martedì 27 settembre 2022

RECENSIONE: JONATHAN JEREMIAH (Horsepower For The Streets)

JONATHAN JEREMIAH   Horsepower For The Streets (PIAS, 2022)



heart and soul

L'arrivo dell'autunno chiama calore domestico, abbracci e protezione. Un riparo sicuro. Tutte cose che si possono trovare anche in musica. Lasciando da parte i grandi classici, bello è cercare qualcuno che sappia donare tutte queste cose tra le nuove uscite. Perché buoni dischi continuano ad uscire eh, lo dico per chi è  fermo al 1979 e non ne vuole sapere per troppa pigrizia. Da alcuni giorni sono in botta con questo quinto album del cantautore Jonathan Jeremiah, londinese di padre anglo-indiano e madre irlandese. A una domanda per descrivere la sua musica, lui stesso risponde: "troppo soul per il folk, troppo folk per il pop e troppo pop per il soul". Tutto chiaro? Forse non tanto. Meglio sarebbe passare all'ascolto. Il disco, scritto in buona parte in Francia, nelle campagne intorno a Bordeaux, durante uno dei suoi tour e registrato a Bethlehemkerk, una chiesa ristrutturata a nord di Amsterdam, mette bene in mostra la cifra stilistica di Jeremiah, dall'inizio alla fine: voce brumosa e baritonale che si staglia spesso su arrangiamenti d'archi sontuosi ('Horsepower For The Streets'), cinematografici ('Cut A Black Diamonds'), è stata pure impiegata un'orchestra di venti elementi (la Amsterdam Sinfonietta), dove il soul, con cori femminili presenti, regna sovrano ('Small Mercies', 'Youngblood', 'Restless Heart') ma ben si amalgama con il folk britannico ('The Rope'). Proprio come dice lui. Pur avendo come punti di riferimento Terry Callier, Bill Whithers, Nick Drake, Scott  Walker, John Martin, Burt Bacharach, Ennio Morricone, Glen Campbell, l'ultimo Michael Kiwanuka per rimanere a un suo contemporaneo, Jonathan Jeremiah riesce a dare un'impronta personale alle sue composizioni, inseguendo il  pensiero di libertà, cercando la positività nella difficile quotidianità e nelle pieghe dei sentimenti e dei rapporti umani (il crescendo piano, voce di 'Early Warning Sign'). E l'isolamento di questi due ultimi anni influisce tantissimo nella sua scrittura ('You Make Me Feel This Way').

Un disco che ha negli anni sessanta e settanta la propria culla ideale, del presente ha le parole, nel "senza tempo" ci troviamo la melodia e il calore. Benvenuto autunno.





domenica 25 settembre 2022

RECENSIONE: CREEDENCE CLEARWATER REVIVAL (At The Royal Albert Hall, April, 1970)

CREEDENCE CLEARWATER REVIVAL  At The Royal Albert Hall, April 14, 1970 (Craft Recordings, 2022)



quello giusto!

Nella primavera del 1970, i Creedence sbarcano in Europa all'apice delle loro forze, in piena vena creativa e con quattro dischi incisi in due anni (ben tre solo nel 1969), un crescendo che sembrava non avere ancora fine, ed in effetti Cosmo' s Factory e il più bistrattato Pendulum dovevano ancora venire. Eppure anche la loro fine era lì, imminente dietro un angolo, ma ancora nessuno lo sapeva. O chissà, forse Tom Fogerty sì. Le due date sold out alla Royal Albert Hall di Londra vengono finalmente alla luce nella loro bellezza e l'occasione è di quelle ghiotte per farci su un film documentario Travelin'Band (per Netflix), con la voce narrante di Jeff Bridges, che si chiude proprio con le immagini del concerto  e un disco con la data del 14 Aprile 1970 incisa nei solchi. Questa volta però il concerto è quello giusto. Perché, le canzoni che uscirono nel 1980 furono un falso ben congegnato o una svista imperdonabile dalla Fantasy: non erano i concerti di Londra ma quelle di una data a Oakland. Un falso d'autore rimediato in fretta con un  generico titolo The Concert.

Inutile dirvi che il live spacca. La band guidata da John Fogerty è un treno in corsa, inarrestabile, decisa, concreta: dodici canzoni suonate con piglio sicuro che riprendono esattamente ciò che la band aveva sempre fatto in studio, l'unione personale tra blues e rock, masticato e rilasciato con freschezza nuova e adatta ai tempi ma senza cadere nelle tentazioni psichedeliche imperanti. Si andava al sodo e alle radici del suono americano. Era swamp rock frizzante e diretto ma c'erano anche il country e il bluegrass dietro. Totalizzanti.

 "Essenziale, pulito e blues" come indicava il cartello perso nella copertina di Cosmo's Factory.

Si parte dalla paludosa 'Born On The Bayou' che la storia vuole scritta da Fogerty senza mai essere stato in una bayou prima di allora, i CCR erano di San Francisco ma la fascinazione per il sud, la Louisiana, li avvolse completamente fino al collo. Ci nuotavano bene dentro come nessuno mai.


'Green River' scritta da Fogerty ricordando le acque del Putah Creek in California dove trascorreva le giornate in adolescenza tra ragazze nude che dimenavano i loro corpi e rane saltellanti, 'Tombstone Shadow' venuta in ispirazione dopo aver fatto visita a un indovino che predisse a Fogerty tredici mesi di sfortuna (un po' ci andò vicino visto i guai discografici che arriveranno in seguito per riuscire a entrare in possesso del suo catalogo). 'Travelin Band' che uscirà solo poco dopo su Cosmo's Factory pur scippando molto a Little Richard (di cui fanno invece 'Good Molly Miss Molly') è il manifesto di una band inarrestabile e sempre on the road, quella 'Fortunate Son' che di schierava apertamente dalla parte della classe operaia (la camicia di Fogerty resiste nel tempo) e contro la guerra del Vietnam (i fratelli Fogerty l'avevano scampata), 'Commotion' combatteva la frenesia della vita moderna (avercela ora quella frenesia), 'Bad Moon Rising' annunciava una imminente apocalisse a ritmo funky rockabilly, 'Proud Mary' "la mia prima canzone buona" come la definì John Fogerty era già un classico allora nella versione originale e nelle tante cover che verranno, quella di Ike e Tina Turner su tutte.

Un paio di "classici" veri come 'The Night Time Is The Right Time' e 'The Midnight Special', solo qualche "thank you", "thank you very much" tra una canzone e l'altra e la presentazione dell'ultima e sfrenata  'Keep On Chooglin', un finale a tutto groove completano un' esibizione tirata e vincente. Quasi fosse punk dell'american roots.

Roy Carr sul New Musical Express dopo i concerti londinesi fu chiaro e conciso:" la più grande rock'n'roll band del mondo". I Beatles avevano appena annunciato lo scioglimento. Il trono era vacante. Un caso?

Tom Fogerty dirà: "per anni ho avuto un poster dei Beatles alla Royal , ma mai avrei pensato che un giorno ci avrei suonato anch'io qui".

E bello è vedere alcune vecchie foto di John e Tom Fogerty, Doug Clifford, Stu Cook in giro per Londra con le loro macchine fotografiche al collo come turisti qualsiasi e curiosi, ancora ignari di quale pezzo di storia andranno a scrivere. In questi solchi ce n'è un po'.





venerdì 23 settembre 2022

RECENSIONE: CLUTCH (Sunrise On Slaughter Beach)

CLUTCH  Sunrise On Slaughter Beach (Weathermaker Music, 2022)




mai domi

"Il naturale culmine di ciò che i Clutch hanno iniziato da adolescenti nei primi anni '90” così la band del Maryland  ha presentato il tredicesimo album di una carriera ormai lunga trent'anni. E mettere tutti quegli anni in poco più di mezz'ora non è impresa semplice ma in qualche modo ci sono riusciti ancora una volta. Mai chini e piegati a mode e correnti, i Clutch hanno sempre portato avanti la loro idea musicale dove stoner, heavy blues e svaghi psichedelici sono accompagnati dalla voce da orco mai doma di Neil Fallon che declama i suoi testi bizzarri, sarcastici ma sempre pieni di vissuto e ficcanti. Uno che sa scrivere testi. Si potrebbe affermare che è sempre lo stesso album dei Clutch dove la furia di 'Red Alert (Boss Metal Zone)' si scontra con i rallentamenti  psichedelici della cadenzata dai grassi riff  'Slaughter Beach', dove le urla e l’epicità di 'Mountain Of Bone' costruita sui dettami di Dungeons & Dragons corre a pari passo con il carrarmato di nome 'We Strive For Excellence', che già immagino presentata a dovere dal vivo.

Ma poi ecco i particolari che fanno di questo disco, della misera durata di un ep, l'ennesimo capitolo da non perdere: i cori femminili (le voci sono di Deborah Bond e Frenchie Davis) che compaiono in 'Mercy Brown', la lunga coda strumentale di  'Skeletons On Mars' dominata dal singolare uso del theremin, e la finale 'Jackhammer Our Names', marziale e minacciosa che pare uscita da un disco di Nick Cave. Trentatré minuti di certezza inossidabile da una band che in tanti anni di carriera non ha mai cambiato la line up: oltre a Fallon alla voce ecco la chitarra di Tim Sult, il basso di Dan Maines e la batteria di Jean-Paul Gaster.

Una formazione inalterata, unica e inimitabile, che non sembra toccata minimamente dal trascorrere del tempo. Per gli scettici ci sarà la possibilità di toccare tutto con mano il 26 Novembre 2022 al Fabrique di Milano.






sabato 17 settembre 2022

RECENSIONE: THE SWEET THINGS (Brown Leather)

 

THE SWEET THINGS  Brown Leather (Wendigo, 2022)




il miglior rock’n’roll dell'anno from NYC

"Qualcuno ha detto che era come se i New York Dolls avessero provato a registrare Beggars Banquet e avessero fallito miseramente" così il bassista Sam Harris fondatore dei newyorchesi Sweet Things (insieme al chitarrista e vocalist Dave Tierney, i due si sono incontrati per la prima volta al mitico bar Manitoba's di New York) spiega come li accolse la critica dopo l'uscita del debutto In Borrowed Shoes, On Borrowed Time del 2019. Ci aggiunse "devo farla stampare su una maglietta".

Occhio, perché questo secondo parto a titolo Brown Leather per me si candida a diventare uno dei dischi di classic rock americano più caldi e scoppiettanti di questo 2022. Vi dico subito cosa ci troverete dentro: tutto il vecchio rock stradaiolo a cavallo tra Rolling Stones e Faces ma che ingloba dentro la carica anni ottanta di Georgia Satellites, Izzy Stradlin And Ju Ju Hounds e certo sleazy rock losangelino degli anni ottanta/novanta. Senza tralasciare alcune puntate verso il sud degli States, il soul e il southern rock.

All' Honky tonk selvaggio bagnato dal peggior alcol in circolazione il compito di aprire il disco: 'Brown Leather' (accompagnato da un video divertente e fracassone) è tutta pianoforte, chitarre slide e con quel tiro alla Rolling Stones anni settanta ma come se la voce di Mick Jagger fosse caduta nel turbine punk trasformandosi in David Johansen. Ancora pesanti tracce di Exile in 'I Know I Don't Mind' un country che sa di malattia.

'Ride It Home' è pura danza rock'n'roll tra Jerry Lee Lewis e Chuck Berry ma, anche qui, imbrattato dal tiro punk, sostenuto anche dai due nuovi entrati in formazione Tobin Dale (chitarra e voce) e Hector Lopez (batteria).

'Keepin On Movin' e 'Familiar Face'sono dei country boogie movimentati e divertenti buoni per ogni occasione spensierata.  Come anticipato si scende a sud con 'Ain't Got Enough Room' e con 'Cold Feet' un' honky tonk boogie che i fiati portano dalle parti del r&b. Sale in cattedra l'armonica nei blues di 'It Hurts Me Too' e 'Mentholated Blues' più elettrica e rumorosa. Si finisce con la calma della ballata 'Problematic Life' e con la parentesi slide strumentale 'Ride The River'.

Suggella il tutto la registrazione avvenuta ai Fame Recordings Studios a Muscle Shoals in Alabama con il produttore Matt Chiaravalle e la presenza di alcuni ospiti tra cui il fondamentale Rob Clores, già tastierista di Jesse Malin, Black Crowes e Little Steven and Disciples Of Soul.

Derivativi ma con attitudine, ironia e carattere.

"La canzone 'Brown Leather' in pratica dice che non ce ne frega un cazzo di quello che pensano gli altri, faremo solo quello che ci piace e quello che pensiamo sia bello".

Dategli un ascolto e fatemi sapere.




domenica 11 settembre 2022

RECENSIONE: OZZY OSBOURNE (Patient Number 9)

 

OZZY OSBOURNE   Patient Number 9(Epic/Sony Music, 2022)



sette vite più una

Ricordo bene quel "No More Tour" del 1991, Ozzy aveva quarantre anni e l'annuncio dell'ultimo tour sembrava uno scherzo. Lo era in effetti: una diagnosi sbagliata lo aveva messo in allarme per nulla. E noi dietro. Fu il primo degli infiniti "ultimi tour" che seguiranno per malanni molto più seri. Ora lo vedo mentre si è  esibito nell'intervallo della prima partita della stagione di NFL al SoFi Stadium di Inglewood in California: canta Patient Number 9, canzone che apre e da il titolo a questo disco e Crazy Train insieme a Zakk Wylde.

È successo solo due giorni fa. È immobile con le mani fisse al microfono, le alza ogni tanto cercando gli applausi ma non credo possa sostenere concerti interi o tour in quelle condizioni. Se Sharon glielo permettesse sarebbe veramente crudele. L'avrà pure salvato decine di volte ma a volte lo è stata. Crudele. Se vuole veramente bene a Ozzy non glielo permetterà. Vogliamo ricordarlo mentre con le mani ci tirava secchiate d'acqua fredda.

Insomma Ozzy ci canta e ci annuncia la sua fine da almeno trent'anni salvo poi dirci che è "immortale" come canta in  in questo ultimo disco, uscito a due anni di distanza da Ordinary Man, che  già era  stato annunciato come ultimo disco. Quindi, regola numero uno: Ozzy, fottiti, io non ti credo più. Regola numero due: in qualunque condizioni abbia registrato queste ultime canzoni (tanti aiuti alla voce presumo) godetevele. Più heavy,  moderno e compatto del precedente Ordinary Man, che giocava con il pop. In produzione (ma anche musicista presentissimo) sempre Andrew Watt che secondo me si diverte un mondo. Comunque ci si diverte tutti. 

I motivi? Sono tanti. 

Perché i testi giocano in continuazione con la morte, la invocano, la perculano, la allontanano. Tanto prima o poi arriverà per tutti. Guardate la regina.

Perché fa suonare Eric Clapton come fosse ancora nei Cream in One Of These Days. Perché ospita per la prima volta Tony Iommi in un suo disco solista e si ricrea la magia dei Sabbath (No Escape From Now), pure quelli più vecchi e blues in Degradation Blues con quell'armonica che porta direttamente a The Wizard.

Perché Zakk Wylde ritorna a casa e impazza in più di metà disco. Perché Jeff Beck impreziosisce A Thousand Shades e Mike McCready Immortal. Perché troviamo ancora una volta Taylor Hawkins alla batteria in un paio di pezzi. A lui è dedicato il disco. Perché ci sono infiniti rimandi al passato, a Ozzmosis (Nothing Feels Right), addirittura agli anni ottanta di The Ultimate Sin in Dead And Gone.

Perché God Only Knows ruba il titolo ai Beach Boys ma suona come The Beatles meets Black Sabbath.

Perché ci suonano Chad Smith, Duff McKagan e Robert Trujllo

Perché se fosse veramente l'ultimo disco di Ozzy si conclude con un blues antico da palude, slide, armonica e risata finale (Darkside Blues) proprio come forse tutto iniziò tanti anni fa in quel di Birmingham.





sabato 10 settembre 2022

RECENSIONE: THE AFGHAN WHIGS (How Do You Burn?)

THE AFGHAN WHIGS  
How Do You Burn? (BMG, 2022) 





 un sole che brucia ancora 

 E mentre sono ancora qui ad aspettare di ricevere indietro i soldi pagati per un concerto di Greg Dulli a Amsterdam in occasione del suo album Random Desire di due anni fa che il covid ha cancellato (no non è vero, non penso più a quei soldi, mi sono rassegnato), il tempo passa inesorabile come quel volo aereo mai partito, e tanti altri arrivati a destinazione. Va tutto avanti con più incertezze di prima e tanti vuoti da riempire ma con una certa aria di menefreghismo che si diffonde velocemente e ti fa tirare avanti con più leggerezza. Una pandemia di mezzo, questo disco è nato e cresciuto proprio in quei giorni, e tante perdite umane: dopo Dave Rosser nel 2017, Mark Lanegan quest'anno, che di questo nuovo disco degli Afghan Whigs ha inventato pure il titolo e lasciato alcune delle sue ultime impronte. Non c'è più ma si aggira come un fantasma tra le pieghe della ipnotica e inquietante 'Jyja' e sui ritmi elettronici di 'Take Me There'. Quasi un sussurro basso e perpetuo il suo. Leggendo alcune recenti interviste di Dulli traspare tutto l'amore tra i due cresciuto sempre più nel tempo e nelle collaborazioni. E qualche lacrima scende e si insinua tra la mia barba. Queste sono le mie regine. 
How Do You Burn? è il terzo album dopo la reunion e prosegue in qualche modo il percorso dei due dischi precedenti Do To The Beast e In Spades, un grande disco che se la gioca con questo. Una delle poche reunion con un senso la loro, anche se oggi della vecchia band a far compagnia a Dulli rimane solo il bassista John Curley . C'è ancora tutto l'affascinante universo di Dulli creato intorno alle contaminazioni, che però si apre a noi solamente dopo aver superato 'I'll Make You See God', una botta rock, in stile Queens Of The Stone Age, nata per caso dopo un cazzeggio alla chitarra in studio di registrazione. Il suo posto era lì all'inizio dice Dulli e lì al suo posto come un'ariete scardinaporte sembra rimanere anche durante i nuovi live che la band sta portando in giro. Passata la bufera gli echi beatlesiani di 'The Gateway' iniziano a condurre il disco in una conturbante e ipnotica strada che porta alla circolare e seducente 'Catch A Colt', al carezzevole soul di 'Please, Baby, Please' (tra le mie preferite) costruito su un tappeto di organo, al respiro leggero di 'Concealer', al duetto con Marcy Mays in 'Domino And Jimmy', la cantante ritorna dopo la sua presenza su Gentlemen a distanza di trent'anni (c'è anche il ritorno di Susan Marshall già presente su 1965 e che tutti, o quasi, ricordiamo nei Mother Station). Greg Dulli tocca la mortalità, la fragilità, l'amore con la stessa mano di sempre, sicuramente con meno impeto, irruenza e forza rispetto agli anni d'oro di Congregation, Gentlemen e Black Love ma il tatto è sempre quello sensuale, conturbante e graffiante di sempre. La voce pure. 
E visto che il concerto degli Afghan Whigs a Bologna nel 2017 è stato uno dei più belli visti negli ultimi anni, impossibile non replicare in Ottobre a Milano. Ho già il biglietto ma questa volta nessun aereo da prendere.




domenica 4 settembre 2022

RECENSIONE: KING'S X (Three Sides Of One)

KING'S X  Three Sides Of One (Insideout/Sony, 2022)


Tre!!!

È la seconda volta consecutiva che i King's X annullano il loro ritorno in Italia: successe nel 2019, è successo anche quest'anno. Avrebbero dovuto suonare proprio l'altra sera, 2 Settembre 2022 (giorno d'uscita di questo disco), a Veruno nell'ambito del Festival 2 Days Prog+1. Li aspetto da 23 anni, da quando nel 1999 li vidi per la prima e ultima volta in quel del Babylonia a cinque minuti da casa. Se non sbaglio fu il loro debutto in Italia.  Rimane uno dei miei concerti della vita.

Una delle più complete band che abbia mai visto live. (Non sto vaneggiando, cercate in rete quante persone dicono la stessa cosa. O siamo tutti impazziti o qualcosa di vero c'è veramente).

Tre musicisti che  mi impressionarono. Tre personalità  che della loro diversità  fanno una virtù comune: il basso funky e tuonante, la voce bluesy di Doug Pinnick, uno che si fa beffa dei suoi 71 anni, la chitarra versatile di Ty Tabor, capace di pennate hard e pesanti quanto di ricami melodici, la voce e la dinamicità della batteria di Jerry Gaskill. Insieme, uniti, capaci di ottime armonie vocali che spesso li ha avvicinati ai Beatles e con grandi colpi di bravura e magia sanno unire in un tutt'uno micidiale hard rock, blues, punk, metal, funk, progressive, pop e soul. 

Una volta sposati, i King's X non li abbandoni più. In 40 anni di carriera  sono stati osannati, sottovalutati, a volte dimenticati e ingiustamente ignorati. Ancora sconosciuti e da scoprire dai più. Non a caso la parola più comune legata al loro nome è spesso “underrated”. Che peccato. Anche se come tutte le cose più preziose continui a sentirle ancora più  tue. Poi magari ci saranno dei validi e buoni motivi che a me sfuggono. Verrà  il loro tempo? Anche oggi che i dischi si intrufolano  subdolamente tra i nostri ascolti? Potrebbe essere questo tredicesimo disco in carriera quello della volta buona? Del grande salto? Dubito, ma per chi volesse avvicinarsi al trio mi sembra una buona occasione.

Mancavano discograficamente dal lontano 2008 quando uscì XV, in mezzo tanti problemi di salute (soprattutto per il batterista Gaskill), problemi con le case discografiche, parecchi progetti solisti, una pandemia.

Ma ora che abbiamo finalmente queste dodici canzoni tra le mani, possiamo dirlo:  i King's X sono sempre loro. Capaci di unire dissonanze quasi heavy noise ("alla Meshuggah" come ha dichiarato Pinnick) con armonie vocali melodiche in 'Flood, Pt.1'. Colpire con hard blues elettrici come 'Let It Rain', un invito a lasciare che la pioggia spazi via la paura di questi tempi bui, oppure accarezzare con blues notturni come in 'Nothing But The Truth' con la voce blacky di Pinnick in primo piano e un bel assolo finale di Tabor ("ho pensato a Prince e Curtis Mayfield" dice sempre Pinnick). Uno dei vertici di questo disco. 'Give It Up' è una cavalcata hard bluesy dal chorus contagioso, adatta per i live,  'All God' s Children', una ballata dai toni dark psichedelici, molto sabbathiana, così come 'Take The Time', cantata da Gaskill, è ariosa, psichedelica, pop. È un gioco di contrasti che alla band americana è sempre riuscito bene. 'Festival' è un rock scritto da Tabor dall'influenza quasi garage, veloce e diretta, 'Swipe Up' ha il groove pesante dei loro anni novanta, si ferma e riparte (e ancora una volta tornano in mente i Meshuggah, che cosa incredibile!), così come 'Watcher' riporta ai tempi di Dogman e anche più indietro.

Poi nel finale ecco tutto l'amore per la coppia Lennon-McCartney che esce dalla soffice 'Holidays' cantata da Gaskill, così come in 'She Called Me Home' con l'orchestra dietro e nella finale 

 'Every Everywhere' con i suoi giochi di voce. Una canzone di speranza in mezzo a un disco dai toni prevalentemente cupi.

Se dopo quarant'anni riescono a incidere ancora dischi così freschi, piacevoli, a tratti spiazzanti un motivo ci sarà. A voi scoprirlo. Io lo so già.

Bentornati!




giovedì 1 settembre 2022

RECENSIONE: MARCUS KING (Young Blood)

MARCUS KING  Young Blood (American Records, 2022)


the king of rock and roll

Molto probabilmente se Marcus King  avesse vissuto i suoi 25 anni nel pieno degli anni settanta, avrebbe cavalcato con estrema difficoltà quella linea che separa la notorietà  dal precipizio più marcio e buio. Troppe le tentazioni, troppi sarebbero stati i  compagni di viaggio nella stessa situazione che lo avrebbero accolto con simpatia nel club della disperazione. Benvenuto tra noi. Fortunatamente gli anni settanta sono lontanissimi, anche se musicalmente non sono mai stati così vicini come oggi. 

E visto che King a 26 anni è un giovane "nato vecchio" catapultato fortunatamente nel 2022, le sue ancore di salvezza hanno dei nomi, a volte pure dei cognomi: la musica stessa, i Free, Dan Auerbach e l'attuale fidanzata ("mi ha tirato fuori da un posto davvero oscuro").

Sì perché proprio dopo una rottura amorosa iniziò un breve calvario segnato da depressione e dalle dipendenze e a un certo punto a forza di ascoltare i Free (pare gli piovessero addosso da ogni parte) si era quasi immedesimato nel povero Paul Kossof tanto da non riuscire più a vedere una via di uscita. Una strada senza scampo.

"Stavo davvero esagerando in tutti gli aspetti. Quindi è stato un bene per quanto riguarda la creatività...Davvero non pensavo che sarei stato in giro abbastanza a lungo per fare un altro disco".

Dopo El Dorado, primo disco solista prodotto da Dan Auerbach che lo vedeva allontanarsi dal classico stile da jam band della Marcus King Band per avvicinarsi maggiormente alle ballate country e soul, questa volta Marcus King incide il suo disco rock definitivo dove mette in fila tutto il suo smisurato amore per Jimi Hendrix, gli ZZ Top, i Free (di rimando i Bad Company), i Cream, i CCR,  i Black Sabbath, i Grand Funk Railroad, la Steve Miller Band, i Gov't Mule ma anche i Badlands periodo Voodoo Highway di Jake E. Lee, chissà.

Dove le chitarre (la sua Le Paul del 59) sono protagoniste dall'inizio alla fine: riff torrenziali (ascoltate la quasi sabbathiana 'Aim High'), assoli e fuzz abbondano, strabordano a volte, mettendo a frutto tutto il tempo in cui ha tenuto in mano una chitarra da quando aveva solo tre anni giù nella sua Carolina del Sud.

Dentro alle canzoni lascia tanto di se. Dalle relazioni finite (l'impetuosa 'It's Too Late') traboccanti di bugie ("sono il fuoco piccola, sai di essere la mia benzina" canta nella incalzante 'Lie, Lie, Lie'),  alle perdite importanti (la paludosa 'Blues Worse Than I Ever Had' che termina il disco). Chiede aiuto, la mano di qualcuno che lo tiri fuori dall'abisso dentro il quale era finito dove l'alcol ("Coca e Whisky") era divenuto l'amico più fidato (lo swamp alla John Fogerty 'Rescue Me'), e le nuvole nere che incombevano minacciose erano un sipario calato davanti al futuro ('Dark Cloud'). Le maschere per nascondere il tutto erano all'ordine del giorno (nel blues contagioso alla Free 'Pain') " ora sono solo una banconota da un dollaro arrotolata...Se vai e mi lasci, allora ho finito" canta . Ma fortunatamente canta anche di rinascita in 'Hard Working Man', dove l'amore sembra trionfare.

Questo disco è una seduta psicoanalitica, sincera, profonda, amara, ma anche carica di speranza. Entusiasmante per come suona, per come è cantata. Il sentimento davanti a tutto.

Accompagnato dal batterista Chris St. Hilaire, il bassista Nick Movshon e il secondo chitarrista Andy Gabbard che assecondano senza troppi fronzoli intorno. Rock blues della miglior specie, hard, ruvido, diretto ma anche melodico e ipnotico.

Marcus King si mette a nudo costruendo intorno a dei testi duri e crudi (nella sinuosa 'Blood On The Tracks' -non un titolo a caso credo- ad aiutarlo c'è pure una vecchia volpe come Desmond Child) un impianto rock muscoloso che sa di antico, di assi di palco, di amplificatori, di live music. Di anni settanta sicuramente. 

Marcus King è uno dei più grandi talenti usciti negli ultimi anni dagli States e questo disco una delle più belle uscite dell'anno in ambito...chiamiamolo semplicemente rock'n'roll? Oggi, pochi come lui sanno  unire così bene anima, tecnica e vigore.





domenica 28 agosto 2022

RECENSIONE: PAOLO NUTINI (Last Night In The Bittersweet)

PAOLO NUTINI   Last Night In The Bittersweet (Atlantic, 2022)



quando un disco è bello non ha bisogno di etichette. E Last Night In The Bittersweet è bello!

Paolo Nutini ha sempre avuto tutto dalla sua parte: una voce incredibilmente soul (ah quelle voci bluesy scozzesi!), una rara capacità di scrittura pop, l'indole e il carisma per arrivare all'ascoltatore più distratto. La presenza. Nonostante tutto, partendo dalle cose più facili ottenute con il minimo sforzo in gioventù, negli anni non ha mai smesso di crescere, sperimentare, imboccare nuove strade che partendo da una buona base pop potessero raggiungere altri generi. Il percorso inverso di tanti altri. Last Night In Bittersweet esce a ben otto anni dal suo ultimo disco Caustic Love (che fu una dichiarazione d'amore per il soul) e tocca il vertice di questa sua instancabile, preziosa ricerca -e crescita- che  se volessimo delimitare da due punti fermi dentro a questo disco si potrebbero visualizzare concretamente nel crescendo soul di 'Through The Echoes' al battito elettro di kraut rock in 'Lose It'. Il passato e il futuro. Tutto il presente dentro.

In mezzo 70 minuti di canzoni scritte in modo sublime che non danno troppi punti di riferimento ma ottengono punti al valore. Scritte e suonate in modo impeccabile nuotando con disinvoltura dentto una vasta gamma di emozioni e turbolenze che ha raccolto negli otto anni di assenza discografica: gli anni settanta di 'Everywhere' e 'Children Of The Stars' con belle chitarre e tutta quella brezza West coast che ci soffia sopra, una 'Radio' che non dispiacerebbe al canzoniere di Ryan Adams, il country folk alla Johnny Cash di 'Abigail', un inno alla felicità da (ri)trovare, la psichedelia di 'Heart Filled Up', la marzialità indie rock di  'Shine A Light', la ballata al pianoforte 'Julienne', una piccola gemma, che potrebbe essere il vero anello di congiunzione tra Paul McCartney e John Lennon più introspettivi, il tranquillo folk finale di 'Writer' che va a cozzare con 'Afterneath' il modo quasi violento e disturbato, con i suoi gorgheggi alla Robert Plant, con il quale il disco si apre e che contiene  un dialogo rubato al film True Romance (Una Vita Al Massimo) sceneggiato da Quentin Tarantino.

Un disco in movimento, ricco di spunti, certamente ambizioso, che non contiene tormentoni (come lo furono in passato 'New Shoes' e 'Candy') che potrebbe insegnare molto a tanti nomi più blasonati e sulla breccia da decenni su come si possano portare a termine  settanta minuti di musica senza perdersi per strada. Certo ci sono voluti otto anni ma ne è valsa la pena.





giovedì 25 agosto 2022

RECENSIONE: NAZARETH (Surviving The Law)

NAZARETH  Surviving The Law (Frontiers Records, 2022)



verso il futuro

Quando hai un cantante dalla voce unica e caratteristica come fu quella di Dan McCafferty, che però ad un certo punto della carriera (più di cinquant'anni) è costretto a lasciare per motivi di salute, hai una mazzo di scelte per proseguire la strada: ti ritiri perché il meglio lo hai già dato e quel cantante è insostituibile, continui con un altro cantante che cerca di scopiazzare l'ugola altrui, oppure continui con un altro cantante dal timbro diverso e cambi il sound pur mantenendo continuità con il passato. Gli scozzesi Nazareth hanno optato per la terza via, hanno rischiato ma in qualche modo stanno avendo ragione. Guidati dal veterano e unico superstite della formazione storica, il bassista Pete Agnew, Surviving The Law è un album solido e compatto di hard rock con puntate metal e blues racchiuso in una orribile e anonima copertina che non fa il suo dovere. E qui un giorno qualcuno ci racconterà perché nessuno investe più nella nobile arte delle copertine. Carl Sentance (già Krokus, Don Airey Band) è un cantante esperto e formato, con caratteristiche tutte sue. Dopo il rodaggio del precedente Tattooed In My Brain, qui riesce a prendere in mano le redini del gruppo e trasportarlo verso una nuova fase di carriera, il tutto registrando le sue parti vocali lontano dalla band in piena pandemia. Un disco quadrato che fin dall'apertura 'Strange Days' mostra muscoli e dinamicità. 

Un suono sempre fresco sia quando accelerano in 'Runaway', dai vaghi sentori NWOBHM, nel blues pesante 'Sweet Kiss', nel grido d'indipendenza scozzese che esce chiaro e forte nella sincopata 'Let The Whisky Flow', nel blues finale 'You Made Me' con Agnew che si impadronisce del microfono. Quattordici canzoni che non fanno gridare al miracolo ma mantengono in vita un gruppo onesto e dalla scorza dura e forte come lo stomaco di chi accompagna un piatto di Angus con il migliore dei Whisky invecchiati.





sabato 20 agosto 2022

DISCHI in BREVE: BEN HARPER (Bloodline Maintenance)

BEN HARPER  Bloodline Maintenance (Chrysalis, 2022)


ritorno al passato

Che bello Bloodline Maintenance il nuovo album di BEN HARPER. Un disco quasi ostico (nessun singolone acchiappa masse) che si apre con un gospel a cappella ('Below Sea Level'), personale (già dalla copertina che lo ritrae in una vecchia e bella foto in compagnia del padre Leonard, molto assente nella sua vita, nel testo di 'Problem Child' con i fiati di Geoff Burke) e combattivo il giusto: in 'We Need To Talk About It' tratta il razzismo con frasi dure (" immagino che chiunque dica che il tempo guarisce tutte le ferite non fosse uno schiavo"), in 'Where Did We Go Wrong' denuncia e da una voce a chi non vuole farsi piegare dalle direzioni sbagliate che la sua America e più in generale il mondo stanno prendendo.

Un disco che solo i grandi possono permettersi a una certa età ma che non tutti hanno il coraggio di fare. Un ritorno forte alle radici. Tutte le radici.

Guarda al Blues dei padri ('Knew The Day Was Comin') e alla black music dall'inizio alla fine (bello il soul di 'Honey Honey'), con Harper che suona quasi tutto da solo e l'anima gentile del compianto Juan Nelson che gira intorno e fa da ispirazione. Un gran bel ritorno. 



mercoledì 17 agosto 2022

NEBULA: disco (Transmission From Mother Earth) e concerto Live@Blah Blah, Torino, 4 Agosto 2022

 

NEBULA  Transmission From Mother Earth (Heavy Pych Sounds, 2022)

Transmission From Mother Earth è il settimo album dei californiani NEBULA, il secondo dopo la reunion del 2019. Registrato nel deserto del Mojave, la band guidata da Eddie Glass sembra aver ritrovato l'antica forma. Certo, meno irruenza rispetto agli anni d'oro di To The Center (disco imprescindibile dello stoner anni novanta) ma tutta la maturità che permette di costruire canzoni stratificate, cangianti ('Transmission from the Mothership' alterna riff giganteschi alla melodia) che fluttuano tra psichedelia ('Wilted Flowers'), space rock ('Highwired') e stoner blues ('Existential Blues'), pure rileggendo a modo loro lo spaghetti western (la conclusiva 'The Four Horseman') con l'apice raggiunto nei sette minuti di 'Warzone Speedwulf' che riassume lo status operandi dei Nebula annata 2022, alternanza tra scosse elettriche cariche di fuzz e morbidi trip sopra a tappeti psych che volano alti da terra. Stooges meets Hawkwind. Tra i migliori viaggi lisergici di questa torrida estate (forse dell'anno, chissà chi farà meglio?) che lì vedrà protagonisti in Italia tra pochi giorni per una serie di date certamente da non perdere.


CONCERTO: NEBULA live@Blah Blah, Torino, 4 Agosto 2022

Eddie Glass si presenta sul palco con occhiali da sole e kefiah tirata su fino al naso, come se stesse surfando di notte attraverso la terra e la sabbia del suo deserto del Mojave in California, una tazza di the sul pavimento fa bella mostra di sé accanto alla pedaliera, il batterista Mike Amster indossa la stessa t shirt di Paranoid dei Black Sabbath vista proprio qui quando accompagnò i Mondo Generator di Nick Oliveri e picchia sempre come un fabbro sul ferro, mentre Tom Davies è imponente come il suo basso.

Siamo invece in pieno centro a Torino città, il caldo interminabile di questi mesi è stemperato dall'aria condizionata e dentro al Blah Blah, nonostante le piccole dimensioni, si sta sempre da dio. Ci ho visto tanti concerti in questi mesi. Un set che dura poco più di un'ora per dimostrare quanto l'ultimo album fresco di pochi giorni Transmission From Mother Earth, abbia ridato al gruppo californiano quella centralità che compete loro tra le band stoner più legate al blues psichedelico dei seventies. La copertina del loro primo disco To The Center, invece, in venticinque anni ha guadagnato la vetrina della storia. Difficile scalzarla o solo dimenticarla.

Poche parole, il cantato di Glass non è certamente la loro arma forte, a parlare è sempre la musica. 

Glass guida sempre le danze, la ritmica lo segue con fedeltà anche nelle improvvisazioni e divagazioni.


Si intrecciano riff pesanti, carichi di fuzz e si ondeggia con la testa, con divagazioni space psichedeliche, fumose, acide, si chiudono gli occhi cercando di immaginarsi con una kefiah sulla bocca, surfando tra la sabbia, le rocce, il cielo blu e le stelle sopra. Blue Cheer, Black Sabbath, Hawkwind, Jimi Hendrix e Stooges giocano la loro partita a poker. Glass incassa. 

Forse dieci minuti in più avrebbero fatto la felicità di tutti ma agli artisti va sempre l'ultima parola. Il banchetto del merchandise è ricco, i prezzi ragionevoli (il nuovo disco in cd a dieci euro): si paga anche per uscire, anche se dentro, tra fresco e musica, si sta molto meglio. Però realizzo che domani è venerdì, ed è pure l'ultimo giorno prima delle ferie...




sabato 13 agosto 2022

RECENSIONE: ZZ TOP (That Little Ol' Band From Texas- Original Soundtrack)

 

ZZ TOP  That Little Ol' Band From Texas- Original Soundtrack (BMG, 2022)




l'ultima suonata di Dusty Hill

Nudi e crudi come papà Texas li aveva cresciuti. Poi vabbè hanno deviato alcune strade durante il percorso verso la notorietà mondiale. Però se il cerchio doveva chiudersi, bello ritrovarli così, in un disco pulito senza colpi di straccio, grezzo e imperfetto il giusto.

"Un ritorno alle nostre radici" scrivono nelle note al disco "solo noi e la musica". Nemmeno il pubblico in queste registrazioni live avvenute al Gruene Hall, la più vecchia sala da ballo del Texas. Solo i "tre uomini": Billy Gibbons, Dusty Hill e Frank Beard. Sembra che i tre fossero li per altre cose ma non vuoi mica non suonare quando trovi gli strumenti già sul palco?

Sono le ultime registrazioni di Dusty Hill (naturalmente il disco è a lui dedicato) e vengono alla luce sottoforma di colonna sonora per il documentario Netflix That Little Ol' Band From Texas andato in onda nel 2019 ma ancora assente in Italia. Si parte dalla vecchia 'Brown Sugar' e si toccano le immancabili 'La Grange', 'Tush' fino alla sensuale e notturna 'Blue Jean Blues'. E anche quando negli anni ottanta le luci di Las Vegas sembravano offuscare e avere la meglio sulla polvere texana, qui 'Gimme All Your Lovin' diventa calda e torrida come a inizio carriera. Domani sarà passato un anno esatto dalla scomparsa di Dusty Hill e l'omaggio mi sembra puntuale e perfetto. 





martedì 9 agosto 2022

RECENSIONE: WHISKEY MYERS (Tornillo)

 

WHISKEY MYERS   Tornillo (Thirty Tigers, 2022)



veterani del nuovo southern

Il precedente disco uscito nel 2019 aveva tutte le caratteristiche di un nuovo inizio: intitolato semplicemente con il nome della band, presentato da una candida copertina bianca in stile "white album", novità come l'autoproduzione dopo gli anni insieme a David Cobb e infine un suono sempre più caratteristico che faceva proprio southern rock, soul di casa muscle shoals, country e rock'n'roll. Il nuovo album intitolato Tornillo, nome preso in prestito dal luogo in Texas che ospita gli studi di registrazione Sonic Ranch dove il disco ha preso vita, conferma quegli indizi dando più vigore al tutto, cominciando dalla splendida copertina disegnata dall'artista texano Zachary EZ Nelson, in netta contrapposizione con la precedente, che richiama il Texas e alcuni simboli cari agli ZZ Top. Ecco: la cura delle copertine non guasta mai in questi tempi sempre più asettici.

Che Cody Cannon (cantante e autore) e compagni sappiano scrivere canzoni lo si intuisce fin dal trittico iniziale: quando l'intro 'Tornillo' breve strumentale dai sapori tex mex e tromba mariachi lascia il posto al trascinante southern funky 'John Wayne' dove la band sconsolata sembra "guardare il mondo andare in fiamme" e dalla successiva e tosta 'Antioch', con il soul che insegue il rock'n'roll. Con la presenza dei cori delle McCrary Sisters e il largo uso di strumenti a fiato le canzoni della band si sono riempite, colorate di mille sfumature (il bel blues nero di 'Bad Medicine'), anche se non mancano episodi più veloci e boogie ('Feet's') hard come ' The Wolf' e 'Other Side' o ballad come 'When World Gone Crazy', l'arioso e epico country di 'For The Kids', un atto d'amore, 'Heavy In Me', la malinconica 'Heart Of Stone' che chiude il disco.

Tornillo si candida a diventare il nuovo punto di riferimento per la band di Palestine e se ciò succede dopo quindici anni di carriera, vuol dire che in questi anni hanno lavorato bene. E lasciatemelo dire, oggi come oggi, per me i Whiskey Myers si siedono sullo scettro di miglior southern rock band americana superando di gran lunga i Blackberry Smoke a cui voglio molto bene ma ai quali ho sempre imputato la mancanza di "canzoni".





sabato 6 agosto 2022

RECENSIONE: HANK WILLIAMS JR. (Rich White Honky Blues)

 

HANK WILLIAMS JR.  Rich White Honky Blues (Easy Eye Records, 2022)



figli

Appena uscito, Rich White Honky Blues ha debuttato al numero uno delle classifiche country americane. Questo per farci capire quanto Hank Williams Jr. conti ancora in patria. Uno che in vita ha dovuto trascinarsi dietro il fardello del pesante nome del padre (per poi darlo anche a suo figlio Hank III)  ma che in qualche modo si è costruito la sua onesta carriera tra country, southern rock e idee patriottiche che solo se vivi in America puoi capire e forse condividere. Dentro di lui però ha sempre bruciato il fuoco nero del Blues e un disco del genere arrivato a 73 anni sa di sfogo e liberazione. Non si sa se resterà solo un divertimento o un nuovo inizio. Intanto c'è!

Di country dentro a queste dodici canzoni, quindi, non sentirete nulla: questo è un omaggio al blues dall'inizio alla fine. Accanto a tre canzoni originali scritte da Williams ('Rich White Honky Blues', I Like It When It's Stormy', l'autobiografica ' Call Me Thunderhead') trovano posto composizioni di Robert Johnson, Muddy Waters, R.J.Burnside, Lightnin' Hopkins, Jimmy Reed. Quello che sorprende maggiormente è il suono catturato: grezzo, sontuoso, vero che Dan Auerbach è riuscito a cogliere in poche sedute di registrazione senza portarlo, una volta tanto, in territori Black Keys a lui cari. Registrato a Nashville all' Easy Eye Sound di Auerbach insieme a vere e proprie leggende del North Mississippi Country Blues come i chitarristi Kenny Brown e Eric Deaton, il batterista Kinney Kimbrough, l'armonicista Tim Quinne, Rich White Honky Blues pur non presentando sorprese ha la forza di sorprendere e tenerti incollato all'ascolto. Si sente l'amore, la devozione e il divertimento (pure qualche parola) girare tra i solchi delle canzoni. 

"Quando siamo entrati in studio, più abbiamo suonato, più siamo entrati in profondità – e più siamo entrati in profondità, più volevamo andarci".

E divertente è pure l'aneddoto che ha dato il titolo all'album e alla canzone omonima. Williams, "ma chiamatemi pure Thunderhead", dice sia arrivato in dono da un incontro che fece da adolescente con l'attore Redd Foxx, ossia il burbero rigattiere Fred Sanford della sit com americana Sanford and Son (ve la ricordate?) andata in onda nella prima metà degli anni settanta in America e nei primi anni ottanta in Italia. Una serie coraggiosa per l'epoca: gli attori erano tutti afroamericani e temi sociali e razziali non erano rari.

Il vecchio Redd disse di avere tutti i dischi papà Hank, così Thunderhead si immaginò Fred Sanford alle prese con il figlio Lamont nella sitcom:" Lamont! Why you hanging out with all those old rich white honkies for?'". Ecco il titolo! Una delle mie serie tv preferite che mi ricorda pomeriggi casalinghi davanti alla tv e i libri di scuola chiusi. Poi, scopro che la serie fu musicata da Quincy Jones. Tutto torna. Viva la musica.




domenica 31 luglio 2022

RECENSIONE: JACK WHITE (Entering Heaven Alive)

 

JACK WHITE  Entering Heaven Alive (Third Man Records, 2022)

hit the road Jack

Esistono tanti Jack White, o forse solo due tanto differenti con molte sfumature intorno. O ancora solo uno a cui piace giocare così tanto con la musica da spiazzare ad ogni occasione. 

Fatto sta che quest'anno ha deciso di separarsi veramemte in due e consegnarci la sua arte in due dischi ben distinti. Diversi. Molto diversi. Pochi mesi fa uscì Fear Of The Dawn, dove il lato più bizzarro e modernista si impossessava delle canzoni fino quasi a renderle delle non canzoni. Elettrico, rumoroso, confuso, onanista all'inverosimile e  spiazzante. Forse troppo di tutto. Ora a qualche mese di distanza ci regala il lato easy, vintage, caldo e classico della sua arte, fatto di canzoni semi acustiche ma ricche di strumenti, quasi sempre suonati da lui stesso. Un disco dall'accento quasi pop, confidenziale dove l'amore in tutte le sue forme regna sovrano soprattutto quello di White per i grandi classici del rock come gli Stones ('A Tip From You To Me' potrebbe essere una classica ballata di Jagger e soci di metà anni settanta), i sixties ('Help Me Along' dedicata alla figlia Scarlett, con i suoi crescendo di archi è una deliziosa canzone pop che unisce Paul McCartney ai Kinks), gli amati Led Zeppelin (la bucolica 'Love Is Selfish').

Atmosfere calde, vere, analogiche dove il superbo trip primitivo di 'I've Got You Surrounded (With My Love)', con una meravigliosa chitarra che si manifesta impetuosa su un tappeto jazz, convive con la notturna e waitsiana 'Queen Of The Bees' dedicata alla moglie Olivia Jean. Le ballate imperversano ma proponendosi sempre in modo diverso grazie all'aggiunta di diversi colpi di genio:  'If I Die Tomorrow' conquista al primo ascolto,  'Please God, Don't Tell Anyone' sprigiona folk,  'Madman From Manhattan' gioca di swing in modo gentile, 'Taking Me Back (Gently)' riprende la canzone che apriva il precedente disco, trasformandola però in un travolgente swing country che chiude un disco sorprendente riconsegnandoci un Jack White in forma smagliante. A questo punto quale sia dei tanti White poco importa. La libertà regna sovrana.






martedì 26 luglio 2022

RECENSIONE: JOHN DOE (Fables In A Foreign Land)

 

JOHN DOE  Fables In A Foreign Land (Fat Possum Records, 2022)



il fattore X

John Doe difficilmente ha sbagliato un disco negli ultimi tempi, sia quando ha dettato le cordinate degli X, sia quando ha vestito i panni del cantastorie in versione solista. E non c'è bisogno di andare troppo indietro nel tempo, il ritorno della band nel 2020 con Alphabetland era un buon disco, cosa non scontata per dei ritorni, l'ultimo solista The Westerner uscito sei anni fa fu una delle migliori uscite cantautorali del 2016 . E pure Fables In A Foreign Land si gioca le sue degne carte: nell'idea di fondo nei testi delle canzoni, ambientati tutti negli anni novanta del 1800 creando un parallelismo di perdite e desolazione con i due recenti anni di lockdown, "c'è molto da dormire per terra, molta fame, molto isolamento. Tutto ciò si inserisce nel tipo di isolamento e mancanza di stimoli moderni  che le persone penso abbiano iniziato a riscoprire durante il blocco della pandemia" racconta Doe, nei suoni minimali su cui l'album si tiene benissimo in piedi, la sua forza, grazie all'aiuto del bassista Kevin Smith e del batterista Conrad Choucroun, sulle canzoni oggettivamente tutte belle. Difficile trovare pecche in questi tredici brani d'impalcatura folk (l'iniziale 'Never Coming Back'), dove il violino seduce in 'Down South', che scivolano nel tex mex (la fisarmonica in 'Guilty Bystander'), che cavalcano l'epopea Western ('The Cowboy And The Hot Air Balloon'), in fondo il protagonista principale di tutto l'album è un cowboy errante, o a sostenuto ritmo Hillbilly ('Travellin So Hard). Collaborano Terry Allen, Louie Perez (Los Lobos), la compagna di mille battaglie Exene Cervenka e Shirley Manson (Garbage).

Parlando ancora del periodo pre industriale nel quale sono ambientate le canzoni, John Doe dice: "dovevi lottare per sbarcare il lunario, tenere un tetto sopra la testa e tenere il cibo in tavola". Apro il giornale, lo sfoglio e quello che che ci trovo sono queste cose.

Un disco dai messaggi attuali con vecchi suoni folk intorno.





domenica 17 luglio 2022

RECENSIONE: THE SHEEPDOGS (Outta Sight)

 

THE SHEEPDOGS   Outta Sight (Dine Alone/Warner2022)



un disco per l'estate

Con una copertina da cestino di vinili usati rigorosamente anni settanta, quelli a pochi euro con la copertina rovinata perché graffiata dalle unghie del gatto e con il segno di un bicchiere bagnato lasciato per troppo tempo sopra al cartone, sì insomma quelli che non si fila nessuno ma che sicuramente mi sarei portato a casa io, i canadesi Sheepdogs si riaffacciano al mondo dopo la pandemia con il loro settimo disco, il più marcatamente divertito, divertente e spensierato della loro carriera. "Una zattera di salvataggio" come loro stessi l'hanno definito, perché li ha salvati dalle loro ansie. Un po' anche nostre. E quella copertina così colorata, un mix daltonico tra cosmic country, pop rock e febbre del sabato sera, oppure da sigla di telefilm seventies,  sembra confermare il carattere delle canzoni.

Quando anni fa la rivista americana Rolling Stone regalò loro la copertina, Patrick Carney dei Black Keys si adoperò per produrre il loro album omonimo e la Atlantic li mise sotto contratto, la band sembrò per un attimo lanciata verso la notorietà mondiale. Niente di tutto questo naturalmente, ma la band guidata da Ewan Currie rimane una delle più credibili realtà in circolazione a masticare suoni, mood ed estetica anni settanta, risputando fuori tutto in modo credibile e pure originale con tour e live che ne misurano la temperatura a intervalli più che regolari.

Non ci sono barriere o confini nella loro musica, l'importante è suonare rock’n’roll, puro, diretto e senza troppe menate: puoi sentirci i Thin Lizzy nelle chitarre di 'Find The Truth', il fantasma di J.J.Cale sembra apparire  in 'So Far Gone' con tanto di batteria elettronica proprio come piaceva all'artista di Tulsa, il boogie glam nell'aperura 'Here I Am', i primi Kiss che amareggiano con i Doobie Brothers in I Wanna Know You'.

Ma è naturalmente il southern rock a dominare la scena: in 'Scarborough Street Fight', nell'assalto alla Lynyrd Skynyrd di 'Gooddamn Money', nei cori in stile Outlaws di 'Carrying On', nel soul intinto di psichedelia di 'Don't I', e nella rutilante jam finale 'Roughrider '89' che accelera nell'honky tonk mettendo in fila le loro capacità strumentali.

"Con il rock 'n' roll ci tiriamo su il morale" dice Ewan Currie. E non è mai stato così bello e facile farsi contagiare. Questa estate così torrida, poi, aiuta queste canzoni.






sabato 9 luglio 2022

RECENSIONE: NEIL YOUNG with CRAZY HORSE (Toast)

NEIL YOUNG with CRAZY HORSE   Toast (Reprise, 2001/2022)


facciamo colazione (anche) con un toast del resto

Quando Toast venne registrato, l'undici Settembre sembrava ancora la fantasiosa bozza per la sceneggiatura di un film di fantascienza. Eppure mancavano veramente pochi mesi all'avvenimento che ancora oggi  considero l'inizio di tutto quello che stiamo vivendo in questi ultimi anni. Un avvertimento. L'inizio di qualcosa che andrà sempre più peggiorando. Ma in quelle ultime settimane del 2000 e prime del 2001 quando Neil Young chiama a sé i fidati Crazy Horse (Billy Talbot, Poncho Sampedro e Ralph Molina) nessuno poteva immaginare il futuro. Si chiudono nei Toast Studios di San Francisco ("un vecchio studio a SoMa, un bel quartiere di artisti che stava per essere sopraffatto dai loft e dai nuovi palazzi generati dal boom del puntocom, la bolla dell'era digitale" racconterà su Special Deluxe) e registrano una manciata di canzoni che dovranno confluire in un album chiamato appunto Toast che lo stesso Young anticipò pure alla stampa. Ma come spesso accade Neil Young è vittima di mille ripensamenti, dubbi, incertezze. Le versioni grezze, rockeggianti ma anche l'atmosfera "umorale e jazzata" che animano le canzoni sembrano non andare bene con l'idea che ha in testa. A detta del canadese suonavano "troppo deprimenti" e si respirava un senso di "precarietà" che coinvolgeva "persino i Crazy Horse". "In studio non andava bene, nonostante i momenti grandiosi e intensi la musica non era felice e neanche ben definita" racconterà sempre su Special Deluxe. Neil Young e i Crazy Horse decidono di fermare le registrazioni e partire per un tour in Sud America.

Al ritorno, continuano le registrazioni ma alla fine si arrendono :" era un album desolato, molto triste, senza risposte. Penso abbiate capito che non ho voglia di parlarne". 

Decide di riregistrare alcune canzoni già provate con i Crazy Horse insieme a Booker T.&The Mg's dando loro un'impronta più r&b e soul, perdendo in immediatezza e profondità.

 Intanto il tempo passa, l'undici Settembre arriva lasciando il suo segno e Are You Passionate? esce nei negozi come tutti lo conosciamo. E Toast che fine ha fatto? La lunga, epica cavalcata elettrica 'Goin Home' è l'unica suonata con i Crazy Horse a ricordare quelle prime session di registrazioni. La canzone si stacca notevolmente dal mood dell'intero disco e si sente chiaramente. Da quelle session a San Francisco vengono riprese anche  'Quit', 'How Ya Doin' (che diventerà 'Mr.Disappointment') e 'Boom Boom Boom' (ribattezzata 'She's A Healer') che però subiranno il trattamento di Booker T.


Ora che abbiamo in mano l'intero progetto Toast, possiamo affermare che le sette canzoni avevano un'anima, che lo stesso Young ha spiegato così: "la musica di Toast riguarda le relazioni. C’ è un momento in molte relazioni in cui le cose vanno male, molto prima della rottura vera e propria, quando diventa chiaro per uno dei due, o forse entrambi, che è finita. Questo era quel momento". C'è un velo di solitudine e tristezza che riposa sopra le canzoni, certamente un lascito di una crisi amorosa con la moglie Pegy (tra l'altro presente insieme a Istrid Young in alcuni cori) con la quale si era trasferito a San Francisco, in un appartamento a Green Street.

La tambureggiante 'Goin Home' dentro a Toast non è più una mosca bianca sola come lo era su Are You Passionate? ma è circondata dall'assalto hard garage di 'Standing In The Light Of Love' con l'Old Black che tiene testa ai "cavalli", dai dieci minuti di 'Gateway Of Love', dai tredici di 'Boom Boom Boom', esercizio jammato e jazzato, che ci regala dei Crazy Horse profondi, accompagnati da percussioni, cori femminili, pianoforte e tromba e da una bella, confidenziale e malinconica versione di 'How Ya Doin'.

In conclusione  tra pezzi ripescati su Are You Passionate?, e pezzi già presentati in versione live, l'unico veramente inedito rimane 'Timberline', un rock sferragliante e divertente, dal coro ripetuto infinite volte, un organo a canna sullo sfondo e la storia di "un tizio religioso che ha perso il lavoro. Così si vota a Gesù. Non può più tagliare alberi. È un taglialegna".

Alla fine la migliore definizione dell'album la da Neil Young tra le pagine di Special Deluxe, dedicando a quel periodo un buon pezzo di capitolo:"il titolo dell'album avrebbe dovuto essere Toast e quello sembrava: un Toast con dentro tanta sostanza. Suonai la chitarra come un vecchio ottone, con un suono enorme, slabbrato, triste. Ralphie, Billy e Poncho gli avevano dato il classico passo funky e potrebbe anche essere un gioiellino. I fantasmi di Coltrane e dei suoi musicisti erano dappertutto in quello studio. Fu un'esperienza spirituale, depressa, quasi fuori".

Un disco certamente per fan accaniti, un po' come tutti gli archivi ma anche un chiaro manifesto della straripante vena artistica di Neil Young, che si perde in vasi sanguigni sempre "troppo" carichi di passione, esuberanza, dubbi, ripensamenti. Vita.





sabato 2 luglio 2022

RECENSIONE: FANTASTIC NEGRITO (White Jesus Black Problems)

 

FANTASTIC NEGRITO  White Jesus Black Problems (Storefront, 2002)


ambizione

Certamente lo sforzo creativo più ambizioso fino ad ora. E chi lo conosce bene sa quanto già in precedenza mister Xavier Dphrepaulezz (un premio a chi lo pronuncia esattamente) uno che alla soglia dei cinquant'anni si reinventò battezzandosi Fantastic Negrito facendo iniziare una carriera dalle basi delle sue tante vite precedenti cariche di complicazioni di ogni sorta, non sia un personaggio inquadrabile con poche parole. E se lo avete visto almeno una volta in concerto sapete anche quanto sia istrionico e includente il suo modo di fare musica: trasformista, predicatore, aizzatore di folle, comico, pensatore, attore impegnato e ballerino. Tutto in uno spettacolo. Ne vale la pena.

Questa volta si spinge indietro nel tempo per concepire un concept dove musica, testi e immagini (ogni canzone sarà accompagnata da un video, formando una sorta di film) viaggiano all'unisono per rafforzare il più possibile il messaggio universale d'amore. Tutto nasce quando in pieno lockdown con tanto tempo a disposizione decide di esplorare le sue origini, scoprendo che i suoi antenati di settima generazione, siamo nel 1750 in Virginia, furono una serva bianca di origini scozzesi e uno schiavo nero. I due contro ogni logica e legge dell'epoca si amarono.

"Le persone ascoltano il titolo dell’album e sono pronte a sfoggiare giacche militanti, ma questo è un disco sull’amore e sulla ricerca di modi per usare il passato come cura per il futuro. Sto sulle spalle dei miei antenati, bianchi e neri, che mi hanno mostrato che tutto è possibile” racconta.

C'è talmente tanta roba in questa storia da scriverne un romanzo che tocca libertà, razzismo, capitalismo, arrivando ai giorni nostri con tante e nessuna risposta. I passi avanti ci sono stati ma i risultati se ci sono sono ancora troppo ben nascosti. E Fantastic Negrito lo fa alla sua maniera  mettendoci dentro un'enorme carico di influenze musicali (partendo sempre dalla black music) dove i Beatles immersi in una cascata di gospel nell'apertura 'Venomous Dogma', il soul ('They Go Low'), il pop sixties ('Nibbadip'), il doo woop a ritmo di  funky ('In My Head'), il rock bianco ('Man With No Name'), le ballate RnB ('You Better Have A Gun'), il funky sporcato di  country ('Trudoo'), il gospel ('Virginia Soil') e il Blues più sperimentale e cosmico ('In My Head') si sporcano, amalgamano e contaminano che è un piacere. 

Suonato come fosse il 1973 con chitarre, basso e batteria con interventi di Moog, banjo e un vecchio organo transistor Yamaha, Fantastic Negrito racchiude in sole tredici tracce una buona parte degli ultimi cinquant'anni di musica e tre secoli di storia americana. Il tutto con disarmante semplicità. Bello sapere che nel 2022 c'è ancora chi fa uscire dischi con belle e "pesanti" storie dietro.






domenica 26 giugno 2022

NASHVILLE PUSSY live@Blah Blah, Torino, 24 Giugno 2022


In una Torino affollatissima e blindatissima intenta a festeggiare il proprio patrono San Giovanni a suon di fuochi d'artificio in Piazza Vittorio, nel piccolo locale di via Po, a pochi passi dall'inferno di un caldo sabato sera, i Nashville Pussy  hanno celebrato l'ennesimo rito rock'n'roll alla loro consueta maniera. Nessun effetto speciale in aria ma solo strumenti, carne e sudore. Persa per strada la componente visiva più sporca e "sessuale" degli esordi (la copertina del debutto Let Them Eat Pussy, 1998, rimarrà negli annali) all'epoca ben rappresentata dalla ex bassista Corey Banks, alla band di Atlanta è rimasto il rock’n’roll che dal vivo, rispetto ai dischi, è ancora una faccenda ruvida, grezza e molto punk. Guidati dalla coppia di fatto formata da Blane Cartwright e Ruyter Suys, i Nashville Pussy continuano a non avere peli sulla lingua, sì insomma per dirla alla loro maniera: Pussy's Not A Dirty Word.

Blane è il solito "zio d'America", poco raccomandabile compagno di bevute e di sbronze, pancia da trucker alcolizzato, voce passata sotto un foglio di carta vetrata, cappellaccio in testa a coprire la pelata che comunque mostra con "orgoglio" e disinvoltura ogni tanto e numeri da monello di terza media in gita: quando toglie le sue sudicie Converse per rimanere scalzo, quando gioca con l'asta del microfono, quando rovescia due bottiglie di Beck's nel cappellaccio da cowboy per poi tracannare il contenuto tutto d'un fiato. Il seno di Ruyter Suys, invece, rimane sempre ben in vista ma schiacciato sotto alla fiammeggiante chitarra, incontrollabile manico della perversione che tanto la trasforma in un indemoniato Angus Young in reggiseno. A completare la formazione la base ritmica formata dalla bassista Bonnie Buitrago, solida e piazzata, un continuo headbanging il suo e dal batterista Dusty Watson, nuovo entrato in formazione, simpatico e metronomo indispensabile per gli altri tre e con un lungo curriculum alle spalle (Dick Dale, Agent Orange, Sonics, Supersuckers, Lita Ford, Rhino Bucket, Concrete Blonde, The Bellrays).


Il concerto è un treno in corsa, tirato e scalciante dove hard rock, punk e una certa attitudine southern si mischiano a sudore, birra di quart'ordine, doppi sensi, allusioni e riff di chitarra. I loro inni perversi li impari in pochi secondi come quando da piccoli si viene attratti dalla parolacce ('Come On, Come On', 'Struttin Cock', 'Gone Home And Die') e dal cadenzato blues "da barbecue" in stile Ac Dc di 'Til the Meat Falls Off the Bone' al veloce punk 'Go Motherfucker Go', il loro inno storico che chiude la serata, il passo è brevissimo. La Suys strappa tutte le corde della sua chitarra e le dona al pubblico. Due piccole bimbe sono davanti al palco, il loro papà ha pensato che stasera un concerto rock'n'roll fosse per loro più interessante dei fuochi d'artificio in onore del patrono che stanno scoppiando nei cieli sopra Torino. E chi li ha solo sentiti? La band apprezza. Le due bimbe torneranno a casa cariche di doni: plettri, bacchette, corde. Per vedere i fuochi d'artificio hanno tutta la vita davanti.