sabato 10 settembre 2022

RECENSIONE: THE AFGHAN WHIGS (How Do You Burn?)

THE AFGHAN WHIGS  
How Do You Burn? (BMG, 2022) 





 un sole che brucia ancora 

 E mentre sono ancora qui ad aspettare di ricevere indietro i soldi pagati per un concerto di Greg Dulli a Amsterdam in occasione del suo album Random Desire di due anni fa che il covid ha cancellato (no non è vero, non penso più a quei soldi, mi sono rassegnato), il tempo passa inesorabile come quel volo aereo mai partito, e tanti altri arrivati a destinazione. Va tutto avanti con più incertezze di prima e tanti vuoti da riempire ma con una certa aria di menefreghismo che si diffonde velocemente e ti fa tirare avanti con più leggerezza. Una pandemia di mezzo, questo disco è nato e cresciuto proprio in quei giorni, e tante perdite umane: dopo Dave Rosser nel 2017, Mark Lanegan quest'anno, che di questo nuovo disco degli Afghan Whigs ha inventato pure il titolo e lasciato alcune delle sue ultime impronte. Non c'è più ma si aggira come un fantasma tra le pieghe della ipnotica e inquietante 'Jyja' e sui ritmi elettronici di 'Take Me There'. Quasi un sussurro basso e perpetuo il suo. Leggendo alcune recenti interviste di Dulli traspare tutto l'amore tra i due cresciuto sempre più nel tempo e nelle collaborazioni. E qualche lacrima scende e si insinua tra la mia barba. Queste sono le mie regine. 
How Do You Burn? è il terzo album dopo la reunion e prosegue in qualche modo il percorso dei due dischi precedenti Do To The Beast e In Spades, un grande disco che se la gioca con questo. Una delle poche reunion con un senso la loro, anche se oggi della vecchia band a far compagnia a Dulli rimane solo il bassista John Curley . C'è ancora tutto l'affascinante universo di Dulli creato intorno alle contaminazioni, che però si apre a noi solamente dopo aver superato 'I'll Make You See God', una botta rock, in stile Queens Of The Stone Age, nata per caso dopo un cazzeggio alla chitarra in studio di registrazione. Il suo posto era lì all'inizio dice Dulli e lì al suo posto come un'ariete scardinaporte sembra rimanere anche durante i nuovi live che la band sta portando in giro. Passata la bufera gli echi beatlesiani di 'The Gateway' iniziano a condurre il disco in una conturbante e ipnotica strada che porta alla circolare e seducente 'Catch A Colt', al carezzevole soul di 'Please, Baby, Please' (tra le mie preferite) costruito su un tappeto di organo, al respiro leggero di 'Concealer', al duetto con Marcy Mays in 'Domino And Jimmy', la cantante ritorna dopo la sua presenza su Gentlemen a distanza di trent'anni (c'è anche il ritorno di Susan Marshall già presente su 1965 e che tutti, o quasi, ricordiamo nei Mother Station). Greg Dulli tocca la mortalità, la fragilità, l'amore con la stessa mano di sempre, sicuramente con meno impeto, irruenza e forza rispetto agli anni d'oro di Congregation, Gentlemen e Black Love ma il tatto è sempre quello sensuale, conturbante e graffiante di sempre. La voce pure. 
E visto che il concerto degli Afghan Whigs a Bologna nel 2017 è stato uno dei più belli visti negli ultimi anni, impossibile non replicare in Ottobre a Milano. Ho già il biglietto ma questa volta nessun aereo da prendere.




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