo lontano da mode e da tutto. I suoni si dilatano, c'è la voglia di lasciarsi andare, di entrare dentro a un mood senza troppi steccati a fare da argine. Cambia anche il produttore, dopo George Drakoulias arriva Jack Joseph Puig. Si intravedono tappeti, candele e incensi, piedi nudi che ci ballano intorno. 


Così da 'Gone' che sembra un bel invito messo in apertura ma ancora ben legato ai due precedenti dischi, passando per la liberatoria e sensuale  'A Conspiracy' e con un prezioso Eddie Harsch che sembra essersi inserito molto bene dentro alle trame della band, si passa attraverso i ritmi latini che accompagnano 'High Head Blues' con quell' invito esplicito nascosto tra le rime e piazzato alla fine:  "questa è l'erba migliore" viene ribadito  in spagnolo. E noi ci crediamo, visto che da qui in avanti tutto sembra apparire e scomparire dietro al fumo profumato. 

Perché il viaggio jammato dei nuovi Black Crowes sembra non avere più ostacoli: 'Cursed Diamond' inizia lieve e introspettiva poi  si incendia sotto le chitarre di Marc Ford e Rich Robinson con Chris a cantare l'incredibile forza del perdono, 'Nonfiction' è una pausa dalle chitarre che sa di vecchia west coast anni settanta ma che poi conduce alla solarità senza confini di 'She Gave Good Sunflower', lavoro di squadra dove c'è spazio per tutti. 

Una malata 'P. 25 London' che pur  sembrando un semplice divertissment blues con tanto di armonica ha il raro pregio di catturare l'attenzione con il suo groove (ecco il basso di Johnny Colt) prima di condurre il disco verso  l'accoppiata 'Ballad In Urgency' e 'Wiser Time', due viaggi accomunati dalla leggerezza, la prima si aggancia così bene ai padri Allman Brothers, la seconda è una corsa in macchina in discesa a motore spento, con il vento in faccia e il drumming percussivo di Steve Gorman che duella ad armi pari con le slide. Siamo ora on the road. 

Il disco nel finale si abbandona completamente, sgancia i freni, attorcigliandosi alle radici: il delta blues acustico di 'Downton Money Waster' con dobro e pianoforte e la forza evocativa e quasi gospel della finale 'Descending', con il grande lavoro al pianoforte di Harsch, sembrano riallacciare tutti i fili con la tradizione del southern rock che così bene questo disco aveva in qualche modo cercato di spezzare.

"Che genere suonano i Black Crowes? Semplicemente musica, l'importante è quello che pensano gli ascoltatori", così Rich Robinson.

Tra pochi giorni l'uscita di un box set cercherà di fare ulteriore luce (forse) su questo piccolo gioiello.





domenica 26 ottobre 2025

CURTIS HARDING live@Santeria, Milano, 24 Ottobre 2025

 


Sapete come ci si sente ad ascoltare un concerto con due persone dietro di te che non fanno altro che parlare per un'ora e mezza no? A voce alta, naturalmente, perché la musica sembra un ostacolo per loro.

Altro che problema dei telefonini, qui siamo ad alti livelli di cafonaggine, almeno chi ha un telefono in mano un po' di interesse verso ciò che succede sopra al palco  sembra dimostrarlo. Spostarmi? No, niente affatto, ho difeso il mio posto. Litigare? No, è venerdì sera e non voglio. Per fortuna  ci pensa Curtis Harding a tasportarmi lontano, ti carica sopra la sua nuova navicella spaziale, quella protagonista dell'ultimo concept album e s'innalza da terra guardando tutto dall'alto in basso. Un viaggio metaforico nel buio dello spazio che diventa esperienza dentro a sé stessi. Siamo sempre in movimento, dovremmo esserlo sempre, anche quando lontani dai propri affetti si soffre lo smarrimento. 

Per i primi quarantacinque minuti di concerto Departures & Arrivals: Adventures Of Captain Curt, uscito poche settimane fa,  è il grande protagonista, privato degli arrangiamenti e delle finezze presenti su disco, tutto arriva diretto, in your face, un concentrato dove  c'è tutto il mondo di Curtis,  nato nel Michigan, e cresciuto seguendo gli spostamenti della madre cantante gospel: il vecchio suono Stax e Motown, il funk, il R&b, la psichedelia, perfino accenni disco. I musicisti stanno tutti al loro posto, anche Curtis non è un personaggio istrionico da palco, si concede dei grandi occhiali, passa dalla chitarra al tamburello, sale di falsetto ma il carisma arriva a paccate: quando scherza, quando invita a cantare con lui, quando chiede quanti di noi abbiano già il nuovo disco che ci sta suonando da cima a fondo. 


Dopo una breve pausa, la seconda parte di concerto è dedicata ai suoi primi tre album Soul Power, Face Your Fear e If Words Were Flowers, che lo hanno candidato ad essere uno dei nuovi principi della black music americana. A proposito di re, recentemente ha omaggiato D'Angelo, scomparso da poco con l'esecuzione di Brown Sugar, che sa quasi di passaggio di testimone, anche  se tra loro diversissimi, la black music ha bisogno di ritornare a dettar legge.

L' alto numero di giovani spettatori presenti, che per una volta fa sentire noi cinquantenni, in su,  in minoranza, fa ben sperare per il futuro della musica. Intanto sotto i colpi di On And On e Keep On Shining è difficile rimanere fermi e pure i due tizi dietro di me, sul più bello, sembrano essersi placati, godendosi il loro momento di riposo mentre Harding con i suoi straordinari musicisti sulle note della finale Need Your Love ha in mano tutto il locale, bello pieno per l'occasione. Si congeda con le dita in alto verso il cielo  augurandoci "Peace And Love". Noi qui dentro siamo pronti ad eseguire, sentiamo cosa ne pensa il brutto mondo là fuori.






domenica 19 ottobre 2025

LA LUZ live@Spazio 211, Torino, 18 Ottobre 2025

 


I concerti allo Spazio 211 in autunno e inverno offrono sempre un caldo abbraccio.  C'è sempre una bella atmosfera, stasera amplificata dai raggi del sole sorridente e californiano (ma sorto a Seattle) dietro al quale escono le quattro La Luz quando salgono sul palco. Raggi che scaldano le impetuose onde del loro surf indie rock che spesso e volentieri si infrangono su una riva di sabbia psichedelica sixties, sognante ma con quel retrogusto malinconico nostalgico. Armonie vocali doo-wop, atmosfere da spaghetti western, il groove tenuto alto dalla batterista Audrey Johnson con il viso circondato dalla sua chioma imponente ("Audrey I Love You" grida qualcuno in sala) e dal basso di Lee Johnson, la presenza scenica accattivante (i movimenti di capo e gambe sincronizzati) e simpatica, sotto la guida della chitarra di Shana Cleveland, recentemente madre e vittoriosa sulla malattia, hanno presentato il loro ultimo disco  News Of The Universe uscito su Sub Pop.  È "saturday baby" come ha sottolineato la tastierista Alice Sandahl, allora per poco più di un'ora ci lasciamo i problemi a casa e ci si muoviamo trasportati  dal ritmo ipnotico che vorresti non finisse mai mentre un alieno verde gonfiabile surfa sopra la tua testa, rapendoti i pensieri.




sabato 18 ottobre 2025

RITMO TRIBALE live@Legend Club, Milano, 10 Ottobre 2025

 


Con un inizio di concerto medley quasi unplugged con tanto di fisa che scava indietro nel tempo, tra improvvisazioni ('Kriminale' non poteva non esserci! Quindi eccola anche se non in scaletta) e qualche problema tecnico (con il basso nella seconda parte) che però ce li restituisce indietro umani, la vecchia guardia è ancora viva e lotta con noi. Andrea Scaglia, Fabrizio Rioda, Andrea "Briegel" Filipazzi, Alessandro Marcheschi e Luca"Talia" Accardi in due ore e mezza (!!!) di concerto si divertono versandoci un'antica botta di adrenalina che ogni tanto ha bisogno di essere rispolverata per ricordarci quanto il rock italiano, a cavallo tra gli anni ottanta e novanta, abbia prodotto cose buone. 


Ecco allora un viaggio nella loro storia che passa dal periodo di maggior risalto quando alla voce c'era Edda e dischi come Mantra del 1994 (L'assoluto, a Mia Religione, Ti Detesto e con le sue due ballate Amara e Sogna) e Psycorsonica del 1995 (Oceano, Base Luna, Nessuna Scusa, 12 Linee, Universo, Psycho) erano sulla bocca di tutti al secondo periodo di carriera con Scaglia alla voce segnato dai due album Bahamas del 1999 (2000, Lumina, Bahamas) e il più recente La Rivoluzione Del Giorno Prima uscito nel 2020 (Le Cose Succedono, La Rivoluzione Del Giorno Prima, Milano Muori), in piena pandemia. "Abbiamo fatto uscire un solo disco negli ultimi venti anni ed è scoppiata una pandemia", ci scherza su Scaglia.

E per ribadire con ancora più forza quanto il rock italiano abbia segnato un'epoca, la canzone finale dedicata al compianto Marco Mathieu (Negazione) è 'Questi Anni' dei Kina che va a trasformarsi in 'Uomini'. Una serata "evento" ma che potrebbe diventare benissimo l'ennesimo nuovo inizio.







lunedì 29 settembre 2025

DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #88: GORAN KUZMINAC (Ehi Ci Stai)

 

GORAN KUZMINAC  Ehi ci stai (1980)





aria fresca

Fu un militare americano incontrato per caso durante uno spostamento sopra a un treno ad avvicinare un ancora giovane Goran Kuzminac alla tecnica fingerpicking con la quale iniziò a farsi poi notare negli anni settanta: il militare si fece imprestare la chitarra che Kuzminac portava con se e iniziò a suonarla pizzicando le corde con le dita, lasciando Kuzminac ad occhi aperti. Per l'uso di quella tecnica tutta americana, non così comune in Italia, verrà ricordato per sempre, ma non solo: perché durante la sua carriera di belle canzoni ne scrisse tante, più belle anche dei suoi quattro o cinque veri successi come amava spesso ricordare.

Nato a Belgrado, nella ex Jugoslavia nel 1953, arrivò in Trentino con la famiglia a soli sei anni, si trasferì in Austria, si laureò a Padova in medicina, e a Trento, nel suo amato Trentino, nel 2018 si spense a soli 65 anni per un brutto tumore al cervello.

Cresciuto ascoltando i suoi miti John Martyn, Peter Gabriel, James Taylor, Jorma Kaukonen, i Creedence Clearwater Revival, Crosby Stills Nash & Young, fu però folgorato vedendo Alvin Lee suonare durante un concerto dei Ten Years After: "fuggivo da casa per andare a seguire i pochi concerti che si tenevano al palazzetto dello sport di Bolzano. Lì ho sentito il mio primo grosso evento con i Ten Years After di Alvin Lee. Credo che quel chitarrista mi abbia realmente sconvolto, non ho dormito per molti giorni. Ricordo benissimo anche un mitico concerto dei Jethro Tull per non parlare di Joe Cocker con una band da paura..."

Gli anni settanta li passò suonando come chitarrista turnista e aprendo per i  concerti di diversi cantautori (Angelo Branduardi, Antonello Venditti, Lucio Dalla) fino a quando conobbe un Francesco De Gregori che stava per pubblicare Rimmel e che lo presentò alla RCA di Vincenzo Micocci. Da lì alla produzione dei suoi primi 45 giri il passo fu breve.

Ehi Ci Stai fu il suo album d'esordio , uscito nel 1980, si presentava con una copertina  tutta invernale: il suo volto, la sua barba rossa ghiacciata in primo piano, sul retro la custodia della sua amata chitarra adagiata sulla neve, all'interno foto dall'album di famiglia virate seppia.

Prodotto da Shel Shapiro con il quale scrisse la bella canzone d'amore 'Tempo', in verità fu un esordio baciato dal grande successo di due canzoni che ne segnarono tutta la carriera: una nuova versione di 'Stasera L' Aria è Fresca' (a cui venne aggiunto un 'N.2') con la quale vinse il Festival di Castrocaro due anni prima nel 1978 ("Era iniziato il periodo delle radio libere.Tanra voglia di musica. Era suonata in modo strano, era diversa l'atmosfera, il testo era un tormentone") e 'Ehi Ci Stai', brano quasi frivolo che si scoprì poi essere dedicato a Grazia di Michele della quale si era invaghito.

"Quando uno fa questo mestiere, cerca di scrivere delle melodie emozionanti, dei testi profondi che rimangano nella storia ma non si sa come, poi uno magari viene ricordato e diventa pure semi famoso con una 'stupidatina' che scrive per scherzo. E mi è successo proprio con questo brano. Che ormai è un vecchio cavallo di battaglia” disse in una intervista.

La canzone nell'estate del 1980 spopolò, arrivando al secondo posto al Festivalbar, anche se quel testo che recitava: "Ci stai a fare un rock, portarlo per la strada, ci stai ad esser sempre tu, qualunque cosa accada, ci stai un po’ per gioco, a toglierti la gonna, a metterti nel letto con la gioia di esser donna, ma ci stai o no?" non incontrò i favori della femministe più convinte.

Ma nel disco, ottimo compendio tra tecnica strumentale e cantautorato folk pop c'erano anche: il british folk bucolico di 'L'uomo Nel Grano' con i suoi sognanti arrangiamenti orchestrali, l'ironico rock blues alla Bo Diddley di 'F.F.S.S.' ("Evviva le Ferrovie dello Stato come una sardina sono sistemato"), la dolcezza di  'Sai Com'è' scritta dal poeta Angelo Penati, una 'Margherita Sì Sposa' che veleggia verso i territori di Antonello Venditti, le storie di strada del ciondolante rock blues con fiati di 'Marciapiedi', l'ariosa e fresca 'Donna Mia Donna', l'esercizio fingerstyle di 'Breve' e il commiato 'Saluto' sono due brevi intermezzi.

Dopo il buon successo del debutto, proseguì  con il successivo disco Prove di Volo del 1981 che conteneva un altro suo grande successo come 'Stella Del Nord', poi arrivarono i concerti Q Concert insieme a Ron e Ivan Graziani, con il passare degli anni la grande ribalta, piano piano, venne meno ma Kuzminac ha sempre continuato a fare dischi, comporre colonne sonore (collaborando anche con Ennio Morricone), tutorial musicali su Youtube, lontano dai grandi clamori mediatici ma con la passione, la saggezza, l'ironia e la simpatia di sempre, tanto da rispondere a chi si chiedesse che fine avesse fatto: "ma che fine avete fatto voi. Io ci sono sempre stato".





sabato 13 settembre 2025

ELLIOTT MURPHY And Murphyland Band live@Druso, Bergamo, 12 Settembre 2025



Ci sono concerti che vorresti non finissero mai e quello di Elliott Murphy con la sua Murphyland Band composta dall'inseparabile e bravissimo Olivier Durand alla chitarra acustica ma che ferisce come un'elettrica, la dolce Melissa Cox al violino e Alan Fatras al solo Cajun e scarne percussioni ma che sembra avere davanti un set completo , è uno di quelli, seppur di suo sia durato quasi due ore e mezza. Il Druso di Bergamo è pieno (oltre che accogliente e intimo), perché uno come Murphy lo merita come è pure vero che anche la sua carriera avrebbe meritato il "pieno" e in generale più attenzione di quanto ne abbia avuta e ricevuta. Chi conosce i suoi dischi sa che difficilmente ha deluso (soprattutto i suoi anni settanta non sono inferiori a nessuno) e stasera è qui a presentarci l'ultimo Infinity che ha pochissimi mesi di vita ('Makin' It Real' e 'Baby Boomer Lament' quelle suonate  più il nuovo video in bianco e nero di 'Night Surfing' proiettato prima del concerto).

È un viaggio coinvolgente e trascinante con il sorriso sempre pronto e la voglia di divertire e divertirsi (cosa che traspare dai volti dei musicisti), un giro completo intorno alla sua Murphyland che ci ha portato dalla Cadillac di Elvis a Lou Reed ("c'è il tuo amico Louis al telefono" gli diceva sua madre storpiando il nome. Cose da newyorchesi), dal suo primo sbarco in Italia nel 1971 a Roma dove ebbe un piccolo ruolo con Fellini al suo amico Springsteen del quale fa l'imitazione e nei bis propone 'Better Days'.  Tutto il pre concerto è stato dedicato alla visione del breve film sulla crociera "springsteeniana" Born To Cruise svoltasi in primavera a cui lo stesso Murphy ha partecipato. 


Da angelo biondo e ribelle di Long Island ad antico e saggio troubadour dei tempi moderni. Partito dalla New York  degli anni '70 e arrivato in Europa nel 1989, non se n'è più andato, conquistato da Parigi, costruendosi un seguito di fan affezionati e devoti. Amore contraccambiato con l'assegnazione a Murphy della prestigiosa Medaille de Vermeil de la Ville de Paris da parte del primo cittadino parigino. Dopo Parigi è l'Italia la sua terza casa.

Murphy ha storie da raccontare con ironia e tanta autoironia (scherza sul trascorrere del tempo: "una volta nel backstage c'era di tutto e di più, alcol e groupie, ora integratori, defibrillatori e viagra") e in musica ha una manciata di canzoni da knock out disseminate lungo più di cinquant'anni di carriera che cerca di sintetizzare toccando vari punti della sua discografia, dall'iniziale 'Drive All Night' condotta in solitaria con Durand ad accompagnarlo alla finale 'Rock Ballad,' passando dalla tittle track dell'omonimo Just A Story From America (1977),  le canzoni dello splendido Night Lights (1976) con 'Deco Dance' e 'You Never Know What You're In For', disco che non aveva nulla da invidiare a Born To Run, fino ad arrivare a 'Sonny' da Beauregard (1998),  una splendida 'Green River', una sempre toccante 'On Elvis Presley's Birthday da 12' (1990) e le più recenti 'Alone In My Chair' da Prodigal Son (2017), 'Consequential' e 'Sunlight Keeps Falling' da Wonder (2022). 

Murphy, rimane ancora un cantautore d'altri tempi, un dandy del rock che fa ancora della poesia in musica un vanto ed una ragione di vita, lontano dai grandi circuiti che contano ma sempre più vicino ai cuori e all'anima. La partecipazione del pubblico e la forte empatia creata  hanno detto tutto. Durante il festaiolo medley finale nessuno è rimasto fermo.

Allora è stato bello chiudere fuori questo brutto mondo per un paio di ore e rifugiarsi dentro a Murphyland," il posto dove tutti vorremmo stare" e dove "Louis Armstrong canta Hello Dolly" come cantava, il luogo dove poter realizzare i propri sogni, il posto da perseguire fin dalla giovane età, superando gli ostacoli e gli  incontri "sbagliati" o salvifici della vita. Lo ha creato Elliott Murphy. Ieri sera eravamo tutti invitati e credo nessuno sia uscito deluso. Intanto all'uscita ci aspettava la pioggia.

"A Hard Rain's A-Gonna Fall" cantava Dylan ma stasera si torna a casa in tutta leggerezza.





mercoledì 10 settembre 2025

RECENSIONE: GLENN HUGHES (Chosen)

 

GLENN HUGHES  Chosen (Frontiers Music, 2025)





"the voice" in my head

C'è chi a sessant'anni si è già sputtanato la voce ed è costretto a cambiare registro alle sue canzoni e poi c'è Glenn Hughes che a 74 primavere la preserva con mestiere d'altri tempi e canta come fosse ancora il 1974. Anche se concentrandoci  sulla voce ci si dimentica spesso del suo ruolo di bassista.

Il live visto l'anno scorso all'Alcatraz di Milano, incentrato sulle canzoni dei Deep Purple (si celebrava Burn) è buon testimone di tutto ciò.

Hughes ci disse pure che eravamo fortunati ad essere lì quella sera perché  lui è rimasto l'unico a cantare ancora le canzoni di album come Burn, Stormbringer e Come Taste The Band.

 Il segreto? Lo sa solo lui.

Sempre lui dice che questo Chosen (pubblicato dalla nostrana Frontiers Music) uscito a ben nove anni dall'ultimo solista Resonate e con in mezzo i progetti Black Country Communion e The Dead Daisy (abbandonati), sarà l'ultimo prettamente rock della sua carriera. Ma perché? Cosa si metterà a fare poi? In queste dieci tracce c'è poco spazio per la parte più funky della sua musica, quella che conquistò pure Stevie Wonder, pur se presente in canzoni come 'My Alibi' ,'Hot Damn Thing' e la nervosa 'Black Cat Moan', per il resto si picchia giù duro di hard rock alla vecchia maniera mantenendo sempre la faccia modernista  con il groove davanti a tutto ('Voice In My Head' è il buon inizio disco, 'Heal', la finale 'Into The Fade') ma con la melodia spiccata della title track ( "parla di libertà, di trovare se stessi in quest'epoca, in questo mondo folle in cui viviamo") e della ballata 'Come And Go', dove le acque si fanno meno impetuose, viaggiando a motore spento.

Ci sono poi due pezzi da novanta come le sabbathiane  'In The Golden' e soprattutto 'The Lost Parade', dove il buon chitarrismo del sempre sorridente Søren Andersen ( Ash Sheehan alla batteria e Bob Fridzema alle tastiere completano la band) cavalca le onde basse care al vecchio amico Tony Iommi, tanto che pare uscito dal disco Fused che Iommi e Hughes registrarono vent'anni fa .

Chosen è un disco fresco e vivace che pur ripetendo formule antiche e spesso già sentite, conferma Hughes come uno dei rocker meglio conservati di quell' epopea rock che sta lentamente navigando verso il tramonto.






domenica 7 settembre 2025

RECENSIONE: STEVE VON TILL (Alone in a World of Wounds)

 

STEVE VON TILL  Alone in a World of Wounds (NR, 2025)




immersione

Era qualche giorno che non dialogavo a modo mio con la natura. Una chiacchierata molto basica dove io mi limito ad osservare e ascoltare, il resto lo fa lei con i suoi umori, rumori, suoni, odori e colori. Le mie azioni sono semplici ed elementari: alzarsi presto al mattino (potrebbe essere la più dura, invece mi riesce sempre bene), cercare subito con gli occhi una volpe nei campi, trovarla (perché c'è sempre una volpe nei campi a quell'ora, è quasi un appuntamento), eccola ferma la in mezzo a fissarmi, devo aver rovinato qualche suo progetto, pochi secondi poi si dilegua in lontananza tra le ombre delle frasche dove i primi raggi del sole non battono ancora anche se si percepiscono puntando gli occhi al cielo. Cuciono le nuvole a punto croce. Ascolto le diverse voci degli esseri viventi già svegli come me, osservo i campi tagliati, ordinati e arati e gli altri no dove la vegetazione è alta, selvatica, diversamente ordinata e si va a confondere con il cielo dell'orizzonte.

Una divisione che rappresenta bene anche l'essere umano.

Poi il sole arriva veramente, tra l'oro e il rosso, ancora tiepido, le nuvole assorbono quelle tonalità calde, le montagne si vestono di ombre e le luci, un cane abbaia pigro e poco convinto al mio passaggio, due gattini, cuccioli, giocano tra un fienile e la legnaia, curiosi di affrontare la nuova vita ma ancora timidi davanti a tanta maestosità e a quello sconosciuto che si ferma davanti loro facendo strani versi con la bocca per cercare di avvicinarli, mentre il torrente giù a valle rotola ma non è troppo carico e il rumore dell'acqua è lieve, sordo e continuo, così come lo è il dialogo con la natura nel nuovo disco di Steve Von Till, il sesto fuori dalla creatura Neurosis (messi in pausa, finiti, ritorneranno?).

In giorni dove la natura sembra attaccata da ogni angolo dalle notizie di cronaca che provengono dal mondo, quello più vicino a noi con gli scandali milanesi che ci raccontano di un "magna magna" legato alla cementificazione imperante, a quello più lontano con guerre che polverizzano tutto il creato che incontrano sulla propria strada.

Voce baritonale dalla profondità abissale (a tratti ci senti Mark Lanegan, a volte Leonard Cohen, spesso Nick Cave), assenza quasi totale della chitarra per abbracciare un suono che si fa bastare un pianoforte, un violoncello, una pedal steel, un synth e un corno francese. Più i tanti silenzi che vi gravitano attorno, quelli che fanno più rumore creando ruote emotive che girano tra la gotica americana, l'ambient, il folk e il blues scarnificato fino a lasciare il piatto vuoto, graffiato da rumori ambientali.

"Certo, canto della mia vita personale, delle mie emozioni e delle mie difficoltà, ma sempre nel contesto di un quadro più ampio. E il quadro più ampio è che siamo disconnessi da noi stessi perché siamo disconnessi dall'essere parte del tutto. Consideriamo la natura un luogo dove andare, un posto da visitare. Una vacanza nella natura. Ma noi siamo natura, ce ne siamo semplicemente dimenticati" ha raccontato in una recente intervista Von Till che oltre a essere il musicista che conosciamo è pure un maestro di scuola elementare.

Stiamo abusando di questo mondo. "Siamo disconnessi dalla natura" è il mantra che allaccia le otto composizioni.

Von Till con racconti poetici e visionari, carichi di atmosfera, che si trascinano dietro un costante senso di perdita (sia esso per la natura, per il tempo, per i legami), tanto cupi quanto fascinossmente struggenti ci mette in guardia. Forse è troppo tardi ma almeno lui ci sta provando. Uno degli ascolti più immersivi di questa prima metà d'anno. 





sabato 23 agosto 2025

RECENSIONE: KING WITCH (III)

 

KING WITCH   III (Listenable Records, 2025)





re e regina

Una delle poche cose  che mi hanno deluso del concerto d'addio di Ozzy Osbourne e Black Sabbath tenutosi a Birmingham il 5 Luglio scorso è stata l'assenza pressoché totale dei veri figli del suono creato da Tony Iommi e soci. Chessò non c'era nessun rappresentante di gruppi come Pentagram (più che figli quasi gemelli in questo caso), Trouble, Candlemass, Saint Vitus, Cathedral ma neppure della scena stoner degli anni novanta (Kyuss e derivati, Sleep). Certo, troppo di nicchia rispetto ai grandi nomi coinvolti. Tornando alle band dei nostri giorni, su quel palco, invece, ci avrei visto bene gli scozzesi (di Edimburgo) King Witch che a inizio estate sono usciti con III, loro terzo disco uscito a cinque anni dal secondo, che senza ombra di smentite li catapultata tra i grandi della scena doom metal odierna, anche se il genere va un po' stretto visto la loro capacità nell'inglobare certo hard blues di matrice seventies e folk anglosassone.

Nati nel 2015, la band guidata dalla straordinaria cantante Laura Donnelly, dal chitarrista Jamie Gilchriest e dal bassista Rory Lee, sembra aver trovato la propria via in un contesto che parte proprio dai Black Sabbath e via via sale su, inglobando la nuova ondata del metal inglese dei primi anni ottanta, il doom svedese dei Candlemass fino ad arrivare alle band Grunge più legate al metal come Alice In Chains e Soundgarden dei quali rifanno una versione stratosferica di 'Jesus Christ Pose', aggiunta come bonus track. Il tutto condito da liriche per nulla banali legate da un concept  sull'innata capacità di autodistruzione dell'uomo moderno e l'eventuale sua salvezza da cercare nella natura.

Che si tratti di cavalcate stoner doom come l'iniziale 'Suffer In Life' della più veloce e groovy 'Digging In The Dirt', di lente discese negli inferi del doom ('Sea If Lies'), delle più folkie e sognanti atmosfere di 'Little Witch' e 'Behind The Veil', o dei chiaro scuri di una canzone come 'Last Great Wilderness' che con i suoi contrasti tra esplosioni elettriche e melodia mi ha ricordato molto i nostrani Messa, i King Witch non deludono mai. Già, sono proprio i chiaro scuri, ben evidenziati dalla bella copertina a rappresentare, insieme alla duttile voce della Donnelly,  i punti di forza di una band che da ora in avanti può iniziare a fare la voce grossa.





sabato 9 agosto 2025

FANTASTIC NEGRITO live@Festa di Radio Onda D'Urto, Brescia, 8 Agosto 2025

 


Quanti di noi vorrebbero reinventarsi alla soglia dei cinquant'anni. A Xavier Dphrepaulezz la trasformazione in Fantastic Negrito è venuta assai bene e stasera abbiamo avuto l'ennesima testimonianza del suo carisma che oggi ha pochissimi rivali in giro. Concerto che per vari motivi mi è piaciuto più della prima volta quando lo vidi nel 2018, allora era addirittura senza bassista, oggi ne ha una brava e giovane, Lilly Stern, entrata da pochi mesi in formazione ma già inserita  magnificamente in una band schiacciasassi, e lui nelle presentazioni intona scherzosamente:  "abbiamo una ragazza nella band, abbiamo una ragazza". Una macchina da groove che fa del crossover il proprio punto di forza. 

Per diventare Fantastic Negrito ha però dovuto vivere altre diverse vite assai complicate, compreso il risveglio dal coma dopo un incidente, episodio determinante per l'avvio della sua carriera. Complicazioni che senza remore e tanta sincerità ha sempre sciorinato nei suoi testi andando ad incastrarsi con la storia della società vissuta in prima persona e  studiata nei libri di scuola. Basterebbero i suoi ultimi due album per capire il personaggio: in White Jesus Black Problems  del 2022, scavò indietro all' esplorazione delle sue origini, scoprendo che i suoi antenati di settima generazione, siamo nel 1750 in Virginia, furono una serva bianca di origini scozzesi e uno schiavo nero. I due contro ogni logica e legge dell'epoca si amarono. Da qui il concept antirazziale sull'amore universale,  sentimento che invece latita nel suo ultimo disco Son Of A Broken Man dell'anno scorso incentrato sulla sua difficile infanzia con un padre assente che quando aveva 12 anni smise di parlargli e lo cacciò di casa. Tutte cose che segnano. Fantastic Negrito è un performer incredibile: istrionico nelle sue movenze, predicatore quando lancia i suoi messaggi, aizzatore di folle quando coinvolge il pubblico, attore nelle sue messe in scena tra il serio e il comico (la scenetta d'amore con il chitarrista Clark Sims,  l'immancabile cibo italiano), ballerino con i suoi passi di danza, portavoce dei suoi antenati quando intona vecchi gospel. Tra note alte e basse, la sua voce potrebbe cantare qualsiasi cosa e così fa, unendo idealmente il blues nero con quello bianco, Stevie Wonder e i Led Zeppelin. Ricorda l'amico Chris Cornell con belle parole, salito troppo presto in cielo e uno dei primi a credere in lui. In un recente post su Facebook nell'anniversario della morte scrisse: "è stata la prima persona nell'industria musicale a riconoscere ciò che ho fatto. È stato Chris a portarmi in tre tour e a farmi conoscere il mondo. Gli sarò per sempre grato. Sei amato e mi manchi, fratello Chris Cornell". 


Cita musicalmente 'Stand' di Sly And The Family Stone e 'War Pigs' dei Black Sabbath. Unisce mondi sonori apparentemente distanti con una naturalezza disarmante, impartendo lezioni su come ci si deve comportare e muovere sopra a un palco. Gli riesce tutto decisamente facile ma forse solo perché la musica si è impossessata del suo esile corpo e di uscire non ne ha proprio voglia. A noi non  resta che goderne e ballare fino alla fine, perché sotto i colpi di funky ('Bullshit Anthem', 'California Loner'), Motown sound, blues ('Son Of A Broken Man'), rock’n’roll ('Plastic Hamburgers'), vecchi traditional ('In The Pines') è davvero difficile stare fermi e non lasciarsi contagiare. Dopo quasi due ore di musica ne vorresti ancora.

Ad aprire la serata CEK AND THE STOMPERS. Loro giocano in casa e il pubblico è quello delle grandi occasioni. Che si suoni al piccolo bar sotto casa o davanti al pubblico numeroso di un festival, al Cek, che ormai non ha bisogno di presentazioni, importa poco, perché il suo blues arriva sempre e comunque con sincerità e vigore e questa nuova formazione con la quale ha registrato l'ultimo album Mr.Red, gli consente di aggiungere nuove sfumature alle sue canzoni, ampliando la tavolozza del suo blues sempre ruspante, genuino e vero. Personaggio unico e non replicabile. 

Una serata a dir poco perfetta.