CESARE CARUGI Here's to the road ( Roots Music Club, 2011)
“Andate da qualche parte di preciso, voi ragazzi, o viaggiate senza meta?"(cit. "Sulla strada", Jack Kerouac)
Andiamo in direzione America. Chi ama il rock americano ha tre buone opportunità per viverlo ogni giorno anche in Italia: ascoltarlo, suonarlo e fare le due cose insieme con grande passione.
Cesare Carugi appartiene alla terza categoria (io, per non fare danni, mi limito alla prima) con un vantaggio che gli consente, con sicurezza, di guardare gli altri dallo specchietto retrovisore della sua auto lanciata in una highway: quello di conoscere l'America e di cantarla, non soltanto seguendo gli stereotipi spesso banali che associamo a certa musica, ma cantarla come un soldato in prima linea, permettendosi di mettere la freccia, uscire dalle strade principali ed avventurarsi, cercando tra le vie secondarie quelle meno battute ma più vere ed appaganti.
Ecco che una malinconica, fredda ed espressiva ballad pianistica come Dakota lights & the Man who Shot John Lennon non la troverete da chi vi vende l'America a buon mercato. Se poi il songwriter di Chicago, Michael McDermott (cercate il suo "Gethsemane"-1993) duetta con lui, il tiro si alza di molto. Questa potrebbe bastare a presentare il toscano di Cecina, Cesare Carugi, che arriva al suo primo full lenght dopo l'ep Open 24 Hours del 2010 ed un bagaglio di viaggio pieno di timbri e una discreta attività live accompagnando tanti buoni nomi del rock americano.
Un disco dove i temi del viaggio e del tempo (il folk di chiusura Cumberland insieme a Massimo Larocca) guidano le cinematografiche liriche, vero punto di forza di un lavoro con pochi difetti, sospese tra velato romanticismo e fughe di libertà.
C'è il lento vagabondaggio di frontiera alla Tom Russell e Joe Ely nella ballad Death and Taxes e nei grandi paesaggi desertici di Blue Dress; ci sono gli accenti southern rock di Every Rain Comes to wash it all clean (con la lap steel dell'ospite Daniele Tenca), e dell'apertura Too late to leave Montgomery in bilico tra Petty e Neil Young.
Gli echi springsteeniani, anticipati a suo tempo da Massimo Priviero e Graziano Romani (altri due personaggi che meriterebbero più visione), di 32 Springs, in compagnia di un altro ospite, il cantautore Riccardo Maffoni, passano veloci come la vita, pur essendo la traccia che mi ha convinto meno.
Non è solo states, il viaggio di Carugi. C'e anche il tempo di saltare in Inghilterra: quella dei Clash "americani" di Goodbye Graceland tra chitarre e polvere di Elvis e c'è il garage rock di London Rain.
Quando poi i chiaro-scuri di Caroline, con il violino protagonista e le vocals di Giulia Millanta, si impossessano della scena, si capisce di aver di fronte uno storyteller di alto livello, dalla pronuncia inglese perfetta ma soprattutto, nel suo genere,uno dei migliori dischi italiani usciti nel 2011. Fuori tempo per la mia classifica di fine anno, ma senza tempo per innamorarsene.
INTERVISTA a CESARE CARUGI
vedi anche RECENSIONE: CESARE CARUGI-Pontchartrain (2013)
vedi anche RECENSIONE: MIAMI & THE GROOVERS-Good Things
lunedì 16 gennaio 2012
giovedì 12 gennaio 2012
RECENSIONE: JOSEPH RIDE(Joseph Ride)
JOSEPH RIDE Joseph Ride (autoprod., 2011)
Pochi giorni fa stavo guardando un interessante film-documentario: "Overload -Tribute",(che potete trovare in rete)denuncia il poco coraggio del sistema musica Italia nel dare il giusto spazio a qualcosa di realmente nuovo ed originale. Di quanto i locali, medio-piccoli italiani, preferiscano andare sul sicuro, facendo suonare cover band a scapito degli artisti "coraggiosi" che osano (brutto termine) presentando la loro musica. Coraggio mancante a chi dovrebbe dare spazio ai coraggiosi, ma soprattutto al fruitore medio italiano, che si accontenta dei soliti nomi imposti dal grande mercato discografico.
Joseph Ride è uno di questi coraggiosi (tanti, fortunatamente), e per suonare non pretende troppo, facendosi bastare veramente poco.
Nel giro di un solo mese, anche la provincia di Napoli mi ha fatto conoscere il suo lato americano, così lontano dai sogni stereotipati cantati a suo tempo dal grande Carosone, ma assolutamente in linea con l'alt folk povero che da alcuni anni è stato riscoperto e sta viaggiando nel mondo.
Dopo aver fatto la conoscenza di Guy Littell, ecco Joseph Ride(Giuseppe De Filippis il suo vero nome), cantautore che dopo varie esperienze in rock band, decide di dare sfogo al suo mondo interiore attraverso le sue composizioni. Lo fa con sette canzoni scritte e musicate da lui, che amano giocare con la scarna essenzialità lo-fi, facendo risaltare il messaggio a scapito della perfezione di facciata.
Joseph Ride è un figlio del suo tempo che ama guardarsi indietro, riprendere il meglio della rivoluzione folk degli anni sessanta e immergerla nel nostro frenetico e moderno mondo. Attingere dalle melodie vocali dei "rivoluzionari" Byrds( Canyon sam), dalla California psichedelica ed ombrosa dei sixties nelle tastiere che accompagnano Last December, dalla west coast americana più buia nella ballad country/folk People from your town; portandole a convivere con l'amarezza acustica del grunge "unplugged" in Diggin' e attaccando la spina, quando serve, come nel finale elettrico di Alien Wail.
Composizioni pure, dall'incedere innocente, quasi aprossimative nel loro approccio(Secret in your toy ) che ricordano anche la scena Twee britannica di metà anni ottanta e alcuni suoi protagonisti: con gli scozzesi Vaselines, tanto amati da Cobain e soci, in prima fila. Tutto torna.
Venti minuti che scorrono come un vecchio filmato in super otto, dai colori sbiaditi, con immagini in controsole ed un sogno rock'n'roll che esce rispettoso in The Give-up song, con l'umiltà di chi sa di dover fare (ancora) molta strada.
Sette canzoni che suonano sincere nella loro attitudine DIY. Un'opera prima voluta e cantata proprio così come la si ascolta, lontana da qualsiasi inquinamento sonoro, con il solo aiuto del co-produttore Ferdinando Farro e del bassista Ciro Battiloro su alcuni brani. Un buon antipasto ad un auspicabile e meritato successore.
Sito Myspace
Pochi giorni fa stavo guardando un interessante film-documentario: "Overload -Tribute",(che potete trovare in rete)denuncia il poco coraggio del sistema musica Italia nel dare il giusto spazio a qualcosa di realmente nuovo ed originale. Di quanto i locali, medio-piccoli italiani, preferiscano andare sul sicuro, facendo suonare cover band a scapito degli artisti "coraggiosi" che osano (brutto termine) presentando la loro musica. Coraggio mancante a chi dovrebbe dare spazio ai coraggiosi, ma soprattutto al fruitore medio italiano, che si accontenta dei soliti nomi imposti dal grande mercato discografico.
Joseph Ride è uno di questi coraggiosi (tanti, fortunatamente), e per suonare non pretende troppo, facendosi bastare veramente poco.
Nel giro di un solo mese, anche la provincia di Napoli mi ha fatto conoscere il suo lato americano, così lontano dai sogni stereotipati cantati a suo tempo dal grande Carosone, ma assolutamente in linea con l'alt folk povero che da alcuni anni è stato riscoperto e sta viaggiando nel mondo.
Dopo aver fatto la conoscenza di Guy Littell, ecco Joseph Ride(Giuseppe De Filippis il suo vero nome), cantautore che dopo varie esperienze in rock band, decide di dare sfogo al suo mondo interiore attraverso le sue composizioni. Lo fa con sette canzoni scritte e musicate da lui, che amano giocare con la scarna essenzialità lo-fi, facendo risaltare il messaggio a scapito della perfezione di facciata.
Joseph Ride è un figlio del suo tempo che ama guardarsi indietro, riprendere il meglio della rivoluzione folk degli anni sessanta e immergerla nel nostro frenetico e moderno mondo. Attingere dalle melodie vocali dei "rivoluzionari" Byrds( Canyon sam), dalla California psichedelica ed ombrosa dei sixties nelle tastiere che accompagnano Last December, dalla west coast americana più buia nella ballad country/folk People from your town; portandole a convivere con l'amarezza acustica del grunge "unplugged" in Diggin' e attaccando la spina, quando serve, come nel finale elettrico di Alien Wail.
Composizioni pure, dall'incedere innocente, quasi aprossimative nel loro approccio(Secret in your toy ) che ricordano anche la scena Twee britannica di metà anni ottanta e alcuni suoi protagonisti: con gli scozzesi Vaselines, tanto amati da Cobain e soci, in prima fila. Tutto torna.
Venti minuti che scorrono come un vecchio filmato in super otto, dai colori sbiaditi, con immagini in controsole ed un sogno rock'n'roll che esce rispettoso in The Give-up song, con l'umiltà di chi sa di dover fare (ancora) molta strada.
Sette canzoni che suonano sincere nella loro attitudine DIY. Un'opera prima voluta e cantata proprio così come la si ascolta, lontana da qualsiasi inquinamento sonoro, con il solo aiuto del co-produttore Ferdinando Farro e del bassista Ciro Battiloro su alcuni brani. Un buon antipasto ad un auspicabile e meritato successore.
Sito Myspace
lunedì 9 gennaio 2012
RECENSIONE: ANI DIFRANCO (¿Which Side Are You On? )
ANI DIFRANCO ¿Which Side Are You On? ( Righteous Babe Records, 2012)
Se il buon anno (almeno musicale) si vede da Gennaio, possiamo ben sperare.
Il primo grido di sfida alla recessione di questo 2012, appena alle porte, lo lancia Ani DiFranco.
¿Which Side are you On?, traditional folk degli anni '30 che Pete Seeger fece suo, è dichiarazione di sdegno forte e chiara. Una presa di posizione che non le è mai mancata ma che la recente maternità aveva affievolito salvo restituircela amplificata a dismisura, ora che il futuro a cui pensare non è più solo il suo. La presenza del vecchio Pete come ospite, mai così adulato come in questi ultimi anni, serve a sottolineare il tutto. Ani DiFranco parte da quella canzone per far sentire la sua voce di donna e lo fa con altre 11 canzoni , tanto leggere e colorate nella forma, quanto pesanti nei loro messaggi.
Quarantunenne e mamma, la prolifica folksinger di Buffalo, può far ripartire la sua carriera, dopo tre anni di assenza(l'ultimo fu, Red Letter Year del 2008, in odor di gravidanza), con un disco dove sociale e privato convivono e si rafforzano a vicenda. Messaggi forti, senza censure, e musicalità che nella sua essenzialità, lascia da parte l'urgenza del passato ma si arrichisce di nuovi colori, approfittando del recente trasferimento in una città come New Orleans, dove la musica è celata in ogni angolo di strada.
Basta ascoltare la title track, aperta dal banjo di Pete Seeger (classe 1919), per capire come la DiFranco riesca ad impossessarsi di un traditional che vanta innumerevoli covers spalmate negli anni(l'ultima in ordine di tempo, quella di Tom Morello). Testo attualizzato alla recente crisi e folk che diventa elettrico e marziale fino ad esplodere con i fiati e la presenza di un coro di bambini della scuola The Roots of Music, da lei adottati spiritualmente. Un crescendo che vale il disco.
Se la title track ci domanda da che parte vogliamo stare, non vi è dubbio che Ani DiFranco, la sua ala, l'ha già scelta da molto tempo, fin dal suo promettente esordio del 1990; attraverso le sue scelte musicali e personali, lungo la sua ventennale carriera e ribadite con forza narrativa in questo lavoro. Messaggi forti che arrivano in una forma diversa ed adulta, ma arrivano.
Ry Cooder meets Paul Simon, targati 2011, sono le pietre angolari più recenti che l'ascolto del disco mi ha ricordato, con l'ispirata visione femminile a 360 gradi ad arricchire il tutto(da sempre convinta e militante femminista).
La perfetta apertura affidata all'evocativa Life Boat porta verso le personali e più introspettive liriche delle delicate Albacore(una delle mie preferite) e Mariachi, dei rumorismi blues di If yn Not con la saggia accettazione dello scorrere del tempo, del folk minimale di Hearse. Canzoni che viaggiano parallele al livore e disgusto verso le brutture del mondo che poco le appartiene, nella conclusiva Zoo(per sola voce e chitarra), della presa ecologista del "quasi" Calypso di Splinter, del reggae di denuncia politica di J e della forte presa di posizione sull'aborto che esce dalla spigolosa ed oscura Amendment, che sicuramente susciterà qualche polemica."If you don’t want an abortion...Then don’t have one"
Una grande famiglia di musicisti ospiti ad aiutare e colorare il tutto:oltre al già citato Seeger, una menzione meritano i Neville Brothers(Ivan e Cyril), i chitarristi Adam Levy e Dave Rosser, più un'infinità di musicisti di New Orleans. Tutti sotto la regia del produttore, compagno e papà Mike Napolitano.
Un disco quasi hippy nella sua forma: maturo, sincero e diretto, dove la saggezza delll'età riesce a rileggere la realtà in modo diverso dal passato. Dove l'accettazione dello trascorrere del tempo non vuol dire rassegnazione ma consapevolezza e voglia di portare avanti le proprie battaglie con nuove forze e vigore. Sicuramente, da un angolo di visione diverso e più ampio. Ani DiFranco è la prima ad elargire speranza in questo inizio anno. Avanti gli altri.
martedì 3 gennaio 2012
RECENSIONE: D-A-D (DIC.NII.LAN.DAFT.ERD.ARK)
D-A-D DIC.NII.LAN.DAFT.ERD.ARK ( Cargo records, 2011)
Ricordo il primo incontro con i danesi D-A-D: erano i primissimi anni novanta, nelle sudaticce serate in mezzo alla pista di una discoteca rock. Dal ballare la loro prima hit Sleeping My Day Away(contenuta nello strepitoso No fuel left for the Pilgrims-1989-) a comprare il disco che avevano appena pubblicato, il passo fu brevissimo. Riskin'it All uscì nel 1991 e rappresenta il loro vertice di popolarità. Sia prima che dopo, però, ci sarebbero tante altre storie da raccontare che spesso vengono dimenticate.
I D-A-D esistono da quasi trent'anni e non se ne sono mai andati, anche quando il loro divertentissimo rock'n'roll(inizialmente, un particolare incrocio tra AC/DC, punk e country western) sembrò cedere sotto i "deprimenti" colpi del ciclone grunge, loro risposero con Helpyourselfish(1995), riuscendo a stare a galla, senza venire travolti come la buona metà dei gruppi street/glam dell'epoca.
I D-A-D hanno mantenuto, negli anni, uno standard qualitativo invidiabile. Prima, tra i capiscuola europei dello street rock proveniente dal nord Europa(continuando sulle strade aperte dai finlandesi Hanoi Rocks), poi, portanbandiera di un rock spavaldo ed ironico, anche difficile da etichettare(aperto a tutto) e facendosi un nome soprattutto grazie alle incredibili ed infuocate performance live, con il caschetto militare del bassista Stig e il suo basso a due corde , a forma di missile con tanto di razzi lanciati, che diventano delle icone indelebili ed attrazione per i più curiosi.
E' un peccato, quindi, che le loro ultimissime uscite discografiche passino spesso inosservate e siano preda di pochi ma affezionati fedeli. I loro dischi sono ancora superiori alla media delle uscite discografiche del genere e questo ultimo DIC.NII.LAN.DAFT.ERD.ARK , prodotto dal fidato Nick Foss ne è la ulteriore conferma.
L'ironia del passato continua già dal titolo: gioco di parole "danese" per indicare la dicitura del primo nome della band (Disneyland After Dark), in seguito cambiato dopo le minacciose querele del simpatico colosso Disney; e dalla data di uscita ufficiale di questo loro undicesimo disco, fissata per l'11/11/2011.
Parlando di musica, ci possiamo trovare tutte quelle caratteristiche che fanno dei D-A-D (la formazione vede ancora i tre membri storici: il già citato bassista Stig Pedersen, il cantante e chitarrista Jesper Binzer e il fratello Jacob A.Binzer all'altra chitarra, più l'ultimo entrato in formazione, il batterista Laust Sonne ), il gruppo che poteva sfondare in America. Così non fu, per tante sfortunate coincidenze. Ma queste sono storie passate.
Il presente racconta di canzoni dalla spiccata componente Heavy come nell'apertura affidata al messaggio apocalittico di A New age moving In. Ancora pesanti riff in The place Of The Heart, con la voce di Jesper Binzer che sa essere grezza e melodica in Last time in Neverland, vero punto d'incontro tra i due poli della loro musica.
Il singolo I Want What She's Got , la melodica e solare Fast On Wheels e Breaking Them Heart by Heart, anthem melodici e chitarre pesanti, hanno tutte le caratteristiche per piazzarsi in testa come le loro vecchie hits.
Colpi di classe sono le due ballads: la cristallina e piacevolmente oscura We All Fall Down con le inusuali note darkeggianti di un pianoforte che fanno la loro parte e la finale, leggera e pop, Your lips are Sealed.
Poi, ancora, il post -grunge di Wild Thing In The Woods, l'oscuro blues di Can't Explain What It, lo street rock'n'roll, molto alla vecchia maniera, di Drag me to the Curb e The End. Testi che sanno giocare tanto con l'ironia e il gioviale carattere dei danesi quanto con la velata malinconia nordica.
Come al solito, tanta carne al fuoco per proseguire sulla strada dei loro due ultimi e ottimi lavori di studio, Scare Yourself e Monster Philosophy.
L'America sarà ormai lontana, ma i D-A-D dimostrano ancora una coerenza e un amore verso la musica che ha pochi rivali in Europa. Se non li conoscete potete iniziare anche da qui o andare a vederli nelle prossime due tappe italiane in Febbraio.
vedi anche RECENSIONE/REPORTAGE: D.A.D. live GLAM ATTAKK Rock n Roll Arena , Romagnano Sesia (NO) 24/02/2012
Ricordo il primo incontro con i danesi D-A-D: erano i primissimi anni novanta, nelle sudaticce serate in mezzo alla pista di una discoteca rock. Dal ballare la loro prima hit Sleeping My Day Away(contenuta nello strepitoso No fuel left for the Pilgrims-1989-) a comprare il disco che avevano appena pubblicato, il passo fu brevissimo. Riskin'it All uscì nel 1991 e rappresenta il loro vertice di popolarità. Sia prima che dopo, però, ci sarebbero tante altre storie da raccontare che spesso vengono dimenticate.
I D-A-D esistono da quasi trent'anni e non se ne sono mai andati, anche quando il loro divertentissimo rock'n'roll(inizialmente, un particolare incrocio tra AC/DC, punk e country western) sembrò cedere sotto i "deprimenti" colpi del ciclone grunge, loro risposero con Helpyourselfish(1995), riuscendo a stare a galla, senza venire travolti come la buona metà dei gruppi street/glam dell'epoca.
I D-A-D hanno mantenuto, negli anni, uno standard qualitativo invidiabile. Prima, tra i capiscuola europei dello street rock proveniente dal nord Europa(continuando sulle strade aperte dai finlandesi Hanoi Rocks), poi, portanbandiera di un rock spavaldo ed ironico, anche difficile da etichettare(aperto a tutto) e facendosi un nome soprattutto grazie alle incredibili ed infuocate performance live, con il caschetto militare del bassista Stig e il suo basso a due corde , a forma di missile con tanto di razzi lanciati, che diventano delle icone indelebili ed attrazione per i più curiosi.
E' un peccato, quindi, che le loro ultimissime uscite discografiche passino spesso inosservate e siano preda di pochi ma affezionati fedeli. I loro dischi sono ancora superiori alla media delle uscite discografiche del genere e questo ultimo DIC.NII.LAN.DAFT.ERD.ARK , prodotto dal fidato Nick Foss ne è la ulteriore conferma.
L'ironia del passato continua già dal titolo: gioco di parole "danese" per indicare la dicitura del primo nome della band (Disneyland After Dark), in seguito cambiato dopo le minacciose querele del simpatico colosso Disney; e dalla data di uscita ufficiale di questo loro undicesimo disco, fissata per l'11/11/2011.
Parlando di musica, ci possiamo trovare tutte quelle caratteristiche che fanno dei D-A-D (la formazione vede ancora i tre membri storici: il già citato bassista Stig Pedersen, il cantante e chitarrista Jesper Binzer e il fratello Jacob A.Binzer all'altra chitarra, più l'ultimo entrato in formazione, il batterista Laust Sonne ), il gruppo che poteva sfondare in America. Così non fu, per tante sfortunate coincidenze. Ma queste sono storie passate.
Il presente racconta di canzoni dalla spiccata componente Heavy come nell'apertura affidata al messaggio apocalittico di A New age moving In. Ancora pesanti riff in The place Of The Heart, con la voce di Jesper Binzer che sa essere grezza e melodica in Last time in Neverland, vero punto d'incontro tra i due poli della loro musica.
Il singolo I Want What She's Got , la melodica e solare Fast On Wheels e Breaking Them Heart by Heart, anthem melodici e chitarre pesanti, hanno tutte le caratteristiche per piazzarsi in testa come le loro vecchie hits.
Colpi di classe sono le due ballads: la cristallina e piacevolmente oscura We All Fall Down con le inusuali note darkeggianti di un pianoforte che fanno la loro parte e la finale, leggera e pop, Your lips are Sealed.
Poi, ancora, il post -grunge di Wild Thing In The Woods, l'oscuro blues di Can't Explain What It, lo street rock'n'roll, molto alla vecchia maniera, di Drag me to the Curb e The End. Testi che sanno giocare tanto con l'ironia e il gioviale carattere dei danesi quanto con la velata malinconia nordica.
Come al solito, tanta carne al fuoco per proseguire sulla strada dei loro due ultimi e ottimi lavori di studio, Scare Yourself e Monster Philosophy.
L'America sarà ormai lontana, ma i D-A-D dimostrano ancora una coerenza e un amore verso la musica che ha pochi rivali in Europa. Se non li conoscete potete iniziare anche da qui o andare a vederli nelle prossime due tappe italiane in Febbraio.
vedi anche RECENSIONE/REPORTAGE: D.A.D. live GLAM ATTAKK Rock n Roll Arena , Romagnano Sesia (NO) 24/02/2012
domenica 1 gennaio 2012
PLAYLIST: le mie CANZONI del 2011
Capita (spesso) che l'album non sia all'altezza del singolo che si ascolta in continuazione o della canzone, nascosta(vorrei dire tra i solchi,ma risulterei troppo nostalgico), che ci fa innamorare al primo ascolto; altre volte ci sono dischi dove tutte le tracce ti entrano in testa e meritano una segnalazione di "squadra". Questo mio elenco(assolutamente sempre aperto e soggettivo) contiene quelle canzoni che ho ascoltato di più e quelle che, ascoltate anche solo una volta, mi ricorderanno qualcosa di questo anno appena trascorso. Senza distinzione di genere, artista (strafamoso, famoso o sconosciuto),nazionalità e umore. Non è assolutamente una classifica. Sono tutte uscite durante il 2011 ed elencate in ordine puramente casuale. A fine elenco, mi sono accorto di quante siano: tante, forse anche troppe!! L'utilità di questo elenco? Non pervenuta. Le vostre quali sono(chi vuole può aggiungerle...)?
ALICE GOLD-Orbiter
ALICE GOLD-Runaway Love
TEDESCHI TRUCKS BAND-Bound for Glory
FLEET FOXES-Sim Sala Bim
JOHN HIATT-Damn this Town
RY COODER-Humpty Dumpty World
DAVE ALVIN-Run Correjo Run
LUIGI MAIERON-Questa Faccia
VINICIO CAPOSSELA-Aedo
LUCINDA WILLIAMS-Blessed
OKKERVIL RIVER-Pirates
TWILIGHT SINGERS-Waves
MOJO FILTER-No comment Please
PENTAGRAM-Call the Man
MASTODON-Curl of the Burl
CHICKENFOOT-Come Closer
EDDIE VEDDER-Goodbye
The FEELIES-Again Today
STEVE EARLE-Molly-O
FLOGGING MOLLY-The Heart of the sea
SAXON-Back in 79
SUPERHEAVY-Unbelievable
STATUS QUO-Frozen Hero
The BLACK KEYS-Run Right Back
GRAVEYARD-Hisingen Blues
BLACK JOE LEWIS & THE HONEY BEARS-Booty City
NEIL YOUNG-Grey Riders
MANNARINO-Marry Lou
CRISTINA DONA'-Più forte del Fuoco
DAVIDE VAN DE SFROOS-Il camionista ghost rider
PAOLO BANVEGNU'-Love is talking
REM-Oh my heart
WILCO-Black Moon
ANTHRAX-The Devil you know
TOM WAITS-Hell broke Luce
ALICE COOPER-A Runaway Train
ZEN CIRCUS-Atto secondo
VERDENA-Razzi Arpia Inferno & Fiamme
SEASICK STEVE-Treasures
SEASICK STEVE-You can't teach an old new tricks
O'DEATH-Bugs
MIDDLE BROTHER-Thanks for Nothing
ANVIL-New Orleans Voodoo
BLACK COUNTRY COMMUNION-Man in the saddle
The DECEMBERISTS-Rox in the box
MODENA CITY RAMBLERS-Sul tetto del mondo
ECO NUEL-The River song
BANDABARDO'-Sant'Eustachio
EMA-California
PRIMUS-Lee Van Cleef
GENTLEMANS PISTOLS-Living in sin again
JANE'S ADDICTION-Irresistible Force
GIORGIO CANALI-Carmagnola #3
DROPKICK MURPHYS/BRUCE SPRINGSTEEN-Peg O'my Heart
CASINO ROYALE-Ogni uomo una radio(Turn it on)
DEVOTCHKA-100 Other Lovers
VERILY SO-Ordinary Minds
BRUNORI SAS-Rosa
99 POSSE-Antifa 2.0
TOM MORELLO-The Dogs of Tijuana
RYAN ADAMS-Chains of Love
MACHINE HEAD-Be Still and Know
TINARIWEN-Tenere Taqhim Tossam
WANDA JACKSON/JACK WHITE-Shakin'All Over
PAUL SIMON-So beautiful or so what
JOE ELY-The Highway is my home
ALICE GOLD-Orbiter
ALICE GOLD-Runaway Love
TEDESCHI TRUCKS BAND-Bound for Glory
FLEET FOXES-Sim Sala Bim
JOHN HIATT-Damn this Town
RY COODER-Humpty Dumpty World
DAVE ALVIN-Run Correjo Run
LUIGI MAIERON-Questa Faccia
VINICIO CAPOSSELA-Aedo
LUCINDA WILLIAMS-Blessed
OKKERVIL RIVER-Pirates
TWILIGHT SINGERS-Waves
MOJO FILTER-No comment Please
PENTAGRAM-Call the Man
MASTODON-Curl of the Burl
CHICKENFOOT-Come Closer
EDDIE VEDDER-Goodbye
The FEELIES-Again Today
STEVE EARLE-Molly-O
FLOGGING MOLLY-The Heart of the sea
SAXON-Back in 79
SUPERHEAVY-Unbelievable
STATUS QUO-Frozen Hero
The BLACK KEYS-Run Right Back
GRAVEYARD-Hisingen Blues
BLACK JOE LEWIS & THE HONEY BEARS-Booty City
NEIL YOUNG-Grey Riders
MANNARINO-Marry Lou
CRISTINA DONA'-Più forte del Fuoco
DAVIDE VAN DE SFROOS-Il camionista ghost rider
PAOLO BANVEGNU'-Love is talking
REM-Oh my heart
WILCO-Black Moon
ANTHRAX-The Devil you know
TOM WAITS-Hell broke Luce
ALICE COOPER-A Runaway Train
ZEN CIRCUS-Atto secondo
VERDENA-Razzi Arpia Inferno & Fiamme
SEASICK STEVE-Treasures
SEASICK STEVE-You can't teach an old new tricks
O'DEATH-Bugs
MIDDLE BROTHER-Thanks for Nothing
ANVIL-New Orleans Voodoo
BLACK COUNTRY COMMUNION-Man in the saddle
The DECEMBERISTS-Rox in the box
MODENA CITY RAMBLERS-Sul tetto del mondo
ECO NUEL-The River song
BANDABARDO'-Sant'Eustachio
EMA-California
PRIMUS-Lee Van Cleef
GENTLEMANS PISTOLS-Living in sin again
JANE'S ADDICTION-Irresistible Force
GIORGIO CANALI-Carmagnola #3
DROPKICK MURPHYS/BRUCE SPRINGSTEEN-Peg O'my Heart
CASINO ROYALE-Ogni uomo una radio(Turn it on)
DEVOTCHKA-100 Other Lovers
VERILY SO-Ordinary Minds
BRUNORI SAS-Rosa
99 POSSE-Antifa 2.0
TOM MORELLO-The Dogs of Tijuana
RYAN ADAMS-Chains of Love
MACHINE HEAD-Be Still and Know
TINARIWEN-Tenere Taqhim Tossam
WANDA JACKSON/JACK WHITE-Shakin'All Over
PAUL SIMON-So beautiful or so what
JOE ELY-The Highway is my home
mercoledì 28 dicembre 2011
PLAYLIST: TOP DISCHI CLASSIC ROCK 2011
1-SEASICK STEVE-You'can't teach an old dogs new tricks
Steven Gene Wold, ha settant'anni e si fa chiamare Seasick Steve(pare, solo perchè soffra il mal di mare) è in pista dagli anni sessanta, ma solamente da otto anni ha iniziato ad incidere dischi. In mezzo c'è tutta una vita passata a lavorare nel retrobottega della musica come produttore e tecnico del suono ma sopratutto, a girovagare per il mondo come un solitario hobo guadagnandosi la pagnotta ai margini delle strade, raccimolando il poco necessario.
2-TOM WAITS-Bad As Me
Waits continua il suo discorso di decostruzione della forma canzone iniziata negli anni ottanta con l'aiuto della moglie Kathleen Brennan(coautrice dei testi). Non sarà più sorprendente come una volta, ma la sua personale miscela musicale: bizzarra, visionaria e frenetica che allo stesso tempo sa essere poetica, romantica e malinconica continua a conquistare adesso come quarant'anni fa. Polvere e brillantina. Antiche foto e quotidianità unite.
3-WILCO-The Whole Love
The Whole Love abbandona in parte il rassicurante country rock di Sky blue sky e le derive pop del precedente omonimo per cercare strade artistiche che conducono lontano, meno estreme rispetto ai primi lavori ma comunque sperimentali. La mente di Jeff Tweedy rimane materia assai complicata e certi vecchi mostri continuano a nascondersi in modo rassicurante dentro alla sua mente , tanto da uscire in avanscoperta quando meno te lo aspetti.
4-BLACK JOE LEWIS & THE HONEYBEARS- Scandalous
Groove, fortissimamente groove. Se c'è una cosa che non si riesce a fare appena attacca Livin' in the jungle , prima traccia di Scandalous, seconda prova discografica di Black Joe Lewis e i suoi The Honeybears, è tenere il volume basso.
5-MIDDLE BROTHER- Middle Brother
12 canzoni che fanno di varietà e freschezza la loro forza, senza essere tuttavia dei capolavori da tramandare. McCauley, Goldsmith e Vasquez, rispettivamente leaders dei loro guppi Deer Trick, Delta Spirit e Dawes lasciano la loro personale impronta in ogni brano.
6-STEVE EARLE-I'll Never Get Out Of This World Alive
Con questo disco Steve Earle conferma il buon periodo della sua vita, forse arrivata ad un punto di totale stallo e rilassatezza ma con il fuoco dell'ispirazione che arde ancora anche se, per una volta , non è alimentato da brutte storie di droga e amori finiti ma dall'amore verso una vita ancora tutta da vivere e godere meglio se da "vero sopravvissuto".
7-RY COODER-Pull Up Some Dust and Sit Down
Tante cose, in questo disco, Cooder ci include tutto il suo bagaglio e passaporto musicale(partendo dalle roots americane arrivando al Messico, Cuba, gospel, Folk, blues e rock) ma soprattutto una lunga serie di imput e notizie dalla vecchia America poco confortanti, disegnando un quadro attuale poco roseo e felice ma che con la sua musica intorno, sembrano arrivare in modo meno catastrofico e più colorato di quanto potrebbe fare un qualsiasi giornale con i caratteri di stampa in bianco e nero.
8-TWILIGHT SINGERS-Dynamite Steps
Dopo il buon e fortunato Saturnalia in compagnia del gemello maledetto Mark Lanegan, Greg Dulli continua la personale battaglia con la profondità contenuta in domande e risposte sospese tra la vita e la morte. Il limbo, la fede, la redenzione vissute con lo sfondo di periferie urbane degradanti e abitate da personaggi perdenti e vogliosi di riscatto.
9-The DECEMBERISTS-The King is dead
La voglia di semplicità porta il gruppo al ritorno verso suoni e testi lontani dalla complessa architettura che costruiva il loro precedente The Hazards of love
10-FLEET FOXES-Helplessness Blues
Un sapiente mix tra il folk di matrice americana, in bilico tra psichedelia e west coast californiano e il folk-prog bucolico anglosassone( Van Morrison sembra un punto saldo) su cui il “vecchio” Peckhold riversa i suoi disagi interiori e le sue domande esistenziali come un vecchio signore in là con gli anni farebbe in punto di morte.
11-ALICE GOLD-Orbiter12-JOHN HIATT-Dirty Jeans and Mudslide Hymns13-OKKERVIL RIVER-I Am Very far14-DAVE ALVIN-Eleven Eleven15-REM- Collapse Into Now
16-PAUL SIMON-So Beautiful Or So What17-LUCINDA WILLIAMS-Blessed18-TINARIWEN-Tassili19-O'DEATH-Outside
20-RYAN ADAMS-Ashes & Fire21-TOM MORELLO-World Wide Rebel Songs22-NEIL YOUNG-A Treasure23-DEVOTCHKA-100 Lovers24-WANDA JACKSON-The Party Ain't Over25-HAYES CARLL-KMAG YOYO & other American Stories
26-MY MORNING JACKET-Circuital
27-MARIANNE FAITHFULL-Horses and High Heels
28-STEEPWATER BAND-Clava
29-JOE HENRY-Reverie30-The KENNETH BRIAN BAND-Welcome to Alabama
Steven Gene Wold, ha settant'anni e si fa chiamare Seasick Steve(pare, solo perchè soffra il mal di mare) è in pista dagli anni sessanta, ma solamente da otto anni ha iniziato ad incidere dischi. In mezzo c'è tutta una vita passata a lavorare nel retrobottega della musica come produttore e tecnico del suono ma sopratutto, a girovagare per il mondo come un solitario hobo guadagnandosi la pagnotta ai margini delle strade, raccimolando il poco necessario.
2-TOM WAITS-Bad As Me
Waits continua il suo discorso di decostruzione della forma canzone iniziata negli anni ottanta con l'aiuto della moglie Kathleen Brennan(coautrice dei testi). Non sarà più sorprendente come una volta, ma la sua personale miscela musicale: bizzarra, visionaria e frenetica che allo stesso tempo sa essere poetica, romantica e malinconica continua a conquistare adesso come quarant'anni fa. Polvere e brillantina. Antiche foto e quotidianità unite.
3-WILCO-The Whole Love
The Whole Love abbandona in parte il rassicurante country rock di Sky blue sky e le derive pop del precedente omonimo per cercare strade artistiche che conducono lontano, meno estreme rispetto ai primi lavori ma comunque sperimentali. La mente di Jeff Tweedy rimane materia assai complicata e certi vecchi mostri continuano a nascondersi in modo rassicurante dentro alla sua mente , tanto da uscire in avanscoperta quando meno te lo aspetti.
4-BLACK JOE LEWIS & THE HONEYBEARS- Scandalous
Groove, fortissimamente groove. Se c'è una cosa che non si riesce a fare appena attacca Livin' in the jungle , prima traccia di Scandalous, seconda prova discografica di Black Joe Lewis e i suoi The Honeybears, è tenere il volume basso.
5-MIDDLE BROTHER- Middle Brother
12 canzoni che fanno di varietà e freschezza la loro forza, senza essere tuttavia dei capolavori da tramandare. McCauley, Goldsmith e Vasquez, rispettivamente leaders dei loro guppi Deer Trick, Delta Spirit e Dawes lasciano la loro personale impronta in ogni brano.
6-STEVE EARLE-I'll Never Get Out Of This World Alive
Con questo disco Steve Earle conferma il buon periodo della sua vita, forse arrivata ad un punto di totale stallo e rilassatezza ma con il fuoco dell'ispirazione che arde ancora anche se, per una volta , non è alimentato da brutte storie di droga e amori finiti ma dall'amore verso una vita ancora tutta da vivere e godere meglio se da "vero sopravvissuto".
7-RY COODER-Pull Up Some Dust and Sit Down
Tante cose, in questo disco, Cooder ci include tutto il suo bagaglio e passaporto musicale(partendo dalle roots americane arrivando al Messico, Cuba, gospel, Folk, blues e rock) ma soprattutto una lunga serie di imput e notizie dalla vecchia America poco confortanti, disegnando un quadro attuale poco roseo e felice ma che con la sua musica intorno, sembrano arrivare in modo meno catastrofico e più colorato di quanto potrebbe fare un qualsiasi giornale con i caratteri di stampa in bianco e nero.
8-TWILIGHT SINGERS-Dynamite Steps
Dopo il buon e fortunato Saturnalia in compagnia del gemello maledetto Mark Lanegan, Greg Dulli continua la personale battaglia con la profondità contenuta in domande e risposte sospese tra la vita e la morte. Il limbo, la fede, la redenzione vissute con lo sfondo di periferie urbane degradanti e abitate da personaggi perdenti e vogliosi di riscatto.
9-The DECEMBERISTS-The King is dead
La voglia di semplicità porta il gruppo al ritorno verso suoni e testi lontani dalla complessa architettura che costruiva il loro precedente The Hazards of love
10-FLEET FOXES-Helplessness Blues
Un sapiente mix tra il folk di matrice americana, in bilico tra psichedelia e west coast californiano e il folk-prog bucolico anglosassone( Van Morrison sembra un punto saldo) su cui il “vecchio” Peckhold riversa i suoi disagi interiori e le sue domande esistenziali come un vecchio signore in là con gli anni farebbe in punto di morte.
11-ALICE GOLD-Orbiter12-JOHN HIATT-Dirty Jeans and Mudslide Hymns13-OKKERVIL RIVER-I Am Very far14-DAVE ALVIN-Eleven Eleven15-REM- Collapse Into Now
16-PAUL SIMON-So Beautiful Or So What17-LUCINDA WILLIAMS-Blessed18-TINARIWEN-Tassili19-O'DEATH-Outside
20-RYAN ADAMS-Ashes & Fire21-TOM MORELLO-World Wide Rebel Songs22-NEIL YOUNG-A Treasure23-DEVOTCHKA-100 Lovers24-WANDA JACKSON-The Party Ain't Over25-HAYES CARLL-KMAG YOYO & other American Stories
26-MY MORNING JACKET-Circuital
27-MARIANNE FAITHFULL-Horses and High Heels
28-STEEPWATER BAND-Clava
29-JOE HENRY-Reverie30-The KENNETH BRIAN BAND-Welcome to Alabama
venerdì 23 dicembre 2011
PLAYLIST: TOP DISCHI ALT, HARD-HEAVY 2011
1-GRAVEYARD-Hisingen Blues
Un disco capace di appagare i nostalgici del vecchio hard rock in tutte le sue vecchie forme, come un disco del Led Zeppelin registrato nel 2011 e capace di infilare nei retaggi dei suoni vintage la modenità e il calore dello stoner, i rallentamenti del doom metal e la passione di certo rock sudista. Più che una sorpresa.
2-MASTODON-The Hunter
I Mastodon decidono di tagliare quasi tutti i ponti con il loro pesante passato con un solo colpo d'ascia, pur mantenendo le caratteristiche che ne hanno fatto una tra le più interessanti ed originali band di musica pesante dell'ultimo decennio( Leviathan-2004 e Blood Mountain-2006 entrano di diritto tra i migliori dischi degli anni zero).
3-EMA-Past Life Martyred Saints
Miss Erika M Anderson in arte EMA, con le dita della mano forma una pistola e ci invita, quasi minacciandoci, ad entrare nel suo disturbato mondo, obbligandoci a compiere un viaggio nella sua psiche...
4-BLACK COUNTRY COMMUNION-2
Una seconda prova che pareggia e supera in alcuni momenti il debutto, anche se richiede un ascolto più attento, soprattutto dovuto ad una produzione volutamente sporcata che inizialmente sembra fare da freno alla fluidità del disco. Un disco fatto da professionisti della musica che rincorre ancora le emozioni dettate dal cuore, ma questo con la presenza del carisma di Mr. Hughes era un dato assodato.
5-FLOGGING MOLLY-Speed Of Darkness
Dave King e soci , durante gli anni, sono cambiati, il loro irish/punk rock si è affinato, inglobando più influenze musicali che vedono la loro summa in questo Speed Of Darkness.
6-MACHINE HEAD-Unto the Locust
La band di Rob Flynn è ormai una garanzia ventennale che sa rinnovarsi. Unto The Locust segue il fortunato The Blackening, non lo copia ma conferma lo status di miglior band post-thrash metal uscita negli anni novanta. Una delle poche ad aver ancora voce in capitolo.
7-PRIMUS-Green Naugahyde
Sicuramente superiore ad Antipop, Green Naugahyde segna un nuovo inizio per la band californiana...quasi dodici anni di assenza e riescono a rilasciare un disco che non mostra minimamente i segni del tempo pur riprendendo a grandi dosi le peculiarità che fecero di Frizzle Fry(1990) Sailing the seas of Cheese(1991) e Pork Soda(1993), opere uniche per capire l'evoluzione rock di quegli anni...
8-RIVAL SONS-Pressure & Time
Gli americani di Los Angeles sparano tutto in mezz'ora di musica, 10 canzoni, dirette ed efficaci, senza nessun abbellimento superfluo e registrato pure in pochissimi giorni. Questi vanno veloci in tutti i sensi.
Hard rock anni settanta , quello che meglio si sposava con il blues ed una voce molto caratterizzante sono il loro biglietto da visita
9-PENTAGRAM-Last Rites
Liebling si è ripulito, ha messo da parte, chissà se per sempre, alcol e droghe e dopo sette anni dall'ultima uscita dei Pentagram, si ripresenta in compagnia del chitarrista storico della band , Victor Griffin.
10-The FEELIES-Here Before
Here Before è un lavoro a tratti solare ed intelligente, non farà la storia, ma ci riconsegna la band del New Jersey, certamente lontana dal grezzo, glaciale ma superlativo esordio del 1980, ma con un carico di melodie da far invidia a ben più blasonate band
11-CHICKENFOOT-III
12-SAVIOURS- Death's Procession13-JANE'S ADDICTION-The Great Escape Artist
14-STATUS QUO-Quid Pro Quo15-The BLACK KEYS-El Camino16-ANTHRAX- Worship Music17-ORCHID-Capricorn18-GENTLEMAN'S PISTOLS-At Her Majesty's Pleasure19-LESLIE WEST-Unusual Suspects
20-DROPKICK MURPHYS-Going Out in Style
21-ALICE COOPER-Welcome 2 My Nightmare22-SOCIAL DISTORTION-Hard Times and Nursery Rhymes
23-KIMBALL/JAMISON-Kimball/Jamison
24-The ANSWER-Revival
25-MEGADETH-Th1rt3en
26-CROWBAR-Sever the Wicked Hand
27-STEEL PANTHER-Balls Out
28-URIAH HEEP-Into The Wild
29-AGNOSTIC FRONT-My Life,My Way
30-NAZARETH-Big Dogz
Un disco capace di appagare i nostalgici del vecchio hard rock in tutte le sue vecchie forme, come un disco del Led Zeppelin registrato nel 2011 e capace di infilare nei retaggi dei suoni vintage la modenità e il calore dello stoner, i rallentamenti del doom metal e la passione di certo rock sudista. Più che una sorpresa.
2-MASTODON-The Hunter
I Mastodon decidono di tagliare quasi tutti i ponti con il loro pesante passato con un solo colpo d'ascia, pur mantenendo le caratteristiche che ne hanno fatto una tra le più interessanti ed originali band di musica pesante dell'ultimo decennio( Leviathan-2004 e Blood Mountain-2006 entrano di diritto tra i migliori dischi degli anni zero).
3-EMA-Past Life Martyred Saints
Miss Erika M Anderson in arte EMA, con le dita della mano forma una pistola e ci invita, quasi minacciandoci, ad entrare nel suo disturbato mondo, obbligandoci a compiere un viaggio nella sua psiche...
4-BLACK COUNTRY COMMUNION-2
Una seconda prova che pareggia e supera in alcuni momenti il debutto, anche se richiede un ascolto più attento, soprattutto dovuto ad una produzione volutamente sporcata che inizialmente sembra fare da freno alla fluidità del disco. Un disco fatto da professionisti della musica che rincorre ancora le emozioni dettate dal cuore, ma questo con la presenza del carisma di Mr. Hughes era un dato assodato.
5-FLOGGING MOLLY-Speed Of Darkness
Dave King e soci , durante gli anni, sono cambiati, il loro irish/punk rock si è affinato, inglobando più influenze musicali che vedono la loro summa in questo Speed Of Darkness.
6-MACHINE HEAD-Unto the Locust
La band di Rob Flynn è ormai una garanzia ventennale che sa rinnovarsi. Unto The Locust segue il fortunato The Blackening, non lo copia ma conferma lo status di miglior band post-thrash metal uscita negli anni novanta. Una delle poche ad aver ancora voce in capitolo.
7-PRIMUS-Green Naugahyde
Sicuramente superiore ad Antipop, Green Naugahyde segna un nuovo inizio per la band californiana...quasi dodici anni di assenza e riescono a rilasciare un disco che non mostra minimamente i segni del tempo pur riprendendo a grandi dosi le peculiarità che fecero di Frizzle Fry(1990) Sailing the seas of Cheese(1991) e Pork Soda(1993), opere uniche per capire l'evoluzione rock di quegli anni...
8-RIVAL SONS-Pressure & Time
Gli americani di Los Angeles sparano tutto in mezz'ora di musica, 10 canzoni, dirette ed efficaci, senza nessun abbellimento superfluo e registrato pure in pochissimi giorni. Questi vanno veloci in tutti i sensi.
Hard rock anni settanta , quello che meglio si sposava con il blues ed una voce molto caratterizzante sono il loro biglietto da visita
9-PENTAGRAM-Last Rites
Liebling si è ripulito, ha messo da parte, chissà se per sempre, alcol e droghe e dopo sette anni dall'ultima uscita dei Pentagram, si ripresenta in compagnia del chitarrista storico della band , Victor Griffin.
10-The FEELIES-Here Before
Here Before è un lavoro a tratti solare ed intelligente, non farà la storia, ma ci riconsegna la band del New Jersey, certamente lontana dal grezzo, glaciale ma superlativo esordio del 1980, ma con un carico di melodie da far invidia a ben più blasonate band
11-CHICKENFOOT-III
12-SAVIOURS- Death's Procession13-JANE'S ADDICTION-The Great Escape Artist
14-STATUS QUO-Quid Pro Quo15-The BLACK KEYS-El Camino16-ANTHRAX- Worship Music17-ORCHID-Capricorn18-GENTLEMAN'S PISTOLS-At Her Majesty's Pleasure19-LESLIE WEST-Unusual Suspects
20-DROPKICK MURPHYS-Going Out in Style
21-ALICE COOPER-Welcome 2 My Nightmare22-SOCIAL DISTORTION-Hard Times and Nursery Rhymes
23-KIMBALL/JAMISON-Kimball/Jamison
24-The ANSWER-Revival
25-MEGADETH-Th1rt3en
26-CROWBAR-Sever the Wicked Hand
27-STEEL PANTHER-Balls Out
28-URIAH HEEP-Into The Wild
29-AGNOSTIC FRONT-My Life,My Way
30-NAZARETH-Big Dogz
giovedì 22 dicembre 2011
RECENSIONE: KATE BUSH (50 Words for Snow)
KATE BUSH 50 Words for Snow ( Fish People Records, 2011)
Non sono ancora pervenute controprove: 50 Words for Snow è candidato a diventare il disco invernale di questo 2011 agli sgoccioli. Il disco giusto da regalare durante le feste a patto che, chiunque riceverà questo gelato cd abbia larghe vedute musicali e non si aspetti simpatici jingle da canticchiare sotto l'albero in compagnia dei pargoli o seduto, con la pancia piena, davanti ad una tavola imbandita.
Kate Bush non è più l'affascinante ballerina di fine anni settanta che conquistava ed ammagliava con la sua voce e il mistero tutto femminile che riusciva ad emanare. Con questo disco, però, dimostra di saper (ancora) giocare complicato e far parlare di sé, nonostante le sue uscite pubbliche (non parliamo dei concerti-non pervenuti-) siano quasi nulle e su disco, a parte il recente Director's Cut che rivisitava cose vecchie, non la si sentiva dal 2005 di Aerial.
50 Words for Snow è un disco che va ascoltato nella sua intierezza, nel tepore domestico, con la neve che bussa lieve ai vetri delle finestre ed un pupazzo che veglia sulla porta di casa: sarebbe l'ideale. 7 canzoni, tutte piuttosto lunghe, dedicate ai quei piccoli cristalli, magici e misteriosi, di cui Kate Bush riesce a raccogliere e catalogare 50 parole per indicarli, seguendo l'esempio dato dagli eschimesi. Nasce così la canzone ( preceduta dal soffio di una bufera) dall'andamento quasi tribale, composta da un lungo elenco di parole declamate con l'aiuto dell'attore Stephen Fry (alcune, inventate, sono veramente buffe ed improponibili) e l'idea di dedicare un intero disco alla neve.
Gli otto minuti di 50 Words for Snow (la canzone) ed il primo singolo estratto Wild Man sono le uniche concessioni al pop del disco, altrimenti costruito sulla costante presenza del pianoforte a duellare con la splendida voce della cinquantatreenne cantante britannica, che pur non raggiungendo le vette di una volta, rimane ammagliante e teatrale come poche.
Snowflakes apre il sipario in modo splendido, facendo subito entrare nel mood del disco fatto di eteree note di pianoforte e pochi interventi percussivi e orchestrazioni mai invadenti. Qui, la voce di mamma Kate è accompagnata da quella acuta del figlio Albert che arrivà là dove, evidentemente, non arriva più la sua. Un dialogo ipnotizzante tra madre e figlio, lungo quasi dieci minuti. Qualche brivido lo fa venire e non è solo dovuto al freddo.
Dopo più di trent'anni di carriera, Kate Bush riesce a realizzare il sogno di duettare con il suo "mito" da ragazzina: sir Elton John. Il tutto avviene in Snowed in at Wheeler Street. Oltre al pianoforte vi è
l'accompagnamento di una sezione archi e la voce di Elton John, come dimostrato nelle sue ultime uscite discografiche, sembra essere tornata alla qualità. Una canzone che culmina in crescendo con tutta la band protagonista (John Giblin al basso, Steve Gadd alla batteria e il marito Dan Macintosh alle chitarre). Un gran brano.
Misty è una favola di tredici minuti, raccontata in punta di piedi, quasi jazzata, con un pupazzo di neve protagonista e tutto quello che ne consegue se ci si innamora perdutamente di lui.
Certo, il rischio di perdersi durante l'ascolto di canzoni, impegnative come Lake Tahoe e la conclusiva Among Angels, è sempre in agguato ma il feeling che Kate Bush riesce ad instaurare dopo pochi minuti, facilita l'impresa e depone tutto a suo favore.
Conoscendo Kate Bush, non è così improbabile che i 65 minuti di questo disco diventino anche un'opera teatrale. Sarebbe la sua ennesima sfida. Intanto noi aspettiamo...la neve. Buone feste a tutti.
Non sono ancora pervenute controprove: 50 Words for Snow è candidato a diventare il disco invernale di questo 2011 agli sgoccioli. Il disco giusto da regalare durante le feste a patto che, chiunque riceverà questo gelato cd abbia larghe vedute musicali e non si aspetti simpatici jingle da canticchiare sotto l'albero in compagnia dei pargoli o seduto, con la pancia piena, davanti ad una tavola imbandita.
Kate Bush non è più l'affascinante ballerina di fine anni settanta che conquistava ed ammagliava con la sua voce e il mistero tutto femminile che riusciva ad emanare. Con questo disco, però, dimostra di saper (ancora) giocare complicato e far parlare di sé, nonostante le sue uscite pubbliche (non parliamo dei concerti-non pervenuti-) siano quasi nulle e su disco, a parte il recente Director's Cut che rivisitava cose vecchie, non la si sentiva dal 2005 di Aerial.
50 Words for Snow è un disco che va ascoltato nella sua intierezza, nel tepore domestico, con la neve che bussa lieve ai vetri delle finestre ed un pupazzo che veglia sulla porta di casa: sarebbe l'ideale. 7 canzoni, tutte piuttosto lunghe, dedicate ai quei piccoli cristalli, magici e misteriosi, di cui Kate Bush riesce a raccogliere e catalogare 50 parole per indicarli, seguendo l'esempio dato dagli eschimesi. Nasce così la canzone ( preceduta dal soffio di una bufera) dall'andamento quasi tribale, composta da un lungo elenco di parole declamate con l'aiuto dell'attore Stephen Fry (alcune, inventate, sono veramente buffe ed improponibili) e l'idea di dedicare un intero disco alla neve.
Gli otto minuti di 50 Words for Snow (la canzone) ed il primo singolo estratto Wild Man sono le uniche concessioni al pop del disco, altrimenti costruito sulla costante presenza del pianoforte a duellare con la splendida voce della cinquantatreenne cantante britannica, che pur non raggiungendo le vette di una volta, rimane ammagliante e teatrale come poche.
Snowflakes apre il sipario in modo splendido, facendo subito entrare nel mood del disco fatto di eteree note di pianoforte e pochi interventi percussivi e orchestrazioni mai invadenti. Qui, la voce di mamma Kate è accompagnata da quella acuta del figlio Albert che arrivà là dove, evidentemente, non arriva più la sua. Un dialogo ipnotizzante tra madre e figlio, lungo quasi dieci minuti. Qualche brivido lo fa venire e non è solo dovuto al freddo.
Dopo più di trent'anni di carriera, Kate Bush riesce a realizzare il sogno di duettare con il suo "mito" da ragazzina: sir Elton John. Il tutto avviene in Snowed in at Wheeler Street. Oltre al pianoforte vi è
l'accompagnamento di una sezione archi e la voce di Elton John, come dimostrato nelle sue ultime uscite discografiche, sembra essere tornata alla qualità. Una canzone che culmina in crescendo con tutta la band protagonista (John Giblin al basso, Steve Gadd alla batteria e il marito Dan Macintosh alle chitarre). Un gran brano.
Misty è una favola di tredici minuti, raccontata in punta di piedi, quasi jazzata, con un pupazzo di neve protagonista e tutto quello che ne consegue se ci si innamora perdutamente di lui.
Certo, il rischio di perdersi durante l'ascolto di canzoni, impegnative come Lake Tahoe e la conclusiva Among Angels, è sempre in agguato ma il feeling che Kate Bush riesce ad instaurare dopo pochi minuti, facilita l'impresa e depone tutto a suo favore.
Conoscendo Kate Bush, non è così improbabile che i 65 minuti di questo disco diventino anche un'opera teatrale. Sarebbe la sua ennesima sfida. Intanto noi aspettiamo...la neve. Buone feste a tutti.
lunedì 19 dicembre 2011
PLAYLIST: TOP DISCHI ITALIANI 2011
1-VINICIO CAPOSSELA-Marinai Profeti e Balene
Ultimo avviso ai naviganti: il prolungato ascolto del disco produrrà dipendenza. Un 'opera che rimarrà negli annali in compagnia delle migliori opere musicali italiane e un artista che conferma la sua voglia di sperimentare con la fantasia.
2-PAOLO BENVEGNU'-Hermann
Liberate la mente perchè il terzo disco dell'ex cantante dei Scisma ha tanto da offrire per riempirvela nuovamente. Un disco che conferma Benvegnù come uno dei migliori cantautori attualmente in Italia e uno dei pochi a poter ereditare la forma e la sostanza della cara categoria italica.
3-VERILY SO-Verily So
Lo sguardo che si perde nella polvere alzata dai piccoli tornado di vento che scompigliano la tranquillità di quelle tipiche ghost town americane, dove vecchie case di legno dormono abbandonate nascondendo chissà quali storie e vite passate, l’udito è sordo ed incapace di cogliere rumori. I livornesi di Cecina, Verily So con le canzoni del loro debutto saprebbero infrangere quel silenzio creando un connubio musica-luogo perfetto.
4-LUIGI MAIERON- Vino Tabacco e Cielo
"Vino Tabacco e cielo" è un piccolo scrigno pieno di tradizioni e storie, che come insegnato da Van De Sfroos, possono varcare i confini regionali e allargarsi in tutta Italia abbattendo quei fittizi confini federali che fortunatamente non sono ancora stati eretti.
5-CASINO ROYALE- Io e la mia Ombra
Un disco basilarmente pop, ma di quello intelligente, elettronica che flirta con la dance su cui poggiano gli infiniti input della musica "totalitaria" a cui i Casino Royale ci hanno da sempre abituato,un disco dal "groove elevato" dove la semplicità apparente si arricchisce di nuove sfumature dietro ad ogni ascolto.
Ancora una volta"Radicalmente diversi dagli originali"
6-DAVIDE VAN DE SFROOS- Yanez
La capacità di musicare e dare parola a dei piccoli film, quasi dei cortometraggi, completi di tutti i particolari, rimane il grande pregio della scrittura di Van De Sfroos. Canzoni in grado di far vivere all'ascoltatore i sapori , gli odori , saper coinvolgere fino all' immedesimazione, usando la poesia di frasi che solo il dialetto riesce a far risaltare.
7-The PEAWEES-Leave It Behind
Leave It Behind è il quarto album della band e arriva a quattro anni di distanza dall'ultimo Walking The walk(2007) e le tante e positive esperienze in giro per l'Europa che ne hanno accresciuto l'esperienza e le potenzialità.
8-MOJO FILTER- Mrs Love Revolution
I Mojo Filter sono una portata alcolica e appetitosa, lontana dal rock alternativo che tira tanto nella penisola, ma estremamente più vicino a quell'idea di rock che incarna il sogno americano e la sua naturale prosecuzione britannica
9-GIORGIO CANALI & ROSSO FUOCO- Rojo
Se l'amico ed ex compagno di CCCP, CSI e PGR, Giovanni Lindo Ferretti negli ultimi anni è stato protagonista di un discutibile ma comunque rispettabile dietro front di ideali(nel rock certi cambiamenti di rotta si pagano), Canali dopo il più tranquillo, meditato ed intimista "Nostra signora della dinamite"(2009), torna sospinto dai venti di rivoluzione che soffiano sopra ad una crisi che è piombata e che ci vede inermi spettatori , poco colpevoli e molto coinvolti nel subirne gli effetti.
10-99 POSSE- Cattivi Guagliuni
I 99 Posse sono mancati. La loro assenza mi sembrava una sconfitta di fronte alle derive etico/sociali e politiche che hanno caratterizzato l'ultimo decennio della repubblica italiana.
La loro voce di dissenso e denuncia ha fatto la rivoluzione nei primi anni novanta.
11-VERDENA-Wow
12-GENERAL STRATOCUSTER and THE MARSHALS-General Stratocuster and The Marshals
13-CRISTINA DONA'-Torno a casa a piedi
14-GREEN LIKE JULY-Four Legged Fortune
15-MANNARINO-Supersantos16-WAINES-Sto
17-ECO NUEL-Almost White
18-ZEN CIRCUS-Nati per subire
19-STOOP-Freeze Frames
20-BRUNORI SAS-Vol.2:Poveri Cristi
21-The CYBORGS-The Cyborgs
22-CAPAREZZA-Il Sogno Eretico
23-UNORSOMINORE-La Vita Agra
24-BANDABARDO'-Scaccianuvole
25-MODENA CITY RAMBLERS-Sul tetto del mondo
26-BUD SPENCER BLUES EXPLOSION-Do it
27-PSYCHOVOX-La Scelta28-GUY LITTELL-Later
29-ONE DIMENSIONAL MAN-A Better Man
30-BUGO-Nuovi Rimedi per la Miopia
sabato 17 dicembre 2011
RECENSIONE: THE PEAWEES (Leave It Behind)
THE PEAWEES Leave It Behind(Wild Honey records, 2011)
Che bell'album Leave It Behind. Avevo perso notizie(per mia incuranza) degli spezzini The Peawees dai primi anni duemila quando li vidi in concerto e mi fecero una gran bella impressione, così diversi da tanti altri gruppi punk italiani dell'epoca con cui dividevano il palco. Con la brillantina del re di Menphis che già spolverava le loro canzoni e la loro presenza sul palco, mi piacquero subito a pelle. Ora li ritrovo, con una trasformazione adulta, che li porta ad abbracciare in toto alcune sonorità '50 e '60 che oltre all'amato rock'n'roll includono tanto soul e r'n'b, alla ricerca di quelle radici musicali di chi ripercorre le strade a ritroso come prima di loro seguirono i Clash di London Calling e ultimamente hanno fatto i Social Distortion dell'ultimo Hard Times and Nursery Rhymes. Su quella lunga strada che parte dal primo pulsante rock'n'roll, si colora dei caldi suoni targati stax, si scontra con la selvaggia scena di Detroit e si sporca della sudicia contaminazione degli Stones in esilio parigino.
Leave It Behind è il quarto album della band e arriva a quattro anni di distanza dall'ultimo Walking The walk(2007) e le tante e positive esperienze in giro per l'Europa che ne hanno accresciuto l'esperienza e le potenzialità.
Hervè Peroncini(voce e chitarra), forte del suo carisma guida il suo combo verso il soul trasudante dal rock'n'roll d'apertura Food for My Soul, con tanto di fiati, verso il vintage rock'n'roll di Gonna Tell, tra rockabilly e i Clash "rapiti" da re Elvis.
Le armoniche protagoniste in Memories are gone e nella rutilante The Place, con tanto di piano alla Jerry Lee Lewis, non nascondono l'intatta energia del passato, presente anche nelle più dirette Danger, battente bandiera Stooges e nel garage rock di Don't knock at my door.
Ma c'è un lato del disco che disegna la nuova anima di questa band che con Leave It Behind osa l'incontro con la grande America. L'impatto è più che credibile. Ascoltando Diggin' the sound sembra di ascoltare l'anima rock'n'roll dello Springsteen di The River, nella nera attitudine di Good Boy Mama, con i suoi cori femminili e la sua lenta andatura dove a mettersi in mostra sono i fraseggi chitarristici di Carlo Landini. La title track Leave It Behind e la finale Count Me Out dimostrano una gran cura dei particolari e sono la conferma che la strada intrapresa dai nuovi Peawees è quella giusta. Dopo anni di ricerca, hanno forse trovato il loro suono.
Un disco che emana calore e che trova il suo giusto trampolino di lancio sopra ad un palco. Tra i migliori dischi italiani dell'anno. Ora che li ho ritrovati cercherò di non perderli più di vista. Me lo prometto.
Che bell'album Leave It Behind. Avevo perso notizie(per mia incuranza) degli spezzini The Peawees dai primi anni duemila quando li vidi in concerto e mi fecero una gran bella impressione, così diversi da tanti altri gruppi punk italiani dell'epoca con cui dividevano il palco. Con la brillantina del re di Menphis che già spolverava le loro canzoni e la loro presenza sul palco, mi piacquero subito a pelle. Ora li ritrovo, con una trasformazione adulta, che li porta ad abbracciare in toto alcune sonorità '50 e '60 che oltre all'amato rock'n'roll includono tanto soul e r'n'b, alla ricerca di quelle radici musicali di chi ripercorre le strade a ritroso come prima di loro seguirono i Clash di London Calling e ultimamente hanno fatto i Social Distortion dell'ultimo Hard Times and Nursery Rhymes. Su quella lunga strada che parte dal primo pulsante rock'n'roll, si colora dei caldi suoni targati stax, si scontra con la selvaggia scena di Detroit e si sporca della sudicia contaminazione degli Stones in esilio parigino.
Leave It Behind è il quarto album della band e arriva a quattro anni di distanza dall'ultimo Walking The walk(2007) e le tante e positive esperienze in giro per l'Europa che ne hanno accresciuto l'esperienza e le potenzialità.
Hervè Peroncini(voce e chitarra), forte del suo carisma guida il suo combo verso il soul trasudante dal rock'n'roll d'apertura Food for My Soul, con tanto di fiati, verso il vintage rock'n'roll di Gonna Tell, tra rockabilly e i Clash "rapiti" da re Elvis.
Le armoniche protagoniste in Memories are gone e nella rutilante The Place, con tanto di piano alla Jerry Lee Lewis, non nascondono l'intatta energia del passato, presente anche nelle più dirette Danger, battente bandiera Stooges e nel garage rock di Don't knock at my door.
Ma c'è un lato del disco che disegna la nuova anima di questa band che con Leave It Behind osa l'incontro con la grande America. L'impatto è più che credibile. Ascoltando Diggin' the sound sembra di ascoltare l'anima rock'n'roll dello Springsteen di The River, nella nera attitudine di Good Boy Mama, con i suoi cori femminili e la sua lenta andatura dove a mettersi in mostra sono i fraseggi chitarristici di Carlo Landini. La title track Leave It Behind e la finale Count Me Out dimostrano una gran cura dei particolari e sono la conferma che la strada intrapresa dai nuovi Peawees è quella giusta. Dopo anni di ricerca, hanno forse trovato il loro suono.
Un disco che emana calore e che trova il suo giusto trampolino di lancio sopra ad un palco. Tra i migliori dischi italiani dell'anno. Ora che li ho ritrovati cercherò di non perderli più di vista. Me lo prometto.
giovedì 15 dicembre 2011
RECENSIONE: LESLIE WEST (Unusual Suspects)
LESLIE WEST Unusual Suspects ( Provogue Records, 2011)
Questo 2011, nel bene e nel male, resterà nella biografia di Leslie West. L'ex mastodontico chitarrista e cantante dei Mountain, veri e propri precursori dell'hard/heavy rock statunitense sembra aver voluto proseguire, suo malgrado, la maledizione dei Mountain, iniziata nel 1983 quando il bassista ed in seguito produttore Felix Pappalardi fu ucciso per mano della moglie.
West, nel Giugno scorso, si è visto amputare una gamba per via di gravi complicazioni dovute al diabete. Fortunatamente, il buon Leslie, sembra averla presa meglio di quanto si pensasse. Un mese dopo, alla sua prima apparizione pubblica , scherzandoci sù e presentando il suo nuovo disco, già pronto da tempo:"E' il mio miglior disco da molti anni a questa parte, la mia voce è ottima, le canzoni sono suonate con emozione. Pensavo addirittura potesse ricrescermi la gamba. Ma non si può avere tutto dalla vita".
Ecco, la buona notizia del suo sfortunato anno: è il suo ritorno discografico. Un ritorno col botto, affiancato da 5 chitarristi che non hanno mai negato le influenze che West (il cui vero cognome è Weinstein) ha saputo disseminare durante la sua travagliata carriera iniziata con l'apparizione a Woodstock.
Unusual Suspects ha tutte le carte per essere il miglior disco di West dai tempi di Climbing!(1970) e Nantucket Sleighride(1971) dei Mountain, racchiudendo tutte le sfaccettature della sua musica: hard, blues e heavy, con tanta melodia che si sposa con la sua voce ancora graffiante. Accompagnato da Kenny Aronoff alla batteria e Fabrizio Grossi al basso e in produzione.
Dal boogie blues dell'iniziale One more drink for the Road in compagnia della chitarra dipinta di classe cristallina di Steve Lukather che però si interrompe inaspettatamente sul più bello (queste sfumature non le capirò mai), all'altro southern blues Standing on a Higher Ground in compagnia di Billy Gibbons(ZZ TOP). Torrenziali solos, carichi e sporchi.
Il lato pesante del suo unico modo di suonare esce da Mudflap Mama con la chitarra di Slash, dalla cadenzata pesantezza di Third Degree di Willie Dixon con Joe Bonamassa(anche alla voce), sicuramente la miglior traccia del disco. Nothing Changed con il figliol prodigo e vichingo Zakk Wylde, tra i migliori chitarristi heavy usciti a cavallo tra gli anni ottanta e novanta(musicista a tutto tondo,poliedrico il suo range musicale: Heavy, southern e country nei suoi dischi) e la più canonica dedica alla moglie di Love you Forever.
Il lato più melodico del suo songwriting(in cooperazione con Joe Pizza, autore delle canzoni insieme a West), nell'altra dedica alla moglie per sola voce e chitarra elettrica di You & Me, nella bella To the moon, divisa com'è da parti arpeggiate e assalti elettrici e dalla emozionante ballad pianistica Legend, su cui ci scherza anche su "Non chiamatemi legenda, sono solo qui per suonare". Come dargli torto.
Non mancano alcune covers( oltre alla già citata Third Degree di Boyd/Dixon), come I Feel Fine dei Beatles, che diventa una boogie /blues song da autostrade americane e Turn Out the Lights di Willie Nelson, divertente western song in acustico con Slash e Zakk Wylde insieme. Per concludere la bonus track Beetle Juice "I Don't Know", nulla più che uno scherzo.
Non sarà un disco per palati fini, ma Unusual Suspects suona sincero e riporta alla ribalta un personaggio unico, quasi sempre dimenticato. Lui e la sua "Montagna" contribuirono a creare l'hard rock, ma attenzione: non chiamatelo leggenda!
Questo 2011, nel bene e nel male, resterà nella biografia di Leslie West. L'ex mastodontico chitarrista e cantante dei Mountain, veri e propri precursori dell'hard/heavy rock statunitense sembra aver voluto proseguire, suo malgrado, la maledizione dei Mountain, iniziata nel 1983 quando il bassista ed in seguito produttore Felix Pappalardi fu ucciso per mano della moglie.
West, nel Giugno scorso, si è visto amputare una gamba per via di gravi complicazioni dovute al diabete. Fortunatamente, il buon Leslie, sembra averla presa meglio di quanto si pensasse. Un mese dopo, alla sua prima apparizione pubblica , scherzandoci sù e presentando il suo nuovo disco, già pronto da tempo:"E' il mio miglior disco da molti anni a questa parte, la mia voce è ottima, le canzoni sono suonate con emozione. Pensavo addirittura potesse ricrescermi la gamba. Ma non si può avere tutto dalla vita".
Ecco, la buona notizia del suo sfortunato anno: è il suo ritorno discografico. Un ritorno col botto, affiancato da 5 chitarristi che non hanno mai negato le influenze che West (il cui vero cognome è Weinstein) ha saputo disseminare durante la sua travagliata carriera iniziata con l'apparizione a Woodstock.
Unusual Suspects ha tutte le carte per essere il miglior disco di West dai tempi di Climbing!(1970) e Nantucket Sleighride(1971) dei Mountain, racchiudendo tutte le sfaccettature della sua musica: hard, blues e heavy, con tanta melodia che si sposa con la sua voce ancora graffiante. Accompagnato da Kenny Aronoff alla batteria e Fabrizio Grossi al basso e in produzione.
Dal boogie blues dell'iniziale One more drink for the Road in compagnia della chitarra dipinta di classe cristallina di Steve Lukather che però si interrompe inaspettatamente sul più bello (queste sfumature non le capirò mai), all'altro southern blues Standing on a Higher Ground in compagnia di Billy Gibbons(ZZ TOP). Torrenziali solos, carichi e sporchi.
Il lato pesante del suo unico modo di suonare esce da Mudflap Mama con la chitarra di Slash, dalla cadenzata pesantezza di Third Degree di Willie Dixon con Joe Bonamassa(anche alla voce), sicuramente la miglior traccia del disco. Nothing Changed con il figliol prodigo e vichingo Zakk Wylde, tra i migliori chitarristi heavy usciti a cavallo tra gli anni ottanta e novanta(musicista a tutto tondo,poliedrico il suo range musicale: Heavy, southern e country nei suoi dischi) e la più canonica dedica alla moglie di Love you Forever.
Il lato più melodico del suo songwriting(in cooperazione con Joe Pizza, autore delle canzoni insieme a West), nell'altra dedica alla moglie per sola voce e chitarra elettrica di You & Me, nella bella To the moon, divisa com'è da parti arpeggiate e assalti elettrici e dalla emozionante ballad pianistica Legend, su cui ci scherza anche su "Non chiamatemi legenda, sono solo qui per suonare". Come dargli torto.
Non mancano alcune covers( oltre alla già citata Third Degree di Boyd/Dixon), come I Feel Fine dei Beatles, che diventa una boogie /blues song da autostrade americane e Turn Out the Lights di Willie Nelson, divertente western song in acustico con Slash e Zakk Wylde insieme. Per concludere la bonus track Beetle Juice "I Don't Know", nulla più che uno scherzo.
Non sarà un disco per palati fini, ma Unusual Suspects suona sincero e riporta alla ribalta un personaggio unico, quasi sempre dimenticato. Lui e la sua "Montagna" contribuirono a creare l'hard rock, ma attenzione: non chiamatelo leggenda!
mercoledì 14 dicembre 2011
RECENSIONE: SAVIOURS (Death's Procession)
SAVIOURS Death's Procession (Kemado Records, 2011)
Cadere nell'errore di liquidare i Saviours come delle semplici copie dei Motorhead, non renderebbe giustizia alla band di Oakland(California) che con questo quarto album cerca di scardinare il mercato con un lavoro vario e ben suonato, dove le influenze di Lemmy si sentono in alcuni episodi più tirati posti al centro dell'album, ma lasciano intravedere una qualità ed un modo di costruire le canzoni di tutto rispetto, dove la grezza attitudine è ancora un valore che supera qualsiasi abbellimento estetico di suono.
Quello che i Saviours cercano di costruire è un ponte tra il sulfureo hard doom rock settantiano con influenze di chiara matrice Black Sabbath e l'Heavy Metal della NWOBHM dei primi anni ottanta, seguendo ed attualizzando la lezione che i mai troppo lodati Angel Witch impartirono con il superbo album omonimo del 1980 e ricordando le tracce dei più attuali High on Fire e soprattutto The Sword, quelli del secondo album "Gods of the Earth" in particolare.
Tutto il disco, concettualmente ruota intorno all'apatia dell'essere umano di fronte al disfacimento globale della terra, in tutte le sue forme. All'uomo spettatore passivo di fronte alla sua imminente fine. E' "un mondo malato" verrebbe voglia di dire.
The Eye Obscene con i suoi sette minuti apre le danze con lento e cadenzato incedere come Earthen Dagger e la finale Walk to the Light in bilico tra doom, sludge e derive stoner, mentre nella strumentale Earth Possession & Death's Procession a mettersi in mostra sono i due chitarristi Austin Barber e Sonny Reinhardt che seguendo le chitarre gemelle maideniane impazzano lungo tutti i minuti della canzone.
L'anima più rock'n'roll e diretta della band viene in superficie in Crete'n e Gods End, tirate cavalcate che i Motorhead includerebbero volentieri nella loro discografia. La voce di Barber è sporca e cruda, senza eccellere in nessuna qualità ma colpendo più per intensità ed attitudine.
To the Grave Possessed e Fire or Old sono due grezze canzoni di old school Heavy Metal, la prima nasconde l'unica concessione alla melodia del disco nel chorus, mentre la seconda paga tributo agli Iron Maiden dei primi due album con Paul Di Anno e ai Thin Lizzy più metal, grazie soprattutto al lavoro incessante delle chitarre.
Un disco che alla fine piace, nella sua continua varietà di umori e stili. Sudore, attitudine da vendere ed un muro di Marshall pronto ad esplodere.
Cadere nell'errore di liquidare i Saviours come delle semplici copie dei Motorhead, non renderebbe giustizia alla band di Oakland(California) che con questo quarto album cerca di scardinare il mercato con un lavoro vario e ben suonato, dove le influenze di Lemmy si sentono in alcuni episodi più tirati posti al centro dell'album, ma lasciano intravedere una qualità ed un modo di costruire le canzoni di tutto rispetto, dove la grezza attitudine è ancora un valore che supera qualsiasi abbellimento estetico di suono.
Quello che i Saviours cercano di costruire è un ponte tra il sulfureo hard doom rock settantiano con influenze di chiara matrice Black Sabbath e l'Heavy Metal della NWOBHM dei primi anni ottanta, seguendo ed attualizzando la lezione che i mai troppo lodati Angel Witch impartirono con il superbo album omonimo del 1980 e ricordando le tracce dei più attuali High on Fire e soprattutto The Sword, quelli del secondo album "Gods of the Earth" in particolare.
Tutto il disco, concettualmente ruota intorno all'apatia dell'essere umano di fronte al disfacimento globale della terra, in tutte le sue forme. All'uomo spettatore passivo di fronte alla sua imminente fine. E' "un mondo malato" verrebbe voglia di dire.
The Eye Obscene con i suoi sette minuti apre le danze con lento e cadenzato incedere come Earthen Dagger e la finale Walk to the Light in bilico tra doom, sludge e derive stoner, mentre nella strumentale Earth Possession & Death's Procession a mettersi in mostra sono i due chitarristi Austin Barber e Sonny Reinhardt che seguendo le chitarre gemelle maideniane impazzano lungo tutti i minuti della canzone.
L'anima più rock'n'roll e diretta della band viene in superficie in Crete'n e Gods End, tirate cavalcate che i Motorhead includerebbero volentieri nella loro discografia. La voce di Barber è sporca e cruda, senza eccellere in nessuna qualità ma colpendo più per intensità ed attitudine.
To the Grave Possessed e Fire or Old sono due grezze canzoni di old school Heavy Metal, la prima nasconde l'unica concessione alla melodia del disco nel chorus, mentre la seconda paga tributo agli Iron Maiden dei primi due album con Paul Di Anno e ai Thin Lizzy più metal, grazie soprattutto al lavoro incessante delle chitarre.
Un disco che alla fine piace, nella sua continua varietà di umori e stili. Sudore, attitudine da vendere ed un muro di Marshall pronto ad esplodere.
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